giovedì 30 giugno 2016

Quale è il piano salva banche del Governo?


Mentre tutti si stanno interrogando su quale è la prossima tappa del percorso di discesa senza freni del valore delle azioni delle banche italiane quotate nei mercati regolamentati, si viene a sapere che il Governo italiano ha allo studio dei non meglio precisati provvedimenti per venire in soccorso delle banche italiane tramortite dal livello elevatissimo dei Non Performing Loans, dall'ipotesi tutt'altro che remota di dover procedere, sotto la pressione della vigilanza europea, ad aumenti di capitale che il mercato assolutamente non gradisce, dalla normativa sul bail in che spaventa azionisti e risparmiatori, una normativa che ovviamente non distingue tra le molto disastrate banche venete e i colossi del settore che un tempo vantavano capitalizzazioni di borsa per decine e decine di miliardi di euro, basti pensare ai 60 miliardi di euro di Unicredit che ora si sono ridotti a meno di 12 miliardi, ma sorte analoga tocca a Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e Ubi.

D'altra parte è quanto va sostenendo da mesi il poco carismatico Governatore della Banca d'Italia e membro del Board della Banca Centrale Europea, il quale non perde occasione per ripetere il suo mantra sulla eccessiva rigidità del bail in che provoca la fuga precipitosa di azionisti e risparmiatori sin dalla prima lettera di messa in mora da parte della collaboratrice tedesca del capo della vigilanza europea creando così le premesse per un ulteriore dissesto della banca sotto esame, insomma un meccanismo perverso che aggiunge danni alla situazione spesso già traballante dell'istituto di credito attenzionato.

Una valutazione di assoluto buon senso quella di Visco e un ragionamento che ha ispirato il Governo e il suo braccio armato, la Cassa Depositi e Prestiti, a favorire la nascita del Fondo Atlante un organismo chiamato ad affrontare tutti e due i corni della questione, gli aumenti di capitale e lo smaltimento almeno di una parte delle sofferenze che affliggono le banche italiane, essendo a tutti chiaro che gli aumenti di capitale sono in tutto o in larghissima parte determinati dalle perdite cui le banche vanno incontro quando cedono, spesso al venti per cento del loro valore nominale, i crediti deteriorati alle entità specializzate nel recupero dei crediti.

Quale è quindi la soluzione a cui stanno lavorando dei ministeri e economici, della Banca d'Italia e della Cassa Depositi e Prestiti? Tutto parte dalla situazione eccezionale determinata dalla Brexit, una situazione che consente di utilizzare quanto previsto dai trattati europei che non escludono che in un frangente simile si possa derogare dal divieto di aiuti di Stato alle banche, anche se poi come si declinerà concretamente questa possibilità è ancora avvolto dalle nebbie, perché si passa da interventi di ricapitalizzazione a un rafforzamento di grandi dimensioni del fondo di dotazione del Fondo Atlante ad un mix di questi due interventi o altre misure che dovessero uscire dal lavoro del gruppo di esperti incaricato di individuare soluzioni!

martedì 28 giugno 2016

A che livello è posto il fondo dell'azionario?


Quando venerdì ho scritto "Brexit un vero bagno di sangue", pensavo francamente, come tanti, che quel crollo verticale del valore delle azioni delle principali banche italiane e, seppur in proporzioni leggermente più attenuate, di quelle europee rappresentasse un minimo da cui non si poteva che risalire, anche perché vedere Unicredit cedere in una sola seduta poco meno di un quarto del suo valore e Intesa San Paolo e Banco Popolare perdere, rispettivamente, il 24 e il 23 per cento, mentre l'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena riusciva, nell'ultima seduta della scorsa settimana, a "contenere" le perdite al 16 per cento.

Comprendere i motivi di questo vero e proprio crollo delle azioni delle banche italiane e dei principali colossi bancari europei non è semplice anche perché un nesso causale non c'è o è molto difficile da comprendere, anche perché è vero che esiste la possibilità che dalla Gran Bretagna possa spirare verso il Continente un vento recessivo, ma le proporzioni del crollo sono troppo grandi perché questa spiegazione regga, per non parlare poi del fatto che verosimilmente il divorzio della Gran Bretagna dall'Unione europea si consumerà soltanto tra un paio di anni.

Un motivo in realtà c'è ed è dato dall'ipertrofico settore bancario in Gran Bretagna, un comparto di attività che occupa circa un milione di persone (in Italia non si arriva a 300 mila) e intermedia un quarto dei flussi dell'intera Unione europea.

Analisti e operatori erano quindi in attesa all'apertura delle borse di ieri di assistere al previsto rimbalzo dai livelli davvero infimi toccati venerdì dal listino milanese, maglia nera in Europa con perdite che superavano di quasi sei volte quelle subite dal principale indice della borsa di Londra e inizialmente questo è avvenuto con un timido rimbalzo di qualche decimo di punto, ma è bastato poco per capire che non eravamo di fronte ad una inversione di tendenza, perché i titoli bancari hanno iniziato nuovamente ad affondare ed è scattata una raffica di sospensioni al ribasso che, solo nel listino principale, sono state dodici e tra queste spiccavano quelle dei titoli bancari ed è poi andata così per tutta la giornata per finire con perdite del 13 per cento circa per il Monte dei Paschi, dell'11 per cento circa per Intesa San Paolo e dell'8 per cento per Unicredit che così in due sole sedute ha perso il 32 per cento circa, pari a 83 centesimi in meno, mentre il Footsie Mib 100 ha lasciato sul terreno, tra venerdì e lunedì, oltre il 16 per cento. Perdite importanti anche per tutti gli altri listini europei, per le borse sudamericane e Wall Street. E domani è un altro giorno!




lunedì 27 giugno 2016

Dopo la Brexit un bagno di sangue sui mercati


In alcune puntate precedenti del Diario della crisi finanziaria, avevo messo in guardia dal facile ottimismo che si era diffuso nei giorni che hanno immediatamente preceduto questo 23 giugno 2016 che non so se, come sostiene Nigel Farage, sarà ricordato come l'Indipendence Day britannico o come il giorno della catastrofe, un ottimismo basato su sondaggi che si sono rivelati fallaci come già in occasione del referendum sull'indipendenza della Scozia, quello vinto con buon margine da quello stesso Cameron che venerdì ha dovuto dichiarare le sue dimissioni a certo tempo data per lasciare il passo a colui o colei che saranno incoronati a ottobre dal congresso dei conservatori.

Eppure la sera stessa del voto gli opinion polls davano un discreto margine a favore del remain, ma le banche della City avevano preparato per tempo i propri piani, mobilitando nella notte centinaia di traders e di analisti che si sono scatenati tra le tre e le quattro del mattino vendendo la sterlina e i future sugli indici azionari britannici e su quelli dei più importanti paesi membri dell'Unione europea che hanno poi aperto con livelli di perdita che in genere si verificano solo a fine seduta nei giorni più neri. Ma il peggio doveva ancora venire e devo dire che, mai come nella giornata di venerdì, la realtà ha superato di gran lunga l'immaginazione.

