martedì 30 settembre 2008

The sooner you leave, the better, Mr. Paulson!


Sotto la pressione montante di una pressione popolare assolutamente senza precedenti, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America ha clamorosamente bocciato il faticoso compromesso che aveva preso il posto del piano di salvataggio di Hank Paulson, un piano giudicato senza appello come un salvataggio senza precedenti lanciato in direzione dei naufraghi di Wall Street, in particolare delle maggiori entità finanziarie sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta, un salvataggio che dal profondo del Paese, sino alle downtown delle principali metropoli gli americani hanno visto come l’estremo tentativo di salvare i banchieri, senza tenere conto dei loro errori e del moral hazard che ha caratterizzato molti dei loro comportamenti.

In una drammatico voto che ha visto i no prevalere per 23 voti sui sì (228 a 205), con una aperta ribellione dei repubblicani nei confronti del “loro” presidente in carica, George W. Bush, e del “loro” ministro del Tesoro, l’ex (?) investment banker, Hank Paulson, che ha visto due terzi dei deputati del Great Old Party votare no, ma anche il 40 per cento dei democratici fare la stessa scelta, seppure molto probabilmente per motivi diametralmente opposti, i rappresentanti del popolo non se la sono sentita di ignorare l’opinione di quelle donne e di quegli uomini che hanno espresso a gran voce il loro rifiuto del piano a voce, via internet e con ogni altro mezzo a loro disposizione, anche perché è proprio a quelle cittadine ed a quei cittadini che si apprestano a chiedere il voto tra cinque settimane.

Che le cose non si stessero mettendo bene per l’amministrazione Bush e per il duo forse più odiato del momento, quello formato da Paulson e da Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, lo si era capito sin dallo show fallito di venerdì della scorsa settimana che pure avrebbe avuto la ridente scenografia del giardino della Casa Bianca, ma ancor più nelle due giornate successive, ancora una volta strappate al giusto riposo da quella stessa tempesta perfetta che ha reso lavorativi tutti i giorni dei banchieri, degli assicuratori, dei membri del governo e di un vero e proprio stuolo di giornalisti al seguito, nelle quali si alternavano improvvisi entusiasmi ed accordi che non c’era il tempo di essere scritti nero su bianco ed improvvise secchiate di acqua gelide provenienti da deputati e senatori di entrambi gli schieramenti che avevano perfettamente capito che i desideri dell’establishment e quelli della popolazione andavano in direzioni diametralmente opposta e che, se non si voleva acuire il solco profondo esistente tra gli americani ed i loro rappresentanti in quel di Washington, era del tutto necessario prendere il coraggio a due mani e saltare il fosso, almeno per evitare di finirvi dentro!

Una volta tanto, analisti ed operatori avevano capito tutto sin dalle prime battute delle contrattazioni in Asia, anche perché dalle due sponde dell’Atlantico giungevano notizie drammatiche ed altrettante soluzioni d’emergenza maturate sempre nello stesso lunghissimo week end, con Wachovia Bank, la quarta banca commerciale statunitense, salvata in extremis ed un po’ con la pistola alla tempia da Citigroup, che si è dovuta fare carico del suo attivo e, soprattutto, del suo passivo, mentre l’altra sopravvissuta delle un tempo Big Five dell’investment banking a stelle e strisce, Morgan Stanley, cedeva il 21 per cento del suo pacchetto azionario ai giapponesi di Mituhbishi, ma, al contempo, il colosso europeo Fortis veniva di fatto nazionalizzato dai tre governi del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, mentre il numero uno dell’immobiliare tedesco, ma con forti interessi anche oltreconfine, Hypo Real Estate, era costretto a ricevere le amorevoli cure del governo tedesco.

Alle tutto sommato contenute flessioni dei listini asiatici, è seguita la grandinata di vendite sui mercati azionari europei, vendite massicce su tutti i titoli del comparto finanziario non effettuate dagli odiati ribassisti, ma bensì da azionisti in carne ed ossa in preda ad un chiaro effetto panico, che provocava, a solo titolo di esempio, la sospensione per eccesso di ribasso di Unicredit Group, che ha vissuto l’onta del crollo del forte supporto posto a 3 euro, ma che quotava, poco più di dodici mesi orsono, la bellezza di 7,75 euro, ma cali vistosissimi hanno riguardato più o meno tutte le grandi banche del vecchio continente, proprio mentre i banchieri centrali correvano alla riunione d’emergenza del Financial Stability Forum indetta in tempo reale dal suo presidente, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi.

Ma il vero disastro giungeva in contemporanea con l’annuncio in diretta della clamorosa bocciatura da parte dei deputati del piano di salvataggio, con il Dow Jones che andava giù in picchiata libera di 650 punti, ma che già ne perdeva parecchi sin dalle prima battute, surclassato in peggio dal Nasdaq e dallo Standard & Poor’s 500, che anticipavano quello che si sarebbe poi verificato in chiusura, ad onta della disattivazione tempestiva dei sistemi automatici di contrattazione e di tutti gli altri correttivi adottati dopo il crollo del 1987.

Al termine di quella che verrà ricordata come una delle più drammatiche sedute vissute nella lunga storia di Wall Street, il Dow Jones ha perso 770,59 punti, con una flessione percentuale del 6,92 per cento, il Nasdaq è andato giù di 199,61 punti, lasciando così sul terreno il 9,14 per cento, mentre il più ampio S&P 500, che ha rotto nell’intraday anche l’importantissima soglia psicologica dei 1.100 punti, ha chiuso appena sopra tale livello, perdendo 105,95 punti che corrispondono ad una flessione dell’(8,73 per cento), mentre, alquanto ovviamente, gli yields dei Treasury Bonds sono tracollati di 20 punti base circa con la gente che se li strappava dalle mani e ne spingeva il prezzo prepotentemente verso l’alto, così come, altrettanto inevitabilmente, il prezzo del greggio crollava di dieci dollari al barile.

Come i miei lettori ben sanno, ho sempre detto che la tempesta perfetta era molto più visibile sul mercato interbancario che sugli indici borsistici, ma questa sesta e non definitiva ondata ha letteralmente rotto gli argini e mandato le imbarcazioni di ogni dimensione ad infrangersi sul molo, circostanza che fa inevitabilmente perdere i punti di riferimento, una situazione aggravata dal fatto che, come ha efficacemente ricordato Hank Paulson e diligentemente ripetuto Bush nel suo drammatico appello televisivo alla nazione nell’ora di maggiore ascolto, il mercato interbancario è di fatto del tutto congelato, al punto che l’Euribor ed i Libor sulle diverse valute esprimono poco più che dei valori teorici che poco hanno a che fare con i tassi richiesti ed offerti su quei rivoli di liquidità che ancora vengono scambiati tra le diverse banche che, nonostante i disperati appelli dei banchieri centrali, continuano ostinatamente e, almeno in base a quanto registrano le cronache, alquanto ragionevolmente a non fidarsi l’una dell’altra e, verrebbe proprio da dire, neanche di sé stesse!

Non so quale altro cilindro il mitico Hank tirerà questa volta fuori dal suo inesauribile cilindro, ma credo che, almeno per stavolta, valga per lui il suggerimento che tante volte avrà rivolto a qualche suo collaboratore: the sooner you leave, the better!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 29 settembre 2008

Non va tutto bene, signora la marchesa!


Alla fine, come era peraltro largamente prevedibile, i ribelli repubblicani hanno sgombrato il campo e lasciato il posto ai loro rodati leaders operanti nei due rami del Congresso statunitense, che hanno raggiunto un faticosissimo compromesso sul mega piano di salvataggio di Wall Street da 700 miliardi di dollari, consentendo di comprendere che l’anomala levata di scudi degli appartenenti al partito dell’elefante serviva soltanto ad evitare che passassero alcune richieste cruciali dei democratici in merito alla possibilità per i giudici di modificare i termini dei mutui, così come alla eventualità di rinegoziare i mutui sottostanti a gran parte dei titoli tossici che alla fine verranno acquisiti dal fondo gestito da Hank Paulson ad un prezzo non determinato, ma certamente più favorevole per le banche degli spiccioli attualmente offerti dal mercato.

Nessuno certamente credeva alla proposta in termini assicurativi avanzata dal Great Old Party in alternativa a quella immediata boccata di ossigeno della quale le banche statunitensi di ogni ordine e grado hanno bisogno come il pane, la cortina fumogena e la tirannia rappresentata dalla lunghezza non estensibile del week end, hanno costretto Nancy Pelosi, la speaker democratica del Congresso a rinunciare anche a passaggi importanti contenuti nella prima bozza di intesa raggiunta venerdì scorso, proprio l’intesa che doveva essere festeggiata sotto le telecamere di tutto il mondo nel giardino della Casa Bianca dal trio Bush-Paulson-Bernanke, gli sfidanti alla presidenza degli Stati Uniti d’America, Obama e Mc Cain, ed i leaders dei due maggiori partiti, una festa irrimediabilmente guastata dalla fulminea intesa tra lo sfidante repubblicano e quella parte del suo partito che non gradiva affatto le concessioni concesse ai democratici, volte a riequilibrare l’originario piano di Hank che, lo ricordo per i più distratti, aveva il solo scopo di liberare le banche dal maggior numero possibile di titoli tossici ad un prezzo che va dal doppio al triplo di quello spuntato da un collaudatissimo banchiere come John Thain, da qualche tempo alla guida di Merrill Lynch.

Se avete proprio voglia di farvi male, andate a leggere le analisi fatte a caldo dalle maggiori agenzie di stampa americane che, nella solita serata domenicale che vedeva accese le luci ai piani alti delle banche statunitensi di ogni ordine, grado e specie, ma fareste anche prima potendo sbirciare in quelle stanze e leggere il sollievo e la aperta soddisfazione stampate sui volti di Chairman, Chief Executive Officers, Chief Financial Officers e Chief Operating Officers, che avevano trascorso intere giornate a valutare gli scenari alternativi che mano mano si andavano profilando e che avevano dovuto amaramente mettere nel conto la possibilità che quella di Paulson si trasformasse nell’ennesima idea abortita dell’ex investment banker che aveva messo sul piatto il più grande piano di salvataggio delle ex banche di investimento sopravvissute alla tempesta perfetta, delle banche commerciali più o meno globali, dei fondi pensione e di quelli di investimento, nonché delle compagnie di assicurazione.

Solo la consapevolezza della gravità del momento e della profonda arrabbiatura dell’americano medio per un piano che salva Wall Street a spese delle innumerevoli Main Street sparse per quella che rimane la più grande nazione del pianeta, una rabbia ed una indignazione espresse dalla nuova agorà elettronica, internet, sulla quale si è manifestata la più grande catena di bloggers, gente comune, economisti e commentatori non embedded alla logica di Big Finance, una catena umana che non ha assolutamente precedenti nella nazione nella quale, alla fine, ognuno si fa i fatti propri e tutti pensano che, al di là del momento del voto, non vi sia alcuna possibilità per il cittadino comune di incidere sulle scelte di quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti, ben consapevoli del peso enorme esercitato dai lobbisti dal portafoglio pieno che Big Finance, Big Pharma, Big Oil, Big Business esercitano su quanti dovrebbero avere a cuore solo gli interessi dei loro elettori!

Nonostante le rassicurazioni dell’oramai esausta Nancy Pelosi, non è ancora escluso un ennesimo colpo di teatro nella seduta di oggi della Camera dei Rappresentanti, anche perché questa è l’ultima volta che i fari delle telecamere potranno dare un quarto d’ora di celebrità a persone che da domani dovrebbero tornare alle dure fatiche prevista dalla più aspra competizione elettorale mai verificatasi dal secondo dopoguerra, la prima, peraltro, che si svolge nel corso di una tempesta perfetta che, almeno con riferimento al mondo della finanza, non ha più alcun precedente di riferimento, né vanno escluse tentazioni dal sapore del tutto populistico da parte dell’anziano candidato del GOP, non proprio favorito nella corsa alla Casa Bianca e tentato fortemente anche di cambiare in corsa il ticket, estromettendo Sarah barracuda e prendendo al suo fianco il ben più rodato miliardario mormone che gli aveva inizialmente conteso con una certa efficacia la candidatura.

