martedì 31 marzo 2009

La tempesta perfetta modifica in modo radicale l'assetto geopolitico mondiale!


Mentre, alla fine della scorsa settimana, mettevo in guardia i miei lettori da quella che più di un osservatore delle cose economiche definiva un po’ ironicamente la corsa dell’orso, quel rimbalzo delle borse durato, seppur tra qualche incertezza, per ben tre settimane, ero perfettamente consapevole dello scetticismo suscitato dal mio warning, anche se credo che la giornata borsistica di ieri sui tre principali fusi orari, dall’Asia alla chiusura per noi notturna di Wall Street, abbia avuto perlomeno il merito di sostanziare con eloquenti dati di fatto quanto ‘noi scettici’ andavamo sostenendo in, almeno stavolta, nutrita compagnia.

Per quanti amano, come si dice a Roma, riconsolarsi con l’aglietto, resta l’argomento inoppugnabile che, nonostante tutto, siamo ancora ben lontani dai minimi toccati tra gennaio e febbraio, anche se mi viene da dire che, a due soli giorni dalla solenne apertura del G20/G21 in quel di Londra, ben altra doveva essere l’intonazione delle principali borse mondiali, non fosse altro che per il semplice fatto che mai vi è stata una così grande attesa come per l’appuntamento che, una forse del tutto inconsapevole regia, ha caricato di tanti problemi irrisolti e caricato le povere spalle degli sventurati sherpa dei capi di Stato e di Governo di dossier così ponderosi e così assolutamente misteriosi per i non addetti ai lavori!

Lasciati gli investitori di tutto il mondo alle loro speranze e alle relative disillusioni, vorrei approfittare di questa vigilia del summit per vedere, anche alla luce dei catastrofici dati sull’import degli Stati Uniti d’America e dei correlativi crolli dell’export di Cina, Giappone e Germania, quale è lo stato dell’arte della geopolitica determinato dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta ancora viva e vegeta e pochi giorni dal suo ventunesimo mese di vita.

Come in tutti gli esercizi comparativi che si rispettino, anche in questo caso è utile tornare ai mesi di giungo e luglio dell’anno scorso, quando, a un anno esatto dal blocco della liquidità interbancaria intervenuto il 9 agosto del 2007, un bimestre che vedeva la rottura verso l’alto del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari purtroppo incluse, un situazione che, oltre ad arricchire il folto manipolo degli speculatori che operavano mentre le autorità regolatorie chiudevano uno e forse tutti e due gli occhi, donavano ai paesi esportatori di petrolio una forza e un senso di onnipotenza quali non si erano visti nemmeno dopo gli embarghi decisi da quello sceicco Yamani che, in un’ampia intervista riportata dal supplemento economico dell’edizione del lunedì del quotidiano La Repubblica, ha aperto uno squarcio sulle vere ragioni per le quali l’Arabia Saudita e gli altri paesi allora facenti parte dell’OPEC decisero allora di tagliare bruscamente e alquanto brutalmente le forniture di greggio ai paesi maggiormente industrializzati dell’ Occidente, Giappone ovviamente incluso!

Ma dagli anni Settanta a oggi ne è passata veramente tanta di acqua sotto i ponti, determinando uno scenario che ha visto molti altri paesi acquisire un ruolo di primo piano nel fruttuoso settore di attività avente a oggetto l’estrazione dell’oro nero, come, a solo titolo di esempio, la Gran Bretagna, la Russia e connesse repubbliche indipendenti, il Venezuela, il Messico, il Canada e chi più ne ha ne metta, mentre la ventennale crescita impetuosa delle economie e del commercio internazionale mettevano in ottima posizione molti altri paesi detentori di riserve di altre materie prime caratterizzate da un più o meno elevato grado di scarsità, ma indispensabili per la produzione di oggetti molto richiesti nell’era della rivoluzione informatica.

Un test del senso di onnipotenza che aleggiava in quei mesi al Cremino lo si è avuto con l’avventura georgiana, avviata pressoché in contemporanea con l’inaugurazione dei giochi olimpici ospitati da una Pechino avveniristica capitale di una Repubblica Popolare Cinese che sembrava destinata a replicare all’infinito tassi di crescita a due cifre del proprio prodotto interno lordo e correlate e crescenti ambizioni imperialistiche, due eventi apparentemente così lontani tra di loro, ma uniti dal filo rosso della crescente insofferenza dei gruppi dirigenti a stelle e strisce nei confronti della più che prevedibile marginalizzazione prospettica di quella che era, è e vuole a tutti i costi continuare a essere la più importante nazione del pianeta.

Come era largamente prevedibile, un’efficace mano alle esigenze di Washington è venuta da un’ampia intervista rilasciata, evento di per sé assolutamente straordinario, dal Re dell’Arabia Saudita, non del tutto a caso riportata con grande evidenza dai principali quotidiani di tutto il mondo e, nella quale, il capo dell’amplissima famiglia reale che conta molte migliaia di membri rendeva nota urbi et orbi la sua profonda insoddisfazione per il livello stellare oramai raggiunto dal prezzo della principale, se none esclusiva, risorsa del suo paese, una contingenza che, ben lungi dal renderlo felice, preoccupava lui come avrebbe dovuto preoccupare tutti gli altri capi di Stato e di Governo dei paesi produttori di greggio.

Per quanto superfluo, mi trovo costretto a ricordare ai più distratti tra i miei lettori che, a partire da quel preciso momento, il prezzo del petrolio abbandonò in fretta e furia lo stratosferico prezzo di 147 dollari al barile per sprofondare in poco tempo sino all’infimo livello di 34 dollari, per poi oscillare di poco intorno a quel livello di 50 dollari che sembra gradito al Re saudita, allo sceicco Yamani, anche se lo è molto, ma molto di meno al Cremino e dintorni, o a Caracas e nelle capitali di quei paesi che speravano fosse finalmente giunta l’ora del proprio riscatto economico e finanziario dopo decenni di umiliazioni nei consessi internazionali.

Travolti dal crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, nonché squassati dalle sempre più alte ondate della tempesta perfetta, a questi stessi paesi non resta ora che aspettare, con maggiore o minore ansia, che il G20/G21 li tiri fuori dalle disgrazie attuali e prospettiche!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

Il Big Business inizia ad avere paura di Obama!


Molte cose stanno accadendo sotto il cielo all’approssimarsi dell’appuntamento del G20/G21 a Londra, previsto per giovedì prossimo e preceduto nel week end da manifestazioni di massa di no global e sindacalisti che innalzavano striscioni sui quali era scritto, in buona sostanza, che le donne e gli uomini del pianeta non sono molto disponibili a farsi carico delle alquanto drammatiche conseguenze del meltdown della finanza più o meno strutturata sull’economia reale, quella che si compone, in ultima istanza, di consumi, investimenti e tasse, ma soprattutto fortemente preoccupati per le sempre più fosche previsioni degli organismi sovra nazionali, OCSE e FMI, su redditi e occupazione nei paesi maggiormente sviluppati, per non parlare delle vere e proprie catastrofi previste nei paesi un tempo partecipanti al blocco sovietico e sui paesi in via di svilupp dell’Africa e dell’Asia.

Alla vigilia di una serie impressionante di vertici previsti al di fuori degli Stati Uniti d’America, il nuovo inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, ha deciso di preparare il terreno al suo programma per il rilancio del tecnicamente fallito settore automobilistico a stelle e strisce, chiedendo e ottenendo dal terrorizzato Board of Directors della General Motors la testa del un tempo onnipotente Chief Executive Officer, Rick Wagoner, un personaggio di cui si ricorderà in futuro solo l’altezza (circa due metri), rigettando al contempo il molto risibile piano di rilancio che, assieme alla parimenti sussidiata e altrettanto disastrata Chrysler, aveva di recente presentato al solo fine di bussare nuovamente cassa al Congresso.

L’apertura di un forum sul web aperto direttamente a tutti i cittadini statunitensi e le recenti mosse di Obama sui bonus agli assicuratori e ai banchieri destinatari di aiuti diretti e indiretti alle entità da loro dirette per migliaia di miliardi di dollari, i diktat emessi contro le due maggiori case automobilistiche soccorse dal Tesoro, le posizioni sull’utilizzo della lotta al riscaldamento e all’inquinamento come opportunità per la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro, l’elevazione delle tasse per i redditi superiori ai 250 mila dollari annui e la contestuale riduzione delle imposte a chi guadagna meno di tale cifra, le posizioni alquanto radicali in materia di assistenza sanitaria, sono tutti elementi che dimostrano quanto il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America abbia chiara la necessità di distinguersi in modo molto radicale dalle posizioni della precedente amministrazione repubblicana, così come è chiara la sua consapevolezza che sulle mosse che farà in questi mesi si gioca tutte le possibilità di essere rieletto tra quattro anni!

Dopo un’apparente iniziale neutralità, il mondo delle varie Big che costellano il panorama economico e finanziario degli Stati Uniti d’America e degli altri paesi maggiormente industrializzati e altrettanto finanziarizzati, da Big Pharma a Big Oil, da Big Finance a Big Tabacco, e chi più ne ha ne metta, iniziano a dare, attraverso i vari giornalisti e opinionisti embedded alle loro efficienti truppe di assalto hobbistiche, segni crescenti di insofferenza nei confronti di un programma che sembra trasse sempre di più la sua forza dal sostegno dei davvero infuriati cittadini americani che hanno visto in questi quasi ventuno mesi di tempesta perfetta infrangersi tutti i pilastri che sostenevano l’American Dream, una furia accresciuta dalla sempre più palese irresponsabilità dei Chairman e Chief Executive Officer retribuiti a suon di milioni di dollari l’anno e liquidati, nei sempre più frequenti casi in cui vengono messi alla porta, con somme che vanno dalle decine alle centinaia di milioni di dollari, benefit e polizze assicurative, ovviamente, escluse.

Finita la molto effimera luna di miele con la parte più ricca della popolazione, a sua volta falcidiata nei suoi più o meno ingenti patrimoni dalle sempre più alte ondate della tempesta perfetta o dalle malefatte di Madoff, Stanford e compagnia cantante, si è altrettanto prontamente invertita l’effimera corsa dell’orso che tanto aveva illuso quanti continuano a non rendersi conto delle vere cause strutturali della più grave crisi finanziaria mai vissuta dal genere umano da quando esistono i mercati azionari regolamentati, anche perché ci si è resi conto che le dichiarazioni dei numeri uno di Citigroup e Bank of America sul buon andamento dei primi due mesi dell’anno in corso, sono state prontamente contraddette dalla marea di perdite sui derivati che stanno caratterizzando il mese di marzo, mandando letteralmente alle ortiche il sogno di poter avere finalmente un bilancio trimestrale in utile dopo tanti rendiconti trimestrali in profondo rosso.

Su questo non proprio esaltante scenario si inserisce il vivacissimo dibattito in corso tra i maggiori economisti americani sulla bontà o meno del piano del nuovo ministro del Tesoro volto a ripulire i bilanci delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, anche se anche il Dr. Doom, alias Nouriel Roubini, sembra rendersi conto che, al di là dell’indubbia incertezza sul non secondario aspetto del prezzo di acquisto dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata, qualcosa è comunque necessario fare di fronte a quello che si presenta sempre più come un Moloch di dimensioni ancora del tutto imprecisate.

Pur non essendo in grado di esprimermi sul sempre più sofisticato livello che la diatriba sta raggiungendo, mi permetto di dire che ben difficilmente tale piano potrà avere successo se non verrà chiarito prima il modello più complessivo di intervento pubblico nelle banche, ma, e forse soprattutto, se non verrà chiarito in modo ben più dettagliato il non secondario aspetto delle dimensioni del problema, in quanto temo fortemente che la montagna da decine di migliaia di dollari dei titoli più o meno tossici in corpo alle banche di ogni ordine e grado, alle compagnie di assicurazione, ai fondi di investimento e ai fondi pensione, agli hedge funds e agli altri soggetti operanti più o meno a leva, una chiarificazione quanto mai necessaria, anche per evitare di gettare acqua in un catino dal fondo bucato!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

domenica 29 marzo 2009

Is It Still Possible To Make World Work Again?


