Se qualcuno, attratto dal titolo un po’ intrigante, pensasse di trovare in questa e nelle successive puntate del Diario della crisi finanziaria una risposta puntuale all’interrogativo che angoscia governi, banche centrali e parti sociali di tutto il mondo farebbe bene a non proseguire nella lettura, perché su questo, come su tanti altri argomenti, non fornirò altro che valutazioni a partire da quel po’ che so della finanza e dell’economia a livello globale, dalle mie esperienze professionali e dalla mia volontaria esperienza di tenutario del giornale di bordo della flotta del genere umano ampiamente squassata dagli alti marosi di una tempesta perfetta che non accenna a scemare di intensità da quando, il 9 agosto del 2007, ha preso il suo via a causa di un davvero inedito blocco della liquidità sul mercato interbancario.
Accingendomi all’impresa di fornire comunque qualche indicazione temporale, utilizzerò come riferimento metodologico quello che ho capito dell’approccio seguito dal mai troppo compianto John Maynard Keynes, forse l’unico essere senziente ad aver tratto qualche insegnamento da quell’immenso processo di distruzione di ricchezza che fu la Grande Depressione, una fase di durata nettamente superiore ai dieci anni e che venne, al di là di alcune meritorie intuizioni personali di qualche uomo politico, gestita in un modo davvero dissennato e che produsse danni certamente superiori a quelli che le vere cause del crollo borsistico dell’ottobre del 1929 e l’ignoranza quasi assoluta della componente psicologica nell’agire economico avrebbero prodotte senza alcun intervento esterno!
Scusandomi in anticipo per la lunghezza delle premesse metodologiche, mi vedo costretto a chiarire il senso della da me più volte ripetuta affermazione sull’utilizzo come stelle polari nell’orientarmi nella tempesta perfetta di due persone così diverse tra loro per storia, cultura ed esperienze professionali quali Warren Buffett, classico esempio di self made man americano che, a differenza di molti neomiliardari, non ha perso la determinazione, la sagacia e il buon senso iniziali, e George Soros, una persona di assoluto successo nella previsione dei fenomeni economici, ma che la psicologia dell’investitore medio la apprese alla durissima scuola delle persecuzioni razziali in Europa nel suo paese d’origine occupato dai nazisti, una scelta che confermo, anche se la ho allargata di recente ad un gruppo più ampio di persone che attorno a loro si è aggregata in questi mesi e che ha deciso di puntare sul giovane senatore dello Stato dell’Illinois, Barack Obama, come l’uomo in grado di consentire un radicale processo di ristrutturazione dell’economia e della finanza a stelle e strisce, presupposto indispensabile per giungere ad una risposta coordinata dei maggiori paesi industrializzati alle cause profonde che ci hanno portati a questo disastro (un gruppo che ho descritto nelle diverse puntate dedicate a quello che ho definito il patto ‘segreto’ da loro stretto con Obama nella fase più calda delle primarie del partito democratico).
Credo non sfugga ad alcuno di quanti seguono con un sufficiente grado di attenzione l’evoluzione della crisi finanziaria e della dolorosa recessione economica da questa indotta l’assoluta insensatezza delle politiche seguite dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, così come dal sistema della riserva federale e dalle altre banche centrali, nel periodo che va dall’avvio della tempesta perfetta a quello spartiacque della stessa rappresentato dalla decisione di lasciare fallire Lehman Brothers a metà del mese di settembre del 2008, una scelta quest’ultima che sarà certamente studiata quando quello che stiamo vivendo sarà finalmente divenuta Storia e che ha determinato una situazione di tale gravità da fare ritenere a persone investite di responsabilità istituzionali a livello sovranazionale che l’intero sistema finanziario globale potesse collassate nel successivo mese di ottobre, ove i governi e le autorità monetarie del G20/G21 non avessero preso le decisioni che vennero poi assunte nel corso del davvero drammatico summit svoltosi in quei giorni.
Non vi è dubbio alcuno che i colossali piani di salvataggio degli interi sistemi finanziari nazionali partorite in quel vertice e confermate successivamente a livello di parte dell’Unione europea, nonché riprodotte nei ripetuti piani del governo giapponese e di quello cinese siano stati fortemente condizionati dalle incaute e in qualche caso folli scelte assunte in precedenza dal trio Bush-Paulson-Bernspan, nonché dalla relativa inerzia dei governi degli altri maggiori paesi avanzati, i quali, a torto o a ragione, ritenevano che gli Stati Uniti d’America avessero la responsabilità di trovare la soluzione del problema, non fosse altro per avere in larghissima misura provocato la tempesta perfetta stessa, un ragionamento che, al netto dell’evidente contenuto di verità, dimostrava una assoluta miopia nei confronti dell’assoluta interconnessione provocata dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia ai quali nessuno dei leaders politici europei e asiatici si era realmente opposto!
Come spesso accade, la fretta di trovare una soluzione quale che fosse portò, in quelle davvero drammatiche giornate di ottobre (chissà perché gran parte dei fenomeni destinati a sconvolgere questo pianeta si addensano in questo mese?) dell’anno scorso, pur evitando il rischio del collasso immediato del sistema finanziario globale, hanno da un lato favorito l’acuirsi del contagio della crisi alla cosiddetta economia reale, ma, dall’altro, hanno lasciato scoperti un gran numero di sistemi creditizi e finanziari di numerosi paesi da poco membri dell’Unione europea o candidati a entrarvi, nonché di numerosissimi paesi dell’Asia, della totalità dei paesi africani e di quelli dell’America Centrale e Meridionale, un palmare esempio di coperta corta cui si è cercato di mettere una pezza nei successivi summit con impegni più o meno esigibili e con un maxi finanziamento, in parte effettivo e in maggior misura da realizzare, delle scarse risorse del Fondo Monetario Internazionale, definitivamente assurto al ruolo di prestatore di ultima istanza di quella parte del mondo dichiaratamente incapace di provvedere da sé. Ed è proprio da queste contraddizioni che prenderò le mosse domani per affrontare l’interrogativo riportato nel titolo.
Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.
Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!
Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.
Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!
Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.
Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!
Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.
Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano, un gruppo formato dai maggiori conoscitori esistenti dei fenomeni che ho cercato di descrivere di sopra, è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ sull’ultimo scorcio del 2008 e sull’intero 2009, operando una drammatizzazione dell’immediato strettamente unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una pressoché certa ripresa sin dai primi mesi del 2010, ma di questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.
Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.
Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.
Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.
L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!
Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.
Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.
Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.
Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo
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