Comunque vada a finire questa che, comunque la si rigiri, finirà per rappresentare un brutto capitolo della storia della tempesta perfetta, è altrettanto chiaro che le tensioni maggiori finiranno per spostarsi sull’arena finanziaria europea, e le netoizie giunte alla fine del week end dal Belgio e dalla Germania, con il salvataggio in extremis del colosso Fortis e la crisi ormai annunciata di un vero colosso dei mutui in Germania, anche perché è già stato stimato che i benefici del piano Paulson per le banche europee saranno tutto sommato modesti, fatta ovviamente eccezione per quei pochi big players che operano alla grande anche negli Stati Uniti d’America e che potrebbero partecipare alle aste che a breve verranno indette, così come già oggi beneficiano dei servigi della più grande discarica a cielo aperto gestita dalla Fed di New York e che ospita per 84 giorni ed a un tasso di assoluto favore, i titoli più o meno tossici della finanza strutturata.

Ma mi permetto di dire, come al solito sommessamente, che il problema vero non è tanto quello della sistemazione dei guai del passato al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, perché, ammesso e non concesso che il mega deal statunitense vada in porto, il problema continua ad essere quella della rottura irrimediabile del modello cosiddetto lend and share, non fosse altro che per quella data massima prevista per l’accettazione dei titoli più o meno tossici alle aste indette dal Tesoro Usa (8 marzo 2008), una deadline che impedirà la ripetizione del giochetto più in voga negli ultimi decenni e che, insieme all’uso veramente selvaggio dell’effetto leva da parte di investment e commercial bank, ha consentito quella lunghissima fase di credito facile ed a costi veramente contenuti, che a sua volta è stata il vero motore che ha consentito l’elevatissimo livello dei consumi delle cicale statunitensi e la gestione tutto sommato indolore della più grande distribuzione internazionale del lavoro, complice anche l’estrema pazienza dei cinesi e degli altri asiatici, come già prima i giapponesi e gli arabi, nei confronti delle necessità finanziare del gigante americano.

Un fenomeno non molto diverso da quello verificatosi nel caso della finanziarizzazione ha riguardato poi l’altrettanto pervasivo fenomeno della finanziarizzazione spinta dell’economia globale, il che consente di dire che, comunque vada a finire oggi e domani al Congresso USA, il vero problema continuerà ad essere quello della capacità del sistema finanziario globale di fare credito alle crescenti esigenze dell’economia altrettanto globale!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

domenica 28 settembre 2008

Bye bye, Wachovia Bank!


Come si usa dire spesso nel gergo sportivo, quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo, frase molto cara ad un apparentemente mite italiano sinceramente innamorato dell’America, l’ex presidente del consiglio, ex ministro del Tesoro ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini, uno che ad un impertinente giornalista che lo bersagliava dalle colonne del Financial Times ebbe a dire dalla scrivania che appartenne a Quintino Sella e senza, dicono, cambiare espressione, “the sooner you leave, the better”!

Che il gioco si stia facendo tremendamente duro e senza a esclusione di colpi è, peraltro, oramai chiaro a tutti, incluse quelle legioni di analisti, commentatori e giornalisti embedded alle logiche ed ai desideri di Big Finance che fino a pochi giorni fa ripetevano di avere visto la luce alla fine del tunnel, nonostante fossimo, purtroppo, tutti immersi in un buio pesto, persone a cui milioni di risparmiatori/investitori devono le ingenti perdite dovute alla spesso istantanea polverizzazione delle azioni di entità finanziarie altrettanto spesso svanite nel giro di pochi giorni, se non di poche ore.

Ma si tratta anche di persone capacissime di comprendere alla velocità della luce che il nuovo mantra di Big Finance è drammatizzare, spaventare, tutto pur di convincere quei quattro cialtroni che hanno generosamente contribuito a far sì che conquistassero scranni al Senato o alla Camera dei Rappresentanti ad approvare a spron battuto il piano di salvataggio e che questo assomigli quanto più possibile alla versione originaria e molto generosa partorita dalla fervida mente dell’ex (?) collega Hank Paulson, un uomo che, non va mai dimenticato ha rinunciato ad uno stipendi da cento milioni di dollari cento, per sobbarcarsi la fatica di traghettare la sua e le altre banche fuori da quella tempesta perfetta che a lui ed ai più avvertiti tra gli investment bankers e i banchieri più o meno globali appariva del tutto inevitabile almeno due anni prima di quel 9 agosto del 2007 in cui ce ne siamo dovuti accorgere anche noi, ma che si è verificato almeno un anno prima di quanto loro prevedevano, vanificando tutti gli sforzi di deleverage selvaggio compiuti sin dall’autunno del 2006 da Goldman Sachs, UBS, Lehman Brothers, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Citigroup e compagnia cantante!

A far lievitare le ansie e le paure degli investitori/risparmiatori così a lungo ingannati, è giunto il vero e proprio tracollo di Wachovia Bank, che, lo ricordo ogni volta, non è una banca polacca, ma bensì la quarta banca commerciale degli Stati Uniti d’America, scivolata venerdì in chiusura all’infimo prezzo di 10 dollari, ma ha toccato gli 8,5 dollari in un frenetico after hours, segnando un calo del 38 per cento rispetto alla già molto depressa quotazione segnata alla chiusura delle contrattazioni di giovedì, ed a nulla sono servite le quasi esplicite dichiarazioni fatte filtrare dai suoi terrorizzati vertici circa colloqui con il colosso Citigroup finalizzati ad un salvataggio in extremis che non si sa quanto entusiasmi il giovane Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, che di guai ne ha già abbastanza dei suoi grazie alle pesanti eredità delle gestioni di Chuck Prince III e del mentore di questi Weill, il vero responsabile del disastro, senza doversi caricare degli errori commessi da altri banchieri avventurosi.

Accennavo nella puntata di sabato al rapidissimo processo di concentrazione che sta avvenendo in vetta al sistema bancario statunitense, ma è certo che un eventuale acquisizione della quarta banca commerciale da parte della ex prima, ridarebbe a Citigroup una primazia assoluta, anche se non so quanto desiderata, anche perché c’è ancora da sistemare Morgan Stanley, che a sua volta rappresenta il più grande punto interrogativo nell’oramai scomparso settore dell’investment banking a stelle e strisce.

Noto con piacere che anche autorevolissimi commentatori d’oltreoceano stanno iniziando ad interrogarsi sull’opportunità della candidatura di John Mc Cain, anche perché lo spettacolo che sta offrendo in questi giorni lo confermano nella sua immagine di politico talmente poco affidabile da decidere, nel giorno della riappacificazione nazionale con tanto di set allestito nel giardino della Casa Bianca, di mettersi alla guida dei repubblicani ribelli nei confronti del presidente, del ministro del Tesoro e del presidente della Federal Reserve, sperando forse così in una captatio benevolentiae riferita a quel vasto ed articolato movimento di opinione che non è sceso in piazza, ma si è letteralmente scatenato sulla nuova agorà del terzo millennio, internet, con una catena virtuale senza precedenti di bloggers, lettori infuriati e cittadini senza volto che dichiarano di non riconoscersi più né nell’asinello, né tantomeno in quell’elefante impazzito in un negozio di cristalli che è oramai divenuto il partito repubblicano.

Sarei proprio curioso di sapere cosa pensa di tutto questo l’attuale vice presidente, Dick Cheney, anche se so della sua monomaniacale predilezione per la guerra e gli affari ad essa connessi , una curiosità connessa al fatto che, forse per mia disattenzione, non ho letto alcuna sua dichiarazione sulla tempesta perfetta, né sulla inaudita rivolta della maggior parte dei congressisti facenti riferimento al suo partito, per non parlare della non secondaria circostanza che conserva, per diritto costituzionale, il diritto di voto nel Senato degli Stati Uniti d’America, anche perché non vorrei credere nei rumors e nei gossip che lo vorrebbero come il vero regista della sollevazione dei senatori e deputati del Great Old Party, per parte loro terrorizzati all’ipotesi di una vittoria schiacciante dei democratici sull’onda dell’indignazione e della rabbia popolare contro la gestione dissennata di George W. Bush in questi otto terribili e lunghissimi anni nei quali si è infranta l’immagine degli USA all’estero, sono stati sconquassati i conti pubblici, è peggiorata la già disastrosa posizione debitoria netta nei confronti dell’estero e stanno scomparendo una dopo l’altra importanti istituzioni finanziarie e, spesso, con esse, i risparmi di una vita della classe media statunitense, per non parlare del fatto che l’American Dream è stato ridotto letteralmente in frantumi!

Non avendo nessuna intenzione di aspettare che il deal tra democratici e repubblicani maturi in perfetta zona Cesarini, cioè in tempo per l’apertura della seduta di lunedì dei mercati asiatici che, a causa del fuso orario, avverrà quando negli USA sarà la tarda serata di domenica, presto volentieri fede alle anticipazioni provenienti da esponenti del GOP che lasciano capire che sta per avere termine la sceneggiata della ribellione che ha raggiunto già il suo grosso obiettivo che è poi quello di dimostrare che la colpa del salvataggio è da ascrivere ai democratici, che, nel frattempo portano a casa una chiara vittoria ai punti dello sfidante Obama sul sempre più appannato veterano del Vietnam e delle mille battaglie vinte e perse in quella vera giungla rappresentata dal Senato degli Stati Uniti d’America.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 27 settembre 2008

Sarà davvero un lunedì da leoni!


Nell’unico commento che ha fatto dopo aver messo sul piatto la somma di 5 miliardi di dollari per sottoscrivere preferred shares dell’ex Investment Banks Goldman Sachs, il Leone di Omaha, Warren Buffett, ha affermato che quello che sta avvenendo nel mercato finanziario statunitense è paragonabile a Pearl Harbour, forse l’unico trauma paragonabile per i cittadini degli Stati Uniti d’America a quello legato ai tragici fatti dell’11 settembre del 2001, un paragone che, se non vado errato è stato fatto dall’anziano finanziere prima che la più grande cassa di risparmio del mondo con migliaia di sportelli ed un totale dell’attivo superiore a 300 miliardi di dollari, la Washinton Mutual, seguisse la sorte di Bear Stearns, Lehman Brothers, Countrywide, Merrill Lynch, IndyMac ed altre dieci banche troppo piccole per essere ricordate, per non parlare delle decine di finanziarie specializzate nel disastrato comparto del mortgage riparatesi tra luglio ed agosto del 2007 sotto la protezione che l’accomodante legge fallimentare statunitense accorda a chi non è più in grado di pagare i suoi creditori.

Dopo aver trascorso oltre tredici mesi a sentirmi appellare Cassandra da amici e conoscenti che non riuscivano a vedere come il disastro che sta deflagrando in questi giorni fosse già scritto sin dall’inizio di quella che giustamente è stata definita la più grave crisi di liquidità dalla fine del secondo conflitto mondiale e, cioè, sin dal 9 agosto dell’anno scorso, mi desta una certa impressione veder i titoli catastrofici e catastrofisti presenti su quotidiani di ogni orientamento, o trasmissioni televisive che ospitano il tre volte ministro italiano dell’Economia recanti in basso sul teleschermo una scritta che dice lo tsunami americano, una sensazione che non è certo di soddisfazione, anche perché avrei preferito mille volte venire dileggiato per avere avuto torto, piuttosto che assistere allo sfacelo attuale, il tutto aggravato dalla consapevolezza che, mentre tutti pensano che siamo proprio arrivati alla frutta, sono convinto che non siamo neppure giunti all’antipasto e che il peggio, soprattutto a livello sistemico, deve ancora venire.