Sono trascorsi oltre venticinque anni da quando, giovane economista impegnato nell’ufficio studi della Banca Nazionale del Lavoro, curavo una pubblicazione trimestrale denominata “Segnalazioni dalla letteratura economica” sotto la supervisione di Alberto Mucci, un giornalista di successo, già direttore de Il Sole 24 Ore e vice direttore del Corriere della Sera che decise, non so bene per quale motivo, di assumere la responsabilità proprio dello stesso ufficio studi della BNL, e sfruttando spero al meglio qualche gentile consiglio che, in occasione del numero monografico su John Maynard Keynes, volle darmi il professor Federico Caffè, un’esperienza durata, purtroppo, solo tre anni, ma che mi dato modo di navigare in piena libertà nel web di allora, che era costituito dai libri e articoli redatti da economisti, esperti di previsioni, pensatori della più varia specie e natura, qualcuno italiano, ma la maggior parte stranieri.

Non del tutto a caso, le prime collaborazioni con i quotidiani furono in larga misura delle brevi recensioni di testi aventi la stessa natura, anche se non avrei mancato di mettermi nei guai “allargandomi”, come accade a metà degli anni Ottanta su Reporter, su questioni più contemporanee e assumendo, in solido con un caporedattore economico, Pino Leuzzi, che ricordo ancor oggi con grande stima e affetto, posizioni che non vennero affatto gradite da Adriano Sofri, allora influente maitre a penser di quel quotidiano, il che costrinse il direttore pro tempore, Enrico Deaglio, a privarsi anzitempo della mia collaborazione e a fornirmi una prima idea più terrena sulla libertà di espressione di cui godeva un collaboratore esterno nell’ambito di una testata giornalistica, poco importa se collocata a sinistra, anche estrema, al centro o a destra, anche se devo ammettere di non essere stato in grado (o di non avere proprio voluto) di apprendere in tutto il suo valore quell’involontaria esperienza di vita.

Come sosteneva, in quegli stessi anni, la mia indimenticabile maestra di Mantra Yoga, Manuela Borri Renoso, allieva di Mere e di Aurobindo, nonché di Gerard Blitz, questo era in realtà il mio destino, una sorte alla quale non ho mai cercato di sottrarmi in tutte le variegate e interessantissime esperienze di vita, di ricerca spirituale e di lavoro che hanno caratterizzato i successivi trenta anni, inclusa la ben poco responsabile decisione di dare vita all’avventura editoriale del Diario della crisi finanziario, giunta, mio malgrado, a oltre cinquecento puntate e che, il 4 aprile, compirà il suo diciannovesimo mese di vita, mentre questo blog ne ha da poco compiuti sedici di mesi, un’avventura dalla quale ho avuto grandi soddisfazioni, ma in relazione alla quale, as usual, ho pagato in termini professionali e personali i miei prezzi!

Scusandomi con i miei lettori per la lunga digressione personale, vorrei giusitificarla, almeno in parte, dicendo che la stessa nasce proprio da una recensione fatta nei primi anni Ottanta del libro di un venture capitalist statunitense dell’epoca di cui non ricordo neanche più il nome, ma che scrisse un bel pamphlet dal suggestivo titolo “Making America Work Again”, un testo redatto dopo la recessione che culminò con il disastroso 1982, un quinquennio prima di quell’ottobre nero per le borse mondiali del 1987 che rappresentò poi, a mio modestissimo avviso, un chiaro segnale anticipatore della tempesta perfetta in corso da poco meno di ventuno mesi e che vide muovere i suoi primi passi come responsabile del sistema della riserva federale quell’Alan Greenspan che è indubitabilmente il cattivo maestro del suo successore Ben Bernanke, in arte Bernspan.

Approfittando di uno dei pochissimi week end di relativo riposo per i leaders politici e per i banchieri centrali di tutto il mondo, anche se è noto che molte delegazioni che saranno presenti da giovedì della prossima settimana a Londra per il summit del G20/G21 stanno furiosamente lavorando ai propri ponderosi dossier, credo sia utile fare un po’ il punto della situazione, anche perché, come scrivevo nella puntata di ieri, non tutto deve essere andato liscio nell’incontro a porte rigorosamente chiuse svoltosi venerdì scorso alla Casa Bianca tra Obama e Larry Summers da un lato e i massimi esponenti delle prime sedici banche operanti sul suolo a stelle e strisce dall’altro, un incontro che non deve proprio avere sortito gli effetti di riavvicinare le posizioni della nuova amministrazione statunitense e quelle di quelli che, a torto o a ragione, l’opinione pubblica americana, in linea, peraltro, con quella mondiale, considera i maggiori responsabili della più grave crisi finanziaria e dell’economia reale mai vista a memoria di uomo o di donna!

Una distanza destinata, purtroppo per tutti noi, ad allargarsi ulteriormente, sia per le molto ferali notizie delle quali gli esausti banchieri erano latori sulla situazione sempre più disastrosa dell’amplissimo mercato dei derivati, sia per la forte resistenza che sta incontrando nei due rami del Congresso a stelle e strisce l’ancor troppo poco dettagliato piano Geithner sullo smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata, mentre analoga sorte sta incontrando il Budget 2009 fortemente voluto da Obama e dagli esponenti del suo oramai un po’ appannato Dream Team, appannamento in gran parte dovuto alla transizione di molti dei suoi esponenti dal comodo ruolo di sognatori a quello ben più improbo di realizzatori delle un po’ fumose idee delineate in quel periodo di transizione tra le due amministrazioni che non è mai apparso lungo come in questa occasione.

Non differenziandosi molto dai loro colleghi al vertice delle tecnicamente fallite maggiori case automobilistiche, i sedici banchieri capitanati dall’ineffabile boss della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs (quel Larry Blankfein che forse ancora non sa se dovrà restituire la poltrona a Hank Paulson, dopo che questi ha davvero compiuto la missione per la quale è stato spedito a metà del 2006 a reggere il molto scomodo dicastero del Tesoro) devono avere usato tutta la loro capacità persuasiva per convincere il nuovo inquilino della Casa Bianca che non sarebbe del tutto una buona idea quella di mettersi alla testa del moto popolare di profonda indignazione per le loro malefatte, un’ipotesi che Obama non ha ancora del tutto accantonato!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

sabato 28 marzo 2009

I banchieri a stelle e strisce regalano a Obama un giubbetto di salvataggio!


Avrei voluto essere una mosca o qualsivoglia altro insetto per poter essere presente e ascoltare cosa realmente ha detto ieri il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, quando si è trovato di fronte i principali responsabili del meldown finanziario che stiamo vivendo da poco meno di ventuno mesi al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, in quanto aveva invitato alla Casa Bianca i massimi esponenti delle principali banche statunitensi, di recente accomunate nella categoria delle banche più o meno universali e più o meno globali, almeno da quando, nell’autunno dell’anno scorso, le due uniche superstiti delle Big Five, Goldman Sachs e Morgan Stanley, avevano rinunciato al loro status di Investment Banks che le sottraeva sì al controllo non troppo occhiuto del sistema della riserva federale, ma che avrebbe impedito loro di accedere agli aiuti previsti dall’ex (?) boss di Goldman e pro tempore ministro del Tesoro, Hank Paulson.

Da quando seguo assiduamente le vicende americane, ho sempre invidiato la mole di statistiche e il dettaglio dei reportage di quella che rimane la più potente nazione del mondo, ma devo dire che ieri sono rimasto molto deluso dal basso livello di copertura che i media hanno voluto dedicare all’incontro tra il nuovo inquilino della Casa Bianca e quelli che, seppur molto acciaccati, restano pur sempre dei Masters of Universe, assisi sopra attivi (sic) per complessive decine di migliaia di miliardi di dollari, con alle dipendenze centinaia di migliaia di dipendenti sopravvissuti ai micidiali tagli degli organici anche se non sempre dei bonus milionari, tagli e bonus contemporaneamente presenti in particolare in quel settore di attività che viene definito Corporate & Investment Banking.

Ma i media americano di ogni ordine e grado non sono stati soltanto aprchi di notizie su quanto si sono realmente detti Obama e Summers da un lato e i banchieri guidati da larry Blankfein della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, ma anche su una notizia bomba diffusa nelle ore precedenti e che riguardava nientepopodimeno che il licenziamento in tronco del numero uno dell’ente federale che dovrebbe sorvegliare il settore delle casse di risparmio, un comparto decimato nella precedente e specifica crisi che costò ai contribuenti americani ‘solo’ 400 miliardi di dollari e che coinvolse anche il precedente inquilino della Casa Bianca, George W. Bush, allora giovane esponente di una cassa di risparmio del Texas che, come le altre, si era improvvisamente trovata nei guai sino al collo e che, come molte altre, fu salvata grazie al generoso intervento dello Zio Sam!

Pur nella scarsità di notizie, si è comunque scoperto che l’alto funzionario aveva chiuso entrambi gli occhi sulle difficoltà delle banche della specie, fornendo aiuti per centinaia di miliardi di dollari complessivi alle stesse e retrodatandoli per fare sì che le stesse rispettassero quegli stringenti requisiti patrimoniali stabiliti, appunto, dopo il costoso salvataggio di qualche decennio fa, una pratica emersa con chiarezza spulciando nei conti della famosa IndyMac Bank fallita nel luglio del 2008 e le cui spoglie sono state di recente composte pietosamente, ma molto interessatamente, da un fondo di private equity di proprietà di George Soros e del fondatore dell’omonima ditta di computer, Michel Dell, mentre non risulta che il numero uno pro tempore dell’agenzia federale sia stato associato, almeno per ora, alle patrie galere.

Sarò sospettoso, ma quando ho visto che il capo dei portavoce della Casa Bianca affermava che, ovviamente, il Presidente USA avrebbe adottato nel colloquio a porte rigorosamente chiuse gli stessi toni e le stesse argomentazioni utilizzati nelle numerose e recenti esternazioni pubbliche sull’argomento, non gli ho creduto, anche perché sono certo che, a taccuini e telecamere tenute a debita distanza e in una stanza rigorosamente schermata alle orecchie indiscrete, Obama abbia detto forte e chiaro ai suoi interlocutori parole non troppo dissimili da quelle pronunciate in incontri similari da Nicolas Sarkozy, Gordon Brown, Angela Merkel, e, per quel che conta, il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, parole di fuoco nei confronti della totale irresponsabilità e perdurante avidità dimostrate da questi uomini (non credo fosse presente alcuna donna nel club molto esclusivo dell’alta finanza statunitense) che hanno portato il loro Paese e il mondo intero sull’orlo del baratro se non addirittura direttamente nel precipizio!

Qualcosa di quello che gli hanno detto i banchieri lo si è, invece, capito da alcune dichiarazioni, in particolare quelle del numero uno della banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di Nelson Rockfeller, Jamie Dimon, che ha dovuto ammettere che tutte le favole sugli ottimi primi due mesi del 2009 si stavano infingendo sul mare di perdite portate da un mese di marzo non ancora concluso ma che ha già fatto segnare perdite di poco meno di 10 miliardi di dollari per le sole principali banche presenti all’incontro, un annuncio che conferma quanto è stato scritto dopo le inusuali dichiarazioni dei numeri uno di Citigroup prima e di Bank of America che avevano illuso il mondo intero e un bel po’ di sprovveduti investitori che il peggio fosse oramai alle spalle, due personaggi che avevano inopinatamente deciso di calcare le orme di quei vertici di Bear Stearns, Washington Mutual, Merrill Lynch, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Wachovia Bank, Countrywide che avevano giurato che tutto andava benissimo e lo dicevano proprio mentre le burrascose ondate della tempesta perfetta avevano orami inondato le stive dei loro un tempo potentissimi vascelli poi frettolosamente affidati alle cure di altre entità o, come nel caso ancora molto oscuro di Lehman, lasciati miseramente fallire.

Credo proprio che, al di là degli scarsi convenevoli di rito e le obbligatorie valutazioni di ottimo e abbondante riferite ai piani della nuova amministrazione, i banchieri presenti abbiano avvertito Obama che forse è meglio per lui e per tutti noi indossare in fretta il giubbetto di salvataggio per l’arrivo di una nuova e più alta ondata della tempesta perfetta!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

venerdì 27 marzo 2009

Ma sono davvero infondati gli allarmi crescenti sulla sicurezza nazionale e su quella globale?