Per quanto riguarda la borsa italiana, di proprietà della borsa britannica e il cui indice principale si chiama Footsie Mib, l'unica cosa che riusciva a partire era l'indice, mentre le principali azioni che lo compongono erano in massa sospese per eccesso di ribasso, condizione dalla quale sono faticosamente uscite denotando, in particolare le maggiori banche, perdite intorno ai 20 punti percentuali, livelli di perdite dai quali davano nelle ore successive l'impressione di potersi risollevare, per poi risprofondare su perdite ancora peggiori che poi hanno mantenuto fina a quando è finalmente giunto il segnale di chiusura delle contrattazioni.

Era come se  fosse stato allestito uno stress test reale e ben diverso da quelli cui le autorità di vigilanza europea le sottopongono in modo virtuale ed è così che Unicredit ha perso il 24 per cento circa del valore segnato solo ventiquattro ore prima, mentre Intesa-San Paolo di punti ne ha persi 23, in linea con le perdite del Banco Popolare che ancora una volta avvicina il valore di mercato a quello previsto per l'aumento di capitale in corso, mentre il Monte dei Paschi di Siena è riuscito a limitare le perdite al 16 per cento. La perdita dell'indice di Piazza Affari ha segnato un record storico coni 12,48 per cento. Nel frattempo la sterlina perdeva il 10 per cento contro l'euro, mentre oro e Bund tedeschi volavano e la somma delle perdite dei mercati europei, Londra inclusa, superava i 600 miliardi di euro.

venerdì 24 giugno 2016

Ora allacciate le cinture di sicurezza


Quando leggerete questo articolo, forse sarete già al corrente del risultato del referendum svoltosi ieri e nel quale i cittadini britannici sono stati chiamati a decidere se rimanere nell'Unione europea con un pacco di eccezioni che non ha pari in nessuno degli altri 27 paesi dell'Unione o semplicemente decidere di recidere quel cordone ombelicale esistente da più di quaranta anni e tornare ad una politica isolazionistica con i vantaggi e i rischi che questo comporta.

Sì, perché, al contrario di quello che in tanti pensavamo, lo spoglio delle schede del referendum pur essendo iniziate ieri alla chiusura dei seggi alle 23 verrà ufficialmente comunicato questa mattina (e senza la diffusione di veri e propri exit exit polls dopo la chiusura dei seggi) aggiungendo suspence, ove se ne sentisse il bisogno, ad una attesa che ha prodotto sfracelli sui mercati con perdite di oltre mille miliardi di euro in poche sedute, perdite solo parzialmente recuperate quando i mercati si sono convinti che con il barbaro assassinio della giovane deputata laburista Jo Cox il vento fosse radicalmente cambiato a favore del remain, una visione che ho criticato in "Brexit o non dir quattro se non l'hai nel sacco", sia per motivi etici sia per la scarsa consistenza in un Paese spaccato in due e dove le convinzioni di chi propende per il leave sono molto radicate e molto emotive.

Sono andato a dormire, come tanti, sull'indicazione di opinion polls che davano in testa il fronte del remain su quello del leave per quattro punti percentuali, mentre si profilava un record di affluenza alle urne eccezionale per la Gran Bretagna e che oscilla intorno al 70 per cento, ma quando, a metà delle schede scrutinate, si è visto un prevalere dei sì all'uscita sui no per mezzo milione di voti la sterlina ha iniziato a perdere contro il dollaro portandosi a 1,30 dollari contro gli 1,50 di ieri sera, livelli non toccati dal lontano 1985 e i futures sul principale indice borsistico di Londra segnalano un meno 6 per cento e la borsa di Tokyo sta perdendo sette punti percentuali, le quotazioni dello oro sono cresciute di quasi il 5 per cento, mentre si registra una significativa flessione del prezzo del petrolio, ma il grosso, se la tendenza attuale favorevole all'uscita dall'Unione europea si trasformerà, come è ormai certo, in certezza, lo vedremo quando apriranno i mercati europei.

Sono certo che molti giornalisti hanno preparato due pezzi, a seconda dello scenario che prevarrà, ma io penso sinceramente che, alla luce del risultato, nulla sarà come prima perché al Governo Cameron non sono bastati i quattro punti strappati all'Unione europea a febbraio e molto probabilmente sarà costretto a dimettersi aprendo la strada ad elezioni che vedranno il prevalere dei partiti sensibili alle ragioni dei sostenitori della Brexit e a una politica dell'immigrazione dai paesi dell'Unione europea che si profila già come molto dura!

giovedì 23 giugno 2016

La Guardia di Finanza apre un faro sulla Popolare di Vicenza


Su mandato della procura della Repubblica di Vicenza che indaga sui reati di aggiottaggio  e ostacolo alle attività di vigilanza, un nucleo di ufficiali della Guardia di Finanza  ha operato martedì una perquisizione della mastodontica sede centrale della Banca Popolare di Vicenza per acquisire documentazione su quanto avvenuto nel triennio 2012-2015, gli ultimi ma più intensi anni dell'era Zonin conclusisi con una perdita miliardaria di 1,4 miliardi di euro e che darà il via alla nuova gestione che poi affonderà sull'aumento di capitale da 1,5 miliardi, aumento andato praticamente deserto e che aprirà le porte al Fondo Atlante che si sostituirà al mercato divenendo proprietario del 99,3 per cento del capitale post aumento, acquisendo le azioni a 10 centesimi contro i 62 euro a cui erano state collocate in un non troppo remoto passato.

Due erano i meccanismi adottati ai tempi della gestione Zonin, allora dominus indiscusso della banca, all'attenzione della vigilanza europea e di quella della Banca d'Italia che agisce come braccio operativo della prima e sono la manipolazione deliberata dei profili Mifid di circa 58 mila clienti della banca vicentina, mentre più interessante per comprendere gli sviluppi patrimoniali e reddituali dell'istituto di credito è l'altro meccanismo, quello che vedeva una sorta di patto scellerato che prevedeva prestiti a imprenditori sia locali che provenienti da fuori regione in cambio della sottoscrizione di azioni della banca, ovviamente proporzionato a quanto si riceveva senza troppa attenzione al merito creditizio del richiedente, a meno di considerare garanzie le azioni acquisite a quei prezzi stratosferici e che ben presto perderanno verticalmente di valore.

Non so quale sia stata la reazione del capo della vigilanza europea, Daniele Nouy, e della sua collaboratrice tedesca che segue da vicino il dossier delle banche italiane alle relazioni dettagliate del doppio meccanismo messo i piedi dalla banca veneta, ma è certo che raramente si sono trovate di fronte a una frode di queste dimensioni che vede classificati come investitori professionali casalinghe, pensionati e altri cittadini che a stento distinguono un'azione da una obbligazione, persone che hanno visto andare in fumo i loro risparmi, giungendo in un caso recente di cronaca a compiere gesti estremi, anche se le evidenze palmari emerse aprono la strada al risarcimento totale di quanto hanno investito.

Ma le vere sorprese verranno dall'intreccio incestuoso tra acquisto di azioni e concessione di finanziamenti poi finiti, in larga parte, tra le partite incagliate della banca, basti pensare al caso di Alfio Marchini che di milioni di euro ne deve alcune decine, per non parlare dell'oscura vicenda lussemburghese. Le perdite miliardarie della Popolare di Vicenda nascono in realtà dalla somma di centinaia di posizioni nelle quali il credito erogato nasceva sin dall'inizio come sofferenza, mentre le azioni acquistate dagli stessi soggetti diventavano carta straccia.


mercoledì 22 giugno 2016

Brexit o non dir quattro se non l'hai nel sacco!