Quello che davvero non mi aspettavo è l’indecoroso spettacolo di quel folto manipolo di legislatori repubblicani che, per ragioni meramente legate alla loro rielezione alle prossime elezioni legislative che si terranno in uno con le presidenziali, stanno sparando a zero sul loro presidente, reo di aver accettato le modifiche sacrosante richieste dalla maggioranza democratica al mega piano di salvataggio che lasciava troppo potere al suo proponente, l’ex (?) investment banker ed attuale ministro del Tesoro statunitense, Hank Paulson, modifiche, peraltro, talmente stupide ed irrazionali che non credo proprio siano da ascrivere ai potenti e molto influenti lobbisti al soldo di Big Finance, persone che saranno pure senza scrupoli, ma che conoscono a sufficienza la materia per non avanzare proposte demenziali e caratterizzate da un alto tasso di analfabetismo finanziario come quelle che sono state avanzate da quelli che per anni hanno ritenuto Bush il loro comandante in capo, anche quando distruggeva la politica estera e riusciva nel miracolo di scassare quei conti pubblici che Bill Clinton gli aveva lasciato in perfetto ordine.

Pur ritenendo gli otto anni di presidenza Bush poco meno che un castigo biblico, un periodo che rappresenta tempo perso per l’edificazione di quel nuovo ordine politico internazionale e di quel sistema economico e finanziario più simmetrico e giusto che le donne e gli uomini che abitano il nostro pianeta avrebbero tutto il diritto di vedere realizzati, penso che stavolta qualcuno abbia spiegato bene la situazione all’attuale inquilino della Casa Bianca, forse dimenticandosi di raccomandargli di non parlarne allo stesso modo e con la stessa chiarezza nel recente discorso fatto in prima serata a reti televisive pressocché unificate, un discorso che conteneva un’analisi delle vere cause della tempesta perfetta che potrebbe trovare concordi anche persone come Nouriel Rubini, Noam Chomski ed altri pensatori non proprio caratterizzati da simpatie repubblicane.

D’altra parte, non si era mai visto un piano di salvataggio di queste dimensioni a poche settimane dalla più partecipata competizione elettorale che si ricordi dal dopoguerra, una di quelle contese nelle quali, al di là delle falsissime cortesie e dichiarazioni bipartisan, nessuno dei contendenti ha realmente intenzione di fare prigionieri, una competizione che, soprattutto nel corso del rush finale ha raramente a riferimento il bene comune, ma punta piuttosto a cogliere in contraddizione l’avversario, come sta tentando in queste ore di fare quella spregiudicata pattuglia di congressisti repubblicani che vorrebbero addebitare ai loro avversari il piano proposto dal “loro” presidente, dal “loro” ministro del Tesoro, dal “loro” presidente della Federal Reserve e dal loro numero uno della Securities and Exchange Commission.

Non so da cosa discendano la sicurezza ostentata da Bush e dalla sua addetta stampa sul certo varo del provvedimento entro lunedì, ma quello che è certo è che un eventuale fallimento nella difficilissima mediazione tuttora in corso e l’impatto emotivo del drammatico discorso di Bush aprirebbero scenari realmente preoccupanti e rischierebbero seriamente di rompere il precario equilibrio che sta tenendo insieme quel che resta del sistema finanziario statunitense, con conseguenze altrettanto serie su quello globale.

Chiunque vincerà le prossime elezioni presidenziali si troverà a gestire una situazione che lascia ben pochi margini di manovra, in quanto economisti attendibili confermano che, dopo il consolidamento dei titoli rappresentativi del debito di Fannie Mae e Freddie Mac, le somme erogate a vario titolo dalla Fed e dalla FDIC e quelle che, qualunque sarà la soluzione trovato in questo week end, verranno stanziate per acquistare i titoli tossici, il debito pubblico statunitense supera per la prima volta nella storia il prodotto interno lordo, 16 mila miliardi di dollari contro 15 mila, il disavanzo difficilmente sarà al di sotto dei 600 miliardi nel 2009, mentre la posizione netta sull’estero continua ad essere in profondo rosso ed alla mercé delle decisioni dei paesi strutturalmente in avanzo, in particolare di quelli asiatici che fanno la parte del leone nella detenzione dei titoli del Tesoro americano.

Nei mesi scorsi, ho più volte sottolineato che, alla fine dei giochi, assisteremo ad un processo molto rilevante di concentrazione ai piani alti delle banche statunitensi, ma già oggi è possibile vedere che la J.P. Morgan Chase ha dovuto incorporare una Investment Bank del calibro di Bear Stearns e da ieri la prima cassa di risparmio degli Stati Uniti, mentre Bank of America ha assorbito il colosso incontrastato dei mutui, acquistando Countrywide, ed ha dovuto acquistare anche essa una Investment Bank come Merrill Lynch, il tutto mentre le spoglie di Lehman Brothers sono ancora in corso di aggiudicazione, un processo che è solo agli inizi e che rischia di vedere le originarie nove grandi banche USA, le Big five dell’investment banking e le quattro grandi banche commerciali, ridursi ad un numero massimo di tre-quattro, che peraltro avranno tutte la caratteristica di banche commerciali, mentre analoga falcidia caratterizzerà le banche di piccole e medie dimensioni, attualmente in numero di settemila circa.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 26 settembre 2008

J.P. Morgan-Chase si pappa anche WaMu!


Doveva accadere ed è puntualmente accaduto: una grande banca statunitense, forse la più grande cassa di risparmio del mondo con migliaia di sportelli ed un totale dell’attivo superiore a 300 miliardi di dollari, la Washinton Mutual, è stata costretta ad alzare le braccia ed è finita tra le amorevoli braccia della solita J.P. Morgan-Chase, la banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e dei tanti eredi della casata Rockfeller, il cui capostipite ispirò Walt Disney nel realizzare il nemico di Paperon de Paperoni, l’invidioso e veramente perfido Rockerduck, per la risibile somma di 1,78 miliardi di dollari per una banca che ne valeva parecchie decine soltanto un’era fa, prima, cioè, che il 9 agosto del 2007 la tempesta perfetta si abbattesse sul magico e dorato mondo della finanza globale.

Ma come è stato possibile che una banca realmente ordinaria, quale era Washington Mutual, sia finita in una situazione di totale dissesto? Anche in questo, come in tanti altri casi precedenti e nei tanti che, purtroppo verranno, è molto semplice, in quanto, pur avendo vissuto in prima persona il precedente dissesto bancario statunitense, quello che ha riguardato nei primi anni Novanta l’intero settore delle Saving and Loans statunitensi delle quali era incontrastata regina, i suoi vertici sono riusciti ad accumulare il peggio del peggio dei finanziamenti diretti, o via titoli del tutto tossici della finanza strutturata, al settore del mortgage, oramai divenuto incontestabilmente la vera palla al piede delle banche statunitensi di ogni ordine e grado, non che quelle europee ed asiatiche stiano meglio!

Non so se ha ragione la brava presidentessa del Federal Deposit Insurance Corporation nel ritenere che, trattandosi di un merger tra due entità entrambe in bonis, l’organismo federale da lei presieduto non è tenuto, in punta di fatto e di diritto, a non sborsare un solo dollaro, che, tra l’altro, visto l’ingente impegno per IndyMac e per le altre dieci banche testé fallite, proprio non ha, o gli aggueritisimi advisors di J.P. Morgan-Chase che sostengono l’originalissima tesi dell’acquisto dell’attivo e non del passivo di WaMu, come viene sbrigativamente appellata negli States, anche perché ritengo che, se ciò fosse vero, non si spiegherebbe in alcun modo il prezzo del tutto vile corrisposto e che mette una pesante pietra tombale sulle attese dei disperati azionisti di WaMu di recuperare una parte più consistente del loro investimento iniziale.

Ascoltavo proprio ieri una trasmissione radiofonica targata RAI, nel corso della quale un disperato investitore italiano chiedeva ad un allibito analista di una banca altrettanto italiana se aveva qualche possibilità di rivedere almeno una parte maggiore dei 10,5 dollari per azione sborsati tempo fa per le azioni in suo possesso di WaMu, al che, pur provando umana solidarietà per la sua più che prevedibile e molto prossima disgrazia, mi chiedevo quale può essere mai il motivo per il quale un invetitore/risparmiatore italiano decida di investire i suoi pochi o tanti soldi su una banca posta a migliaia di miglia di distanza e della quale non sa probabilmente nulla, se non quello che può aver letto nello sciatto report di qualche analista straniero o nostrano al soldo di qualche banca di investimento o di qualche banca più o meno globale!

Ma così va il mondo e, come il compianto Maffeo Pantaloni, anche io, a volte, sarei tentato di scendere, tentazione che non mi sfiora nemmeno in questo momento in cui stanno accadendo cose che rappresentano un, seppur doloroso ed a volte sanguinoso, redde rationem di un sistema che, come sostengono opportunamente Kholer e Sarkozy, presidente della Germania e della Francia, era letteralmente impazzito, anche se il primo, da managing director del Fondo Monetario Internazionale, aveva pur avuto la possibilità di lanciare per tempo quel segnale di allarme che non mi risulta abbia neanche immaginato di lanciare quando risiedeva in quel di Washington che pure fornisce il nome alla grande cassa di risparmio testé fallita/acquisita.

Dopo l’assalto agli sportelli della bank of East Asia, in quel di Hong Kong, banca che ha poi visto il salvino intervento di in mutibillioner asiatico forse colpito dalla mossa del Leone di Omaha su Goldman Sachs, giunge una ferale notizia tratta dal blog del bravissimo Federico Rampini che, non pago di scrivere quasi un articolo, a volte due, al giorno sul quotidiano La Repubblica, tiene anche in proprio un interessantissimo e molto gettonato taccuino asiatico, notizia che mi auguro sia del tutto infondata ma che è riportata da un quotidiano cinese e che informa del fatto che le autorità monetarie della Repubblica Popolare Cinese avrebbero impartito alle banche cinesi di non finanziare più le banche statunitensi, anche se non ho capito se veniva operata una distinzione tra le ex Investment Banks e le Commercial Banks o se l’invito (ordine?) riguardasse le banche statunitensi tout court.

Non aiuta certo il rasserenamento del clima molto teso che si respira da mesi a Wall Street e dintorni globali l’interruzione del negoziato tra democratici e repubblicani sul mega piano di salvataggio fortemente voluto da Hank Paulson, il ministro del Tesoro e non l’hedge under quasi omonimo che è stato di recente messo alla berlina per avere, insieme ad altri speculatori, giocato alla grande al ribasso sulle già molto malandate banche britanniche, provocando un’inchiesta della FSE e l’ira di Gordon Brown, nonché l’indispettimento della Regina Elisabetta II che ha un brutto ricordo personale di fallimenti bancari (ricordate Nick Leeson?), anche perché pare che l’interruzione sia dovuta all’intervento personale di John Mc Cain che pare si sia messo alla testa di un drappello di parlamentari repubblicani contrari all’ipotesi di accordo faticosamente raggiunta tra i leaders parlamentari dei due partiti, mossa dovuta, secondo i maligni, alla sua ferma volontà di evitare l’atteso faccia a faccia di stanotte (ora italiana) con il suo rivale nella corsa alla casa Bianca, Barack Obama.

Come spesso accade in momenti drammatici come questi, drammaticità senza dubbio acuita dal sussulto di sincerità che ha coloto l’ormai prossimo ex inquilino della Casa Bianca, George W. Bush, che ha certamente al contempo terrorizzato le decine di milioni di americano che lo hanno ascoltato l’altra notte in prime time ed a reti pressoché unificate, non sono assolutamente chiari i termini della contesa e quali siano le ragioni degli insorti repubblicani contro un compromesso che, seppur imperfetto, rimetteva sui piedi un piano governativo smaccatamente favorevole agli interessi di Big Finance, anche se, forse, per avere una risposta a questo busillis, sarebbe meglio chiederlo ai potentissimi lobbisti al soldo delle banche e delle compagnie di assicurazione che stanno vistosamente soffiando sul fuoco, nell’interesse dei loro datori di lavoro, anche a costo di incendiare la prateria!