Non sono assolutamente in grado di prevedere quale impatto, ma soprattutto quale esito, potrà avere l’accorata lettera scritta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ai leaders politici del G20/G21 che si apprestano a riunirsi in quel di Londra a partire dal 2 aprile prossimo venturo, un summit che si svolge a mesi di distanza dal precedente che si riunì a Roma solo per constatare quello che già sapevano tutti e, cioè, che sarebbe stato necessario dare un congruo tempo al presidente eletto degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, per insediarsi e registrare in qualche modo la macchina impazzita del suo paese, una fatica improba che solo da poco ha visto il completamento della squadra di Governo, anche a causa dei dieci nomi almeno di nominati e prontamente sostituiti a causa degli incidenti di percorso più disparati.

Nella sua missiva, il mite e gentile capo della diplomazia mondiale mette pesantemente i piedi nel piatto affermando quello che tutti sanno, ma che fingono volutamente di ignorare, e che, cioè, dalla più grave crisi finanziaria ed economica globale non si esce che tutti assieme, paesi maggiormente industrializzati e paesi in via di sviluppo, anche perché, se la coperta troppo corta non copre i piedi di tutti, è altissimo il rischio degli effetti boomerang che vanificherebbero del tutto gli effetti dei mastodontici piani di salvataggio messi in campo al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, così come i mega piani di Cina e Giappone, per il semplicissimo motivo che permangono altissimi i rischi di default per i paesi che un tempo facevano parte a vario titolo del sistema sovietico, per buona parte dell’Africa, così come non si può stare affatto tranquilli in Centro e Sud America, né in svariati paesi asiatici!

Certo, la cifra chiesta da Ban per tutti i paesi attualmente ‘scoperti’ è altina, cifrandosi in un trilione di dollari tondo, tondo, ma non è nemmeno confrontabile con gli oltre dieci trilioni stanziati dagli Stati Uniti d’America o i due-tremila miliardi di euro complessivamente impegnati da alcuni paesi membri dell’Unione Europea, mentre, aggiungendo gli immani sforzi compiuti da Giappone, Repubblica Popolare Cinese e Russia, il totale mondiale degli impegni ha superato largamente i 15 trilioni di dollari, mentre le somme spese superano più o meno la metà della somma stanziata, uno sforzo finanziario in larga parte pubblico assolutamente senza precedenti e che sembra non avere attenuato la virulenza della tempesta perfetta che tra meno di due settimane compirà il suo ventunesimo mese di vita.

Purtroppo, la cifra prevista dal numero uno del palazzo di vetro che si erge sulla parte meridionale dell’isola di Manahattan molto difficilmente verrà stanziata dai molto riottosi capi dei venti paesi ospitati da quello che si è autodefinito, non senza qualche ragione, il salvatore del mondo e, cioè, il resuscitato leader laburista, Gordon Brown, da me qualche mese orsono giudicato il sicuro perdente delle prossime elezioni politiche nel paese di Sua Maestà britannica, Elisabetta II, non fosse altro che per il semplice motivo che non sono venute meno le resistenze della cancelliera di ferro, Angela Merkel, di fronte a qualsivoglia progetto globale che vedrebbe la Germania come grande pagatore a fronte di poca o nulla influenza politica sia a livello europeo che, ancor più, a livello globale, per non parlare poi della strenua resistenza del popolo tedesco di fronte a qualsivoglia ipotesi che veda la Banca Centrale Europea seguire l’esempio di Bernspan che sta letteralmente fondendo le rotative della zecca statunitense, inondando gli USA e il resto del mondo di vagonate di dollari, un’ipotesi che riesce a resuscitare gli incubi mai sopiti della iperinflazione vissuta ai tempi della Repubblica di Weimar.

Quello su cui si troveranno, invece, tutti d’accordo i ventuno commensali è lo spinoso ma attualissimo problema delle migliaia di miliardi di euro, dollari, yen, franchi svizzeri e chi più ne ha ne metta, presenti nei comodi e riservatissimi forzieri di quei paradisi fiscali che per l’atterrita opinione pubblica mondiale sono sempre più parenti dei paesi canaglia, anche perché ricettacolo anche di capitali provenienti dalla criminalità più o meno organizzata, dagli oligarchi e dai dittatori di mezzo mondo, nonché dai poco puliti traffici di armi, droga e quant’altro spesso alimenta anche il terrorismo di varia e diversa matrice!

Non è, peraltro, un caso se questo tema è tornato così prepotentemente di attualità, anche alla luce delle crescenti preoccupazioni che i servizi di intelligence di tutto il mondo stanno alimentando nei loro più o meno generosi datori di lavoro governativi, un’attenzione che è ben visibile nel fiorire di convegni, più o meno a porte chiuse, aventi come tema principale il nesso esistente tra la crisi finanziaria e quella dell’economia reale e la sicurezza nazionale, per non parlare poi dei più che evidenti effetti della stessa sugli equilibri geopolitica in continuo e costante movimento, ma con punti di caduta che nessuno può dire in buona fede di conoscere.

Se qualcuno dovesse pensare che l’assegno per i più poveri chiesto da Ban Ki-moon è esagerato, aspetti di sentire la dimensione dello sforzo finanziario richiesto agli altri venti paesi partecipanti dal nuovo inquilino della Casa Bianca, anche perché, solo per mettersi in pari, i principali paesi dell’Unione Europea dovrebbero rassegnarsi a staccare un assegno di qualche migliaio di miliardi di euro, due terzi dei quali a carico dei quattro principali paesi, Italia inclusa, metà dei quali a carico del governo di Bonn, della cui posizione ho già detto di sopra.

L’allarme lanciato, sempre in vista del prossimo summit, dal direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, l’ex ministro socialista francese delle Finanze, Dominique Strauss Kahn, che veste nuovamente i panni di Cassandra, facilitato in questo dal fiorire di gravissimi episodi di cronaca che testimoniano dell’esasperazione dei contribuenti residenti al di qua e al di là dell’Atlantico, avvertendo che la crisi è giunta oramai a un livello di guardia tale che non possono essere assolutamente escluse ripercussioni anche gravissime sull’ordine pubblico e sulla stessa pace!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

giovedì 26 marzo 2009

Ma qual'è il male oscuro di Unicredit Group? (seconda parte)


Quando ero un contributore assiduo delle pagine economiche de Il Manifesto, ricevevo qualche suggerimento da uno dei fondatori di quel quotidiano, Valentino Parlato, persona di grande umanità e profondo conoscitore della non sempre limpida storia del capitalismo italiano del dopoguerra e che ricordo con immutata stima e grande affetto, anche se una di queste sue perle di saggezza non mi convinse allora e, tanto meno, mi convincerebbe oggi, perché mi invitava a evitare di occuparmi di una singola banca alla volta, ma di inserire eventuali considerazioni specifiche in un articolo che parlasse del sistema bancario in generale o nell’ambito di un confronto tra un certo numero di banche.

Nei venti anni trascorsi dall’ultima pubblicazione del mio ultimo articolo sul quotidiano che continua orgogliosamente a definirsi comunista anche nella sua testata, ho avuto modo, per una sorta di legge del contrappasso, di occuparmi molto delle vicende delle singole banche, in particolare da quando, a partire dal 1998, le seguo dall’osservatorio dell’ufficio studi della UILCA, un lavoro che è stato, peraltro, molto semplificato dal progressivo processo di concentrazione che ha visto confluire nei principali cinque gruppi creditizi italiani centinaia di aziende di credito di ogni ordine e specie, un processo che è stato particolarmente significativo nel caso di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group, anche perché i due maggiori gruppi creditizi italiani hanno in tempi recenti aggregato su due soli poli ben quattro gruppi aggreganti, Intesa e San Paolo-IMI, da un lato, e Unicredito Italiano e Capitalia dall’altro.

L’approvazione pressoché contemporanea dei bilancio per l’esercizio 2008 da parte dei competenti organi collegiali di Unicredit Group e Intesa-San Paolo mi consentirebbe di seguire il certamente saggio e prudente consiglio di Valentino, ma, poiché chi nasce tondo non muore quadrato, ne farò oggetto di due distinte puntate del Diario della crisi finanziaria, sia perché si tratta di due realtà molto diverse tra di loro, sia perché sono in debito con i miei lettori di un seguito alla puntata intitolata: “Ma quale è il male oscuro di Unicredit Group?”, apparso il 15 febbraio di quest'anno, che, almeno stando alle statiche gentilmente fornitemi dal mio provider, è stata una delle più lette in assoluto su questo blog e che è stata ripresa da tanti siti che liberamente e molto amabilmente riprendono le puntate che giudicano più interessanti.

Premetto che sono, come tutti, molto contento del fatto che sia Unicredit Group che l’altro grande gruppo creditizio italiano siano riusciti, nel davvero orribile anno di disgrazia 2008, a chiudere i conti con un attivo, rispettivamente, di 4 e 2,5 miliardi di euro, unendosi così alla ristretta pattuglia di grandi banche europee che sono riuscite a chiudere con il segno più quello che verrà indubbiamente ricordato come uno degli anni più tremendi per il credito e la finanza dalla fine del secondo conflitto mondiale, un anno interamente dominato dagli altissimi marosi della tempesta perfetta e che ha visto un ultimo trimestre squassato dalle conseguenze dell’accesso di Lehman Brothers alle procedure previste dal Chapter 11 della legge fallimentare statunitense!

Dato a Cesare quel che è di Cesare, non l’anziano banchiere di Marino, ma i due ex enfante prodige del credito che rispondono ai nomi di Alessandro Profumo e Corrado Passera, confesso di non avere del tutto capito l’entusiasmo dei media e quello degli investitori per dei numeri che, almeno a mio modesto avviso, gettano più ombre che luci sul futuro di entrambi i gruppi, ma in particolare su quello con sede a Piazza Cordusio, con particolare riferimento a quanto viene evidenziato con riferimento ai due ultimi trimestri dell’anno passato.

D’altra parte, come apprendo dal sito di Unicredit Group, una valutazione non dissimile ha espresso l’agenzia di rating Standard & Poor’s che ha deciso di declassare di una posizione tutti i rating attribuiti alle diverse entità del gruppo, portando ad A quello di Unicredit SpA e di altre entità del gruppo che in precedenza avevano A+ e ad A- le tre entità, Unicredit Mediocredito Centrale, Unicredit Leasing e Bank Pekao che in precedenza erano classificate A.

Al di là dell’indubbia eccezionalità del 2008, non può non colpire l’andamento del margine da gestione denaro che registra un vero e proprio exploit, con una variazione a due cifre percentuali (+13,2 per cento), segno indubitabile che ancora una volta il costo di trasformazione della attività bancaria a carattere più tradizionale continua a risentire di quel carattere da oligopolio collusivo che L’autorità Garante per il Mercato e la Concorrenza non ha mancato di rilevare in un suo apposito studio, ma che le imprese affidate vivono ben più dolorosamente sulla propria pelle, in particolare in momenti difficili come quelli attuali, effetti accresciuti da un utilizzo non del tutto neutrale dei sistemi di rating interno dettati dai vari accordi di Basilea, così come è evidente la differenziale possibilità di trasferire gli accresciuti costi della raccolta da clientela ordinaria e quella interbancaria sulle imprese prenditrici, anche se entrambe queste due particolarità appartengono all’intero sistema creditizio italiano, incluse le banche estere operanti in Italia.

Ma quello che più mi ha colpito è la totale disattenzione dei media e dei cosiddetti analisti finanziari al crollo del carico fiscale, calato di oltre l’80 per cento tra i due esercizi, sia per l’applicazione della nuova normativa sull’avviamento che ha consentito di risparmiare oltre un miliardo di euro, sia per altre più favorevoli previsioni che sfatano in larga misura il mito dell’impatto della cosiddetta Robin Hood Tax, così come alla mancanza, a differenza di quanto è avvenuto nel terzo trimestre, della quantificazione dell’impatto positivo derivante dal mancato obbligo di valutare mark to market le attività finanziarie detenute, un impatto che sfiorava il miliardo di euro nel solo periodo luglio-settembre dell’anno scorso; così come scarso peso è stato dato all’esposizione nei cosiddetti paesi a rischio di Unicredit Group che rappresenta una quota significativa di quei 150 miliardi di euro di recente attribuiti da Draghi al sistema nel suo complesso.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

mercoledì 25 marzo 2009

Perché fallirà anche il piano di Geithner!