Il cinismo dei mercati finanziari ha dato una prova agghiacciante di sé quando è giunta la notizia che Jo Cox, attivista dei diritti umani e membro del parlamento inglese eletta nelle file del partito laburista, era stata barbaramente uccisa da un militante dell'estrema destra che sosteneva il primato della razza bianca, una notizia che ha fatto fare due più due a quanti sono impegnati nelle sale operative delle banche più o meno globali che, come nei giorni precedenti avevano affondato l'affidabile con perdite per mille miliardi di euro solo nei mercati azionari europei, così si sono gettati a capofitto a comprare  il comprabile, proseguendo in questa tendenza anche nelle sedute successive a quel tragico pomeriggio.

Mentre la politica britannica, un mondo che di cinismo de ne intende e non certo da oggi, sospendeva per diversi giorni la campagna elettorale e ieri dava in una seduta commemorativa che vedeva uniti deputati membri della Camera dei Lord una dimostrazione di civiltà che ha commosso il Paese, analisti e operatori scommettevano sulle probabilità di vittoria che la morte di Jo, convinta europeista, avrebbero dato al remain, complice anche l'ultima scivolata del leader dell'Ukip, Farage, che aveva inaugurato una serie di cartelloni montati su camion che mostrano un corteo di immigrati che a suo avviso vanno assolutamente fermati, incurante della estrema somiglianza di questa immagine con quelle esibite nel regime nazista.

Seguendo da una vita i mercati finanziari non dovrei stupirmi di tutto ciò, in particolare avendone fatte le cronache per nove anni nel Diario della crisi finanziaria, ma esistono momenti come questo, nei quali si specula anche sull'assassinio di una donna giovane, madre di due figli, che ha dedicato la sua giovane esistenza ai diritti di quanti, in particolare in Africa, dove è stata impegnata per alcuni anni, non hanno voce!

Lasciando da parte i giudizi morali e l'indignazione, ritengo che questa scommessa sull'impatto di questo tragico evento sull'esito di un referendum che ha spaccato a metà l'opinione pubblica britannica sia anche molto azzardato come lo è stato in precedenza affidarsi ai risultati di sondaggi a un tanto al chilo, il tutto quando sondaggi molto stratificati e con un campione di 16 mila persone denotavano la difficoltà di fornire un quadro omogeneo degli orientamenti elettorali su una questione tanto divisiva e complessa, ma certo non consiglierei a nessuno di scommettere un centesimo su quanto decideranno gli elettori inglesi, gallesi, scozzesi e nord irlandesi giovedì prossimo, un esito che conosceremo peraltro solo il giorno successivo!

martedì 21 giugno 2016

Veneto Banca: la nave affonda e i topi scappano


Dopo il cruento ribaltone avvenuto nell'ultima assemblea di Veneto Banca, quella che aveva visto il presidente precedente e la sua lista messi in minoranza e l'amministratore delegato Carrus degradato a direttore generale, le due liste di "grandi" azionisti, zeppe di persone che dovevano alla banca centinaia di milioni di euro, avevano promesso che per l'aumento di capitale da un miliardo di euro imposto dalla vigilanza della Banca Centrale Europea non si sarebbe ripetuto lo scenario della Banca Popolare di Vicenza, dove il fuggi fuggi dei soci aveva portato il Fondo Atlante a sborsare 1,5 miliardi di euro per il 99,3 per cento del capitale post aumento, e che erano sicure sottoscrizioni per 150-200 miliardi di euro, che, secondo il portavoce di una di queste associazioni potevano arrivare sino a 600 milioni che avrebbero portato i vecchi soci anche oltre la soglia della maggioranza assoluta del capitale della banca di Montebelluna.

Quando mancano pochi giorni alla conclusione dell'aumento di capitale, queste manifestazioni di interesse si sono dissolte come neve al sole e le adesioni per ora pervenute rappresentano percentuali da prefisso telefonico, e i capitani coraggiosi protagonisti del brusco avvicendamento aziendale motivano il loro ormai quasi certo disimpegno con l'incertezza delle strategie future della banca, sì proprio quel piano strategico atteso per ora invano dalla Nouy e dalla sua collaboratrice tedesca che segue da vicino il dossier.

Giunti a questo punto, due cose appaiono certe e la prima è che Veneto Banca non sarà ammessa al listino di borsa, pur essendosi dichiarata disponibile Borsa Italiana a non essere fiscale sulla soglia minima del 25 per cento di flottante, e che il Fondo Atlante dovrà staccare un assegno da poco meno di un miliardo di euro per assicurarsi poco meno del 100 per cento del capitale sociale post aumento, essendo di fatto azzerato quello precedente, e potrà avere così mano libera nella ristrutturazione, alquanto cruenta, della banca, così come farà in quella Banca Popolare di Vicenza dove si è scoperto che ben 58 mila clienti sono stati classificati con profili di rischio più alti di quello che avrebbe richiesto la loro effettiva condizione.

Nel bagno di sangue che da diverse sedute sta caratterizzando le banche italiane in borsa, l'altra grande banca con sede nel Veneto, il Banco Popolare sta avvicinando la sua quotazione al prezzo previsto per l'aumento di capitale da un miliardo (il che porta il totale richiesto al mercato dalle banche venete nel breve volgere di un paio di mesi alla cifra di 3,5 miliardi di euro), un prezzo di 2,17 che sembrava infimo quando, poche sedute fa, il Banco risiedeva stabilmente nell'area dei quattro euro.

lunedì 20 giugno 2016

Padoan richiama all'ordine i grandi soci di Unicredit!


Dopo la squagliamento in borsa di giovedì scorso dell'azione di Unicredit ad un minimo ultrastorico di 2,13 euro (ne quotava circa 7 nella primavera dello scorso anno), c'è voluta una perentoria dichiarazione del ministro italiano dell'Economia, Piercarlo Padoan,  che nel pieno della conferenza stampa in conclusione dei lavori dell'Ecofin, la riunione periodica dei ministri delle finanze dei paesi membri dell'area dell'euro anche denominata eurogurppo un organismo che tanti lutti addusse in passato alla povera Grecia, ha fatto un breve passaggio su quella che è la seconda banca italiana e un gruppo creditizio europeo di dimensioni ragguardevoli, dichiarazioni che hanno consentito un netto recupero dell'azione nella seduta di venerdì scorso, con un aumento che ha sfiorato il dieci per cento, anche se l'azione non riesce a recuperare i livelli che aveva prima delle più che annunciate dimissioni del Chief Executive Officer, Federico Ghizzoni.

Ma cosa ha detto in realtà un non proprio disteso Padoan in quel di Bruxelles? Ha richiamato sostanzialmente i rappresentanti di quel gruppo ristretto di soci di Unicredit a rompere gli indugi e di finirla con il giochetto dei veti incrociati che vedono Protagonisti Palenzona, Biasi e altri esponenti di società che insieme possiedono circa un quarto della banca, sostenendo Padoan che i nomi di banchieri adatti a ricoprire il prestigioso ma anche molto impegnativo incarico di numero uno operativo di Unicredit ci sono e che gli stessi sono assolutamente all'altezza di guidare la banca in questa fase molto tormentata della sue esistenza e che si tratta soltanto di scegliere tra uno dei candidati.