Un rapido sguardo ai listini azionari asiatici, pressoché tutti in rosso, consente di capire quanto sia profondo lo sconcerto degli analisti e degli operatori rispetto al mancato lieto fine che tutti si attendevano sullo sfondo del giardino della Casa Bianca, un mancato happy end che peserà!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

Finalmente George W. Bush dice la verità!


Mentre ascoltavo il drammatico discorso che Gorge Bush ha pronunciato questa notte in prime time ed a reti televisive pressoché unificate, un discorso sostanzialmente corretto sulla tempesta perfetta in corso e sulle cause decennali che la hanno provocata, non riuscivo a togliermi dalla mente l’incipit di un noto commentatore statunitense che diceva che ogni domenica sera ingurgitava una dose massiccia di valium per calmare i suoi nervi scossi dall’attesa di quello che Bush, Bernspan e Paulson avrebbero tirato fuori dal loro cilindro al termine di un altro week end non dedicato al riposo del giusto, come peraltro accade pressoché ininterrottamente all’ex investment bunker Paulson da quel maledetto 9 agosto del 2007 che ha dato il via al più grabe meldown della finanza globale dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Dico la verità, se fossi stato un rispiarmatore/investitore avrei immediatamente impartito un ordine di vendita al meglio o avrei operato on line, perché non c’è niente di peggio che sentire dire dal Presidente degli Stati Uniti d’America quello che tutti da tempo pensano e che, cioè, non esiste una ricetta sicura per curare il male provocato dall’azione dissennata e protrattasi per decenni degli apprendisti stregoni rinchiusi nelle fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali basate al di quà ed al di là di un Oceano Atlantico divenuto d’un tratto talmente piccolo da poter essere attraversato a nuoto in poche bracciate!

E’ stato il quasi ex presidente della nazione più potente del mondo a dover ammettere quello che nessun banchiere, nessun assicuratore, nessun finanziere d’assalto ha avuto il coraggio di dire in questi lunghissimi tredici mesi e mezzo e cioè che l’effetto combinato della deregolamentazione, della finanziariazzazione e della globalizzazione ha prodotto un disastro di dimensioni colossali, al punto che la carta prodotta rischia di soffocare l’economia reale come un mostro potrebbe uccidere un bambino ancora in fasce.

Quello che Hank paulson non ha ancora spiegato al tremebondo Bush è che anche l’intervento che sta alfine per essere finalizzato non ha, né potrebbe avere, soprattutto dopo le sacrosante modifiche imposte dai democratici e dalle dure e spietate regole di una competizione per la Casa Bianca giunta a livelli mai visti in precedenza, le dimensioni sufficienti per aggredire il problema, ma forse coprirne una piccola parte e puntare su un contro effetto domino su cui a Washington sperano in tanti, anche per non essere ricordati dai posteri come gli autori di un inutile dissesto delle già non brillanti finanze pubbliche statunitensi.

Non vi è ufficio posto ai piani alti dei grattacieli che ospitano le varie sedi del capitalismo finanziario statunitense e di buona parte di quello globale dove non siano in corso riunioni su riunione tutte improntate all’”io speriamo che me la cavo”, con Chief Eexecutive Officers, Chief Financial Officers, Chief Operating Officers ed atterriti Chairman a fare ed a rifare calcoli sull’impatto prevedibile delle misure che si allontanano ogni ora che passa da quel salvifico bailout immaginato in partenza dal duo più celebre ed allo stesso tempo dileggiato del momento, la stranissima coppia formata da uno studioso di crisi finanziarie che si è trovato a gestirne una di dimensioni colossali a poco tempo dal suo insediamento alla guida della Federal Reserve e da uno dei più potenti e smaliziati investment bunker, un uomo che ha dovuto lasciare un posto veramente d’oro per imbarcarsi, per uno stipendio di pochi spiccioli, in una mission impossible volta a salvare il salvabile di quel grande e luminoso casinò a cielo aperto che è diventato negli ultimi decenni l’un tempo magico mondo della finanza.

Dopo la scomparsa, a vario titolo, dalla scena di Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch e la trasformazione in holding bancarie di Goldman Sachs e Morgan Stanley, la paura del futuro regna sovrana nel mondo dell’investment banking, incluse le divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, una comunità che conta, o meglio contava, grosso modo cinquecentomila donne ed uomini caratterizzati da grande preparazione, grande determinazione, una pressoché generalizzata spasmodica voglia di emergere e non troppe preoccupazioni per gli effetti sistemici del proprio operato sull’ambiente economico circostante; un mondo caratterizzato da regole proprie e da valori che a volte sono del tutto sconosciuti al di fuori dei confini di questo ambiente, con orari che si articolano sulle ventiquattro ore, nel corso delle quali non vi è una netta distinzione tra lavoro e tempo libero, anche perché, grazie ai fusi orari, un mercato si apre quando se ne chiude un altro in modo pressoché ininterrotto ed il tempo è scandito dagli immancabili orologi posti ovunque e che riportano l’ora di New York, di Londra e di Tokyo.

Alle paure e d alle angosce di questi mesi, si aggiunge ora la notizia che è stato raggiunto l’accordo tra gli esponenti democratici e repubblicani, con l’assenso di Bush, Bernspan e Paulson, sul dettaglio che prevede forti limitazioni agli stipendi effettivi (via taglio drastico delle sempre agognate stock options) di quanti lavorano nelle entità che applicheranno il dottissimo sportello che prenderà finalmente il posto della vastissima discarica a cielo aperto gestita dalle donne e dagli uomini della Fed di New York che non ne potevano proprio più del continuo turn over di tonnellate su tonnellate di titoli della finanza strutturata sempre più maleodoranti e tossici titoli della finanza strutturata.

Come era ampiamente prevedibile, al di là dei malumori dei diretti interessati al prossimo taglio di bonus e stock options, il mercato azionario statunitense sta brindando all’intesa sul più grande piano di salvataggio della storia e i titoli delle maggiori entità finanziarie sono partiti a razzo, recuperando qualche frazione delle pesantissime perdite cumulate dall’estate del 2007, un clima euforico che ha fatto passare del tutto in secondo piano l’assalto avvenuto stamane in Asia, per la precisione ad Hong Kong, dove gli sportelli della terza banca dell’isola passata dal controllo britannico a quello della Repubblica Popolare Cinese, la Bank of East Asia per i timori di possibile insolvenza della stessa, poi smentiti dai vertici della banca e dalle autorità monetarie di Hong Kong, autonome da quelle cinesi.

Come sempre accade, vi sono alcune eccezioni, come, ad esempio, la tecnicamente fallita Washington Mutual, alla ricerca disperata di un cavaliere bianco che la tolga dalle peste e che si segnala per un ulteriore e consistente calo del tutto in controtendenza con l’andamento della maggior parte delle azioni del comparto finanziario che, almeno temporaneamente, vengono richieste dagli operatori e dai risparmiatori/investitori che sembrano voler fare la loro parte in questo momento molto patriottico auspicato dal prossimo ex inquilino della Casa Bianca che ha voluto attorno a sé i due sfidanti nella corsa alla presidenze ed i leaders dei rispettivi loro partiti di appartenenza, oltre, ovviamente, a Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, Hank Paulson e Christopher Cox, meglio conosciuto dai miei lettori come l’ineffabile Effe O Ixs.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 25 settembre 2008

Due o tre ragioni che spiegano l'ingresso in forze del leone di Omaha in Goldman Sachs!


Mentre Bush, Bernspan e Paulson cercano in tutti i modi di convincere senatori ed i deputati democratici e non pochi autorevoli esponenti dello stesso partito repubblicano apiegarsi alla ferrea logica del ‘o mangiare la minestra o buttarsi dalla finestra’, mettendo da parte quisquiglie e pinzillacchere come la difesa dei legittimi interessi di quanti stanno perdendo la casa, il lavoro, se non entrambi, il Leone di Omaha, Warren Buffett ha deciso di ripetere l’antica esperienza del salvataggio, poi finito male, di Salomon Brothers, incappata negli anni Ottanta in una brutta storia di illeciti nella vendita di titoli e successivamente assorbita, sarebbe meglio dire salvata, dall’entità che solo in seguito sarebbe divenuta la Citigroup, acquistando preferred shares della potente e molto preveggente Goldman Sachs per 5 miliardi di dollari, con un opzione all’acquisto entro i prossimi anni di azioni ordinarie per altri 5 miliardi di dollari, al prezzo alquanto scontato di 115 dollari per azione.

Come ben sanno i miei lettori di più antica data, ho sempre detto che le due stelle polari contemporanee per orientarmi tra gli alti marosi della tempesta perfetta tuttora in corso sono rappresentate da George Soros e Warren Buffett, mentre considero John Maynard Keynes il mio mentore virtuale, sia per gli scritti che ci ha lasciato in eredità, sia per il metodo da lui seguito nell’affrontare questioni come il disastroso accordo di pace concluso a Versailles all’indomani della fine del primo conflitto mondiale e l’altrettanto squilibrato nuovo ordine economico e monetario internazionale scaturito dagli accordi di Bretton Woods, a secondo conflitto mondiale ancora in corso.

Ho doverosamente segnalato l’acquisto di 10 milioni di azioni della defunta Lehman Brothers da parte di Soros, mossa che trovai molto originale e certamente legata a motivazioni che sfuggono a me come a buona parte degli analisti non embedded, così non ho alcuna intenzione di sottrarmi al tentativo di scoprire quale potrebbe essere la ratio della decisione presa ieri dalla compagnia Berkshire a tutt’oggi controllato e gestito in prima persona da Buffett, in attesa che giunga al suo termine la lotteria in corso tra i quattro candidati alla successione da lui scelti qualche anno orsono, peraltro in perfetta sintonia con l’arzillo ottuagenario con cui divide la gestione dell’impero costruito dal nulla e che ha reso ricchi coloro che affidarono a Berkshire i loro risparmi e piccoli investimenti ed ora si trovano ad essere multimilionari in dollari.

Non credo che alla coraggiosa decisione di Buffett sia stata estranea la trasformazione di Goldman Sachs, così come di Morgan Stanley, da storica Investment Bank ad holding bancaria abilitata ad operare anche nel retail banking, scelta che, per quanto forse obbligata, deve avere provocato una profonda crisi di identità nei suoi numerosi partners, molti dei quali devono avere pensato che non era per appartenere ad una banca normale che avevano sostenuto e superato sino a cento colloqui con partners già in forze, donne e uomini che si considerano, e molto probabilmente sono, il meglio del meglio dei graduates e post-graduates delle più prestigiose università statunitensi o stranieri dotati di brillantissimi pedigree e vogliosi di appartenere alla più grande banca di investimenti del pianeta.

Così come non credo sia del tutto un caso o una fortuita coincidenza che la decisione del Leone di Omaha sia giunta solo ventiquattro ore prima del rilascio delle stime ufficiali del Fondo Monetario Internazionale sul conto finale, si fa ovviamente per dire, della tempesta perfetta in corso da oltre tredici mesi, passate dai 945 miliardi di metà aprile di questo anno ai 1.300 circa resi noto ieri dallo stesso Dominique Strauss Kahn, l’ex ministro socialista delle finanze d’Oltralpe che ha preso il posto di quello che poi è divenuto il presidente tedesco e che passerà alla storia per avere, in perfetta sintonia con il battagliero presidente francese, definito il mercato finanziario globale come un luogo pervaso da una perniciosa forma di follia collettiva.