Confesso di avere fermato a metà la lettura del lancio della Associated Press che riportava le parti essenziali dell’audizione congiunta che Timothy Geithner, il nuovo e giovane ministro del Tesoro di Obama, e il suo ex capo nel sistema della riserva federale, Ben Bernanke, in arte Bernspan, hanno tenuto ieri davanti a una agguerritissima commissione bancaria del Senato, non perché non fossi interessato agli argomenti da loro trattati, ma proprio perché queste dichiarazioni preconfezionate a uso e consumo dei media più embedded alle logiche del capitale finanziario mi hanno letteralmente nauseato dopo più di venti mesi di tempesta perfetta, anche se è giusto ricordare l’appello al Congresso di Tim per avere il potere di chiudere entità come AIG!

Come ho già fatto ieri, anche oggi continuerò a non pronunciarmi sul piano presentato lunedì dal ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, in una dichiarazione a porte rigorosamente chiuse alle telecamere, forse perché qualche ora più tardi Tim avrebbe fatto un’apparizione in diretta dagli studi televisivi di proprietà di quel Wall Street Journal che si conferma essere la vera gazzetta di bordo della malmessa flotta finanziaria squassata dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta.

Non credo proprio sia il caso di ripetere qui le ragioni che mi portano a non commentare un piano assolutamente non dettagliato su quello che ritengo l’aspetto principale e, cioè, il prezzo che verrà pagato agli attuali detentori di quelle decine di migliaia di miliardi di dollari di titoli più o meno tossici della finanza strutturata ancora presenti sopra o sotto la linea dei bilanci delle banche di ogni ordine e grado, delle compagnie di assicurazione, dei fondi di investimento, dei fondi pensione, degli hedge funds e delle altre entità comprimarie del mercato finanziario statunitense, che era, è e, molto probabilmente sarà anche in futuro, la vera costola essenziale del più vasto e molto procelloso mercato finanziario globale.

Come dicevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, sono perfettamente consapevole delle difficoltà del compito dei Governi e delle banche centrali nel gestire un problema delle dimensioni sopra ricordato in modo efficiente, efficace ed equanime, né pretendo come fanno il premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman, o altri economisti più o meno insigniti di questo come di altri prestigiosi awards, di avere la ricetta magica per uscire pressoché indenni dal meltdown finanziario provocato da ben individuati responsabili che, a onta degli sforzi dei solerti giudici americani e di uno stuolo di donne e uomini del Federal Bureau of Investigations, nonché di legioni di dipendenti di altre entità federali, restano bellamente a piede libero e molti di loro ancora ben assisi su quelle stesse remuneratissime poltrone dalle quali sono ancora in grado di fare danni e di licenziare in modo massivo decine di migliaia di persone che hanno avuto l’unico torto di obbedire ai loro ordini, più o meno formalizzati e più o meno scritti.

Non mi voglio, tuttavia, sottrarre all’obbligo di commentare l’idea in sé sostenuta da Geithner, un’idea che, in realtà, non è che l’evoluzione del pensiero e delle azioni concrete del suo predecessore e amico, Hank Paulson, un’idea che trova ferventi seguaci tra i leaders politici e tra quelli che il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, definisce alquanto sprezzantemente “i topi messi a guardia del formaggio”, un’idea certamente suggestiva e non priva di fascino, almeno a stare ai giudizi di persone che reputo sicuramente competenti e che hanno avuto la bontà di spiegarmela con passaggi formali che cerchereste invano di trovare nella montagna di articoli e di commenti che riempiono da mesi le pagine dei giornali specializzati e le pagine e economiche dei maggiori e più autorevoli quotidiani dell’intero pianeta.

L’idea prevalente tra i leaders politici ed economici del mondo è quella che, individuato in modo sufficientemente chiaro un problema, non è mai impossibile trovare una soluzione, per la semplice ragione che la seconda è spesso implicita nel primo, o, detto in parole più semplici, se il problema è rappresentato dal ritrarsi, come se fossero un solo individuo, dei risparmiatori/investitori dal mercato rappresentato dal punto terminale del processo di finanziarizzazione e, cioè, i titoli delle finanza strutturata collateralizzati a operazioni di impiego della più diversa specie, la soluzione è allora data dal trovare un modo per riattivare con mezzi di emergenza quello stesso mercato, creando allo scopo dei veicoli finanziati da capitali pubblici e, possibilmente, privati che ritirino dal mercato la porzione più tossica della montagna da decine di migliaia di dollari esistente, il tutto allo scopo di rendere più appetibile, via prezzi di mercato molto, ma molto ridotti, quella meno puzzolente e impresentabile.

Scusandomi in anticipo con i miei lettori per la presentazione semplicistica e molto schematizzata di un progetto che richiederebbe una formalizzazione più all’altezza dell’esposizione delle persone che sono state tanto gentili e pazienti con me, mi permetto di fare l’avvocato del diavolo e di dire quello che, a mio modesto avviso, non torna nel ragionamento dei decision makers mondiali e nelle spiegazioni tecniche sopra menzionate, facilitato in questo da quanto contenuto nell’appello ai leaders del G20/G21 inviato da Barack Obama in vista del prossimo summit del 2 aprile a Londra, un testo molto accorato e riportato integralmente dai maggiori quotidiani statunitensi ed europei e che, in buona sostanza, avverte che, senza uno sforzo comune proporzionato a quello che stanno facendo gli Stati Uniti d’America, non si va proprio da nessuna parte!

L’esortazione di Obama, tuttavia, rappresenta solo uno dei due corni del problema, il secondo essendo rappresentato dalle vere e profonde cause della disaffezione degli investitori, anche dei più avidi tra loro, nei confronti delle invenzioni degli apprendisti stregoni alle dipendenze delle Investment Banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, cause che, almeno al momento, non sono state nemmeno sfiorate negli innumerevoli vertici più o meno pubblici che da venti mesi impegnano quasi tutti i week end dei maggiori leaders mondiali!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

martedì 24 marzo 2009

Mentre Geithner continua a non scoprire le carte, in Italia la fondazione Cariplo si schiera con Tremonti!


So bene che deluderò una buona parte dei lettori del Diario della crisi finanziaria, ma non commenterò il piano presentato dal ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, per il semplicissimo motivo che lo ritengo non molto più dettagliato di quello annunciato qualche settimana e che produsse un tale disappunto negli addetti ai lavori da far sprofondare il Dow Jones di ben 380 punti, in linea peraltro con gli altri due maggiori indici azionari a stelle e strisce, mentre ieri la reazione è stata di tutt’altro segno, spingendo con forza la rialzo gli stessi tre indici con incrementi percentuali che hanno oscillato intorno a un rotondo 6 per cento.

Non so per quale motivo Tim ha preteso che le telecamere restassero al di fuori della sala del dicastero del Tesoro nella quale, very early in the morning, ha illustrato il suo piano, che, purtroppo per tutti noi curiosi, vago era e vago francamente è rimasto, soprattutto su quello che è il dettaglio più importante di tutti, e, cioè, a quale prezzo verranno acquistati dalle banche i titoli più o meno tossici della finanza strutturata che continuano imperterriti a ingolfare i bilanci delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario globale più o meno come quando la tempesta perfetta è scoppiata venti mesi orsono.

E’ davvero che strano che gli ambienti che contano nella finanza e nel credito non si siano scandalizzati per il siparietto del coetaneo del nuovo inquilino della Casa Bianca, a meno che non si sia svolto qualche incontro riservato nel quale Geithner abbia informato la business community sia sul dettaglio del prezzo, sia su chi dovrà, alla fine della fiera, farsi carico dei rischi dell’intera operazione, anche se temo fortemente che la reticenza dell’ex presidente della Fed di New York sia legata proprio a questo piccolo particolare, anche perché sarebbe molto difficile dire chiaramente ai contribuenti infuriati per i premi e le remunerazioni di quelli che, a torto o a ragione, ritengono i maggiori responsabili del meltdown della finanza e dell’economia reale che il conto molto salato del salvataggio sistemico sarà comunque pagato dalle donne e dagli uomini che risiedono e pagano le tasse negli Stati Uniti d’America!

Aspettando che vengano tempi migliori al di là dell’Oceano Atlantico sul piano della chiarezza espositiva della nuova amministrazione, vorrei, invece, soffermarmi sulla lunga e interessantissima intervista rilasciata al supplemento finanziario del quotidiano La Repubblica da Giuseppe Guazzetti, presidente della fondazione Cariplo e da lunga pezza presidente anche dell’ACRI, quella che un tempo era l’associazione di categoria delle casse di risparmio italiane e che, senza nemmeno cambiare l’insegna, si è trasformata nel club delle fondazioni di origine bancaria, un uomo che non è solo l’azionista di riferimento di Intesa-San Paolo, ma è anche l’autorevole capofila delle sessantasei fondazioni azioniste privilegiate della ex Cassa Depositi e Prestiti, oggi Cassa SpA, quell’istituzione che si appresta a divenire, nell’era berlusconiana, il principale crocevia economico e la vera stanza di compensazione tra gli interessi pubblici e privati, un colosso che, al momento, è dotato di disponibilità per 175 miliardi di euro derivanti in larga parte dalla raccolta postale e oltre cento dei quali depositati presso la tesoreria del ministero dell’Economia.

Non vorrei apparire dietrologo, ma, a poche pagine di distanza, lo stesso supplemento del giornale di proprietà del nemico numero uno del premier pubblica con grande risalto un ampio reportage sulla stessa Cassa SpA, notoriamente guidata da quel Massimo Varazzani per il quale il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, ha appositamente fatto creare la carica di amministratore delegato e che condivide con il ministro idee di grandezza per quell’istituzione che un tempo si limitava a fare mutui agli enti locali, ma che ora si pone come il vero e proprio braccio armato in campo creditizio del Governo.

Fra pochi mesi Guzzetti e gli esponenti delle altre sessantacinque fondazioni dovranno ‘decidere’ se trasformare le loro azioni privilegiate in azioni ordinarie di cassa SpA, una scelta che il vecchio notabile democristiano sembra avere già deciso, ansioso come è di non irritare Tremonti che sembra occuparsi sempre di più, ogni giorno che passa, delle ricche fondazioni di origine bancaria, al punto da inviare a ognuna di loro un articolato e molto indiscreto questionario su argomenti che il potente presidente della Fondazione Cariplo, a differenza parrebbe di alcuni suoi colleghi, non esita ad affrontare dalle colonne di un quotidiano, sbandierando ai quattro venti le autolimitazioni che l’ente da lui guidato si è volontariamente date e che sembrano aver anticipato le pressanti richieste riservatamente avanzate dal ministro., come ad esempio quel limite del 40 per cento all’assorbimento diretto del patrimonio in banche e compagnie di assicurazione, limite ancora più restrittivo di quel 50 per cento previsto dalle norme di legge e ampiamente superato dalla fondazione Monte dei Paschi di Siena e dalla fondazione Cariverona, così come da altre tre o quattro fondazioni.

L’outing di Guzzetti è, ovviamente, tutto tranne che casuale, anche perché la sua fondazione avrebbe tutto da guadagnare da un’applicazione rigorosa delle previsioni di legge alle fondazioni non in linea con le stesse, misure che possono giungere sino al trasferimento di quel che resta del patrimonio delle fondazioni che, a insindacabile giudizio del ministro dell’Economia, non dispongono più dei mezzi per conseguire i propri scopi ad altra fondazione o, addirittura, allo Stato, direttamente o tramite qualche soggetto sotto il controllo statale e delle fondazioni bancarie stesse, come, ad esempio, la Cassa SpA, ipotesi certamente remote ma che stanno togliendo il sonno da qualche mese ai vertici delle quattro o cinque fondazioni ‘fuorilegge’ e che non sono del tutto estranee al rifiuto da 500 milioni di euro opposto all’ultimo minuto da Paolo Biasi a Unicredit Group!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . La riproduzione della presente puntata è possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

lunedì 23 marzo 2009

Ma quanti partners ed ex partners fanno parte del prestigioso club della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs!