Padoan è stato molto attento a non travalicare i confini esistenti tra l'attività del Governo e l'autonomia dei soci di una banca privata, ma le leggi esistenti gli consentono ampiamente di dire la sua su una situazione di stallo giudicata assolutamente intollerabile dai mercati che, infatti, stavano sparando ad alzo zero sulle quotazioni di un'azione che che rischiava seriamente di sprofondare a livelli da prefisso telefonico, un'eventualità che avrebbe reso molto difficili sia le previste dismissioni di assetts importanti del gruppo, sia avrebbe reso estremamente difficile quell'aumento di capitale da cinque miliardi di euro di cui la stampa specializzata e gli analisti finanziari stanno parlando da molto tempo.

D'altra parte, era impossibile per il Governo non intervenire quando fonti molto vicine al dossier avevano parlato apertamente di tempi di attesa per l'individuazione del nuovo amministratore delegato che si spingevano sino a fine luglio, determinando un clima di incertezza intollerabile.

Quella di venerdì è stata la puntata numero mille del Diario della crisi finanziaria, un'eventualità che non avevo proprio preso in considerazione quando questa avventura ha preso le mosse nove anni fa.

venerdì 17 giugno 2016

Quella di oggi è la puntata numero mille del diario della crisi finanziaria


Quando nel settembre del 2007 ho iniziato a pubblicare il Diario della crisi finanziaria non avrei mai immaginato di pubblicarlo per tanti anni e che sarei arrivato alla puntata numero mille, così come non pensavo che sarebbe stato letto da centinaia di migliaia di persone risiedenti in decine di nazioni, con punte impressionanti nei momenti più caldi della tempesta perfetta.

Colgo l'occasione per ringraziare tutti lettori che hanno visitato il sito e le decine di siti che hanno ritenuto di pubblicare le puntate di questa iniziativa editoriale che, lo ricordo, è assolutamente pro bono e senza nessuna forma di pubblicità.

Ma perché la BCE compra 20 miliardi al mese di Bund?


Tra i tanti lamenti che il presidente della Bundesbank, Weidmann, muove alla politica monetaria della BCE, il massiccio Quantitative Easing che in buona parte si traduce in acquisto di titoli rappresentativi del debito sovrano degli stati membri dell'eurozona, non ne ho mai sentito uno sulla pratica di acquistare non solo titoli dei  paesi "pencolanti", ma, per quasi un terzo delle disponibilità mensili del piano ben 20 miliardi di euro di Bund alle varie scadenze, ma in buona parte proprio di quelli a scadenza decennale che fanno da riferimento per calcolare il differenziale con gli omologhi titoli degli altri paesi determinando quel valore sintetico che è definito spread e finendo per mandare anche il rendimento dei decennali in territorio negativo, come già da tempo accade per i Bund dalle scadenze più brevi.

Quello che c'è di assurdo nella politica seguita dalla BCE a guida Mario Draghi è rappresentato dalle quantità impiegate nei confronti di un titolo di stato che per ragioni sui quali non intendo annoiare chi legge è di fatto un titolo rarefatto per cui anche ondate di acquisto di proporzioni ben inferiori a quelle che caratterizzano da più di un anno l'istituto centrale di Francoforte hanno consentito di tenere i rendimenti di poche decine di basis point al di sopra dello zero, il che ha determinato valori esagerati dello spread pur in presenza di rendimenti dei decennali degli altri stati molto contenuti rispetto a quelli evidenziati in un recente passato, è il caso dello spread BTP-Bund con il decennale italiano che segnala, anche nei momenti peggiori, valori che sono quasi un quarto di quelli registrati nell'orribile 2011, l'anno nel quale vi furono manovre orchestrate e finalmente accertate tra le banche globali europee, Deutsche Bank in testa con i suoi 7 miliardi di euro di titoli italiani venduti quasi contemporaneamente e mentre la banca tedesca invitava, tramite le sue newsletters, i suoi clienti a non disfarsene!

D'altra parte, la stranezza del comportamento di Draghi e compagni fa il paio con l'altrettanto strano comportamento della Commissione europea che, pur fedele custode dei trattati e dei parametri che hanno strangolato i paesi membri nei terribili anni delle prime due fasi della tempesta perfetta, dimentica ogni anno che vi è una previsione che impone di sanzionare il paese membro che evidenzia un saldo delle partite correnti che per oltre tre anni superi il 6 per cento del prodotto interno lordo, cosa che la Germania fa da oltre un quinquennio, giungendo nel 2015 all'8 per cento, senza che l'argomento sia stato neppure sfiorato quando la Commissione ha distribuito in maggio le severe pagelle agli stati membri.

L'aspra campagna per il referendum sull'uscita o la permanenza della Gran Bretagna dall'Unione europea si è purtroppo tinta di rosso con l'omicidio della deputata laburista Jo Cox, impegnata nella difesa dei diritti umani e fermamente contraria alla Brexit, da parte di un uomo schierato sul fronte opposto.

giovedì 16 giugno 2016

L'ira dei grandi azionisti di Unicredit


Da quando il Chief Executive Officer di Unicredit, Vittorio Ghizzoni ha deciso di cedere alle pressioni dei grandi azionisti della banca italiana ma presente in forze in altri importanti mercati creditizi europei, Germania, Austria e Polonia in testa, dichiarando in un consiglio di amministrazione di fine maggio di essere disponibile, dopo avere ovviamente concordato le laute condizioni economiche per l'addio, a passare la mano, l'azione di Unicredit ha perso, al 14 giugno il 30 per cento del suo valore toccando i 2,21 euro, un minimo storico che va raffrontato ai quasi 7 euro della primavera scorsa e perdendo 18 miliardi di euro di capitalizzazione (ora sono ridotti a poco più di 13 miliardi) dall'inizio di quest'anno di disgrazia 2016, l'anno che segna l'avvio di una terza e molto complicata fase di quella tempesta perfetta che ha preso le mosse nel luglio del 2007.

Certo, in un mercato azionario europeo che ha bruciato 2.500 miliardi di euro in sette sedute non c'è da stare allegri e i guai della seconda banca italiana potrebbero anche passare quasi inosservati, tenendo conto di quanto accade al Monte dei Paschi di Siena o ancor più alle due banche destinate a convolare a nozze entro novembre, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, con l'azione del primo che sta quasi raggiungendo il prezzo fissato per l'aumento di capitale da un miliardo di euro attualmente in corso, ma non vi è dubbio che il mercato non può non rimanere sconcertato rispetto a una banca globale, quale Unicredit è, i cui azionisti più importanti non hanno pronta la candidatura del banchiere che dovrà rimpiazzare il grigio Ghizzoni, un uomo che non verrà ricordato per intuizioni di rilievo fondamentale, ma che almeno si è adoperato in questi anni per dare una sistemata ai conti dopo la effervescente gestione di Alessandro Profumo.

Un po' di ritardo per la scelta del nuovo numero operativo passi, ma quando da fonti autorevoli e, come si dice, vicine al dossier, si è appreso che l'attesa del nuovo numero operativo potrebbe non trovare termine prima di fine luglio le vendite si sono letteralmente scatenate con volumi esagerati e quelle perdite verticali del valore dell'azione di cui parlavo all'inizio e che in un tentativo di rimbalzo mercoledì scorso dopo varie sedute di bagno di sangue ha fallito clamorosamente il ritorno nell'area dei 2,30 euro per ripiegare rapidamente verso i livelli ignominiosi toccati nelle sedute precedenti.