Né credo sia un caso che l’astuto finanziere, notoriamente amante più della solida economia reale che delle alchimie finanziarie, abbia deciso di gettare la sua pesante fiche sul tavolo verde di quel grande casinò a cielo aperto che è oramai diventato il mondo della finanza, sette giorni dopo la rottura degli indugi da parte del trio Bush, Bernspan e Paulson, fermamente decisi a portare a casa l’approvazione del mega piano di salvataggio delle banche di ogni ordine e grado, mettendo sulle già provate spalle dei contribuenti americani un fardello di ulteriori 700 miliardi di dollari, che divengono almeno mille se si considerano anche i precedenti salvataggi dell’orso di Stearns, di Fannie e Freddie (i cui quattro uomini precedentemente al vertice sono indagati dal Federal Bureau of Investigations per reati ancora non meglio precisati, ma certamente commessi nell’esercizio delle loro funzioni) e, the last but not the least, del molto malandato colosso delle assicurazioni statunitense AIG.

Tutto si può dire di Buffett, tranne che non sia in grado di fiutare un affare o la migliore compagnia nella quale inserirsi per approfittarne, e credo proprio di avere fornito in questi mesi sufficienti elementi per comprendere perché la sua scelta sia caduta proprio su Goldman Sachs, un’entità che più che una banca sembra un esclusivo club dal quale entrano o escono persone destinate ad occupare la maggior parte dei posto di potere disponibili non solo negli Stati Uniti d’America, ma in buona parte delle nazioni del globo terracqueo, forse l’unica Investment Bank che può permettersi il lusso di avere ben due Chief Operating Officer dal costo di 70 milioni di dollari cadauno, un Chief Financial Officer che sfiora i 60 milioni di dollari, mentre il povero Larry Blankfein ha portato a casa nel 2007 la cifra complessiva di 100 milioni di dollari, ma ne ha impiegati 25,6 per mettersi un tetto sopra la testa e non ne ha trovato disponibile uno diverso dall’ampio e confortevole appartamento che ha lo stesso indirizzo del più esclusivo condominio di Manhattan, un edificio certamente più protetto di quanto lo sia la zona verde della capitale del tormentato Irak.

La tempestività di Buffett era stata peraltro testimoniata nel dicembre dello scorso anno, quando decise fulmineamente di entrare in forze nel lucroso settore delle garanzie assicurative alle varie entità facenti parte dell’amministrazione pubblica allargata statunitense, approfittando delle disgrazie dei due colossi delle compagnie monoline statunitensi, le tecnicamente fallite MBIA ed Ambac, due entità che, come la stessa AIG, avevano ceduto qualche anno fa alle sirene delle banche di investimento e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, gettandosi a capofitto nell’allora lucrosissimo ed apparentemente sicuro business delle garanzie prestate ai titoli della finanza strutturata che ora vengono definiti tossici da autorevoli banchieri ma allora godevano del massimo rating ottenibile dalle molto disinvolte ed ancora impunite agenzie di rating statunitensi, le stesse che hanno abbassato il rating di Lehman Brothers solo dopo la mesta visita dei suoi vertici al tribunale fallimentare!
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Mi scuso con i miei lettori per aver dato per scontata una delle principali ragioni che hanno indotto Warren Buffett a sottoscrivere le preferred shares di Goldman e non azioni ordinarie della stessa ed è data dal semplice fatto che le prime garantiscono un rendimento effettivo del 10 per cento che ben testimonia delle difficoltà del colosso creditizio, uno yield peraltro inferiore a quello garantito, in operazioni similari, da Citigroup, Merrill Lynch ed altre grandi banche di investimento o da banche più o meno globali; così come ricordo che se l'azione di Goldman Sachs è andata ieri controcorrente, con un rotondo più sei per cento, il relativo Credit Default Swap è a sorpresa salito, anche se di soli cinque punti base e si mantiene ad un livello veramente stellare per un'entità come Goldman.
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All'alba di oggi in Italia, giungono da Hong Kong notizie dell'assalto agli sportelli della terza banca dell'isola passata da tempo alla Repubblica Popolare Cinese, si tratta della Bank od East Asia e le scene ricordano quelle dell'estate 2007 quando interminabili file si formarono al di fuori degli sportelli della Northern Rock, poi nazionalizzata per assoluta assenza di pretendenti.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 24 settembre 2008

Bernspan e Paulson chiedono al Congresso di darsi una mossa!


Con un pressing senza precedenti sul Congresso sovrano del potere legislativo negli Stati Uniti d’America, la strana coppia composta da Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, e l’ex (?) investment banker Hank Paulson, attualmente “prestato” alla massima carica del dicastero del Tesoro stanno cercando in ogni modo di vincere le resistenze bipartisan di deputati e senatori distolti da una campagna elettorale di asprezza mai vista per cercare di mettere una pezza al meldown della finanza statunitense e di quella globale provocato da una tempesta perfetta che non sembra in alcun modo volerne sapere di sparire dall’orizzonte dei maggiori protagonisti del disastro attualmente e virulentemente in corso.

E’ più che evidente la materia del contendere tra gli eletti dal popolo americano ed il duo più in voga da tredici mesi a questa parte, in quanto i due non vogliono assolutamente saperne di colorare di tinte sociali quello che anche ai bambini appare come il più spudorato tentativo di salvataggio di Wall Street, o meglio delle maggiori entità che vi hanno sede o vi operano da oriundi, un tentativo in sé alquanto disperato alla luce delle dimensioni colossali del problema dei problemi, che continua ad essere rappresentato da quella vera montagna di titoli della finanza strutturata che nessuno vuole più, e le risorse solo apparentemente enormi messe in campo.

E’ stato come al solito Hank a dire qualcosa che assomiglia molto alla verità in un testo preparato per l’audizione cui si è sottoposto ieri di fronte ai senatori della potentissima commissione bancaria del Senato a stelle e strisce, affermando che una supervisione da parte dei congressisti sul piano da 700 miliardi di dollari da lui proposto rischierebbe di allontanare le banche, le compagnie di assicurazione e tutti gli altri possessori di toxic assets a tonnellate, tutta gente che preferisce che sia il loro ex collega a fare il prezzo e non quei politicanti che sembrano essere improvvisamente dimentichi di quanto devono a Big Finance, come a Big Oil, a Big Pharma, a Big Tobacco e chi più ne ha ne metta e minacciano di voler mettere il naso in questioni per le quali non avrebbero la sensibilità, la competenza e la generosità che indubbiamente contraddistinguono l’uomo che ha retto con pugno di ferro in guanto di velluto la ancora potente e sempre preveggente Goldman Sachs.

Impegnati da almeno sei giorni a fare conti su conti, analisti, operatori ed investitori, iniziano a rendersi conto delle ben scarse possibilità che il nuovo mega financial bailout partorito dalla fervida mente di Paulson corre seriamente il rischio di tradursi in una clamorosa riedizione del flop del progetto elaborato sempre da lui nel settembre del 2007, quando, tra rulli di tamburo, fanfare e gli osanna degli innumerevoli analisti, commentatori e giornalisti del tutto embedded alle logiche del capitale finanziario, disse che bastavano i cento miliardi di dollari messi a disposizione dalle tre maggiori istituzioni finanziarie statunitensi per la realizzazione del Master Enhance Liquidity Conduit, prontamente ribattezzato il Conduit dei Conduit, che fece parlare di sé per tre mesi e poi scomparve all’improvviso nel nulla, così come dal nulla sono venute le tante idee del ministro del Tesoro statunitense.

Un mio lettore ha sollecitato una mia valutazione della ennesima mossa scomposta di Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox, un politicante repubblicano premiato da Bush nientepopodimeno che con la presidenza della Securities and Exchange Commission, dorata poltrona sulla quale ha dormito sino allo scorso luglio, quando decise che la causa di tutti i mali erano quelle canaglie di ribassisti che, per di più, si ostinavano a vendere azioni che non possedevano, al che decise di vietare per un po’ le vendite allo scoperto, ma non le mosse speculative al rialzo, sulle principali entità protagoniste della scena finanziaria americana, diciannove dicasi diciannove, una decisione che rappresentò il classico calcio di rigore per i ribassisti che si trasformarono, del tutto al riparo da sorprese, in accaniti rialzisti, portando l’azione di una monoliner da tempo tecnicamente fallita ad una quotazione otto volte superiore a quel ignominioso minimo toccato a metà del mese di luglio, ma forti rialzi caratterizzarono anche le altre diciotto entità sulle quali era caduta la scelta insindacabile di Effe O Ixs.

Incurante delle feroci critiche piovutegli addosso da quei cacadubbi degli economisti di professione, dei leftist a stelle e strisce cui non va davvero mai bene niente, delle argomentazioni logiche di autorevoli commentatori di ogni orientamento, il soldato Cox ha deciso che era giunto il momento di tornare in campo e di riproporre la stessa misura con scadenza al 30 settembre, ma stavolta l’ha almeno fatta meno sporca, in quanto ha incluso nel novero delle società sulle quali è del tutto proibito sparare ben 780 compagnie appartenenti un po’ a tutti i settori produttivi, memore di quel from the mountains to the sea contenuto nell’inno nazionale che dicono canti ogni mattina dopo aver innalzato la bandiera a stelle e strisce sul palo posto nel giardino di casa sua.

Il bello sta nel fatto che, forse a differenza di quanto avveniva in quel di luglio, a vendere sono anche gli azionisti in carne ed ossa, spaventati ed anche un po’ disgustati da quella montagna di bugie che si vedono vomitare addosso da persone che non provano alcun imbarazzo nel mentire in modo così spudorato, come aveva ben previsto qualche settimana fa la migliore penna del quotidiano La Repubblica, Peppino Turani; azionisti, peraltro, che vendono in grave se non gravissima perdita, ma che hanno visto troppi loro amici e conoscenti restare con il classico pugno di mosche in mano per aver prestato fede alle rassicurazioni provenienti da Chairman, Chief Executive Officer, o da persone che ricoprivano entrambe le cariche per cumulare stipendi e stock options previste per le due cariche!

Ha un bel strillare Bernspan, dimentico delle buone maniere che dovrebbero caratterizzare un accademico della prestigiosa Università di Princeton, che, se non si approva il piano suo e di Paulson, sarà molto più difficile evitare la recessione prossima ventura, ma credo proprio che dovrebbe piuttosto spiegare dove erano il suo maestro Greenspan e lui quando le Investment Banks e le divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali emettevano a tutto spiano quelli che oggi è di moda definire titoli tossici, puntualmente gratificati della salvifica tripla A che consentiva anche a quei noiosi amministratori dei fondi pensione di poterli allegramente acquistare, dove erano quando si decise di abrogare la legge che dal 1933 aveva posto dei paletti che hanno impedito per oltre mezzo secolo che si ponessero le cause di una crisi finanziaria grave come è l’attuale tempesta perfetta?

So bene che né Bernspan, né Paulson risponderanno mai, ma credo proprio che da due sedute gli analisti, gli operatori e gli investitori stiano esprimendo il loro giudizio sulla bella pensata dei due uomini più potenti per quanto riguarda le vicende del mercato finanziario statunitense, un giudizio che è ben rappresentato dall’andamento dei tre principali indici di Wall Street e dalle quotazioni delle principali beneficiarie di Babbo Natale Hank e della Befana Bernspan, anche se non credo proprio che ciò basterà per indurli a decidere di levarsi di torno!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 23 settembre 2008

Alla fine le Investment Banks hanno fatto proprio la stessa brutta fine dei dinosauri!


Sono bastati gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da almeno tredici mesi per distruggere quel castello di carte e cartolarizzazioni che prendeva il nome di Investment Banks, almeno per quanto riguarda le storiche Big Five statunitensi, prima ridottesi al numero di due, poi ieri notte scomparse definitivamente dal panorama finanziario a stelle e strisce, in quanto, secondo la pietosa ricostruzione fornita dal portavoce di Bernspan, avrebbero richiesto e gentilmente ottenuto dalla Federal Reserve di essere considerate banche commerciali a tutti gli effetti, una circostanza che fa perdere loro il blasone avito, ma consente, allo stesso tempo, di potere ricevere normali depositi da una clientela che dovrebbe, non si sa bene perché, fidarsi di più ad affidare a Larry Blankfein e compagni piuttosto che alle altre banche commerciali di ogni ordine e grado.