Apprendo solo oggi la versione che Edward Liddy, meglio noto come Ed, ha fornito ai media sull’incredibile circostanza nella quale, a metà dell’orribile mese di settembre del 2008, venne coinvolto dal suo ex capo ed ex (?) investment banker, Hank Paulson, l’uomo che dal vertice della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs fu spedito, ad opera dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America, George W. Bush, a dirigere, nel giugno del 2006, il ministero del Tesoro a stelle e strisce, con una scelta dei tempi veramente opportuna e che diverrà maggiormente chiara ai più solo il 9 agosto del 2007, quando prenderà ufficialmente il via la tempesta perfetta che si appresta fra poco ad entrare nel suo ventunesimo mese di vita.

Scusandomi per la ricostruzione storica dell’ascesa di Paulson al dicastero del Tesoro, ma le date sono una delle poche cose che una stampa e dei media del tutto emebedded alle logiche del capitalismo finanziario non possono ancora modificare, quale fu il tenore della telefonata intercorsa tra il boss e il suo ex dipendente (peraltro, Liddy, almeno così raccontano le cronache, aveva chiuso la sua carriera in Goldman sedendo nel Board of Directors della ‘Ditta’), una telefonata che lo colse nella sua casa proprio nei giorni in cui il rinomato trio Bush-Paulson-Bernspan.stava decidendo chi salvare e chi lasciar affondare tra Lehman Brothers, Merrill Lynch e American International Corporation, la più grande compagnia del mondo nata un secolo prima in Asia con un esordio che pare non fosse proprio dei più specchiati e più o meno coevo con la prima tempesta perfetta che l’umanità abbia conosciuto, quella dell’ottobre del 1907 che, al confronto di quella attuale, fu più che un altro una tempesta in un bicchiere d’acqua e che fu risolta dall’intervento energico di John Pierpoint Morgan, che si limitò a staccare qualche assegno e utilizzò l’ingente carico d’oro imbarcato sul translatantico Lusitania, battente, almeno credo, bandiera dell’impero britannico.

Stando a quanto racconta l’ex partner di Goldman Sachs, il suo capo giunse rapidamente al sodo e gli chiese di farsi carico, in qualità di nuovo Chief Executive Officer, della tecnicamente fallita compagnia di assicurazione, ruolo al quale Ed era alquanto preparato avendo svolto lo stesso incarico in un’altra compagnia di assicurazioni, motivo per il quale aveva abbandonato il cautissimo stipendio e la vera e propria pioggia di benefit con i quali Goldman usava, ed usa ancora, gratificare i suoi massimi dirigenti, un incarico di cui Liddy comprese al volo la delicatezza e la pericolosità, facendo pure, o subendo, la previsione di affrontare l’improba fatica per uno stipendio annuo limitato all’elargizione di un molto, ma molto simbolico dollaro statunitense, ma, si sa, “chi per la Patria muor vissuto è assai”, con quel che notoriamente ne segue.

La storia finirebbe qui, se non fosse che poche ore più tardi, decidendo la fine anticipata dalla gloriosa banca di investimenti denominata Lehman Brothers, Paulson e i suo compagni di avventura posti ai massimi livelli del sistema della riserva federale, Bernspan e Timothy Geithner in prima fila, nonché avuto il via libera dal molto incauto inquilino di allora della Casa Bianca, misero le basi per un’ondata senza precedenti di perdite della stessa AIG, non fosse altro che per il motivo che la sventurata compagnia risultava controparte di buona parte dei Credit Default Swaps riferiti alla ditta dei fratelli Lehman, nonché di altri contratti per centinaia, se non migliaia di miliardi di dollari, riferiti ad altri contratti della specie che rischiavano di vedere concretizzarsi, in base alle stringenti clausole previste dagli alti volumi contenenti le specifiche previsioni e validati dal consiglio direttivo dell’ISDA, composto da diciannove professionisti molto stimati nell’ambiente della finanza più o meno strutturata, ma che non avrebbero assolutamente messo in gioco la propria onorabilità e credibilità nemmeno su pressione dei governi e delle banche centrali!

Come ho già scritto nel Diario della crisi finanziaria, l’obiettivo principale delle investment banks e delle banche più o meno globali ovunque basate nel mondo era quello di impedire a ogni costo il default, seppur semplicemente su base tecnica, di AIG, anche perché a quell’evento sarebbe seguita inevitabilmente una mesta e tristissima processione di Chairman e CEO delle banche di mezzo mondo in direzione dei tribunali fallimentari dei paesi di appartenenza, al fine di ottenere almeno la protezione prevista dalle norme di legge nei confronti dei creditori, un vero e proprio gioco al massacro nel quale ogni entità finanziaria era presente sia dal lato del creditore che da quello del debitore.

Ma la telefonata deve essere stata molto più lunga di quello che Liddy dice, o essere stata seguita da incontri a quattr’occhi con il suo ex principale in sale a prova di intrusioni più o meno autorizzate, anche perché, come è emerso dalla documentazione fornita dalla stessa AIG alla presidente di un apposta commissione del Congresso che indaga sulla vicenda, solo in poche settimane, e cioè sino alla fine dell’anno di disgrazia 2008, la compagnia di assicurazione ha soddisfatto le pretese della maggiori banche statunitensi, europee e asiatiche, rimborsi provvidenziali per la cifra di 90 miliardi di dollari e tra i quali spiccano in assoluto quelli erogati alla stessa Goldman Sachs per 13,9 miliardi di dollari, seguiti, per importi decrescenti da quelli in favore delle principali banche statunitensi, europee e asiatiche.

Purtroppo per gli appartenenti al club davvero più esclusivo della finanza globale basato a Manhattan, New York, la sospettosa e a volte impertinente autorità giudiziaria di quel facoltosissimo distretto, nella persona del nuovo e temibile sceriffo di New York, Andrew Cuomo, ha deciso di indagare sulla celerità e sulla congruenza degli stesi rimborsi, menttendo sotto indagine anche il potentissimo David Viniar, il sessantatrenne Chief Financial Officer di Goldman, così come altri esponenti dellae maggiori banche operanti sulla piazza, una mossa che ha avuto l’effetto di un terremoto, anche se i media si sono limitati a riportare l’autodifesa di Viniar che dice che tutto si è svolto secondo le regole, e Viniar, Blankfein e Paulson sono certamente uomini d’onore!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

domenica 22 marzo 2009

Le vere ragioni della difesa a oltranza di Tim Geithner da parte del nuovo inquilino della Casa Bianca!


Non so se Barack Obama abbia fatto confusione tra le due trasmissioni televisive cui ha partecipato di recente, quella satirica condotta da un italoamericano di origini irpine e quella stessa Sixty Minutes nella quale è apparso ieri a pochi giorni di distanza dall’alquanto incredibile performance di Bernspan, ma è certo che ho trovato più esilaranti le risposte fornite dall’inquilino della Casa Bianca all’intervistatore della trasmissione seria, di quanto mi abbiano fatto ridere le battute un po’ precotte nel talk show notturno registrato in California.

Ma quello che più mi ha colpito è la strenua difesa del nuovo ministro del Tesoro, ma vecchia volpe dello stesso dicastero che ora si trova a dirigere e fino a poche settimane orsono potentissimo presidente della Fed di New York, anche perché si tratta del quarto intervento pubblico di Obama in difesa di Timothy Geithner nel giro di una settimana, un livello di solidarietà del tutto inusuale per un presidente appena insediatosi e che ha dovuto, per molto meno di quanto viene imputato a Tim, rinunciare alla collaborazione di parecchi ministri finiti nel mirino della stampa o dell’opposizione, in qualche caso di entrambe.

Certo, la nomina di Geithner al Tesoro era una delle mosse più scontate nel difficile lavoro che ha portato alla formazione della nuova amministrazione a stelle e strisce, non fosse altro per il fatto che il coetaneo del presidente è l’unico ad avere partecipato, insieme al suo predecessore Paulson e a Bernspan, a tutte le operazioni di salvataggio effettuate durante il primo anno e mezzo della tempesta perfetta, quello gestito dall’amministrazione Bush, oltre a essere stato il gestore della più ampia discarica a cielo aperto di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che il sistema della riserva federale ha accettato di ricevere, seppure su base temporanea, dalle banche di investimenti e da quelle più o meno globali, fornendo loro denaro contante pressoché alla pari.

Non so come Geithner abbia preso le chiare parole di Obama alla circostanziata domanda dell’intervistatore sulla sua sorte: “Se presentasse le dimissioni, gli direi che mi dispiace, ma deve ancora completare il suo lavoro!”, parole che suonano più come un licenziamento a certo tempo data che come una condivisione delle responsabilità che l’agguerritissima opposizione repubblicana, i media scatenati e la maggior parte dei bloggers più seguiti in materia economica muovono a uno dei suoi principali collaboratori, non solo e non tanto sull’oltraggiosa questione dei bonus per i dirigenti della banche o della altre entità protagoniste del mercato finanziario che hanno ricevuto centinaia di miliardi di dollari di capitali pubblici e sono state sollevata dal peso dei titoli tossici per alcune migliaia di miliardi che l’ineffabile Bernspan ha candidamente confessato di avere alquanto allegramente stampato al fine di evitare che accadesse il peggio e, cioè, un’ondata di fallimenti a catena di banche e compagnie di assicurazione USA che avrebbero condotto nel baratro le loro omologhe europee e asiatiche!

D’altra parte, non vorrei che il giusto risentimento dei cittadini americani per gli oltre venti miliardi di dollari di premi che sono piovuti sulle teste di quelli che, a torto o a ragione, ritengono essere i maggiori responsabili del meltdown della finanza e dell’economia reale, servisse, in realtà, per lasciar passare sotto silenzio quella parte di lavoro sporco che ancora Geithner e Bernspan devono fare per evitare che il rischio di default sistemico evitato quasi per miracolo nel mese di ottobre del 2008 si ripresenti in modo ancora più grave nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, non fosse altro che uno dei principali problemi evidenziati dalla tempesta perfetta, quello della persistenza di una montagna di enormi dimensioni di titoli della finanza strutturata, nonché quella dei Credit Default Swaps, è stato affrontato solo in minima parte.

Non vorrei essere considerato una versione contemporanea della povera Cassandra, non fosse altro per il motivo che non ho alcuna voglia, né alcuna possibilità, di insidiare la posizione del Dr. Doom, al secolo Nouriel Roubini, ma non posso tacere sul rischio che il piano da un trilione di dollari che Geithner dovrebbe presentare nei dettagli domani rischia di essere una riproposizione vitaminizzata del famoso Master Liquidity Enhance Conduit che l’ex (?) investment banker Hank Paulson propose tra squilli di trombe e suon di fanfare nel lontano settembre del 2007, un piano da cento miliardi che almeno aveva il merito di essere basato sullo sforzo congiunto di Citigroup, Bank of America e J.P. Morgan-Chase, le tre entità creditizie private che si guadagnarono così sul campo l’eterna riconoscenza delle terrorizzate autorità monetarie statunitensi, ma che, dopo avere occupato per settimane le prime pagine dei quotidiani finanziari e non, naufragò miserevolmente tre mesi dopo, notizia molto inquietante che la stampa più o meno embedded relegò in microscopici trafiletti.

E’ dal settembre del 2007 che ripeto che è inutile fare confronti con le crisi precedenti, 1929 e dintorni compresi, per il semplice motivo che non si era mai visto sulle magiche e progressive sorti della finanza globale un macigno di dimensioni più o meno equivalenti dello stock della ricchezza finanziaria globale, con l’aggravante non da poco rappresentata dal fatto che questa stessa valutazione rischia di essere stimata per difetto a causa del fatto che, venti mesi dopo, non esiste una mappa affidabile di tutti i rischi nascosti nelle pieghe del sistema, né è possibile calcolare in modo esatto i micidiali contraccolpi di quella vasta area del mondo che non è stato, né ragionevolmente sarà, messo in sicurezza per assoluta mancanza di mezzi e altrettanta assenza di volontà politica da parte delle potenze del G20/G21, constatazione che mi ha indotto qualche settimana orsono a sostenere che, al di là delle più che prevedibili mosse a effetto, il prossimo vertice che si svolgerà a Londra il 2 aprile prossimo venturo non sarà assolutamente in grado di trovare soluzione a un problema che si presenta davvero di impossibile soluzione.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .
Riproduzione possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

sabato 21 marzo 2009

George Soros si compra una banca!