Ma quale è la materia del contendere tra i grandi soci di Unicredit, che insieme ne controllano circa un quarto delle azioni e che per la dispersione degli piccoli azionisti fanno il bello e il cattivo tempo nell'istituto di Piazza Cordusio? E' presto detto: vi è un contrasto sanguinoso tra gli esponenti delle tre fondazioni bancarie che a suo tempo diedero vita insieme al Credito Italiano a Unicredit, un confronto che vede su fronti opposti Palenzona che vorrebbe Nagel di Mediobanca come nuovo CEO e Paolo Biasi di Cariverona che preferirebbe, come quasi tutti gli altri soci, un banchiere esterno al mondo Unicredit (primo azionista di Mediobanca che, a sua volta è un importantissimo azionista delle Assicurazioni Generali) e come dargli torto? Si è poi saputo ieri che, di fronte a quanto sta accadendo sui mercati, Unicredit ha deciso di accelerare i tempi e, nel giorno del voto su Brexit, cioè giovedì della prossima settimana, verrà esaminata una terna di nomi per la sostituzione di Ghizzoni.

mercoledì 15 giugno 2016

Cosa sta accadendo allo spread?


Qualche mese fa, ho pubblicato una puntata del Diario della crisi finanziaria nella quale fornivo poche e semplici istruzioni per comprendere un dato sintetico come lo spread tra il BTP decennale e il Bund tedesco avente pari durata, ma ora che la crisi finanziaria si sta facendo sempre più cruenta, in particolare per l'approssimarsi della scadenza del referendum che stabilirà se la Gran Bretagna resterà nell'Unione europea o, viceversa, se la lascerà, credo utile ricordare quanto dicevo allora, anche perché si è verificato un fatto nuovo e che non era mai successo nella storia e, cioè, il passaggio dei rendimenti sul Bund a valori, seppur lievemente negativi.

Cosa significa questo? Sta a significare che il rendimento di un BTP, poniamo l'1,47 per cento, ossia 147 punti base, in presenza di un rendimento negativo del Bund dello 0,03 per cento, porta lo spread a 150 punti base, esattamente come si è verificato ieri ed è una cosa importante perché il differenziale era riuscito a portarsi intorno ai 100 punti base ed ora è a ridosso della soglia psicologica dei 150 punti base, pur se, in termini di rendimento, le cose non siano mutate in maniera significativamente rilevante tra questi due periodi.

Quello che sta avvenendo in realtà è quel fenomeno di cui ho parlato pochi giorni orsono è che definito fly to quality e cioè che quando si entra in un periodo di forti turbolenze economiche e/o geopolitiche gli investitori abbandonano gli investimenti a rischio, come i titoli pubblici dell'area mediterranea, per spostarsi verso il titolo rappresentativo del debito della maggiore economia dell'Unione europea, la Germania appunto, e nel fare questo non badano al livello del rendimento, sono anche disposti a rimetterci, in particolare se si tratta di fondi pensione, grandi compagnie di assicurazione e banche più o meno globali.

D'altra parte, anche le banche dell'area euro sono disposte a pagare un premio dello 0,40 per cento alla Banca Centrale Europea per depositare presso di essa centinaia di miliardi di euro al giorno che non prestano a famiglie e imprese pur concedendo la BCE ingentissimi finanziamenti a tassi che vanno dallo zero al meno 0,30 per cento, rappresentando questo fenomeno uno dei motivi per cui il Quantitative Easing in corso da oltre un anno non sta facendo ripartire l'economia, né è in grado di combattere la deflazione.

martedì 14 giugno 2016

Draghi e Brexit mettono ko le banche italiane


C'è stata una seduta di borsa nel corso della scorsa settimana nella quale sembrava che un raggio di sole avesse colpito le banche italiane quotate, ma poi è venuta la terribile seduta di venerdì 10 con una vera e propria alluvione di ordini di vendita che in certi momenti avevano difficoltà a trovare controparti, il tutto tra un profluvio di sospensioni per eccesso di ribasso che hanno colpito, in particolare, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, i titoli del Gruppo Unipol, mentre molto malconcie risultavano anche le due candidate alle nozze, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, ma è stata una seduta nella quale è difficile individuare qualche segno positivo. Scenario replicatosi poi nella seduta di ieri che ha visto le perdite per alcune banche toccare il 10 per cento.

Cosa è accaduto per determinare uno sconquasso di queste proporzioni? In primo luogo le dichiarazioni di Super Mario, al secolo Mario Draghi, in particolare quell'invito rivolto alle banche dell'area euro, ma tutti sapevano bene che il riferimento era a quelle italiane che sono caratterizzate da un livello dei Non Performing Loans sul totale degli impieghi vivi multiplo di quello delle banche degli altri paesi europei, l'invito dicevo a non perdere tempo nel prendere di petto il problema, un invito che fa il paio con l'attivismo forsennato delle due donne alla guida della vigilanza bancaria europea presso la BCE che tanti dolori stanno provocando ai vertici delle banche italiane e a quelli di quei gruppi assicurativi, come Unipol, che hanno in pancia  una banca dai conti che è quasi un eufemismo definire disastrati.

Il problema è che la consapevolezza tra i vertici bancari del nostro Paese sulla necessità di affrontare questo problema è pressoché corale, in particolare tra quanti hanno già ricevuto corrispondenza da Madame Nouy e dalla sua stretta collaboratrice tedesca, ma il problema rimane quello sui tempi, anche se c'è un grandissimo gruppo come Unicredit dal quale è trapelato che la scelta del numero uno non dovrebbe avvenire prima di fine luglio e non è certo un caso se ieri il suo titolo ha subito l'onta di segnare nuovi minimi storici con una flessione di oltre il 6 per cento.

La seconda ragione dell'ecatombe di venerdì scoro è data dalla diffusione di un sondaggio del quotidiano inglese The Independent che dava i sostenitori dell'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea avanti di dieci punti su quanti vogliono rimanere e a poco è servito che la media dei sondaggi dà i sostenitori del remain ancora avanti seppur di poco a quelli del leave.

Una persona che di valute se ne intende, come il miliardario George Soros, l'uomo che divenne ricco nel 1992 scommettendo contro la sterlina inglese e la lira italiana, sostiene che finché la sterlina sarà forte difficilmente l'esito del referendum sarà quello di un'uscita dall'Unione europea, ma il problema è che venerdì  e ieri la valuta britannica ha iniziato vistosamente a perdere colpi!  

lunedì 13 giugno 2016

La Brexit e il fly to quality


Mancano oramai meno di due settimane  al momento. giovedì 23 giugno, nel quale ci sarà la prova della verità sulla semplice opzione offerta dal referendum ai cittadini britannici e che consiste nel decidere se restare nell'Unione europea a 28 paesi, dei quali una ventina aderenti all'euro, o uscirne definitivamente, una scelta che sembra francamente incredibile per una Gran Bretagna che paga il conto meno salato al bilancio comunitario e che gode del più alto numero di opting out rispetto a tutti gli altri paesi dell'Unione e che non più tardi del febbraio di questo anno di disgrazia 2016 ha conseguito ulteriori deroghe su quattro punti tra cui la non applicazione dei benefici del welfare per molti anni agli stranieri, inclusi, e forse soprattutto, quelli provenienti da altri paesi membri dell'Unione.