Non so ancora per quale impulso inconscio avevo titolato la puntata di qualche giorno fa “E’ proprio la caduta degli Dei”, anche perché confesso che allora non immaginavo neppure lontanamente questa evoluzione delle cose, pur essendo giunte anche alle mie orecchie poste a migliaia di miglia dall’epicentro del terremoto localizzato a Wall Street che il povero Bernspan era veramente stanco di continuare a prendersi tonnellate di carta che nessuno vuole proprio più ad un valore quasi facciale in cambio di denaro sonante che rivedrà solo ad 84 giorni data al miserevole tasso annuo del 2,25 per cento da entità che non era neanche titolato a vigilare, per il semplicissimo motivo che venivano sorvegliate da quel fulmine di guerra di Effe O Ixs che, non sapendo che altro fare, ha nuovamente cambiato in questi giorni le regole del gioco a partita pienamente in corso, ripristinando, fino alla fine del mese in corso, lo stop alle vendite allo scoperto per le azioni di 780 società.

Mentre i nostalgici del bel tempo che fu sono lì a riflettere sulle conseguenze della metamorfosi delle due ultimi superstiti Investment Banks, una delle due, Morgan Stanley ha reso noto di avere finalmente trovato un pretendente nipponico che ha deciso di prendere sulle sue spalle un quinto delle azioni della banca di investimento di cui meno si era parlato in questi lunghi e difficili mesi, il che, come in ogni romanzo giallo che si rispetti, avrebbe dovuto indurre chi ne avesse avuto voglia a capire che anche nel grattacielo sede di quella banca vi era qualcosa che veramente non andava per il verso giusto.

Non so proprio perché la Mitsubishi Financial Group abbia deciso di gettare la sua fiche dalla per ora del tutto ignota consistenza sul tavolo verde di quel casinò a cielo aperto cui da tempo è ridotta l’alta finanza statunitense, ma certamente ha scelto il momento giusto per infilare un piede nella un tempo celebre Investment Bank dagli alquanto facili costumi appena trasformatasi in una rispettabile e holding bancaria finalmente giunta sotto il controllo della non troppo severa banca centrale a stelle e strisce, pronta a contendere la migliore clientela alle altrettanto esauste maggiori banche commerciali di quella grande nazione, ansiosi di poter sventolare un libretto di assegni quasi altrettanto prestigioso di quelli che porteranno il nome della potente e molto preveggente Goldman Sachs.

Poiché non ho mai creduto alle coincidenze, sono portato a pensare che la repentina decisione dei vertici di Goldman e Morgan Stanley non sia del tutto spontanea ma faccia, bensì, parte di quel negoziato serrato in corso tra i due maggiori partiti che da sempre si contendono la leadership degli Stati Uniti d’America, ben rappresentata dall’edificio con vista giardino sito nel bel mezzo di Washington di cui John Mc Cain e Baraci Obama si stanno contendendo in uno scontro all’ultimo sangue il privilegio di abitarvi per i prossimi quattro anni, mediante un contratto con il popolo americano che prevede la possibilità di ottenere in futuro una proroga di altri quattro anni.

Avendo superato da qualche anno l’età in cui qualcuno mi leggeva le favole per favorire il mio più o meno dolce sogno, non mi illudo che gli asinelli democratici e gli elefanti repubblicani siano realmente in grado di resistere a quelle stesse seducenti sirene che suonano le ammalianti sinfonie redatte dai migliori cervelli di Big Finance cui non hanno resistito le compagnie di assicurazione, non necessariamente monoline, gli allegri gestori dei fondi pensione e di quelli di investimento, i severi analisti delle agenzie di rating, le banche straniere più o meno globali, insomma quanti rischiano seriamente di fare indigestione di quella montagna di titoli della finanza strutturata che hanno allegramente sottoscritto e che adesso rischiano di non valere nemmeno la carta su cui sono stampati!

Non c’è peraltro bisogno di possedere le indiscusse doti del Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz, per sentire una maledetta puzza di bruciato nel pacco confezionato da quell’indiscussa volpe (altro che quel politicante di Effe O Ixs!) che risponde al nome di Hank Paulson, uno che non ha certo lasciato la sua più che dorata posizione al vertice di Goldman Sachs solo perché colto dall’improvvisa smania di vestire, pressoché pro bono, i panni di civil servant, scambiando i cento milioni di dollari cento guadagnati dal suo successore Blankfein nel solo 2007 per le poche centinaia di migliaia di dollari che rappresentano la mercede per tutte le rogne di cui si è dovuto sobbarcare in questi lunghissimi e veramente terribili tredici mesi iniziati quel 9 di agosto dell’anno scorso, quando non è stato proprio più possibile nascondere la polvere sotto i preziosi tappeti che adornano gli uffici dei top bankers di investimento e dei loro omologhi posti al vertice delle banche più o meno globali basta sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico.

Eppure, le obiezioni mosse, non si sa con quanta convinzione e/o determinazione, mosse dai massimi leaders democratici al Congresso, sono tutt’altro che infondate o peregrine, anche perché rappresentano il tentativo in extremis di mettere almeno sullo stesso piano gli interessi di Main Street rispetto a quelli di Wall Street, ma il solo fatto che né Nancy Pelosi, né alcun altro esponente del partito democratico abbia avanzato in modo limpido la richiesta irrinunciabile che non sia Hank Paulson a decidere in totale autonomia l’importantissima questione del prezzo a cui acquistare quella montagna di toxic assets, definizione per primo coniata da un altro enfante prodige di casa Goldman, John Thain, che è poi lo stesso che ha consentito a Merrill Lynch di non fare la miserevole fine di Lehman Brothers liberandosi di buona parte dei titoli della stessa specie al prezzo di 22 centesimi per dollaro che, almeno a suo dire, era il massimo che era riuscito a spuntare walking across the market!

D’altra parte, qualche serio dubbio comincia a serpeggiare anche tra gi analisti e gli operatori che avevano salutato le primi indiscrezioni abilmente pilotate dal prode Hank con due sedute da record che avevano chiuso in bellezza quella che si apprestava ad essere la peggiore settimana borsistica da quando la tempesta perfetta ha preso il via, al punto da spingere i tre principali indici di Wall Street, a meno di un’ora dalla salvifica campanella, verso una riedizione di quello che avevamo visto nelle prime tre sedute della scorsa settimana e di riportare verso il basso il valore del dollaro.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

domenica 21 settembre 2008

Il vero 11 settembre della finanza strutturata!


Vi è una molto sinistra assonanza tra lo sgretolamento del castello di carte messo in piedi dalle Investment Banks, le banche più o meno globali, le divisioni finanza dei giganti del comparto assicurativo ed altri importanti protagonisti del mercato finanziario globale ed il tragico accartocciamento delle torri gemelle bombardate da aerei di linea pieni di passeggeri innocenti verificatosi l’11 settembre del 2001, il giorno che resterà impresso nella Storia come quello in cui avvenne il primo attacco a quello che, almeno nell’immaginario collettivo, era ed è il cuore pulsante degli Stati Uniti d’America, la nazione che, dopo l’implosione dell’impero sovietico, resta indubitabilmente l’unica superpotenza del pianeta, anche se non va sottovalutata l’ansia di protagonismo del nuovo Zar di tutte le Russie, Vladimir Putin, un uomo il cui avvento al potere fu salutato dall’Occidente come assolutamente necessario, ma che oggi si dimostra sempre più impaziente di riportare la sua “Madre Russia” a quel rango di superpotenza perso 20 anni orsono.

Nella sua lunga conferenza stampa, Hank Paulson ha fatto la maggiore autocritica che un grande investment banker, seppur oggi “prestato” alla politica nel delicato ed importante ruolo di responsabile del dicastero del Tesoro USA, abbia mai fatto, un discorso nel quale, tra le righe, si leggeva una paura tremenda per il meltdown del mondo nel quale è cresciuto ed ha creduto, non fosse altro che ha percorso i vari gradini della sua scalata al potere nella più grande istituzione finanziaria del mondo, la molto potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs, proprio negli anni in cui le pratiche sempre più disinvolte dei banchieri di investimento e di quelli cosiddetti universali andavano montando.

Già, uomini come Hank, come Robert Rubin (un altro Goldman “prestato” allo stesso incarico sotto la prima presidenza di Bill Clinton), come John Thain (“prestato” da Goldman prima al New York Stock Exchange e divenuto poi il “curatore fallimentare” che ha consentito a Merrill Lynch di approdare nelle forti braccia di Bank of America), Robert Steel (“prestato” da Goldman prima al Governo, come uno dei vice di Hank e poi chiamato a salvare dal dissesto una delle quattro maggiori banche commerciali), come Mario Draghi (da Direttore Generale del Tesoro italiano a capo europeo di Goldman e membro dell’esecutivo a livello globale e poi “prestato” come Governatore della Banca d’Italia) e mi fermo qui perché la lista degli entrati ed usciti dalla porta girevole di Goldman è davvero infinito ed assolutamente bipartisan; ebbene uomini come questi non sono dei passanti della crisi finanziaria più grave dal secondo dopoguerra e forse da sempre, bensì assoluti protagonisti, anche se a volte da dietro le quinte, di quei disastri che prendono il nome di deregolamentazione, globalizzazione e finanziarizzazione, tutti basati su quel tragico equivoco che il mercato, finanziario o meno non fa assolutamente differenza, lasciato a sé stesso agirà per il bene collettivo!

Sono questi uomini e tanti altri come loro i topi posti a guardia del formaggio di cui parla l’antipatico ma sincero tre volte ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che con Lombard, Angelo De Mattia e, perdonate l’autocitazione, il sottoscritto, ha animato negli anni Ottanta le pagine economiche del quotidiano Il Manifesto, sotto l’accorta regia di Valentino Parlato e di Roberto Tesi, in arte Galapagos, contribuendo a svelare alcuni arcani e molte patacche del potere economico italiano, un capitalismo forse un po’ familistico e molto straccione e che deve molto, forse tutto, all’infinita generosità di un “potere” politico che non ha mai negato nulla a chi avesse il buon gusto, ex ante o ex post, di sdebitarsi adeguatamente nei confronti del padrino di turno, una critica dell’economia dominante nel nostro Paese che trovò adeguato riscontro in quel breve squarcio di verità rappresentato da Mani Pulite, anche detta Tangentopoli, l’inchiesta dei vari Borrelli, Davigo, Di Pietro, Greco ed altri valenti magistrati cui poi fu messa rapidamente la museruola.

Ma, tornando al topo Paulson, venivano quasi le lacrime al vostro cronista della tempesta perfetta, sentendo affermare da uno dei maggiori investment banker globali ripetere la giaculatorie sulle cause da scoprire, le responsabilità da individuare, regole ferree da introdurre, chiarendo, però, subito che tutto questo riguarda il domani, mentre oggi è necessario salvare il salvabile, prima che anche Goldman Sachs e Morgan Stanley facciano miseramente la fine delle altre appartenenti al gruppo delle un tempo magiche Big Five, per non parlare delle migliaia di banche statunitensi di ogni dimensione che rischiano, alcune comunque lo faranno, di fallire, delle quattro immense banche commerciali che poi, in realtà sono universali, delle compagnie di assicurazione che si erano gettate a capofitto nelle garanzie ai titoli della finanza strutturata, più o meno tossici, dei fondi pensione, dei fondi di investimento, degli hedge funds, dei carry traders e scusate se ne ho dimenticato qualcuno.