Come ho scritto più volte nel Diario della crisi finanziaria, se John Maynard Keynes resta il mio faro per comprendere le vicissitudini del molto travagliato mondo dell’economia e della finanza, le mie stelle polari per orientarmi tra i sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso da venti mesi restano il leone di Omaha, Warren Buffett, e quello che un tempo era considerato il nemico numero uno delle banche centrali europee e asiatiche, il finanziere George Soros, due persone che avevano l’intelligenza, i mezzi e l’opportunità di diventare molto più ricchi approfittando della drammatica situazione determinatasi il 9 agosto del 2007, ma che hanno, invece, cercato di fare il possibile per contrastarne gli effetti, anche a costo di rimetterci, non troppo si intende, di tasca propria.

Un comportamento ben diverso sia dalle gesta compiute nel passato, in particolare da quegli assalti all’arma bianca che videro Soros umiliare l’arroganza dei governi e delle banche centrali della Gran Bretagna e dell’Italia che cercavano di mantenere su parità irrealistiche le loro rispettive valute, o dalle incursioni di Buffett nella governance della maggiori corporations statunitensi, spesso sotto quella che non è eccessivo definire la tirannia di top manager spesso incompetenti ma dotati da quell’avidità e quel tasso di irresponsabilità sociale che troveremo anni dopo in quegli organismi autodefinitisi private equity, ma che il buon senso e la saggezza popolari hanno molto opportunamente ribattezzato locuste!

Poco importa, almeno ai fini del mio sforzo interpretativo, che gli imitatori dei due finanzieri, i vari David Einhorn e complici, stiano cercando in ogni modo, e pare anche con grande successo, di ripercorrerne le orme, vendendo, al riparo di opportuni paradisi fiscali, tutto il vendibile e tutto quello che abbia un qualche riferimento con la parola banca o finanza, anche se credo che da qualche tempo abbiano impresso una nuova direzione alle loro operazioni, ma si tratta solo di un impressione, in quanto la loro operatività è molto poco tracciabile anche dalle allertate autorità monetarie e dai vigilatori sulle borse di mezzo mondo.

Pur essendo notoriamente dei grandi filantropi, né Buffett, né tanto meno Soros, sono persone abituate a gettare i propri soldi dalla finestra, ma sono ben consapevoli che quello che è attualmente in gioco è talmente importante che si possono anche perdere dei soldi acquistando azioni di Lehman Brothers poco prima che il trio Bush-Paulson-Bernspan costringesse quella stessa storica banca di investimenti a portare i propri libri al tribunale fallimentare, o, come ha fatto Buffett, prestare miliardi di dollari alla potente e ancor più preveggente Goldman Sachs, un’entità che non rischia certo di fare la fine della rivale, ma che ha davanti a sé un futuro molto incerto, soprattutto se le donne e gli uomini impegnati nel Dream Team del nuovo inquilino della Casa Bianca decideranno di accendere un faro sull’operato di Goldman a partire dal 2006, un anno di grande importanza perché vede il passaggio del testimone tra Hank Paulson, opportunamente spedito a fare il ministro del Tesoro a stelle e strisce e Larry Blankfein, una figura sino a quel momento di secondo piano, ma che, assieme al Chief Financial Officer, David Viniar, e validamente assistito dai due Chief Operating Officer da 70 milioni di dollari annui l’uno, si impegnerà con tutte le sue forze nella più grande vendita di titoli più o meno tossici della finanza strutturata alle altre banche di investimento e a quelle più o meno globali basate nei paesi maggiormente industrializzati, operando nel contempo come facilitatore del ‘piazzamento’ di quei micidiali Credit Default Swaps in cui si era specializzata quell’American International Group che tanti mal di testa sta procurando all’establishment politico e finanziario statunitense!

Ma la mossa che più dà il segno del diverso approccio tra i due finanzieri e i loro tardivi imitatori è rappresentata dalla chiusura della trattativa tra la Federal Deposit Insurance Corporation e il fondo di private equity controllato da Soros e dal padrone di una importante casa produttrice di personal computers, Michel Dell, One West, basato a Pasadena (California), per l’acquisizione di quel che resta della banca californiana fallita la scorsa estate e denominata IndyMac, per il prezzo di 13,9 miliardi di dollari che rappresentano il corrispettivo dei 6,4 miliardi di dollari di depositi rimasti dopo la fuga dei correntisti all’indomani del default pilotato della banca e da 20,7 miliardi di dollari di attivo, si fa ovviamente per dire, pagati a sconto 4,7 miliardi di dollari, mentre la FDIC ci ha tenuto a far sapere che l’attuale costo del salvataggio di IndyMac le è costato poco meno di 11 miliardi di dollari e che altri ne perderà per la quota parte di perdite che si è impegnata a sostenere.

Ovviamente, la nuova banca si chiamerà One West Bank e disporrà da subito delle 33 filiali di Indymac, così come si può essere certi che la nuova entità molto, ma molto difficilmente si allontanerà dall’attività bancaria tradizionale, anche perché occorrerà un bel po’ di tempo prima che i depositanti lestamente fuggiti decidano di fidarsi di nuovo e riportino i loro risparmi in quegli stessi locali che hanno visto per tanti mesi nei loro nightmares.

La virata a u rispetto alle attività proprie dell’investment banking non sta, peraltro, caratterizzando solo una media entità creditizia come quella da poco acquisita a poco prezzo da Soros e Co., ma sta avvenendo su scala molto più ampia in tutte le ex Investment Banks, ma, e forse soprattutto, in quelle banche più o meno globali ovunque basate che avevano alquanto improvvisamente di approfittare della deregolamentazione selvaggia per diventare banche universali che si ponevano apertamente in concorrenza con le allora Big Five nelle attività da casinò a cielo aperto della finanza più o meno strutturata, un’operazione di riorientamento che sta caratterizzando le principali banche statunitensi per ora sopravvissute alla tempesta perfetta così come le loro omologhe europee e asiatiche e che sta decimando le divisioni di Corporate & Investment Banking in tutto il mondo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

venerdì 20 marzo 2009

Un ramo del Congresso USA approva a tempo di record l'aliquota del 90 per cento sui bonus!


Con una schiacciante maggioranza, la Camera dei Rappresentanti statunitensi ha deliberato ieri l’imposizione fiscale retroattiva della quasi totalità di tutto quanto percepito dai quattrocento executives di American International Group a titolo di bonus, una misura che il dispositivo di legge approvato estende a tutte le entità protagoniste del mondo della finanza che hanno ricevuto aiuti pubblici in misura rilevante nel corso degli ultimi mesi, il che spiega anche il bel gesto compiuto da alcuni dei beneficiari che, come ha raccontato nella sua drammatica audizione al Senato il povero Edward Liddy, il nuovo Chief Executive Officer di AIG che si è preso la briga di tirare fuori dai guai la tecnicamente fallita compagnia di assicurazione statunitense per il simbolico compenso di un dollaro all’anno.

Come ho ripetutamente scritto nelle oltre cinquecento puntate del Diario della crisi finanziaria, quella dei premi più o meno milionari destinati ai vertici e ai dipendenti delle diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale è una questione strettamente legata a quella supremazia dei manager sugli azionisti che è divenuta la costante della maggior parte delle corporations americane operanti nei più svariati settori, una supremazia che spesso si è trasformata in qualcosa di molto peggio e che ha chiaramente contribuito a confondere i risultati di breve e brevissimo periodo con quei valori legati alla sostenibilità nel medio e lungo termine degli stessi, spesso ignorando apertamente i contraccolpi negativi delle scelte assunte in precedenza attraverso una sistematica opera di disinformazione degli stakeholders facilitata dai continui cambiamenti nel perimetro aziendale di riferimento dovuti alle continue aggregazioni.

Per essere davvero efficace, il provvedimento appena varato dai deputati, e che molto presumibilmente verrà fatto proprio a tempo di record dai senatori, dovrebbe essere retroattivo almeno al 1° gennaio del 2008, includendo, quindi, anche i premi relativi all’esercizio 2007, ma credo che, anche estendendo opportunamente l’efficacia temporale del provvedimento, questo non farebbe che colpire gli effetti e non le vere cause della tempesta perfetta oramai in corso da venti mesi, cause che, come non mi stancherà mai di ripetere, affondano le loro radici nei concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia avviati a metà dei riuggenti anni Ottanta, nonché nella quasi ventennale gestione della politica monetaria attribuibile a quello che è certamente il più longevo tra i presidenti del sistema della riserva federale, nonché punto di riferimento di Bernspan, e cioè il cattivo maestro Alan Greesnspan che si fece le ossa risolvendo il crollo di borsa dell’ottobre 1987 inondando letteralmente di liquidità il mercato e impedendo il fallimento di quelle entità che avevano creato la prima bolla speculativa della nuova era della finanza più o meno globale.

Pur essendo un suonatore discreto di clarinetto piuttosto che un pifferaio magico, Greenspan riuscì davvero a incantare stuoli di analisti, commentatori, economisti, tutte persone che, almeno allora, non erano in modo così smaccato embedded alle truppe corazzate delle banche di investimento e di quelle più o meno globali, ma che volevano a tutti i costi credere nel nuovo mito di una crescita pressoché perenne che avrebbe consentito, se solo i paesi maggiormente industrializzati lo avessero voluto, effettuare un gigantesco take over del disgregatesi sistema socialista imperniato sull’allora ancora in vita Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, così come far convivere la crescente globalizzazione e la conseguente delocalizzazione con crescenti livelli di reddito, di occupazione, di sistemi di sicurezza sociale nei paesi facenti parte dell’esclusivo club denominato G7.

Non sono molti quanti si chiedono cosa avverrà dopo che, con le decisioni assunte l’altro ieri dal Federal Open Market Committee, le risorse finanziarie impegnate dagli Stati Uniti d’America per contrastare i disastrosi effetti della tempesta perfetta hanno raggiunto la stratosferica somma di diecimila miliardi di dollari, una cifra che, pur facendo i debiti rapporti tra il debole dollaro odierno e quello che veniva scambiato negli Anni della Grande Depressione, appare del tutto senza precedenti nella storia economica conosciuta e che è in larga parte dovuta alle stamperie federali più che al collocamento di titoli rappresentativi del debito pubblico.

Come ha avuto modo di ricordare in una recentissima apparizione televisiva lo stesso Bernspan, il vero problema è rappresentato dalla velocità con la quale le autorità monetarie dreneranno l’immensa quantità di moneta aggiuntiva quando “il cavallo riprenderà a bere”, anche perché, in caso contrario, il rischio di entrare in uno scenario di iperinflazione appare essere altissimo, non fosse altro che per il fatto che una simile tempestività richiederebbe l’esistenza di un sistema di sensori in grado di anticipare il punto di svolta effettivo della crisi, ma, allo stesso tempo, in grado di non spegnerla sul nascere, per non parlare della millimetrica esattezza che dovrà caratterizzare la scelta dei tempi e delle quantità nel percorso inverso da percorrere allora in materia di tassi di interesse!

Nei tantissimi colloqui che sto avendo con addetti ai lavori, ho avuto modo di verificare che il gigantesco giro di carta in corso da decenni aveva una correlazione ben poco stretta con l’offerta effettiva di credito, in quanto le invenzioni degli apprenditi stregoni delle immense fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle banche più o meno globali servivano, in realtà, a realizzare una moltiplicazione di titoli ad uso e consumo di altre entità finanziarie similari alle emittenti o dei fondi di investimento e dei fondi pensione, mentre inducevano solo un marginale incremento dell’offerta effettiva di credito, il che non significa assolutamente che non assisteremo a un credit crunch di dimensioni significative, ma soltanto che il razionamento del credito non sarà delle stesse proporzioni che si potrebbero ipotizzare a partire dallo scoppio delle tre gigantesche bolle speculative cui stiamo assistendo in questi mesi, il che non sarà di grande consolazione, ma è pur sempre qualcosa.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

giovedì 19 marzo 2009

Bernspan inonda il mercato di liquidità, mentre l'Europa continua a girare la testa da un'altra parte!