Come ricorderà chi ha letto le precedenti puntate del Diario della crisi finanziaria sull'argomento, vi è stata una levata di scudi da parte dei governanti di altri paesi del mondo occidentale, Barack Obama in testa, di organismi economici sovranazionali, singoli imprenditori ed opinion makers che hanno "avvertito" i cittadini britannici dei rischi elevatissimi per l'economia di quel paese e per la stessa occupazione, per non parlare dei conti con l'estero, un pressing molto pesante e ai limiti dell'ingerenza che ha finito per avere, a quanto pare dai più recenti sondaggi, addirittura un effetto negativo aumentando le schiere dei sostenitori del leave e riducendo quelle di quanti sono schierati per il remain.

Il rischio che, a differenza del referendum scozzese dello scorso anno, si arrivi ad un esito elettorale favorevole all'uscita della Gran Bretagna dall'Unione è stato per prime percepito dalle grandi banche di investimento, in particolare di quelle basate nella City di Londra, che hanno commissionato costosissimi sondaggi riservati che hanno rivelato in anticipo di questa nuova tendenza (avvertita anche da larga parte dell'establishment britannico) tendenza che è vista con grande preoccupazione e che ha spinto molti dei loro clienti a scelte di investimento basata sul principio del fly to quality, privilegiando i titoli di Stato statunitensi, quelli tedeschi (giunti ormai a rendimenti dello 0,02 per cento) e anche quelli britannici, il tutto mentre la sterlina continua ad essere in posizione di grande debolezza.

Ma, come si sarebbe detto un tempo, non tutto è perduto in questa battaglia che per un certo tempo è stata sottovalutata, anche per l'attivismo oltre che di Cameron e di alcuni suoi ministri, del partito laburista che vede nel nuovo sindaco di Londra un astro emergente che sta spendendosi molto per evitare la Brexit, dei leaders sindacali che temono per gli inevitabili riflessi sull'economia e sull'occupazione e dell'intera nazione scozzese, ma anche in parte di quella gallese, che vede nell'Unione europea un ombrello difensivo in favore delle sue istanze indipendentiste, anche se anche in Gran Bretagna, come del resto nel resto dell'Europa, il vento dell'antipolitica e dell'isolazionismo spirano molto forti!


venerdì 10 giugno 2016

Facciamo il punto sulla terza fase della tempesta perfetta


Quando ho ripreso a tenere il diario di bordo della flottiglia  finanziaria nella terza e più complessa fase della tempesta perfetta  ho individuato l'esistenza di tre bolle speculative quasi tutte semi sgonfie o completamente scoppiate: il petrolio, le banche,  in particolare quelle europee e, nell'ambito di queste, di quelle italiane e il settore immobiliare. Su queste bolle impattava e sta continuando a farlo l'operato delle banche centrali che venivano, eccezion fatta della Federal Reserve, nella politica dei tassi a zero o sottozero, così come continuavano nella politica di inondare il mercato di liquidità, anche se in presenza di una difficoltà di trasmissione della politica monetaria dal settore finanziario alle famiglie e alle imprese.

Iniziamo dal prezzo del petrolio che, dopo aver toccato un minimo a 26 dollari al barile per il WTI, ha iniziato una lenta e poco comprensibile ripresa, sino a toccare un quasi raddoppio proprio in questi giorni senza che il problema principale che aveva spinto al tracollo fosse stato minimamente scalfito e che risiedeva in quella distanza di 1-2 milioni di barili al giorno tra la domanda e l'offerta, essendo anche falliti i tentativi in sede OPEC di ridurre o almeno congelare i livelli di produzioni, proposte che sono ripetutamente naufragate a causa dell'opposizione dell'Iran che ha ripetuto fino alla nausea che prima doveva recuperare i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.

Per quanto riguarda le banche europee, chi pensava che fossero stati ormai toccati i minimi è stato smentiti dai fatti e restiamo con il cerino acceso per quanto riguarda le banche globali con sede in Germania e in Francia, anche se i veri dolori vengono dal sistema creditizio italiano che, rispetto al maggio dello scorso anno, ha visto pressoché dimezzata la capitalizzazione di borsa, con punte superiori per Unicredit e Monte dei Paschi di Siena, e mentre il neonato Fondo Atlante si è letteralmente impantanato in quel buco nero che è il credito nella regione Veneto, esaurendo, come ho scritto ieri, o quasi le sue risorse negli aumenti di capitale di sole due banche con sede in quella disastrata regione!

Qualche raggio di luce viene invece dal settore immobiliare sia in Europa che in Italia, risveglio testimoniato nel nostro Paese dall'impennata delle compravendite e dal raddoppio dei mutui, anche se ancora non si vedono segnali di risalita dei prezzi che, secondo molti osservatori, stanno solo riducendo la flessione.

Chi ha letto le puntate precedenti si stupirà dell'assenza della Cina ancora alle prese con il problema dei crediti deteriorati e della persistente e massiccia fuga di capitali, ma il fatto è che oramai le statistiche ufficiali di quella grande nazione sono inattendibili anche se non riescono del tutto a mascherare l'ulteriore peggioramento della situazione.

giovedì 9 giugno 2016

Atlante veneto brucia quasi tutte le sue risorse


Ormai è quasi ufficiale: il neonato Fondo Atlante con Veneto Banca si appresta  a fare il bis di quanto è avvenuto con la Banca Popolare di Vicenza dove ha immobilizzato 1,5 miliardi di euro per ottenere il 99 per cento e rotti delle azioni di una banca tecnicamente fallita e gravata di un ammontare di Non Performing Loans dal livello realmente preoccupante e in molti casi senza garanzie per quel meccanismo perverso che prevedeva crediti facili per gli amici e per quanti accettavano di acquistare azioni e/o obbligazioni della banca allora saldamente guidata da quel Gianni Zonin che, in vista di richieste di risarcimento elevatissime, si è reso praticamente nullatenente donando ai figli le sue quote dell'impero vitivinicolo di sua proprietà.

Certo, l'impegno massimo nell'operazione di aumento di capitale di Veneto Banca sarà "solo" di un miliardo di euro, ma, nell'ipotesi che pochi o nessuno degli attuali e molto inferociti soci si presentasse all'appello, ci troveremmo nella situazione nella quale il fondo gestito da Penati avrebbe impegnato 2,5 dei 3 miliardi di euro previsti per il capitolo degli aumenti di capitale delle banche italiane, mentre ancora si ignora quanta parte degli 1,2 miliardi previsti per i Non Performing Loans saranno assorbiti dalla maxi operazione annunciata dallo stesso Penati e da eseguirsi prima della fine dell'anno.

Ma, sempre con origine nel Veneto, vi è l'aumento di capitale di Banco Popolare di Verona e Novara, una richiesta al mercato per un altro miliardo di euro e che è partita all'inizio di questa settimana, un aumento per il quale non è previsto l'intervento di Atlante, anche se anche in questo caso bisognerà vedere quanto entusiastica sarà la risposta degli azionisti attuali e di quelli futuri, che potrebbero anche essere allettati dal fatto che il valore delle nuove azioni è stato fissato con un generoso sconto rispetto alle quotazioni recenti di borsa.

Ma cosa se ne farà Atlante delle due banche ormai quasi certamente acquisite? E' presto detto ne farà carne da macello, come del resto i fondi speculativi come Quaestio che è il fondo presso il quale è stato costituito Atlante sono abituati a fare quando entrano in una banca o in un'azienda, e lo farà fondendo molto probabilmente i due istituti di crediti, tagliando brutalmente gli organici e aggredendo gli NPL acquistandoli anche a meno del 20 per cento del loro valore nominale, insomma una politica di gestione lacrime e sangue che non ha, tuttavia, molte alternative realistiche e che è resa indispensabile alla luce delle malefatte del passato!

mercoledì 8 giugno 2016

Eugenio Scalfari parla della possibile uscita della Germania dall'euro!


Non volevo credere ai miei occhi domenica scorsa leggendo l'editoriale di Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica e dominus incontrastato di quel giornale che, dopo di lui, ha visto avvicendarsi alla guida della prestigiosa testata Ezio Mauro e Mario Calabresi, due ottimi giornalisti ma che non sono assolutamente in grado di influire sulla linea di un giornale che, a novanta anni suonati, è ancora legato alle posizioni di un uomo le cui idee affondano nelle radici del partito d'azione e protagonista, non so quanto pentito, della nascita del partito radicale di Marco Pannella.

Quale era il motivo della mia sorpresa? E' presto detto: dopo il solito e lungo sproloquio domenicale, Scalfari affronta di petto un tema delicatissimo quale la posizione che la Germania, in vista del voto politico dell'anno prossimo in cui la Merkel si trova ad affrontare una ultradestra in forte crescita nel voto regionale e nei sondaggi politici nazionali e che soprattutto nasce dal movimento dei professori contrari alla politica della Banca Centrale Europea e alla stessa adesione della Germania all'euro, potrebbe annunciare l'intenzione di uscire dalla moneta unica europea o di promuovere la nascita di un euro a due o più velocità.

Come autore da nove anni di un blog sulla crisi finanziaria, ho più volte espresso visioni non ortodosse o in qualche caso estreme, visioni che a volte si sono dimostrate realistiche, quali il fallimento molto annunciato della Lehman Brothers o la vera natura della potente e molto preveggente Goldman Sachs, a volte meno, ma mai, così come la maggior parte dei miei colleghi, avrei osato parlare di una mossa della nazione più potente dell'Unione europea che punterebbe a scardinare, probabilmente in unione con l'Olanda e altri paesi del Nord Europa, la Banca Centrale Europea e l'euro, che sono una delle poche ed effettive cessioni di sovranità che la maggior parte dei paesi europei, non tutti in verità, hanno compiuto in favore dell'Unione, una scelta che, ove dovesse essere vera, insieme alla alla sempre possibile Brexit e alla bomba a scoppio ritardato rappresentata dalla questione del tutto irrisolta dei migranti e di un'equa ripartizione degli stessi tra i 28, o 27 se in Gran Bretagna il 23 giugno prevarranno i leave, paesi membri.

Su una cosa, invece sono d'accordo con Scalfari ed è quando parla di aumenti dei tassi di interesse USA archiviati per quest'anno, ipotesi che avevo già avanzato qualche giorno fa e che, anche dopo l'intervento di lunedì di Janet Yellen, sembra cifrata nell'improvviso indebolimento del dollaro che ha preceduto e seguito le sue parole!

martedì 7 giugno 2016

Se sarà Nagel il nuovo CEO di Unicredit ne vedremo delle belle!


Si avvicina il 9 giugno, la data fissata per il consiglio di amministrazione di Unicredit che dovrebbe scegliere il nome del nuovo Chief Executive Officer della banca più internazionale d'Italia che sta attraversando un momento molto difficile dopo che vigilanza della Banca Centrale Europea ha chiesto di innalzare l'indice patrimoniale dal 10,5 per cento attuale al 12,25 giudicato più adeguato  per fronteggiare i rischi che per il gruppo milanese non sono solo quelli comuni alla maggioranza delle banche italiane, Non Performing Loans e stato dei conti, ma sono anche quelli propri di una banca globale con presenze significative in Germania, Austria, Polonia e altri paesi dell'Est Europa, Turchia e via discorrendo.

Molti hanno giudicato originale che le dimissioni di Federico Ghizzoni non fossero state precedute dall'individuazione del suo successore, ma in verità il problema è molto complesso, perché dal nuovo del nuovo numero uno operativo di Unicredit si capirà anche molto delle strategie che sottendono a quello che potrebbe rivelarsi come l'inizio di un riassetto ai piani alti della finanza italiana, un riassetto che potrebbe riguardare anche quella Mediobanca che ha Unicredit come primo azionista e le Generali che hanno a loro volta Mediobanca come primo azionista, con la presenza alquanto ingombrante di Vincent Bolloré in tutti e tre questi soggetti e che spinge fortemente per un riassetto che potrebbe nascondere molti dei problemi di cui tutte e tre queste istituzioni finanziarie soffrono da tempo.

Certo, il momento è molto propizio per un'operazione così complesse che comprende tre campioni della finanza italiana con un elevato standing internazionale e uno degli elementi più favorevoli è dato dai corsi di borsa di Unicredit che mercoledì scorso ha toccato un nuovo minimo storico a 2,74 euro e che favorirebbe un integrazione con Mediobanca molto spostata a favore degli azionisti dell'istituto di piazzetta Cuccia e l'accresciuto peso dell'entità risultante in Generali renderebbe il gioco ancora più facile.

Ma quale sarà il segnale che dalle parole e dai progetti più o meno riservati si intende passare ai fatti? Potrebbe venire proprio dalla nomina a nuovo amministratore delegato di Unicredit di Alberto Nagel, attuale numero uno di Mediobanca, un uomo molto determinato che ha fatto fuori tutti gli avversari nella storica banca di affari milanese e uno dei massimi esperti di complesse operazioni societarie come si prospetta quella che ho appena descritto.

Cosa può fare l'azionista di Unicredit? Purtroppo poco o nulla, perché uscire in questo momento rappresenterebbe una perdita certa, mentre può attendere che un'operazione che si prospetta come una delle più strombazzate sul mercato italiano consenta, in prospettiva, la possibilità di realizzare un profitto da cogliere al volo per non rimanere impantanati in una serie di operazioni che raramente vengono realizzate nell'interesse degli azionisti!

lunedì 6 giugno 2016

Cosa sta accadendo alla ripresa a stelle e strisce?


Chi segue da nove anni il Diario della crisi finanziaria sa bene l'importanza che attribuisco all'indicatore denominato Non Farm Payrolls, ossia il saldo positivo o negativo degli occupati nel settore non agricolo negli Stati Uniti d'America, un indicatore che secondo molti analisti dà il vero polso dell'andamento congiunturale di quella grande nazione in uno con il tasso di disoccupazione che, tuttavia, va letto con grande attenzione tenendo conto degli ingressi e delle uscite dal mercato del lavoro, due dati che vengono diffusi contemporaneamente all'inizio del mese (normalmente il primo venerdì del mese) e che hanno un grande impatto sull'andamento delle borse e dei cambi e, di riflesso, anche sul prezzo dell'oro.

L'importanza di questi due dati è addirittura aumentata durante gli otto anni di presidenza di Barack Obama, anche più dei dati relativi alla crescita del Paese e ai dati sulla produzione industriale, perché è nella crescita pressoché costante dell'occupazione mese dopo mese e nel dimezzamento del tasso di disoccupazione che risiede la vera cifra della presidenza del giovane avvocato di Chicago, anche se qualche critico, a mio avviso a ben vedere, ha obiettato che la qualità della nuova occupazione non è stata in molti casi di buona qualità rispetto ai posti persi nella prima fase della tempesta perfetta, ma, comunque, è sempre vero che a caval donato non si guarda in bocca e che un tasso di disoccupazione che oscilla intorno al cinque per cento è di un livello che in termini keynesiani indica la piena occupazione.

Ebbene, quando venerdì scorso sono stati diffusi dal Dipartimento del Lavoro statunitense i dati relativi al dato di maggio sui mercati a stelle e strisce sono state gettate secchiate di acqua gelata perché è emerso che i nuovi occupati a stelle e strisce sono cresciuti di sole 38 mila unità (il dato più basso dal settembre del 2010 anche se spiegato, per 30 mila unità, dallo sciopero della Verizon verificatosi nel mese e che ha reso temporaneamente questi lavoratori dei disoccupati) e che il tasso di disoccupazione è sceso da 5 al 4,7 per cento solo perché 600 mila americani si sono ritirati dal mercato del lavoro, dati che dovrebbero far riflettere Yellen e compagni sull'opportunità di aumentare a breve i tassi di interesse, cosa che chi mi segue sa che avevo previsto qualche puntata fa quando prevedevo che il secondo rialzo sarebbe stato posposto addirittura a dopo le elezioni presidenziali di novembre.

Almeno così la notizia è stata letta dai mercati con cali di tutti e tre gli indici azionari principali americani, un balzo dell'oro che cedeva da trenta giorni, ma soprattutto una flessione del cambio del dollaro con l'euro di quasi due punti percentuali in una sola seduta, anche se il grosso della flessione si è verificata in pochi minuti dopo che gli analisti delle sale cambi delle banche di tutto il mondo hanno avuto il tempo di metabolizzare la doppia notizia e impartire disposizioni agli operatori.

venerdì 3 giugno 2016

Ora è ufficiale: Veneto Banca ha bruciato 5 miliardi di euro dei risparmiatori!


Al termine di un lunghissimo e a tratti drammatico consiglio di amministrazione, è stata fissata la forchetta di prezzo per l'aumento di capitale e concomitante richiesta di ammissione alla quotazione di borsa di Veneto Banca e, come era stato largamente previsto in tempi non sospetti dal Diario della crisi finanziaria e da molti analisti e commentatori, si va da un minimo di 10 centesimi ad un massimo di 50 con azzeramento di fatto del capitale di una banca le cui quote avevano toccato gli alquanto irrealistico 42 euro per azione ma che quasi nessuno degli investitori e risparmiatori in larga parte veneti aveva potuto realizzare perché la banca di Montebelluna aveva di fatto chiuso quasi subito alle negoziazioni che, per statuto, potevano essere realizzate solo con la banca stessa.

Le analogie con le vicende della Banca Popolare di Vicenza sono davvero impressionanti e se, come è largamente evidente, il prezzo finale sarà di 10 centesimi e non vi saranno richieste di adesione all'aumento di capitale tali da garantire almeno un 25 per cento di flottante, la CONSOB negherà alle azioni della banca l'ammissione ai mercati regolamentati e non si aprirà altra strada che quella dell'intervento del Fondo Atlante che così avrà impegnato 2,5 dei 4,2 miliardi di euro del suo fondo di dotazione e manca ancora all'appello l'aumento da un miliardo di euro del Banco Popolare di Verona e Novara che è stato già deliberato dal consiglio di amministrazione, ma almeno il Banco Popolare in borsa c'è già.

Ai detentori delle azioni di Veneto Banca non resta che leccarsi le ferite e interrogarsi su quanto hanno fatto nell'ultima assemblea dove molti di loro, per rabbia e sconforto, hanno appoggiato il ribaltone al vertice dell'istituto con l'arrivo al potere di una improbabile cordata infarcita di persone che dovevano alla banca somme per centinaia di milioni di euro e declassando Carrus da amministratore delegato a direttore generale, cosa alla quale ha in parte posto rimedio la vigilanza della Banca Centrale Europea, intimando che venissero restituite le deleghe al manager che tanto si era adoperato nella mission impossible di risollevare le sorti di una banca che è quasi un eufemismo definire tecnicamente fallita.

Ho scritto più volte delle responsabilità della vigilanza della Banca d'Italia sulla gestione, o meglio sulla mancata gestione, di quella situazione veneta che poi si è rivelata il buco nero del credito in Italia, ma di tutto questo il Governatore Visco, nelle conclusioni finali lette il 31 maggio, non ha speso parola, né tantomeno ha accennato ad una sorta di autocritica, suscitando le ire degli esponenti di numerosi partiti politici, anche di quelli che dal credito facile in Veneto hanno avuto un grande ritorno in termini elettorali!

mercoledì 1 giugno 2016

CONSOB e Guardia di Finanza nella sede di Mediobanca


Ha fatto molto scalpore nel mondo finanziario italiano l'irruzione di un gruppo di funzionari della CONSOB assistiti da militari della Guardia di Finanza nella storica sede della banca d'affari Mediobanca sita nella storica Piazzetta che da qualche anno è intitolata al suo storico fondatore e per anni regista di tutte le sistemazioni ai piani alti della finanza italiana, Enrico Cuccia lo storico avversario del banchiere Mattioli.

La visita congiunta è stata disposta dalla CONSOB per indagare su quanto è accaduto tra l'annuncio della Offerta Pubblica di Scambio lanciata dall'editore Urbano Cairo su Rcs, la società che edita, tra l'altro, il Corriere della Sera e quel 16 maggio nel quale viene annunciata una contro OPA da parte di Andrea Bonomi e altri soggetti tra i quali, appunto, Mediobanca che aveva, per bocca del suo amministratore delegato, Alberto Nagel, annunciato che non avrebbe partecipato a cordate volte ad ostacolare il tentativo di Cairo che è, tra le altre cose, l'editore del gruppo televisivo la 7, un annuncio che non aveva convinto i più ma che sembrava dettato dalla voglia di Mediobanca di non trovarsi coinvolta nell'ennesima guerra ai piani alti del capitalismo italiano per il controllo del Corriere della Sera.

Quello che è accaduto dopo l'annuncio dell'OPA totalitaria lanciata da Bonomi, Della Valle e Mediobanca a 70 centesimi per azione è cronaca, con scambi enormi che hanno portato il valore dell'azione a livelli superiori a quelli offerti dalla cordata che ha come partecipante e advisor Mediobanca ed è su questi scambi e sull'incremento vertiginoso dell'azione del gruppo editoriale che la CONSOB ha acceso un faro e bloccato l'iniziativa, ufficialmente per la richiesta di un'integrazione delle informazioni fornite dal gruppo connorrente, dando invece il semaforo verde all'offerta di Urbano Cairo che potrà raccogliere le adesioni degli azionisti in un periodo che va dal 13 giugno al 7 luglio.

E' difficile dire come andrà a finire, anche se il precedente dei documenti nascosti da Mediobanca in un improbabile nascondiglio posto nella storica sede non depone bene, ma quello che è certo è che il ruolo della storica banca milanese non è più quello di un tempo, quando gli imprenditori italiani andavano a baciare la pantofola di Enrico Cuccia prima di intraprendere qualsiasi operazione rilevante, anche per la concorrenza dei soggetti stranieri, a partire dalla potente e molto preveggente Goldman Sachs!