Come ha ben detto con la sagacia dello gnomo svizzero Ackermann “prestato” alla multinazionale tedesca Deutsche Bank (che si è appena mangiata Deutsche Postbank), il problema non è il restyling del MLEC o la mega dotazione da 700 miliardi di dollari richiesta al Congresso, il problema vero è, come era ai tempi della prima pensata di Hank, quello dei meccanismi competitivi e trasparenti (asta?) da mettere in piedi affinché il prezzo pagato non rappresenti il solito regalo alle banche di ogni ordine, specie e grado, ma si avvicini quanto più possibile a quel mark to market che sarà pur difficile da stimare alla luce della il liquidità dei sottostanti, ma che è stato in qualche modo fissato da quei 22 centesimi per dollaro incassati da John Thain da un unico compratore peraltro da lui generosamente finanziato e a cui ha dovuto a denti strettissimi concedere una clausola di riacquisto, seppur escutibile solo a certe condizioni che al momento sembravano irrealizzabili, ma che potrebbero divenire realistiche se questo gigantesco piano, come il precedente, dovesse fallire clamorosamente!

Economisti molto più saggi e preparati di me hanno provato a stimare le conseguenze del piano di Hank sulle banche statunitensi (un esercizio ovviamente fatto sulla base delle poche informazioni al momento disponibili e prima delle modifiche che i democratici chiedono a gran voce per dare il loro indispensabile via libera), stime peraltro basate su un prezzo di 50 centesimi per dollaro che potrebbe essere realistico solo le banche agiranno in modo oligopolistico e nessuna di loro si farà, invece, prendere dal panico, e giungono alla facile conclusione che solo le grandi e grandissime entità potranno sopravvivere al salasso in termini di perdite contabilizzate, mentre per la maggior parte delle 7.200 banche statunitensi con questa operazione verità si aprirebbe in tempi più o meno rapidi uno scenario tale da portarle dritte, dritte a chiedere la protezione della accomodante legge fallimentare statunitense.

L’impatto sui già terremotati deficit e debito pubblico statunitensi richiederebbero maggiori informazioni sui dettagli del piano e, soprattutto, sulla sua effettiva applicazione, ma si può comunque pensare che, senza consolidare i GSE di Fannie e Freddie, nella migliore delle ipotesi si arriverà a 700-800 miliardi di dollari per il deficit 2009 e a 12 mila miliardi di stock del debito, con buona pace dei programmi di spesa promessi da Mc Cain e da Obama nei loro comizi!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 20 settembre 2008

Hank Paulson smette i panni di civil servant e torna ad essere un investment banker!

Finalmente Hank Paulson si è tolto la maschera e ha gettato sul piatto il piano a cui stava lavorando indefessamente da alcuni mesi e che punta a cavare le castagne dal fuoco alla “sua” Goldman Sachs ed alle altre banche di ogni ordine, grado e specie, nonché agli altri principali protagonisti del mercato finanziario globale, finendo con l’addossare i disastrosi effetti dei loro e dei suoi errori sulle spalle dei contribuenti americani, molti dei quali hanno perso, nel corso della tempesta perfetta tuttora virulentemente in corso, la casa o il lavoro, se non, come è purtroppo accaduto in non pochi casi, entrambi.

Nel corso di questi lunghissimi e molto travagliati tredici mesi, ho ripetuto fino alla nausea che quello che era offerto in pasto alla pubblica opinione come il problema, se non la causa scatenante della tempesta perfetta, gli ormai celebri mutui sub prime, non erano, in realtà, che uno degli effetti partoriti da un modo di fare credito che aveva gettato alle spalle i fondamentali dell’arte bancaria, un’arte forse non del tutto nobile, ma che per secoli è stata basata sulla detenzione del rischio dall’inizio alla fine della vita di un affidamento di qualsivoglia natura, quello che è stato giustamente definito “il” modo di esercitare il mestiere del banchiere, un mestiere basato, a tutti i livelli di responsabilità, sull’attenta valutazione del cosiddetto merito creditizio del richiedente un finanziamento, merito no basato solo ed esclusivamente sulle pur necessarie garanzie, ma anche sull’affidabilità e realizzabilità delle idee e dei progetti che venivano proposti a coloro che erano chiamati a decidere nell’interesse dei vari stakeholders della banca.

Questo modello tradizionale era stato brutalmente gettato a mare ben molto prima che qualcuno pensasse di applicare il nuovo metodo del “presta e sbologna” che si fatto sempre più spazio a partire dal 1985 e diventato largamente prevalente grazie alla pletora di provvedimenti che hanno favorito fenomeni quali la globalizzazione, la finanziarizzazione, il tutto condito da una deregolamentazione selvaggia, dall’opera veramente scellerata delle maggiori agenzie di rating in pieno conflitto di interessi, da società di revisione spesso lautamente pagate per non vedere o per consigliare i sistemi più efficaci per gabbare gli azionisti, da un sistema di controlli spesso somigliante ad una fetta di gruviera quasi del tutto composta da buchi, per non parlare dei Governi estasiati da una crescita infinita di un benessere sempre più diffuso, almeno nei paesi dell’Occidente industrializzato, ed apparentemente infinito.

Non penso assolutamente che le responsabilità siano del tutto a senso unico, non fosse che per il semplice motivo che l’offerta crea la propria domanda solo se trova la disponibilità, se non la connivenza, dei richiedenti, ma è certo che ai sempre più avidi e potenti uomini della finanza non è parso vero di trovare centinaia di milioni di risparmiatori/consumatori felici di contribuire al in un modo o nell’altro al successo dei prodotti sempre più complessi, sofisticati e non trasparenti elaborati dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Banks, delle banche più o meno globali, delle mega compagnie di assicurazioni, di giganti industriali trasformatisi in veri e propri giganti finanziari e chi più ne ha ne metta.

Faceva impressione vedere ieri il quartetto che si avviava alla selva di microfoni predisposti nel giardino della Casa Bianca, un quartetto composto da George W. Bush, Hank Paulson, Ben Bernanke, in arte Bernspan ed Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox che, del tutto dimentichi delle loro palesi e gravissime responsabilità nella gestione di una crisi peraltro probabilmente ingestibile, iniziavano a dire se non la verità almeno la parte di questa che è al momento possibile dire, e, cioè, che ad una situazione veramente gravissima ed oramai in pieno effetto domino loro non sanno far altro che pubblicizzare le perdite dopo essersi ben guardati dal tassare gli ingenti profitti!

E’ interessante vedere i filoni di intervento proposti perché consentono di capire la profondità del meltdown finanziario in corso, con particolare riferimento alle performance largamente negative di soggetti di vitale importanza nel modello americano, quali i fondi pensione ed i fondi di investimento, alle prese, nel totale silenzio degli analisti e dei giornalisti del tutto embedded alle logiche del capitale finanziario, ad un ondata montante di riscatti da parte dei sottoscrittori che si sono visti recapitare lettere recanti l’amara realtà che il valore del proprio investimento non solo non si è accresciuto, ma ha iniziato desolatamente a ridursi, per ora di poco, ma domani chissà di quanto.

E’ proprio nel fondo da 50 miliardi di dollari, un’inezia rispetto all’impegno governativo complessivo che viene prudenzialmente stimato in mille miliardi di dollari, che si può intravedere la tragicità della situazione, in quanto, come ha rivelato sin da aprile il Fondo Monetario Internazionale, i due terzi delle enormi perdite al momento previste come conto finale della tempesta perfetta fanno capo proprio ai fondi pensione ed ai fondi di investimento, rei di aver fatto incetta per anno di titoli della finanza strutturata più o meno tossici e di aver giocato alla grande sul mercato dei derivati sul petrolio e le altre materie prime, derrate alimentari, purtroppo, incluse, un gioco estremamente rischioso nel quale si è distinto l’un tempo floridissimo fondo degli insegnanti della California.

Lasciando gli aspiranti pensionati a stelle e strisce e i sottoscrittori di fondi di investimento alle loro ambasce, è utile guardare al piatto forte della proposta che l’ex (?) numero uno assoluto ed incontrastato della potente e molto preveggente Goldman Sachs, sta propinando alla pubblica opinione, ai leaders dei due maggiori partiti presenti nel Congresso degli Stati Uniti, ai due candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America e, per pura cortesia istituzionale, anche allo stesso prossimo ex inquilino di una Casa Bianca che si appresta ogni giorno che passa ad assomigliare alla Casa Rosada argentina.

Hank non sta, in realtà, facendo altro che svolgere il suo vecchio mestiere di banchiere di affari e di investimenti, rilanciando quella che è stata sin dall’anno scorso la sua idea fissa, che è poi rappresentata dal classico uovo di Colombo: se il problema è rappresentato dalla montagna altissima di titoli della finanza strutturata che nessuno vuole più, la soluzione non può che essere quella di creare un contenitore abbastanza ampio da acquistarli se non tutti almeno una parte e di farlo ad un prezzo che non sarà proprio quello che vorrebbero i banchieri, i finanziari, gli assicuratori e gli altri sfortunati detentori, ma sarà sempre più alto di quello che il suo pupillo John Thain, da vero ingrato per le esigenze di Big Finance, ha accettato da un compratore peraltro da lui stesso messo in condizione di affrontare l’acquisto, quei 22 centesimi per dollaro che hanno tolto il sonno a tutti gli inquilini dei piani alti dei grattacieli che ospitano i quartieri generali delle banche di investimento e di quelle più o meno globali ed hanno fatto saltare sulla sedia anche i top bankers europei ed asiatici che di questa robaccia ne hanno ad iosa e non hanno alcuna intenzione di mettere nei loro già poco brillanti conti perdite di questo genere!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 19 settembre 2008

Henry Paulson il pataccaro!


Mentre le banche e le compagnie di assicurazione di tutto il mondo si stanno interrogando sul che fare con la propria clientela che, a termini di contratto, dovrebbe ritrovarsi con in mano il classico pugno di mosche a causa del default dell’emittente, mai, o quasi mai, garantito dal collocatore, l’ineffabile Henry, Hank, Paulson, un uomo che è oramai chiaro a tutti essere diventato ministro del Tesoro USA per conto della “sua” banca, Goldman Sachs, ha ritirato fuori dal suo cilindro la vecchia proposta del MLEC, partorita dopo una sofferta riunione con trenta banchieri nel lontanissimo mese di settembre del 2007.

Come accade nel caso del restyling dei vecchi modelli di automobili che si vogliono ancora sfruttare, il nuovo Master Enhance Liquidity Conduit, quello che a suo tempo definii il Conduit dei Conduit, è stato ampliato e irrobustito, presentando interessantissimi optional per gli interessati, più o meno tutti i principali protagonisti del mercato finanziario statunitense e molte banche estere lì massicciamente operanti, rappresentati dalla non chiarezza sul fatto di chi sarà chiamato a mettere i soldi, davvero tanti, e sul prezzo al quale verranno acquistati i toxic assets ed il resto dei titoli della finanza strutturata che nessuno, ma proprio nessuno, vuole più.

D’altra parte, lo svizzero da tempo alla guida di quella Deutsche Bank che nei giorni scorsi ha fatto un sol boccone della Deutsche Postbank, lo aveva già detto allora ed a chiare lettere che il problema dei problemi era, già nella prima versione della grande pensata di Paulson, rappresentato essenzialmente da 1) a carico di chi restano i rischi? e 2) a quale prezzo verranno acquistati i titoli della finanza strutturata?

Don’t worry, Dear Mr Ackermann, a pagare saranno come oramai è chiaro anche alle pietre i contribuenti statunitensi ed indirettamente quelli di tutto il mondo, mentre sul prezzo credo proprio che vi sarà da discutere, in quanto quel ragazzaccio di John Thain ha avuto il torto qualche tempo fa di accettare, dicendo che aveva tirato un grande sospiro di sollievo, 22 centesimi per dollaro sulla bellezza di 30 miliardi di dollari di toxic assets, il che, se da un lato ha consentito a Merrill Lynch di non fare la fine di Lehman Brothers, ha purtroppo avuto un effetto devastante sulle Investment Banks e le banche più o meno globali, equivalendo a dire che il Re è nudo, come nella bella favola che più o meno tutti abbiamo letto da piccoli.

Il pricing effettuato da Thain è accompagnato da clausole veramente micidiali, quali il finanziamento a tasso di favore del recalcitrante acquirente e, udite, udite, una previsione di riacquisto dei titoli maleodoranti ove si fossero verificate delle condizioni che, per quanto improbabili, sono tuttavia possibili, clausole che insieme al prezzo apparentemente vile hanno gettato nel più nero sconforto tutti i Chairman e i Chief Executive Officer, per non parlare dei Chief Financial Officer e dei Chief Operating Officer, di tutte le maggiori protagoniste del mercato finanziario che hanno in fretta e furia fatto due conti per giungere alla conclusione che a quelle condizioni le rispettive entità di appartenenza erano tutte fallite!

Dont’ worry, guys, per vostra fortuna al dicastero del Tesoro c’è Hank Paulson, uno scaltro ed avveduto banchiere di investimenti che è rotto a tutte le astuzie del mestiere e che sa davvero come trasformare il peggiore dei rischi nella migliore delle opportunità, ma, purtroppo per lui ed i suoi ex (?) colleghi all over the world based non è ancora diventato un prestigiatore e deve scontrarsi con alcuni duri dati di fatto che se non li ricorda lui, certamente provvederanno a rinfrescargli la memoria John Mc Cain e baraci Obama che ben sanno che buona parte della partita per occupare per quattro anni la Casa Bianca si gioca proprio sul destino della finanza statunitense.

Purtroppo per Paulson ed i suoi alquanto terrorizzati colleghi il problema dei problemi sta nel fatto che la Federal Reserve si è letteralmente dissanguata a furia di intervenire sui mercati e, soprattutto, per l’altissimo costo derivante dal tenere aperta quella discarica a cielo aperto che sta già facendo il lavoro sporco di considerare come fossero buoni migliaia di miliardi di dollari di titoli più o meno tossici che le banche di ogni ordine e grado. Ed ora anche AIG, stanno scaricando giorno e notte presso la Fed di New York, ma, cosa di molto più grave, vi è il fatto che, con il salvataggio e nazionalizzaione di Fannie Mae e Freddie Mac, il debito pubblico americano è passato, in una notte, da 9.500 a poco meno di 15.000 miliardi di dollari, giungendo così con un balzo alla parità con il PIL statunitense e facendo perdere al Governo quel margine di manovra che tutti i decision makers europei invidiavano ai loro colleghi a stelle e strisce.

Da qui, putroppo per Hank ed i suoi colleghi, non si scappa, anche perché nessuno come l’ex numero uno di Goldman Sachs è consapevole dei termini del problema e dei volumi enormi, ovviamente solo in base al valore facciale, di cui si sta così allegramente discutendo, volumi che sarebbero ancora gestibili ove ceduti con lo sconto dell’ottanta per cento, come Thain giustamente ha fatto, ma che non lo sono in alcun modo nel caso che i banchieri di ogni ordine e grado che vogliono liberarsene pretendessero di incassare quanto è scritto su quella carta o negoziassero uno sconto, diciamo, del 15-20 per cento.

So bene che difficilmente i bravi ed onesti contribuenti americani sarebbero pronti a marciare su Washington, ma credo che lo sceriffo Cuomo ed i suoi colleghi sparsi nelle varie procure distrettuali di tutto il Paese, le donne e gli uomini del Federal Bureau of Investigations che con loro collaborano da mesi giorno e notte, i congressisti in cerca di una riconferma, i due principali candidati alla carica di Comandante in capo degli Stati Uniti d’America non consentiranno che venga tranquillamente rifilata ai loro concittadini una patacca di queste dimensioni, non fosse altro che per il semplicissimo motivo che verrebbero definitivamente scassate le pubbliche finanze e non basterebbero tre generazioni per ritornare ad una situazione di relativo equilibrio.

La cosa davvero stupefacente è che nessuno stia allestendo il più grande processo della Storia statunitense, una sorta di Norimberga della finanza, che richiederebbe un gigantesco stadio solo per ospitare gli imputati e lo stuolo di avvocati al seguito, un processo che dovrebbe vedere tra i principali imputati Ben Bernanke, in arte Bernspan, Henry Hank Paulson e l’ineffabile e molto improbabile capo massimo della Securities and Exchange Commission, Christopher Cox, in arte Effe O Ixs, un uomo che non sta facendo assolutamente nulla di fronte alle montagne russe dei listini azionari, ma in particolare del settore finanziario, con andamenti che hanno portato la volatilità a livelli mai raggiunti in nessuna crisi finanziaria e volumi che da giorni sfiorano i 15 miliardi di azioni, doppi se non tripli rispetto ai livelli normali, un processo che non veda come giudici quelli che Giulio Tremonti chiama i topi messi a guardia del formaggio!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 18 settembre 2008

E' davvero la caduta degli Dei!

Quello che sta accadendo nei mercati azionari dopo il fallimento di Lehman Brothers, il mega finanziamento da 85 miliardi di dollari erogato dalla Federal Reserve in favore del colosso assicurativo AIG, la ricerca affannosa di qualcuno che voglia acquistare la più grande cassa di risparmio statunitense; Washington Mutual non è qualcosa di imprevedibile, alla luce del forte grado di interrelazione esistente tra le varie entità protagoniste del mercato finanziario globale e dagli effetti micidiali derivanti dalla montagna di Credit Default Swaps, un mercato da 62 mila miliardi di dollari che si aggiungono a quelle svariate miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata che, è il caso di ricordarlo, nessuno vuole più.

In questi tredici mesi, ho ripetuto più volte che per avere un’idea dell’intensità raggiunta dalla tempesta perfetta era molto più utile osservare l’assoluta impermeabilità del mercato della liquidità interbancaria alle sempre più massicce iniezioni di liquidità effettuate da banche centrali sempre più sull’orlo di una crisi di nervi, impermeabilità ben testimoniata da spreads sui tassi di riferimento assolutamente anomali, che dall’andamento degli indici delle borse di tutto il mondo che, per lunghissimo tempo, sono state come il display di una slot machine del tutto truccata da avidi croupier.

Questo è stato particolarmente vero nei primi mesi successivi a quel 9 agosto che, per giudizio pressoché unanime, è considerato il momento in cui tutto ha avuto inizio, anche perché è difficile dimenticare che i tre principali indici azionari hanno avuto il loro momento di gloria nell’ottobre del 2007, spinti dalle rassicurazioni sparse a piene mani dall’ineffabile Henry Paulson, dal panic cutting che ha caratterizzato Bernspan ed i suoi complici assisi sui loro scranni al Federal Open Market Committee, nonché ai commenti di un vero esercito di analisti e giornalisti del tutto embedded alle logiche di questo capitalismo finanziario che aveva da lungo tempo adottato un sistema che già allora somigliava sempre più ad un immenso casinò a cielo aperto basato sul principio che, alla fine, deve essere sempre il banco a vincere!

Al punto a cui siamo, purtroppo, giunti, la relativa indifferenza degli indici principali azionari rispetto al meltdown finanziario sempre più virulentemente in corso non poteva certo continuare e le performance che possiamo osservare nelle ultime sedute a New York, come in Europa, in Asia come su quell’altro casinò rappresentato dalla borsa, si fa ovviamente per dire, di Mosca, stanno lì a testimoniare il riallineamento progressivo delle quotazioni azionarie a quanto sta avvenendo nel mercato finanziario globale e, alquanto inevitabilmente, anche in quella che un tempo veniva definita l’economia reale.

Già, perché mentre le due superstiti Investment Banks registrano tonfi in borsa che testimoniano efficacemente le preoccupazioni crescenti degli analisti e degli operatori per la loro capacità di resistere agli alti marosi della tempesta perfetta, non è un mistero per nessuno che a fallire potrebbe anche essere un colosso automobilistico a stelle e strisce, se non due, non solo per il crollo oramai strutturale delle vendite dei loro prodotti, ma anche perché da lungo tempo General Motors, Ford e compagnia cantante sono diventate anche delle immense entità finanziarie impegnate nel finanziamento degli acquisti dei loro modelli, mediante i loro bracci armati finanziari che, come è accaduto nel settore immobiliare, non guardavano troppo attentamente ai requisiti dei potenziali compratori, tanto i finanziamenti venivano quasi sempre venduti in giornata a qualcuno che li impacchettava e li inseriva in qualche titolo complesso elaborato dall’apprendista stregone di turno della fabbrica prodotto di una Investment Banks o di una banca più o meno globale, non necessariamente statunitense.

Ma i dubbi crescenti dei sempre più spaventati analisti ed operatori sulla capacità di Goldman Sachs e Morgan Stanley di sopravvivere derivano da quell’unicità di modello eretto a sistema che caratterizza, in tre casi almeno dobbiamo dire caratterizzava, il modus operandi di queste entità che hanno subito negli ultimi decenni una sorta di mutazione genetica, a sua volta indotta dalla deregulation spinta coeva della reaganomics, della globalizzazione e della finanziarizzazione, una mutazione favorita da un uso veramente selvaggio delle leva finanziaria che, se ha un senso per un hedge fund, non dovrebbe avere cittadinanza per un’entità creditizia che dovrebbe sempre tenere a mente quei sani principi prudenziali che venivano però visti dai top bankers e, purtroppo, anche dal predecessore di Bernspan, Alan Greenspan, come Keynes vedeva il metallo aureo: veri e propri relitti barbarici!

Simul stabunt, simul cadent, si direbbe in una lingua morta che è pur stato l’idioma di uno dei più grandi imperi che la Storia abbia registrato, ma il problema è rappresentato dal fatto che, lasciate semplicemente fallire, queste entità così misteriose ed onnipervadenti provocano danni a catena difficilmente misurabili ex ante, come hanno già avuto amaramente di constatare decine di milioni di risparmiatori/investitori sparsi nei cinque continenti, per non parlare degli stati sovrani, quali a solo titolo di esempio, la Repubblica italiana che ha scoperto che si è improvvisamente aperto un buco da un miliardi di dollari derivante direttamente dalle conseguenze derivanti dal venir meno di una controparte quale era Lehman Brothers, mentre le conseguenze per banche e compagnie di assicurazioni sono già state messe in bella evidenza sul tavolo dei loro presidenti ed amministratori delegati, anche se pare che i fogli siano divenuti in breve tempo illeggibili a causa delle spoiose lacrime versate dagli interessati.

Per chi, come me, è consapevole sin dal settembre del 2007 che questa non era assolutamente una crisi finanziaria come le altre, quanto sta tragicamente avvenendo, e purtroppo anche quello che alquanto inevitabilmente avverrà, è stato molto difficile cercare di trasmettere, in pillole, questa consapevolezza ai miei lettori (non posso più dire pochi, alla luce dei numeri quotidianamente forniti da Google Analytics e che registrano negli ultimi giorni otre 600 visitatori quotidiani da 39 paesi del mondo per oltre mille pagine visitate), anche perché era quasi impossibile dire da subito che non vi era all’orizzonte una soluzione praticabile che mettesse una pezza agli errori compiuti per decenni dai principali attori dell’immenso mercato finanziario globale, pratiche davvero scellerate che avevano illuso centinaia di milioni di investitori che fosse finalmente giunta l’ora della crescita infinita e senza crisi.

Pongo ancora una volta la domanda che è diventata oramai un mantra: chi ha le risorse per disinnescare la bomba rappresentata dai titoli della finanza strutturata, quali controparti bancarie ed assicurative sono in grado di reggere al pagamento dei Credit Default Swaps, quali banche sono ancora in grado di contemporaneamente tornare ad adeguati livelli di capitalizzazione e soddisfare, al contempo, le crescenti richieste finanziarie dei loro clienti?

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.