Mentre il povero Edward Liddy, il nuovo Chief Executive Officer di AIG, veniva letteralmente messo sulla graticola al Congresso in relazione allo scandalo dei bonus per 165 milioni di dollari complessivi previsti per i top manager e i manager della gigantesca compagnia di assicurazioni che è stato chiamato a dirigere per il simbolico compenso di un dollaro all’anno, Bernspan annunciava a mercati azionari ancora aperti che il sistema della riserva federale non si sarebbe limitato a mantenere i tassi sui Fed Funds nel corridoio compreso tra zero e un quarto di punto percentuale, ma avrebbe fatto la sua parte alla grande nel più gigantesco tentativo di salvataggio del sistema finanziario a stelle e strisce, nonché al quasi disperato contrasto della recessione oramai pienamente in atto.

A quanti si interrogavano su quali margini fossero rimasti al Federal Open Market Committee dopo avere portato i tassi sui Fed Funds dal 5,25 agli attuali livelli prossimi allo zero, nonché sui reali motivi che avevano spinto lo schivo professore di storia economica della prestigiosa Università di Princeton da poco trasformatosi nell’emulo del Maestro Alan Greenspan ad acettare di apparire davanti alle telecamere di Sixty Minutes, Bernspan ha risposto ieri mettendo in campo, in un modo o nell’altro, qualcosa come 2.500 miliardi di dollari, una somma stratosferica che va ad aggiungersi ai circa duemila miliardi già spesi dalla Fed da quando è iniziata la tempesta perfetta, ai 700 miliardi previsti dal TARP, al maxi piano di Bush e a quello proposto da Barack Obama e recentemente approvato quasi integralmente dai due rami del Congresso degli Stati Uniti d’America.

Stando alle informazioni contenute nei lanci delle informatissime agenzie di stampa statunitensi, Bernspan si è impegnato ad acquistare Treasury Bonds a lunga scadenza per 300 miliardi di dollari, una vera e propria boccata di ossigeno per il nuovo ministro del Tesoro, Timothy Geithner, atterrito come i suoi collaboratori dalla ferale notizia del deflusso record di capitali dagli USA in gennaio per 150 miliardi di dollari, ma anche un’ottima notizia per l’intera struttura dei tassi di interesse sul debito, destinati fatalmente a scendere per il quasi inevitabile aumento dei prezzi dei titoli del debito a stelle e strisce derivante da una richiesta così massiccia sulla parte più lunga della curva, ma l’acquisto dei Treasury a 10 o a 30 anni di scadenza non è che l’antipasto delle decisioni della Fed.

Il comunicato diramato poco dopo le 20 italiane di ieri afferma, infatti, che il sistema della riserva federale si farà anche carico di ulteriori titoli strutturati collegati a mutui garantiti dalle nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac per 750 miliardi di dollari, una decisione che porterà a 1.250 miliardi la somma prevista per l’acquisto di titoli della specie, mentre è anche previsto l’acquisto di titoli del debito delle sopramenzionate entità per 200 miliardi di dollari, più o meno il turn over degli stessi nel primo trimestre dell’anno in corso.

Ma Bernspan deve avere proprio deciso di lasciare a bocca aperta quanti, come me, lo hanno accusato per venti mesi di stare ostinatamente behind the curve, perché l’ultimo punto del comunicato prevede che ulteriori mille miliardi di dollari vengano utilizzati per rilanciare la disponibilità di credito in favore dei consumatori e di quelle piccole imprese recentemente lodate dal nuovo inquilino della Casa Bianca che il presidente della Fed sta cercando in ogni modo di ingraziarsi, facendo davvero di tutto per allontanare da sé e dagli altri membri del FOMC il sospetto di essere stati parte della gestione davvero dissennata degli effetti davvero disastrosi della tempesta perfetta nel suo primo anno e mezzo di vita!

In un bell’articolo pubblicato recentemente anche dal quotidiano La Repubblica, l’economista Paul Krugman, non del tutto a caso insignito quest’anno del Premio Nobel per l’Economia, mette duramente a nudo i limiti dell’azione europea di contrasto alla tempesta perfetta, una critica che mette davvero il dito nella piaga della costruzione incompiuta dell’Unione Europea, anche alla luce della conclamata difficoltà di giungere all’edificazione degli Stati Uniti d’Europa da parte non solo dei numerosi new comers dell’Europa dell’Est, ma anche dai principali paesi membri dell’Unione stessa, quei quattro paesi di maggiore industrializzazione quali la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia che continuano imperterriti ad andare ognuno per la propria strada di fronte al meltdown della finanza e dell’economia reale e chiedendo implicitamente ai neotemplari assisi nel Board della Banca Centrale Europea di svolgere un ruolo di supplenza della politica che essi non debbono, né possono, né tanto meno vogliono svolgere, anche perché ne andrebbe di quella reputazione così faticosamente acquisita dall’istituto di Francoforte ad onta dei pregiudizi statunitensi e britannici nei confronti dell’euro.

Krugman, che pure ci invidia il sistema di welfare, non può non sottolineare i rischi derivanti dall’incapacità europea di stendere una rete di protezione efficace anche in favore di quei paesi un tempo facenti parte del Patto di Varsavia che pure vedono la presenza in massa di affiliate delle maggiori banche dell’Europa dell’Ovest, con la più che ovvia ipotesi di un micidiale rischio di contagio che porterebbe grandi guai a quegli stessi grandi paesi membri che attualmente dichiarano non essere opportuno uno sforzo congiunto.

Come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, nella sua recente audizione in Parlamento, il Governatore della Banca d’Italia ha spiegato che l’esposizione del sistema bancario italiano nei confronti dei paesi dell’Est ammonta a 150 miliardi di euro, ma che il 70 per cento di questa cifra è riferibile a soli cinque di questi paesi, mentre è a tutti nota la concentrazione di tali rischi a carico dei due maggiori gruppi bancari italiani!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

mercoledì 18 marzo 2009

Sullo scandalo dei bonus di AIG e sulle sue attività pregresse scende in campo il nuovo sceriffo di New York, Andrew Cuomo!


Per tutti noi che viviamo al di qua dell’Oceano Atlantico è davvero difficile renderci conto di cosa stia accadendo negli Stati Uniti d’America in relazione alla vicenda dei bonus per 165 milioni di dollari complessivi previsti per i top manager e i manager di American International Group, la compagnia di assicurazione destinataria, al momento, di aiuti pubblici per 173 miliardi di dollari e salvata da Bernspan e l’ex (?) investment banker Hank Paulson, allora ministro del Tesoro pro tempore, nella stessa notte in cui venne deciso il fallimento di Lehman Brothers e la ‘vendita’ di Merrill Lynch a Bank of America, una vicenda che ha pressocché occupato tutti i talk show dello scorso week end e che ha visto la davvero inusuale esibizione del numero uno del sistema della riserva federale, Benrspan appunto, alla fortunata trasmissione denominata Sixty Minutes, una performance impensabile prima che la tempesta perfetta prendesse il suo avvio nell’oramai lontanissimo 9 agosto del 2007.

Vorrei prevenire l’obiezione di qualcuno dei miei lettori che potrebbe pensare che si tratti della solita campagna mediatica volta a distrarre i davvero angosciati cittadini americani dai veri problemi posti da una crisi finanziaria devastante che si è a pieno titolo trasmessa all’economia reale a stelle e strisce e che ha visto parecchi milioni di persone perdere la casa, il lavoro, spesso entrambi, per il semplice motivo che la vasta risonanza che lo scandalo dei premi milionari elargiti proprio ai responsabili di uno dei maggiori disastri societari mai verificatisi negli States riesce appena a rendere l’idea del dibattito reale in corso in quel grande Paese e che vede un solo precedente nell’assemblea virtuale che a larga maggioranza decise nel mese di ottobre che le tre maggiori case automobilistiche non potevano ricevere aiuti pubblici incondizionati, esprimendo una chiara volontà popolare che costrinse il Congresso statunitense ad adeguarsi e a varare solo una frazione degli aiuti richiesti dai vari Wagoner, Nardelli e compagnia cantante!

Mi permetto anche di osservare che tutta la discussione intorno alla forza legale dei contratti ‘privati’ che hanno imposto ai riluttanti vertici di AIG di spedire venerdì scorso le lettere contenenti gli assegni per la somma complessiva sopra ricordata ricorda molto da vicino analoghe argomentazioni in merito all’impossibilità di rivedere i famosi mutui capestro, del tipo sub prime o ARM, per intenderci, che i legali della banche e delle finanziarie hanno sostenuto per mesi nelle aule dei tribunali cui i disperati mutuatari si erano rivolti a causa della impossibilità di pagare rate che da centinaia di dollari al mese erano divenute, spirati gli ingannevoli periodi di grazia previsti dai relativi contratti, in importi che spesso superavano lo stesso reddito anche ragguardevole dell’incauta o dell’incauto sottoscrittore cui, altrettanto spesso, tale ‘piccolo’ dettaglio era stato sottaciuto dai pressanti ‘venditori’ di mutui a tanto al chilo.

La vasta schiera di persone coinvolte nel micidiale processo che ha consentito in un arco temporale lungo ventidue anni di deregolamentare tutto il deregolamentabile hanno certamente posto scarsa attenzione al fatto che le infinite possibilità che la loro azione offriva a banche e finanziarie specializzate nel vasto mercato del mortgage ( un mercato che nei soli USA ha una dimensione che supera largamente quello del prodotto interno lordo cumulato di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna e Olanda e tutti i paesi dell’Est Europa messi assieme) andavano a impattare su previsioni legislative e regolamentari che continuavano a prevedere un’evidente disparità tra creditori e debitori, il tutto condito dall’assunto molto protestante che prevede implacabilmente che chi sbaglia paga, soprattutto quando l’errore è stato quello di fidarsi delle parole rassicuranti di un venditore senza troppi scrupoli e non si sono lette tutte le clausole del voluminoso contratto sottoscritto, incluse quelle parti scritte in piccolo e che spesso contengono le cosiddette clausole onerose.

Mi ha colpito molto il titolo di una trasmissione televisiva sul web targata Tech Ticker e che sostanzialmente diceva che lo scandalo dei bonus rappresentava meno dell’uno per mille del vero problema che è invece rappresentato dall’utilizzo dei 173 miliardi di dollari di fondi pubblici ricevuti da AIG e che hanno rappresentato una decisiva boccata di ossigeno per Goldman Sachs, Citigroup, Bank of America-Merrill Lynch, J.P. Morgan-Chase, Socgen, Barclays, UBS e una vasta schiera di altre entità protagoniste del mercato finanziario globale che devono alla provvidenziale sopravvivenza della maggiore compagnia di assicurazioni del mondo la loro stessa sopravvivenza, evitando così a molti governi e banche centrali di mettere mano al portafoglio più di quanto stiano già facendo.

Per quanti si fossero sintonizzati solo ora sul Diario della crisi finanziaria, potrebbe non essere del tutto chiaro il legame esistente tra AIG e questa vasta schiera di banche più o meno globali, un legane che passa attraverso una miriade di contratti derivati sottoscritti dalle stesse banche sia a titolo di copertura dei rischi connessi a loro controparti, sia per evitare di dotarsi di patrimoni molto più robusti al fine di rispettare appieno le previsioni delle rispettive autorità di vigilanza che, soprattutto in Europa, non si sono accorte o hanno fatto finta di non accorgersi di questo lucrosissimo business della filiale europea di AIG, validamente supportata in questa attività dalle donne e dagli uomini operanti alle dipendenze della filiale europea della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, nella quale, almeno sino alla fine dell’anno di grazia 2005, si è distinto Mario Draghi, il nemico numero uno del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, sì proprio quel Tremonti che lo indicò come Governatore della Banca d’Italia al posto di Antonio Fazio.

Non voglio anticipare in alcun modo le conclusioni cui giungeranno Andrew Cuomo, General Attorney di New York, e lo stuolo di suoi colleghi chiamati a indagare sia sullo scandalo dei bonus che sulle attività pregresse di AIG, ma credo proprio che ne vedremo delle belle, soprattutto se non vi saranno timori reverenziali nei confronti di nessuno!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

martedì 17 marzo 2009

Tra Lehman e AIG, Paulson scelse Goldman!


La ferma posizione di Barack Obama contro lo scandalo dei bonus per 165 milioni di dollari complessivi previsti per i top manager e i manager di American International Group, la compagnia di assicurazione destinataria di aiuti pubblici per 170 miliardi di dollari, non è piaciuta affatto agli ambienti che contano a Wall Street, al punto da determinare una brusca inversione di rotta del Dow Jones che sembrava destinato a ripetere per la quarta seduta consecutiva la serie positiva e, invece, è finito miserevolmente, seppur di poco, in rosso, un colore che forse meglio si addice alle risibili argomentazioni sulla necessità ‘legale’ di procedere al pagamento dei bonus in favore di quanti hanno contribuito a creare la possibilità del maggiore dissesto sistemico connesso proprio ai rapporti tra AIG e le maggiori banche globali.

Pur avendo ripercorso ieri quanto è avvenuto in quella drammatica serata di metà settembre dell’anno scorso, credo proprio che sia necessario tornarci sopra, anche alla luce dei dati finalmente forniti nella giornata di ieri dai nuovi vertici della maggiore compagnia di assicurazione a stelle e strisce sull’utilizzo di oltre la metà dei fondi ricevuti dal sistema della riserva federale e dal Tesoro, dati che spiegano benissimo perché si sia scelto di sacrificare la Lehman Brothers di Dick Fuld pur di ‘salvare’ l’entità dalla quale dipendevano letteralmente i destini delle maggiori banche statunitensi e di quelle di mezzo mondo.

Come ho avuto modo di spiegare in una puntata del Diario della crisi finanziaria specificamente dedicata all’argomento, l’eventuale fallimento di AIG avrebbe costretto le sole banche europee che avevano assicurato parte dell’attivo con la compagnia statunitense a reperire di corsa nuovi capitali per 300 miliardi di dollari al solo fine di mantenere inalterati i rispettivi e già malmessi TIER1, cioè quel rapporto di patrimonializzazione che,m sottoposto a stress test, normalmente si riduce a meno della metà del valore tranquillamente accettato dai cosiddetti topi posti a guardia del formaggio, come il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, ebbe a definire i banchieri centrali dei paesi maggiormente industrializzati!

Se queste sarebbero state, in base a stime ufficiali assolutamente prudenziali e approssimate molto probabilmente per difetto, lascio all’immaginazione dei lettori cosa sarebbe accaduto alle due ex investment banks sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta oramai in corso da venti mesi, Goldman Sachs e Morgan Stanley, o alle quattro maggiori banche universali, che rispondono ai nomi di Citigroup, Bank of America, J.P. Morgan-Chase e Wells Fargo, tre dele quali si erano, peraltro, dovute fare carico dei guai di altre grandi entità tecnicamente fallite, almeno secondo i criteri che fanno scattare i micidiali Credit Default Swaps, criteri che non tengono conto degli eventuali salvataggi ma molto più semplicemente delle stringenti regole contrattuali contenute in quei volumoni alti come un elenco telefonico che prevedono molto minuziosamente tutte le cause che fanno vincere la scommessa ai sottoscrittori di questo particolare tipo di prodotti.

Del resto, basta scorrere l’elenco dei maggiori beneficiari dell’utilizzo dei 90 miliardi di dollari forniti dalle sollecite autorità monetarie ad AIG, con riferimento temporale al 31 dicembre del 2008, per capire che l’eventuale fallimento della compagnia di assicurazioni a stelle e strisce avrebbe con ogni probabilità concretizzato quello scenario da fine di mondo evocato un mese dopo a Washington dal numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss Kahn, uno scenario che, insieme all’attivismo di Gordon Brown, convinse gli atterriti capi di Stato e di Governo del G20/G21 a varare misure di emergenza nei rispettivi paesi, quali una sostanziale assicurazione pubblica non solo dei depositi bancari, ma anche di quelli interbancari, nonché a letteralmente togliere di mezzo come trumento di valutazione ai fini contabili quel mark to market che stava bruciando i bilanci delle maggiori entità protagoniste di quel mercato finanziario globale che i presidenti della Francia e della Germania avevano bollato come del tutto impazzito.

In questo antipasto di recuperi da parte delle banche di mezzo mondo delle scommesse dalle stesse effettuate, la parte del leone la fa la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, con incassi per oltre 12 miliardi di dollari allo scadere dell’anno scorso, ma si sa che si tratta di una banca talmente cara al ministro del Tesoro che vi ha operato al massimo livello per decenni da indurlo a farla partecipare alle trattative incandescenti svoltesi quella notte di metà settembre del 2008, una decisione che suscitò le ire dei banchieri non invitati e che, come Goldman, avevano in ballo ‘polizze’ per decine di miliardi di dollari, così come non furono contenti di questa preferenza anche i vertici di quelle banche che ne rischiavano solo qualcuno, sempre di miliardi di dollari!

Sarà un caso, ma la lista apparsa nel pieno del furore della bagarre politica sugli oltraggiosi bonus dei dirigenti di AIG è prontamente scomparsa dai siti che l’avevano pubblicata, ma, avendola opportunamente stampata, posso dire che la sola Socgen ne ha ricevuti oltre 11 di miliardi, così come la tedesca e molto malmessa Deutsche Bank, ma non sono rimaste a bocca asciutta Bank of America, che, sommando i suoi recuperi a quelli dell’acquisita Merrill Lynch, ne ha ricevuti 12 di miliardi, solo qualche centinaio di milioni meno di Goldman, J.P. Morgan, Morgan Stanley, Citigroup, Wells Fargo, UBS, Barclays e via discorrendo.

Così come la lista dei beneficiari, credo sarebbe difficile, sempre per chi non se ne è fatta copia, reperire i testi degli articoli che testimoniavano della pretesa avanzata dal solito Hank Paulson quando si discuteva in Congresso del suo piano di salvataggio nell’ottobre del 2008, quella cioè di ottenere per sé stesso una sorta di totale immunità penale per le scelte che avrebbe compiuto nell’utilizzo della prima tranche dei 700 miliardi di dollari previsti dal TARP, immunità che, purtroppo per lui, non riuscì a ottenere!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

lunedì 16 marzo 2009

I bonus milionari di AIG e i topi posti a guardia del formaggio verde!


Dopo quasi venti mesi di tempesta perfetta sia io che i miei lettori ci siamo abituati a quella sorta di festival dell’ipocrisia, quando non è della vanità, rappresentata dalle dichiarazioni dei leaders politici e dei topi non del tutto a caso posti a guardia del formaggio, ossia i vigilatori e i regolatori che si sono mostrati alquanto distrattinei ventidue anni in cui sono state accuratamente poste le cause che ci hanno portati, dritti, dritti, nell’attuale meltdown finanziario che, purtroppo e inevitabilmente, si è propagato come la peste nera in Europa alcuni secoli orsono anche a quella che usiamo definire e bonomia reale.

Non so proprio quanto siano più ipocrite le parole di Lawrence Summers, già ministro del Tesoro di Clinton e che con Robert Rubin condivide la responsabilità dell’abbattimento di tutti i ‘paletti’ posti dalla legislazione bancaria degli anni Trenta, consentendo così la realizzazione di quelle banche universali del tipo di Citigroup e Bank of America che si vantavano apertamente di esere dei supermarket del credito e della finanza, peraltro operanti ventiquattro ore su ventiquattro, grazie alla loro presenza nei cinque continenti, o quelle pronunciate dal nuovo numero uno di American International Group, Edward Liddy, a proposito di quei 165 milioni di dollari di bonus destinati a quei campioni di top manager e manager che hanno portato la compagnia a quel fallimento da cui li ha salvati solo l’intervento dell’amico Hank Paulson e i 170 miliardi di dollari, per ora, a carico e rischio dei soliti noti, i disperati contribuenti a stelle e strisce.

Eh già, perché i due hanno fatto a gara nell’esprimere il proprio disgusto per quelle regole contrattuali che ‘impongono’ non già un equo processo volto ad accertare le responsabilità in merito a un disastro di proporzioni inimmaginabili occorso alla ‘loro’ compagnia, ma l’elargizione di ricchi premi e cotillons legati a parametri che definire demenziali e del tutto irrazionali rappresenta davvero un esercizio improbo dell’arte dell’eufemismo, ma che giunge buon ultimo in una lunga storia che ha visto cacciati ma plurigratificati per decine e centinaia di milioni i numeri uno di entità tecnicamente fallite e ‘salvate’ da latre banche a loro volta ampiamente foraggiate dai vari fondi di salvataggio via, via approvati da un Congresso statunitense terrorizzato dall’ex (?) investment banker Paulson, per decenni alla guida di quella potente e ancor preveggente Goldman Sachs che con AIG ha fatto affari d’oro e che è stata l’unica banca ammessa alle febbrili trattative svoltesi a metà settembre dell’anno scorso e volte a effettuare quello che è senza dubbio stato il salvataggio del secolo.

Risparmio i dettagli di queste buonuscite d’oro di cui sono stati gratificati quegli stessi Chairman, Chief Executive Officers (due cariche spesso e anche in questo caso per evidenti motivi coincidenti nella stesa persona), Chief Financial Officers, Chief Operating Officers e chi più ne ha ne metta che hanno condotto letteralmente allo sfacelo le banche di investimenti, le banche più o meno globali, le compagnie di assicurazioni più o meno monoliners e le altre entità protagoniste del mercato finanziario globale, anche perché i più assidui tra i miei lettori ne sono stati doviziosamente informati tempo per tempo e non vedo proprio il motivo per infliggere loro nuovamente quei raccapriccianti particolari, quali quelli realtivi al potentissimo numero uno di Merrill Lynch gratificato di una buonuscita di 160 milioni di dollari, più benefit annui sempre milionari!

Da garantista non d’accatto o dell’ultima ora, non chiedo processi sommari o non caratterizzati dalla solita presenza di stuoli di pagatissimi avvocati, quelli, per intenderci che girano la clessidra quando dedicano il loro preziosissimo tempo al cliente di turno, ma credo proprio che sia giunto il tempo di dare un senso all’operato di tanti General Attorney, dirigenti e funzionari della Securities and Exchange Commission, donne e uomini del Federal Bureau of Investigations, che, dopo mesi e mesi di intense indagini, spesso aiutate dall’operato di tante ‘gole profonde’ che hanno agito in molti casi del tutto pro bono o in cambio di una molto salvifica immunità, si sono formati un’idea abbastanza precisa delle responsabilità individuali dei protagonisti ai vari livelli di quel casinò a cielo aperto che era divenuto il magico mondo della finanza più o meno strutturata.

Uno dei maggiori responsabili della gestione veramente pazzesca della tempesta perfetta, quel Ben Bernanke in arte Bernspan, non pago di avere stampato moneta per migliaia di miliardi di dollari, cosa della quale è reo confesso, ha voluto deliziare gli impauriti abitanti degli Stati Uniti d’America che hanno fatto l’errore nel week end di sintonizzarsi con il talk show del quale il presidente del sistema della riserva federale era ospite, con la sua analisi della crisi finanziaria più grave della lunga storia dell’umanità, dicendo in soldini che, grazie all’utilizzo di altre migliaia di miliardi di dollari prelevati dai contribuenti, forse la crisi stessa potrebbe terminare alla fine dell’anno in corso, una previsione che segue decine se non centinaia di dichiarazioni di leaders politici, ministri dell’Economia o del Tesoro, banchieri centrali, banchieri semplici, opinionisti e giornalisti alquanto embedded alle logiche del capitalismo finanziario, tutte parole che non sono servite a costruire argini efficaci nei confronti dei sempre più alti marosi della tempesta perfetta che ha preso ufficialmente le mosse il 9 agosto del 2007!

Apprendo dai media che il ricorso da parte del Banco Popolare ai Tremonti Bonds servirà a trovare una soluzione ai guai della partecipata Banca Italease, quella colpita e affondata anche grazie alle malefatte di Massimo Faenza e complici, ma ho anche capito che altri banchieri più o meno in ambasce hanno capito, stando alle dichiarazioni rese dal meeting di Confcommercio in quel di Cernobbio, che è oramai giunta l’ora di mettersi in fila e con il cappello in mano di fronte al per la terza volta ministro italiano dell’economia, Giulio Tremonti, meritandosi così l’indulgenza plenaria da Silvio Berlusconi IV.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .