sabato 31 maggio 2008

Investitori istituzionali sotto inchiesta per l'oil!


Sembra avviarsi a soluzione uno dei maggiori misteri della tempesta perfetta in corso, sostanzialmente rappresentato dall’operare concreto degli investitori istituzionali, in particolare fondi pensione, fondi di investimento ed hedge funds, proprio quei soggetti cui l’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale, presentato poche ore prima dell’avvio dei lavori dell’ultimo G7 finanziario di metà aprile, addebita perdite finali nell’astronomico ordine di 665 miliardi di dollari, perdite almeno doppie rispetto a quelle previste per le Investment Banks e le banche più o meno globali.

Ebbene, proprio ieri è finalmente trapelata la notizia che il temutissimo Coomodities Futures Trading Commission (CFTC), sì proprio la commissione che inchiodò Raul Gardini alle sue responsabilità in merito al trading di futuri sulla soia e chiuse d’autorità le posizioni che avevano reso la Ferfin monopolista per un intero raccolto dell’importante derrata alimentare, sta facendo lavorare alacremente i suoi esperti da oltre sei mesi per verificare l’operatività in materia di futures sul petrolio e le altre materie prime, derrate alimentari comprese, con particolare riferimento ai comportamenti degli investitori istituzionali che stanno agendo aggressivamente e con scommesse one way che, in scia all’indubitabile aumento della domanda cinese di petrolio, si stanno mostrando come dellle self fulfilling prophecies e mandando letteralmente alle stelle il prezzo del greggio e quello della benzina e del gasolio alla pompa.

Non posso dimenticare una infuocata riunione sull’argomento dell’incidenza dei derivati sui prezzi dei beni sottostanti la scommessa finanziaria svoltasi negli anni Novanta, una riunione nel corso della quale osai porre timidamente la questione della stessa liceità di scommesse che nel 99 per cento dei casi già allora non si traducevano in effettivi scambi fisici del prodotto sul quale la scommessa stessa veniva effettuata, innocente domanda che scatenò un vero e proprio putiferio non degno dei corsi di comunicazione cui tutti i partecipanti si erano diligentemente sottoposti, con il risultato che la domanda non ottenne risposta e per poco non volarono le sedie ed i blocchi per gli appunti di cui eravamo tutti dotati.

Dalle testimonianze di alcuni manager di hedge fund di fronte ai membri del Congresso degli Stati Uniti d’America, è, per esempio, emerso che, solo nei primi 52 giorni lavorativi di questo invero orribile 2008, gli investitori istituzionali hanno messo sul piatto di questo particolare casinò della finanza la bellezza di 55 miliardi di dollari (per dare soltanto un’idea, ricordo che Hillary Rodham Clinton realizzò qualche tempo fa centomila dollari grazie ad una scommessa di soli mille dollari), una scommessa che avrebbe consentito di realizzare, ove l’operazione fosse stata chiusa al record di 135 dollari al barile, una vera e propria fortuna ai fortunati detentori dei preziosi tickets, mentre si è scoperto che, negli ultimi cinque anni, gli investimenti in indici collegati, appunto, alle materie prime più o meno energetiche, sono passati dai 13 ai 260 miliardi di dollari.

Per onestà intellettuale, va ricordato che il solo aumento della domanda di petrolio nel corso dello stesso quinquennio da parte della sola Cina è stato pari a 920 milioni di barili, mentre la domanda di futures è stata pari a 848 milioni di barili, ma è altrettanto evidente che, sommando i due fenomeni, il prezzo del petrolio non poteva che risentirne drammaticamente, il che si è puntualmente verificato, pur in presenza da sei mesi almeno di un sensibile rallentamento dell’economia americana, di un più moderato rallentemanto nell’area europea e di non lievissimo rallentamento in Cina e negli altri paesi asiatici.

La strategia degli investitori istituzionali aveva, ricordano sempre i manager rudemente intervistati dagli infuriati politici pressati a loro volta dai loro elettori, era basata, da un lato, sul tentativo di prevenire un eccesso di inflazione (sic), mentre, dall’altro, vi era il neanche troppo celato di rifarsi di quel vero e proprio bagno di sangue legato al meltdown in corso in pressocché tutti i comparti del mercato finanziario statunitense, così come in quello globale, una discesa media che è ormai introno al 50 per cento rispetto ai massimi di inizio 2007, mentre per alcune categorie come quella delle compagnie di assicurazione monoline è meglio non fare confronti con i massimi toccati appena un anno fa senza avere un cuore veramente forte.

Non va sottovalutato, inoltre, il piccolo particolare rappresentato dal massiccio delisting di tutte quelle banche specializzate nel mortgage che hanno fatto ricorso in massa e nello stesso week end alla protezione della legge fallimentare statunitense, il che non solo ha impedito alle banche di grandi dimensioni di rivalersi su di loro per le “sole” ricevute, ma anche ridotto a zero il valore delle azioni di queste entità possedute dagli investitori istituzionali nei loro molto diversificati portafogli.

Come non mi stancherò mai di ripetere, i sentimenti dominanti nel mercato finanziario locale e globale sono la paura e l’avidità, entrambe pessime consigliere, sentimenti cui non sono certo immuni gli amministratori delegati ed i presidenti pagati in oro un tanto al chilo, persone che sono talmente panicate che non riescono nemmeno più a dotarsi di quegli opportuni strumenti di stop losses e take profit rigidamente imposti invece ai loro collaboratori, il che li porta a non comprendere quando un gioco altamente speculativo deve trovare la sua opportuna e redditizia conclusione,anche al sano fine di non essere travolti dallo scoppio della stessa gigantesca bolla speculativa che si è contribuito a creare.

Come sto ripetendo da giorni, il gioco in corso sul mercato dei derivati del petrolio e di tutte le altre materie prime è condotto da Goldman Sachs, dalle altre tre appartenenti al gruppo delle Big Four (dopo la scomparsa prematura dell’orso di Stearns), dalle banche più o meno globali e, the last but not the least, dagli investitori istituzionali, hedge funds, ovviamente, in testa, per finire infine ai medi, piccoli e piccolissimi individuals che si sono messi sulla scia di questa variegata flotta non avendo, spesso, neanche il salvagente a bordo delle loro fragili imbarcazioni esposte agli alti marosi della tempesta perfetta in corso.

Consiglio vivamente a tutti i naviganti, in particolare ai piccoli tra di loro, di osservare attentamente i segnali sempre più vistosi di scricchiolio provenienti dalle quotazioni e di non fidarsi assolutamente dei reports in pieno conflitto di interessi provenienti dagli esperti in carico a Goldman o altre grandi entità che stanno facendo da apripista di questo pericoloso gioco altamente speculativo, a meno di non utilizzarli per fare esattamente il contrario di quanto sarebbe logico fare in base a quanto vi è scritto, anche perché, personalmente, non modifico la previsione fatta l’ultimo giorno del 2007 e che vede il prezzo del barile nel 2008 a 75 dollari, con l’euro a 1,70 dollari e lo yen nell’area dei 90-95 contro dollaro.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

venerdì 30 maggio 2008

Tutti a colazione da Tiffany


Dopo la sofferta ed inevitabile approvazione da parte degli azionisti di Bear Stearns della mini offerta di acquisto dell’intero capitale sociale della storica banca d’investimento newyorkese per la misera somma di un miliardo di dollari (poco al di sopra di una parte del patrimonio immobiliare di Bear), oggi è la volta degli azionisti di J.P. Morgan-Chase di dare il definitvo via libera al deal che, come è noto, è stato favorito dal maxi finanziamento di 30 miliardi di dollari ottenuto a rischio zero dalla Federal Reserve a copertura delle eventuali perdite della banca acquisita, un finanziamento che, se non andrà a buon fine, ricadrà sulle spalle degli alquanto esausti contribuenti americani e che vanificherà una bella fetta dell’effetto del fiscal restore appena concesso dall’apposito provvedimento parlamentare nella versione benedetta dal presidente Bush.

Come ricordavo ieri, se tutto andrà per il verso previsto, dal prossimo lunedì l’orso di Stearns cesserà di esistere e verrà definitivamente messa la parola fine agli 85 anni di storia della mitica Investment Banks statunitense, col poco piacevole corollario che il numero delle grandi banche di investimento con sede negli USA passerà da cinque a quattro e, da allora in poi, parleremo di Big Four e non più di Big Five.

Sarà un caso, ma oggi le quotazioni delle azioni delle superstiti quattro banche di investimento risultano alquanto depresse, anche perché oggi è per loro l’ultimo giorno lavorativo del secondo trimestre (che, ovviamente, chiude un mese prima di quello delle banche che seguono i trimestri legati all’anno legale), ma anche per le ovvie riflessioni che gli attuali azionisti sono chiamati a fare in relazione alla sorprendente fine a sorpresa di una banca che non si differenzia molto per tipologia di attività e per livello elevatissimo di debt/capital ratio da quelli che caratterizzano le quattro banche per il momento superstiti, riflessioni certamente influenzate dalle affermazioni rese dal presidente della Securities and Exchange Commision, l’ormai mitico Effe O Ixs, davanti ai senatori della Commissione Bancaria pochi giorni dopo il fallimento tecnico di una banca che aveva a disposizione un nutrito tesoretto di titoli di prima qualità e che, nonostante questo, non era riuscita a raggranellare finanziamenti per una frazione della sua disponibilità di facile liquidazione.

Affondate le prime scialuppe del transatlantico spezzato in due dagli alti marosi della tempesta perfetta, resta nella maggior parte degli analisti e degli osservatori dotati del giusto senso critico e della necessaria dose di indipendenza dai forti interessi costituiti delle maggiori entità operanti nel mercato finanziario globale un profondo senso di sconcerto e di amarezza per la totale impunità del moral hazard implicito nella gestione delle Investment Banks e delle divisioni Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, un’operatività ed un livello di esposizione al rischio dei quali, in non pochi casi non solo gli azionisti ma anche i vertici aziendali erano in buona misura del tutto all’oscuro.

Non voglio ripetermi, ma credo necessario ricordare questo dato è ormai nella consapevolezza dei governatori delle banche centrali e dei ministri economici del G7, ha spinto Mario Draghi ed i suoi autorevoli colleghi del Financial Stability Forum a formulare ben 65 raccomandazioni per riformare radicalmente le regole cui si devono, o meglio si dovrebbero, adeguare i vertici delle banche e delle compagnie di assicurazione, nonché quelli di tutte le entità coinvolte nel grande business della finanza, regole che dovrebbero essere benedette dal prossimo vertice dei sette grandi del pianeta che si terrà a metà luglio in Giappone, ma che rischiano di nascere già morte se non verranno accompagnate da un’autoriforma della governance aziendale che tagli le ali alla eccessiva autonomia non tanto dei capi delle CIB o delle Investment Banks, ma, e soprattutto, dei capi intermedi e degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto che, spesso, sono gli unici a conoscere la reale pericolosità dei prodotti sofisticati da loro inventati.

Venendo alle cose che riguardano Main Street più che Wall Street, dicotomia che è ormai diventata una sorta di mantra nei discorsi dei tre principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America e delle migliaia di candidati per un seggio alla Camera dei Rappresentanti o al Senato di quella che ancora resta la più importante nazione del mondo, non può non colpire il dato sulla fiducia dei consumatori elaborato dall’Università del Michigan (in assoluto l’indicatore più seguito, insieme a quello della Fed di Philadelphia, dall’ex presidente della Fed, Alan Greenspan), giunto ad un livello di un soffio superiore al minimo toccato nel lontanissimo 1980, ossia la bellezza di 28 anni orsono.

Anche alla luce dell’attenzione prestata ai risultati di questi sondaggi, oltre che ovviamente ai dati reali, dai vecchi e nuovi decision makers della Fed, desta molta preoccupazione il vero e proprio balzo in avanti della inflazione attesa dagli intervistati, una circostanza che non potrà non pesare, dopo l’orgia dei tagli appena conclusasi, sulle prossime riunioni del Federal Open Market Committee, in una delle quali, da ora alla fine dell’anno, potrebbe essere deciso un primo rialzo dei tassi di interesse che, lo ricordo ai lettori più distratti, è ormai nettamente su valori negativi in termini reali.

D’altra parte, non appena verrà confermato il dato sull’altrettanto rilevante, e purtroppo effettivo, balzo in avanti dell’indice dei prezzi al consumo medio dei paesi appartenenti all’area dell’euro, lo scenario rialzista tanto caro alla maggioranza neotemplare e teutonica del Board della Banca Centrale Europea che non riterranno in alcun modo di sicurezza l’esile margine dello 0,4 per cento tra il CPI e i tassi di riferimento da lungo tempo bloccati sul livello del 4 per cento.

La brusca scivolata del prezzo del petrolio registrata nelle ultime due sedute sta innescando un clima di vero e proprio panico tra gli investitori che si sono messi con grande ritardo nella scia di Goldman Sachs e delle altre grandi entità che stanno operando massicciamente one way da molti mesi, così non vi è da stupirsi del mini rimbalzo di oggi, né del fuoco di fila dei media embedded che cercano di gettare acqua sul fuoco di queste paure, definendole, non si sa proprio in base a che, del tutto infondate, al punto da quasi brindare sul raggiungimento di fatto della soglia psicologica di quattro dollari al gallone alla pompa, soglia che credo sia stata già superata in quella California che continua ad essere lo stato più popoloso degli Stati Uniti.

Segnalando che in tanto marasma di dati effettivi e di attese negative più o meno razionali, la società del lusso Tiffany, nota per il rinomato negozio sulla Fifth Avenue a pochi passi dal celeberrimo Plaza Hotel, negozio immortalato nel celebre film con Audrey Hepburn, ha registrato nel primo trimestre del 2008 un vero e proprio balzo in avanti degli utili (un +19 per cento condito da buone previsioni per l’intero anno), non voglio proprorre una nota di colore, bensì far riflettere sul livello ormai insostenibile raggiunto dalla distribuzione del reddito all over the world, peraltro testimoniata dalla presenza nei soli Stati Uniti d’America di un vero e proprio esercito di milionari e multimilionari, cifrato da recenti ed attendibili stime in ben 10 milioni di individui.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

Dalle Big Five alle Big Four


L’assemblea degli azionisti di Bear Stearns ha approvato oggi la proposta del numero uno della banca favorevole all’accettazione della mini offerta di acquisto dell’intero capitale sociale della storica banca d’investimento newyorkese avanzata, ma solo dopo aver ottenuto un maxi finanziamento di 30 miliardi di dollari a rischio zero dalla Fed, da J.P. Morgan-Chase, una decisione che, ovviamente, mette la parola fine agli 85 anni di storia di Bear e riduce a quattro il numero delle grandi Investment Bank statunitensi, non a caso conosciute sino ad oggi come le Big Five.

Per gli sventurati azionisti che si erano fidati delle false rassicurazioni dei top manager della banca e che avevano, quindi, rinunciato a realizzare 29 dollari per azione nell’ultimo giorno di contrattazioni del titolo prima della fatale nottata in bianco che ha visto i saloni della prestigiosa sede centrale di bear affollate da squadre di uomini della Federal Reserve, della Securities and Exchange Commission, della J.P. Morgan-Chase e, ovviamente dei disperati vertici della banca di fatto già tecnicamente fallita, per non parlare dei 56 dollari a cui aveva chiuso il venerdì precedente, si è trattato di una decisione molto sofferta, anche perché non è certo piacevole vedersi riconoscere qualcosa come un ventesimo del valore massimo toccato dall’azione di Bear soltanto un anno prima.

Quello che è certo è che stuoli di avvocati pagati a molte centinaia di dollari l’ora stanno rovistando nei precedenti e nelle sentenze già emesse su casi analoghi per valutare le probabilità degli infuriati azionisti di riuscire ad ottenere singolarmente o sotto la forma della class action una qualche forma di risarcimento dai top manager dell’orso di Stearns o dalla banca dei nipotini di Pierpoint Morgan o di Nelson Rockfeller (personaggio a cui si ispirò Wal t Disney per il fortunato personaggio di Rockerduk, storico ed acerrimo nemico di Paperon dei Paperoni), se non, per omessa vigilanza, dalle due entità federali sopra citate.

Pur essendo quasi del tutto digiuno di questioni giurisprudenziali così intricate e complesse, suggerirei ai sopramenzionati legali di studiare la deposizione del capo della SEC, l’ormai mitico Effe O Ixs (Fox), davanti agli arrabbiati membri della Commissione bancaria del Senato degli Stati Uniti d’America, una testimonianza nella quale traspariva nettamente l’inadeguatezza dei modelli del potente ente federale, modelli che, per candida ammissione di Fox, non prevedevano in alcun modo la possibilità che una banca in possesso di titoli di prima qualità per centinaia di miliardi di dollari non riuscisse ad ottenere finanziamenti per poche decine di miliardi di dollari dalle altre banche, il che, in altre parole, significa che quei sofisticati modelli non prevedevano il rischio di controparte basato esclusivamente sul clima di sfiducia reciproca tra banche anche di grande dimensione che sta regnando ininterrottamente dal 9 agosto del 2007.

Come ho già avuto modo di dire in una puntata di qualche mese fa, il buco nel modello della Sec, nonché l’organico letteralmente decimato dell’ufficio dell’ente che dovrebbe prevedere le crisi bancarie, nascono entrambi dal semplice fatto che erano molti decenni che non si verificava qualcosa del genere, fatta eccezione per la crisi delle Saving and Loans statunitensi nei primi anni Novanta, una crisi che sta alla tempesta perfetta in corso come una cerbottana sta ad un missile intercontinentale.

Così come non ho dubbi sul fatto che se qualche dirigente con i capelli bianchi avesse avuto l’ardire di suggerire in un orecchi ad Effe O Ics che, sulla base degli avvenimenti del 1907 o del 1929, qualcosa del genere poteva anche verificarsi, ebbene quella donna o quell’uomo avrebbe ottenuto come unico effetto delle sue incaute considerazioni una bella lettera di licenziamento senza nemmeno uno straccio di preavviso o sarebbe stato considerato un inguaribile invidioso/a per le fulminee carriere fatte da schiere di giovani imbecilli sfornati da qualche brillante università americana, semmai con il cognome seguito da qualche lettera romana.

Se vi è un aspetto della crisi finanziaria che desta in me un grande stupore è che, dopo una scoperta come quella appena descritta, vi siano ancora persone che si ostinano a detenere azioni delle Investment Banks o delle banche più o meno globali, alla luce della banale considerazione che, oltre a non essere nessuna di loro immune dal rischio di finire come la povera Bear, vi è anche l’aggravante derivante dal non secondario fatto che le autorità monetarie e governative statunitensi hanno chiaramente detto che un salvataggio del genere, soprattutto in un anno denso di importantissime scadenze elettorali, non si ripeterà.

D’altra parte, non credo sia un caso se proprio oggi i già elevati tassi euribor abbiano segnato un ulteriore balzo in avanti, in particolare per quelli aventi scadenza molto breve, segno inequivocabile che il riscoperto rischio di controparte non è per niente sottovalutato dagli addetti ai lavori operanti nel settore.

Come spesso accade in occasione delle tre letture cui è soggetto ogni dato sul GDP statunitense, anche stavolta il titolo battuto dalle agenzie a caratteri cubitali enfatizzava come, in sede di seconda lettura, la crescita annualizzata USA era giunta quasi a sfiorare l’1 per cento (0,9 per la precisione, cioè poco più dello 0,2 per cento rispetto al miserrimo quarto trimestre del 2007).

Il problema è sorto quando dalla sola headline si è passati, qualche decina di minuti più tardi, al testo completo, che aveva il difetto di rivelare che la crescita più robusta di quanto non apparisse nella rilevazione resa nota qualche settimana orsono era semplicemente dovuta ad un sensibile miglioramento dell’export statunitense, mentre i consumi interni si ostinavano a viaggiare ad un tasso toccato solo durante la crisi del 2001, particolare che ha determinato l’innesto di una rapida retromarcia da parte dei tre principali indici azionari USA che avevano provato in precedenza a fare un balzo, un po’ timido in realtà, in avanti.

Non sono passate 24 ore da quando ho parlato del rischio di un improvviso voltafaccia di Goldman Sachs e di altri primari attori nelle scommesse future one way sul petrolio e le altre materie prime e già il petrolio ha registrato una prima e brusca debacle, perdendo poco meno di 4 dollari in un giorno e fissando poco al di sopra della soglia dei 125 dollari al barile, un tonfo preceduto nelle sedute precedenti da classici segnali di difficoltà a tenere i vertiginosi livelli cui era giunto, livelli che avevano autorizzate stime ancora più stratosferiche sul possibile raggiungimento dei 150, qualcuno addirittura sparava 200, dollari al barile, il che mi induce a ritenere che il bagno di sangue per i new comers in questo gioco pericoloso non sia poi così lontano, al netto ovviamente di qualche ulteriore up and down.

Confesso che non ho avuto il coraggio di vedere cosa ne è stato di Ambac, anche perché ritengo veramente che ad ogni giorno basta la sua pena.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

giovedì 29 maggio 2008

Ambac is the next?


L’ulteriore calo degli ordini di beni durevoli statunitensi in aprile (-0,5 per cento), in larga parte determinato dal forte calo registrato nel settore dei trasporti, è stato in realtà visto da molti analisti come positivo, in quanto escludendo appunto il settore più legato ai continui rialzi del prezzo dei combustibili alla pompa, nel mese in questione si sarebbe registrato un non disprezzabile rialzo del 2,5 per cento.

Cito questo dato non tanto per segnalare che, grazie anche a letture come queste i listini azionari continuano a galleggiare da qualche sedute appena al di sopra della parità, quanto per segnalare l’ansia degli analisti e degli operatori di cercare in ogni modo, spesso proprio attraverso queste operazioni (ex food, ex energy, ex transportation) di fornire un’informazione che alla fine risulta poco significativa, in quanto, come ha brillantemente sostenuto un premio nobel per l’economia operante negli USA, i dati importanti sono quelli relativi alla vita effettiva della gente, gente che ha il difetto di mangiare, di fare benzina ed anche di acquistare un’automobile.

Domani, salvo sorprese dell’ultima ora, gli azionisti di Bear Stearns dovrebbero decretare la fine della storica Investment Bank USA dopo 85 anni di vita, un periodo lunghissimo se si vive in una nazione che ha festeggiato da relativamente poco tempo il proprio bicentenario, accettando i termini proposti dall’acquirente J.P. Morgan-Chase ed imposti dalla tragica carenza di liquidità che ha determinato pochi mesi orsono l’intervento urgente della Fed di New York che ha concesso tambur battente 30 miliardi di dollari di prestito alla banca dei nipotini dei Morgan e dei Rockfeller perché salvasse l’orso di Stearns ed ha mantenuto sulla Fed stessa il rischio, al netto del miliardo messo in campo dalla banca, per l’ingente somma prestata.

Ho già avuto modo di commentare il rapido liquefarsi delle un tempo ampie schiere dei fondamentalisti del liberismo economico, quelli che vedevano l’intervento dello Stato in economia come il fumo negli occhi e che pensano, nonostante le tragiche evidenze fornite dalla Storia, che l’equilibrio raggiunto dal mercato sia sempre perfetto e che gli eventuali morti e feriti non siano altro che l’effetto di una sana selezione che, eliminati i rami secchi e potati quelli sani, porterà inevitabilmente ad una nuova e più elevata tappa delle magiche e progressive sorti del capitalismo, in particolare di quello finanziario.

Per fortuna, a frenare la conversione in massa dei liberisti e dei neoliberisti, ci hanno pensato le dure parole pronunciate da Mario Draghi e da Henry Paulson nel corso di quella sorta di cena delle beffe svoltasi a Washington a metà aprile di questo orribile 2008, esperienza cui hanno sottoposto il milieu della finanza globale e nel corso della quale sono state esposte le nuove regole ed è stata prevista l’ormai prossima scadenza del 30 di giugno per svelare la verità, tutta la verità, sullo stato di salute effettivo delle rispettive banche o compagnie di assicurazione, pena l’esclusione dalle possibili operazioni di salvataggio (rigorosamente private questa volta) e possibili forme di liquidazione coatta.

Dite la verità e chiedete soldi al mercato, è stata questa, in estrema sintesi, quanto gli atterriti ed un tempo potenti uomini della finanza si sono sentite dire da quei due loro ex colleghi che, impietosi come solo lo può essere un banchiere o, peggio, un ex banchiere di investimento, in particolare se hanno frequentato, per poco o tanto tempo non importa, quel prestigioso, preveggente, misterioso club esclusivo che porta il nome di Goldman Sachs.

A proposito di Goldman, comincia a trapelare tra concorrenti la sensazione che stia per realizzarsi, dopo quella fortunata intuizione di David Viniar nel settembre del 2006 e che ha consentito ai partner di evitare il peggio, una seconda svolta repentina e micidiale delle posizioni della prestigiosa e preveggente Investment Bank, stavolta su quel mercato dei derivati delle materie prime energetiche e non sul quale è stata attivissima negli ultimi mesi, portandosi in scia operatori di ogni ordine e rango, alcuni dei quali si sono decisi ad entrare solo dopo che il dollaro ha infranto la soglia dei 100 dollari all’inizio di gennaio e che adesso rischiano tanto se il gruppo di testa decidesse di girare repentinamente le proprie posizioni che, almeno per il momento, continuano ad essere one way.

Ricordo ancora una volta le mie previsioni per il 2008, che vedono l’euro a 1,70 dollari ed il dollaro a 90-95 yen, mentre per il petrolio la previsione rimane ferma ai 75 dollari al barile, previsione che attualmente è del tutto out of the money, ma che ho visto con piacere che non è lontana di quella del principe saudita Yamani, una persona che è considerata un profondo conoscitore di questo particolare mercato, nonché a lungo presidente del cartello dei cartelli: la famosa, per alcuni famigerata OPEC.

L’attuale tempesta pefetta sta, intanto, per fare la sua ennesima vittima, che prende il nome di Ambac, la compagnia di assicurazione monoline che ha visto oggi il suo titolo sfondare verso il basso la soglia dei 3 dollari (evito di dire quanto quotava un anno fa per timore di arrecare danno a cardiopatici ed iperansiosi), mentre le tempestive Moody’s e Standard & Poor’s ancora stanno decidendo se degradarla o meno, cosa che Fitch’s ha fatto già il 18 gennaio.

Non ho trattato adeguatamente la notizia riguardante gli “errori” di Moody’s, peraltro rea confessa e che teme più le ire del suo primo azionista Warren Buffett che le ire della giustizia e del Congresso, in quanto sa che con i giudici si trova sempre una soluzione e che i politici spesso sono solo un problema di quanto, mentre, se si arrabbia il Leone di Omaha, i rischi per l’incolumità dei manager sono molto più concreti e molto più elevati.

Credo proprio che a metà luglio in Giappone, i stte grandi del pianeta non potranno non dare mandato a Draghi & Company per realizzare la tanto attesa e radicale riforma delle agenzie di rating, una riforma ineludibile ed indispensabile per ridare ai mercati una fiducia vera, una fiducia che difficilmente tornerà senza un consistente taglio di teste al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

mercoledì 28 maggio 2008

L'onda alta sta arrivando in Europa?

Come mi insegnava un analista americano operante in Italia, uno dei rischi maggiori per chi opera sui mercati di qualsivoglia genere è quello di restare ipnotizzati dal trend in corso, in particolare se la tendenza rialzista o ribassista perdura da un certo tempo in modo quasi costante, con la conseguenza che si formerà un opinione collettiva che vede possibili solo ulteriori discese o perenni risalite.

Ovviamente, si riferiva ad andamenti basati su crisi più o meno congiunturali e non allo scoppio a ripetizione di bolle speculative in un contesto di squilibri strutturali a loro volta connessi alla cronicità di avanzi e disavanzi netti nelle partite correnti dei maggiori paesi industrializzati, ad un uso venticinquennale dell’effetto leva a livelli da panico o delle altre piacevolezze che caratterizzano quella che ormai è divenuto di uso comune definire la tempesta perfetta e che da dieci mesi circa imperversa sul mercato finanziario globale.

Ho sostenuto più volte che è del tutto inutile cercare di orientarsi in questa crisi prendendo a riferimento gli indici di borsa, almeno quelli generali, anche perché, tra buyback sempre più massicci e sempre meno noti, la posizione in surplace della maggior parte dei piccoli azionisti e tanti altri fenomeni che non credo sia questa la sede per illustrare, basta prendere a riferimento il Dow Jones Industrials 30 per osservare che, pur attraverso oscillazioni a volte anche vistose, non siamo lontani dai livelli di inizio agosto 2007, mentre il record storico è stato toccato addirittura nell’ottobre dello stesso anno, a crisi finanziaria in corso da oltre due mesi e ad un mese dall’assalto agli sportelli di Northern Rock.

Così come sconsiglio, in particolare a quanti soffrono di mal di mare, di dare uno sguardo agli indici di volatilità sugli indici e sulle singole azioni, in particolare di quelle di aziende facenti parte del rutilante ed a volte magico mondo della finanza in senso lato, frutto di un rincorrersi parossistico di onde che fanno la felicità degli scalpers, individui che non a caso sostengono, spesso avendo ragione, che è possibile guadagnare qualunque sia l’andamento delle borse, soprattutto se nella stessa seduta, se non in poche ore, ad un movimento in una direzione ne seguirà un altro nella direzione opposta (e zac il gioco è fatto!).

Ricordo solo per inciso che, fresco dei suoi studi a Cambridge e degli insegnamenti dei genitori (entrambi docenti universitari), John Maynard Keynes prese dei bagni colossali speculando su azioni e valute in base a studi molto scientifici sull’esatto valore delle une o delle altre, sino al punto di mettere a repentaglio la stessa solidità economica delle famiglia e toccare, come ricorda il suo biografo ed amico Roy Harrod, quello che definiremmo il fondo; posizione scomoda che, però, gli consentì di capire che alla base dell’agire umano vi sono fondamentalmente due sentimenti: avidità e paura, conditi da dosi abbondanti di ignoranza, con l’ovvio corollario che non è importante capire quanto vale una cosa, bensì quanto la stessa verrà valutata dalla maggior parte delle persone (comprensione che consentì al futuro Lord di diventare ricchissimo e mecenate del famoso Circolo di Bloomsbury che includeva, tra gli altri, Virginia Woolf).

Se qualcuno pensa che la sto tirando per le lunghe, ha in parte ragione, anche perché dopo la pausa salutare di ieri legata al Columbus Day, anche oggi non è accaduto molto di rilevante, tranne una certa flessione del prezzo del greggio dopo una serie quasi infinita di record quotidiani e un rimbalzo del 3,3 per cento della vendita di nuove case negli Stati Uniti che le porta ad un livello annualizzato ancora dimezzato rispetto ai recenti tempi di vacche grasse.

Non annoierò, inoltre, i miei pochi ma fedeli lettori sul rincorrersi di report di analisti di case di investimento e di banche più o meno globali, se non per dire che molti di questi studi, come quello di Morgan Stanley, oltre a prevedere ormai in modo quasi unanime che la crisi si protrarrà anche per tutto il 2009, sostengono che sta per venire l’ora della verità per le banche europee, anche perché le stesse sono state sinora molto ritrose nel gioco della verità, ma proprio tutta la verità, che impazza da qualche settimana a Wall Street.

Cercando di portarmi avanti con il lavoro, focalizzerò anche io la mia attenzione sul panorama europeo, cogliendo così anche l’occasione per esprimere tutta la mia ammirazione per le due maggiori banche spagnole che sembrano non essere neanche state lambite da uno schizzo d’acqua proveniente dagli altissimi marosi della tempesta perfetta in corso, anche se consiglio loro, in particolare ai massimi esponenti del BBVA, di evitare di salire in cattedra con lezioncine sull’etica degli affari, anche perché non si sa mai come sarà la loro situazione alla fine dei giochi.

Ben diversa la situazione delle banche francesi, britanniche e della svizzera UBS, in quanto, come è a tutti noto, qui una parte del problema, seppur a fatica, sta emergendo, così come è finalmente emerso che, stando ai risultati delle indagini interne, il capo diretto del trader infedele di Socgen si era un po’ distratto, al punto da credere di avere trovato nel giovane e brillante operatore la gallina dalle uova d’oro (cosa per altro vera, non fosse stato per quei fastidiosi ma indispensabili limiti che il nostro ha superato di centinaia di volte!).

Non so se è vero che l’ondata si sta dirigendo sulla vecchia e la nuova Europa, lasciando peraltro un po’ in pace gli esausti banchieri statunitensi, ma devo dire che il persistere dell’Euribor a livelli molto elevati di spread rispetto ai tassi di riferimento ufficiali non promette nulla di buono dal punto di vista meteorologico per le entità bancarie europee più attive nel mercato finanziario continentale, in particolare di quelle che su questo mercato fanno la parte del leone.

Per quanto riguarda le banche italiane, rinvio alla puntata di ieri, pur ricordando che il prezzo pagato dai primi due gruppi creditizi nel primo trimestre di questo orribile 2008 appare già alquanto pesante, così come la radicale revisione dell’outlook di Unicredit Group, credo il primo da quando Alessandro Profumo portava, ovviamente in senso metaforico, i calzoni corti ed era universalmente considerato il golden boy della finanza italiana, così come è interessante che l’altro ex gloden boy, Corrado Passera, abbia ostinatamente e dichiaratamente voluto mantenere pressoché invariate le previsioni reddituali per l’anno in corso: tanto di cappello!

Il terzo polo creditizio in fieri (Monte dei Paschi di Siena più Antonveneta, più domani chissà) sarà molto impegnato per almeno tutto l’anno a ristrutturare il nuovo acquisto e a lavorare sodo per rispettare gli ambiziosi obiettivi dell’appena varato piano triennale per pensare troppo alle prospettive reddituali immediate.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

martedì 27 maggio 2008

Geronzi dixit sed Arpe fecit

Credo proprio che i banchieri italiani ed europei avrebbero preferito oggi essere americani per godere della pausa dei mercati azionari legata al Columbus Day (e poi dicono che gli italiani sono contrari alla mobilità!) per evitare il protrarsi del bagno di sangue che sta colpendo in particolare le grandi banche italiane e non poche banche europee ormai da molti mesi, anche se alcuni dei problemi sono addirittura precedenti all'inizio della tempesta perfetta.
*
Approfitto anche io della festività statunitense che mi lascia alquanto disoccupato e, peraltro, in giro per l'Italia, anche perché è nei giorni di chiusura di Wall Street che è possibile vedere quanto ancora sia rilevante il peso degli USA nel mercato finanziario globale, per fare un ragionamento un po' più approfondito su quanto sta accadendo nel sistema bancario italiano, che, lo ricordo a chi si è messo in ascolto soltanto ora, è dal 2005 alle prese con la terza, e credo proprio non ultima, fase di ristrutturazione e di concentrazione.
*
Le prime due fasi appartengono ormai al passato, ma vorrei ricordare che molte delle contraddizioni attuali sono proprio legate alle modalità che, dopo la grande innovazione normativa e regolamentare iniziata nei primi anni Ottanta e che aveva semplicemente dato luogo alla scissione tra le banche pubbliche in senso lato ed i soggetti cui ne veniva conferita la proprietà, hanno accompagnato la costruzione dei due macro gruppi, Unicredit ed Intesa, due entità diverse tra di loro come il giorno e la notte, tranne che per le criticità legate al modello su base federale che ne ha accompagnato lunga parte della storia, prima di essere dismesso come un panno vecchio.
*
Come si sa, le ombre dei peccati, in particolare di quelli originali, hanno il brutto vizio di proiettare le proprie lunghe ombre molto lontano nel futuro, ed è proprio questo il caso della governance dei due maggiori gruppi creditizi, nei quali le Fondazioni bancarie, uscite dalla porta, sono bellamente rientrate dalla finestra, anche se, come direbbe un mio carissimo amico, con garbo.
*
Entrando nella terza fase del processo di concentrazione, che nasce dopo il tentativo, riuscito ma con qualche differenza rispetto ai progetti iniziali, di due banche estere di acquisire due banche italiane di stazza medio grandi e il vero e proprio sconcerto di Corrado Passera e Alessandro Profumo nello scoprire che i gruppi da loro guidati ed altre banche più importanti di quelle appena acquisite dagli stranieri non sono più al riparo da taKe over più o meno ostili, ma che, anzi, i possibili autori della scalata ce li hanno in casa da anni ed in posizioni di tutto rispetto, anche se di nessun comando.
*
Pensa che ti ripensa, Corrado ed Alessandro, così come Cesare Geronzi e gli azionisti italiani di San Paolo-IMI, decidono che bisogna proprio bruciare i tempi e nel gior di pochi mesi accadono le due fulminee operazioni, che danno luogo, spesso dopo poco più di una telefonata tra i massimi vertici, neientepopodimeno che ad Intesa-San Paolo e ad Unicredit-Capitalia (subito ribattezzato Unicredit Group).
*
Ma i peccati originali di cui parlavo sopra hanno creato subito un problema: come si fa ad accontentare tutti i partecipanti alle due operazioni che, in realtà sarebbero lineari visto che Intesa ha acquistato il San Paolo e Unicredit ha acquisito Capitalia, ma che in realtà lineari non lo sono per nulla, in quanto si è soltanto eseguito un arrocco difensivo al grido di dalli allo straniero?
*
Si trattava di qualcosa di più difficile di koan zen o degli indovinelli della sfinge egiziana, ma il genio italico ha prevalso ed ecco che la soluzione venne trovata nella Mitbestimmung alla amatriciana, prendendo del modello duale soltanto il nome, infatti, i nostri legislatori avevano previsto, in luogo dell'obsoleto modello di governance monocratico, la possibilità di avere amplissimi consigli di governance e meno ampi, ma non troppo, consigli di gestione.
*
La cosa divertentente di tutto ciò è che era talmente evidente lo scopo reale che aveva spinto i banchieri nostrani ad abbracciare il nuovo modello che gli unici sacrificati nelle fusioni sono stati alcuni componenti dell'ormai preistorico collegio sindacale, che, secondo logica e spirito della pur mal fatta legge, dovevano costituire l'ossatura del consiglio di sorveglianza (come, peraltro, dice la parola stessa).
*
Ma poi come si fa a far contenti tutti i vecchi azionisti, dalla grande Fondazione al costruttore che garantisce gli equilibri, come si fa a trovare posto per tutti? Semplice, via una parte di questi sindaci e spazio a tutti gli altri, anche se accontentare tutti, come suol dire il banchiere anziano di Marino, non è sempre possibile.
*
Mai come nel caso dei due colossi creditizi italiani, il mercato ha capito tutto sin dall'inizio e non si è fatto scrupoli di fare strage delle quotazioni ex ante, così come ha fatto per quel vero capolavoro che è stata l'acquisizione "fulminea" della sola Antonveneta a molto di più di quello che gli scozzesi avevano pagato per l'intero pacco; ma credo proprio che il bello è acora di là da venire, ma, soprattutto, che molto poco di buono può venire da operazioni congegnate per escludere qualcuno (Arpe dixit) piuttosto che per fare qualcosa.

domenica 25 maggio 2008

Il ruggito del Leone di Omaha contro Paulson, Bernspan ed i venditori di false speranze

skip to main | skip to sidebar

Quando, oltre due mesi orsono, ho indicato in Warren Bufett ed in George Soros le mie due guide, quasi due stelle polari utili per orientarmi tra gli alti marosi della attuale tempesta perfetta, non lo dicevo a caso, in quanto, pur nella diversità delle origini, dei caratteri, degli stili di vita e dei modi di operare nel mondo dell’economia e della finanza, essi rappresentano due approcci analitici ed operativi sostanzialmente basati su una profonda conoscenza della natura umana, su un grande buon senso e su quel misto di fiuto e fortuna senza il quale non si va davvero lontano nel mercato finanziario globale.

Quando li ho scelti, nessuno dei due si era ancora pronunciato sulla natura, le cause e le prospettive della crisi finanziaria già in corso da mesi, o, se lo avevano fatto, le loro dichiarazioni mi erano sfuggite, sommerso come ero ed eravamo tutti da un vero e proprio profluvio di dichiarazioni, promesse e minacce provenienti dai governi e dalle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, dagli alti lai e dai lamenti degli un tempo invincibili capi delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, quasi tutte aventi ad oggetto le recriminazioni per aver deciso di fidarsi di mutuatari al di sotto di ogni sospetto e per avere preso per buone le garanzie offerte dalle banche specializzate che avevano mollato loro mutui per centinaia di miliardi di dollari.

Sin dalla prima puntata del Diario della crisi finanziaria, ho cercato di delineare, senza pregiudizi e senza interessi di parte, le vere cause di quanto stava accadendo e, per fare questo, ho utilizzato lo schema analitico proprio di John Maynard Keynes, facendo riferimento più che alle pregevoli opera teoriche di Lord Milton ai suoi attualissimi libelli polemici, in particolare quel “Le conseguenze economiche della pace”, scritto dopo le sue polemiche dimissioni dalla delegazione Britannica alla Conferenza di pace di Parigi, un altissimo consesso che, invece di gettare le basi per la pace in Europa, si adoperò per umiliare la Germania sconfitta e porre delle riparazioni chiaramente insostenibili che alimentarono il rancore tedesco e contribuirono al successo del partito nazionalsocialista di Hitler e il conseguente secondo conflitto mondiale.

La tenacia ed il coraggio con il quale Buffett e Soros, quasi dei novelli Chomsky, stanno confutando le tesi di Henry Paulson, Bernspan, Fox e compagnia cantante sono meritevoli di ogni considerazione da parte di coloro che hanno deciso di pensare con la loro testa e di non gettare il proprio cervello all’ammasso, anche se ammetto che è difficile resistere alla più grande campagna di disinformazione proveniente dalla quasi generalità dei media, dalla maggior parte degli economisti e degli esperti del mercato, dalle veline delle Big Five o delle maggiori banche globali, tutti a spiegare che la crisi è ormai alle spalle, che il peggio è comunque passato e che è ormai ora per gli investitori piccoli, medi e grandi di tornare a fare il loro dovere, consentendo così un rapido smaltimento delle decine di migliaia di miliardi di titoli della finanza strutturata che si ostinano a restare al di sopra o al di sotto delle linee di bilancio o nelle ormai stracolme discariche a cielo aperto gestite dalla Federal Reserve.

Per onestà intellettuale devo riconoscere che, dopo aver fatto il possibile e l’impossibile per aiutare le banche ad uscire dalla loro pessima situazione, il professore di Princeton prestato alla politica monetaria dà segno di volere tornare decisamente nei suoi panni, piuttosto che continuare ad essere una sorta di replicante di quel Alan Greenspan che, per sfortuna dell’America e degli americani, ha occupato per ben diciannove anni la più alta poltrona della Fed ed ha favorito in ogni modo la creazione, o l’ulteriore sviluppo, delle numerose bolle speculative che sono, al momento, soltanto in parte scoppiate.

Non si tratta soltanto dell’allinearsi sempre più vistoso delle minute della Fed o dei contenuti del Beige Book alle posizioni dei due membri dissenzienti del FOMC, ma del tenore minacciosamente rialzista in materia di tassi di interesse delle stesse posizioni del numero uno della ormai esausta banca centrale statunitense, rialzi che non pochi osservatori indicano già per la seconda metà dell’anno in corso, prospettiva che sta letteralmente gettando nel panico tutti coloro che speravano di lenire gli effetti della crisi con l’ampliamento della forbice tra tassi attivi e passivi, nonché grazie allo smercio temporaneo a basso costo della loro monnezza più o meno strutturata.

Bernspan sta dunque lentamente tornando ad essere Ben Bernanke, quel mite e saggio studioso delle crisi finanziarie che tutti eravamo abituati a leggere e a rispettare, un docente molto amato dai suoi studenti e dai suoi colleghi del prestigioso ateneo statunitense e che mai avrebbe pensato, accettando l’alto incarico, di trovarsi a gestire questo accidenti di marasma che rischia di mandare alle ortiche non questo modello di globalizzazione e di finanziarizzazione, ma la globalizzazione e la finanziarizzazione tout court, come dicono certamente meglio di me Nicolas Sarkozy ed il presidente della Germania, due persone che più diverse tra loro è difficile trovarle nell’universo mondo, ma accomunate dal giudizio più che pessimo per i guasti prodotti dalla deregolamentazione spinta in corso da oltre un quarto di secolo.

Non posso non notare con piacere che anche quello che Beppe Grillo definisce il tronchetto dell’infelicità, al secolo Marco Tronchetti Provera, sia giunto alla conclusione che ci vorrebbe proprio una nuova Bretton Woods, cosa che sostengo sin dall’inizio di questa avventura editoriale, ma che temo dovrebbe avere caratteristiche e presentare soluzioni diametralmente opposte a quelle cui pensa Provera e, soprattutto, rispetto a quelle che tanto amareggiarono il mai troppo compianto Keynes.

D’altra parte, restando in fiduciosa attesa per quello che scaturirà dalla riunione dei sette grandi prevista per metà luglio in terra nipponica, credo proprio che quanto è avvenuto nella scorsa settimana ha messo una pietra tombale sulle speranze e le promesse di pronta guarigione pronunciate un po’ troppo avventatamente da importanti esponenti governativi, da banchieri disperati più delle omonime casalinghe e da tanti giornalisti adusi da lunga pezza ad essere più realisti del re.

Non bastassero le cupe e severe profezie emesse con un ruggito dal Leone di Omaha per la delizia dei lettori di una rivista tedesca, quello che è accaduto nella passata ottava con l’aumento di capitale triplicato rispetto all’annuncio da parte del colosso assicurativo statunitense AIG, le cupe previsioni sui conti del secondo trimestre per la quasi generalità dei principali attori del mercato finanziario, i record a raffica del petrolio e delle altre materie prime, l’andamento della cosiddetta inflazione core negli USA ormai stabilmente posta a tassi annui equivalenti al doppio dei tassi sui Fed Funds, la liquefazione delle quotazioni delle azioni delle monoliner e l’ulteriore appesantimento di quelle di banche, compagnie di assicurazione e di gran parte delle corporations statunitensi per sede ma globali per definizione.


Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

sabato 24 maggio 2008

A praise to the certain looser Gordon Brown and to the certain winner David Cameron

skip to main | skip to sidebar

Dear Sirs,

apologising in advance for my horrible English, I would suggest to both of you to consider the opportunity to change your views and your respectable opinion about the present opting out that gives your currency the opportunity to stand alone in uncomfortable position.

As you certainly know, the government of the twelve countries who decided in 1998 to state fixed and unchangeble crosses among their own currencies took a big risk, also related to the significant temporal lag occurred between the time of this decision and January the first 2002, when the new currency actually went into use.

Despite of a lot of criticism coming especially from your country and from the United States of America, I think it is possibile today to affirm that euro is a successful story, not only for the strenght showed by the new currency, but, above all, for the reputation it was conquered by the European Central Bank, an institution that is managing the actual financial storm in a correct way, specially considering that this crisis appears to the most as the sequel of Perfect Storm I occurred in 1907 in the United States of America.

Presidents and Prime Minister who took that big risk exactly ten years ago were not heroes or irresponsible politicians, but they were aware of the huge and historical opportunity for the Europeans to make an important step towards the building of the United States of Europe, turning their dreams into reality.

And so, for the wealth of your country ando for the wellness of your people, I suggest you to surrender!

Or, using other words, the sooner the british pound dissolve itself into the euro the better!

Faithfully Yours

Marco Sarli

Post Scriptum

Mi scuso con i miei lettori per avere scritto in inglese questa sorta di lettera aperta all’attuale primo ministro britannico, Gordon Brown, ed al capo dell’opposizione conservatrice e sicuro vincitore delle prossime elezioni politiche, David Cameron, ma ritengo che sia corretto esprimere questo auspicio di un rapido ingresso della sterlina nell’euro nella lingua parlata dai due esponenti politici cui, ovviamente senza averne alcun titolo, mi rivolgo.


Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/


venerdì 23 maggio 2008

Cantami o diva di Warren Buffett l'ira

skip to main | skip to sidebar

Se fossi nei panni dei top manager di Moody’s non sarei assolutamente tranquillo dopo le dichiarazioni rese alla stampa a Milano dal leone di Omaha, Warren Buffett, anche perché, al di là della normalità ostentata e della bonomia abituale, gli si leggeva in faccia che era, parlando in linguaggio “polite”, molto ma molto arrabbiato per lo scandalo che sta emergendo in questi giorni sugli errori nell’assegnazione dei ratings ad un elevato numero di titoli della finanza più o meno strutturata, ma ancor di più per il fatto che pare incontrovertibile che ai piani alti della società, di cui lui è, con il 19,6 per cento, il maggior azionista.

Come ho più volte avuto modo di ricordare, Buffett è noto per chiedere un posto nel consiglio di amministrazione delle società delle quali, direttamente o attraverso Berkshire, diviene azionista più o meno rilevante, anzi credo che sondi prima il Board of Directory della società in merito a questa possibilità che è per lui fondamentale per comprendere dall’interno quelle caratteristiche aziendali che non si possono desumere da una lettura, per quanto attenta dei bilanci ufficiali.

Non sono state poche le situazioni nelle quali gli importanti uomini di affari membri del Board della società che aveva attratto l’interesse del miliardario americano si sono sentiti oggetto di un attento ed a volte severo esame da parte di un uomo che, partendo veramente dal nulla, ha raggranellato un patrimonio personale che è stimato intorno ai 69 miliardi di dollari, arricchendo al contempo quanti hanno creduto nelle sue capacità sin dai suoi esordi.

Il leone di Omaha non è soltanto la personificazione dell’American Dream per il suo successo negli affari, ma anche perché impersona uno stile di vita alquanto semplice e rifugge da tutti quegli eccessi che normalmente caratterizzano i nuovi ricchi ed è proprio a partire dai valori classici dell’uomo medio americano, in particolare l’intolleranza assoluta nei confronti delle menzogne e dei raggiri, che credo sinceramente che quello che accadrà ai piani alti della più importante agenzia di rating statunitense sarà uno di quei repulisti che verranno ricordati per molto tempo all’ombra del Wall.

E’ proprio vero che in ogni trama che si rispetti, alla fine il colpevole di un delitto è sempre il maggiordomo (ossia, il più sospettabile) e non è un caso che, sin dall’inizio della tempesta perfetta, molti strali si sono addensati proprio sul ruolo quanto meno equivoco e in odore di conflitto di interessi giocato dalle agenzie chiamate a valutare la bontà dei titoli della finanza più o meno strutturata, ma che possedevano tutte un ramo separato che vendeva a peso d’oro la sua attività consulenziale che era quasi sempre appropriata allo scopo degli emittenti: quello di ottenere il massimo rating senza il quale non sarebbe stato possibile vendere i titoli emessi ai fondi pensione, ai fondi di investimento e al parco buoi.

Anche se lo scandalo di Moody’s non stupirà quasi nessuno tra gli smaliziati operatori di Wall Street, credo proprio che della vicenda si approprierà in modo molto bipartisan la politica, il che in un anno che vedrà la scelta del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, nonché il rinnovo semi completo dei due rami del parlamento, non promette niente di buono per gli abitanti di Wall Street, di cui i candidati stanno dicendo già da tempo tutto il male possibile, anche perché i loro vizi ed i loro peccati, vengono invariabilmente confrontati con le ipotetiche virtù dello sterminato numero degli abitanti di Main Street.

Che stia per accadere qualcosa di grosso in termini di nuova e più stringente regolamentazione delle attività finanziarie lo devono avere capito anche i sempre più frastornati operatori che oggi sembra proprio che stiano esercitandosi nel tiro al piattello delle principali banche e compagnie di assicurazione, nonché della sullodata Moody’s, tingendo così di rosso una settimana che, negli auspici degli ottimisti, avrebbe dovuto registrare l’inizio della vera inversione di rotta dei mercati dopo tanti mesi di sofferenza.

Quello che più si teme ai piani alti delle Investment Banks e della miriade di entità che popolano il grande casinò della finanza è che, già a luglio in Giappone, il vertice dei sette grandi del pianeta decida di passare dale parole ai fatti e faccia, quindi, proprie le 65 raccomandazioni presentate a metà aprile dal Presidente del Financial Stability Forum, l’italiano Mario Draghi, e che le stesse possano essere molto più simili alla versione originale di quanto sperassero, in modo molto interessato, i partecipanti a quella tragica cena, tenutasi sempre a metà aprile, nel corso della quale i ministri economici ed i governatori delle banche centrali pare abbiano detto al gotha del sistema finanziario globale che non vi erano più margini di salvataggio per nessuno e che non sperassero in riedizioni di quello che aveva avuto ad oggetto le spoglie dell’orso di Stearns.

Non credo sia utile fare il conto dei morti e dei feriti in questa desolante chiusura di ottava, anche perché non mi stancherò mai di ripetere è che l’ultimo indicatore che bisogna osservare in questa fase è quello rappresentato dai listini azionari, mentre continua ad essere molto significativo il livello dei tassi interbancari, l’ulteriore liquefazione del dollaro ed i livelli toccati dai prezzi delle materie prime energetiche e delle derrate alimentari, anche perché ormai stanno spingendo ogni giorno che passa verso quello scenario di stagflazione di cui si è accorta anche Morgan Stanley che inizia a temere i livelli negativi dei tassi di interesse reali negli Stati Uniti, ma che teme che lo stesso possa accadere in Europa a partire dalla seconda metà del 2008.

L’ennesima notizia negativa proveniente dall’ormai disastrato settore immobiliare, con lo stock annualizzato di case invendute ormai ai livelli più bassi degli ultimi 23 anni e l’ulteriore tonfo dei prezzi delle stesse, non rappresenta che l’ennesima ciliegina sulla torta, mentre quasi più nessuno crede nella possibilità che il tanto sbandierato piano per aiutare un milioncino di mutuatari vedrà realmente la luce o sia in grado di portare la calma sui mercati.

Ho trovato molto interessante l’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica in edicola oggi dall’avvocato Mussari, presidente del Monte dei Paschi di Siena e fino a poco tempo fa presidente anche dell’omonima Fondazione, un interesse non tanto legato alle pur giuste osservazioni sulle cause della tempesta perfetta in corso, osservazioni che peraltro lui stesso attribuisce ad altri, quanto alla sua abilità nello schivare le domande più insidiose postegli dal giornalista che voleva sapere se questo terzo polo bancario è da considerarsi realizzato con l’acquisizione di Antonveneta o se vi è qualcosa di altro all’orizzonte.

Anche in questo caso, non voglio assolutamente sciupare la sorpresa del lettore e rinvio volentieri al testo originale, ma quello che mi preme dire è che sembrava che il giovane e brillante avvocato calabrese di origine, ma senese d’adozione, si aspettasse proprio le domande che gli venivano rivolte, d’altra parte, se no, che ci starebbe a fare dove stà?


Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org

Se Wall Street piange, l'Europa non ride


Come ho avuto più volte modo di ribadire in questi nove mesi, non ritengo il progressivo meltdown del settore immobiliare statunitense, con particolare riferimento alla questione dei mutui subprime, una causa della tempesta perfetta, quanto piuttosto una conseguenza del processo venticinquennale di finanziarizzazione spinta dell’economia, un processo profondo e pervasivo che ha reso emettibile e quotabile il risultato di qualsivoglia conseguenza dell’agire umano, dall’acquisto di una casa a quello di un automobile, dall’utilizzo di una carta di credito ad una promessa di pagamento, per non parlare poi di quella sorta di mostri che sono rappresentati dai titoli che mettono insieme pezzi di ognuna di queste forme di debito trasformandoli in una sorta di poltiglia indistinta cui l’agenzia di rating di turno attribuirà la massima valutazione possibile.

Detto questo, non voglio sottovalutare l’ennesimo segnale proveniente da quello che viene considerato l’indice governativo più rappresentativo dell’andamento dei prezzi nel settore immobiliare statunitense, che ha registrato oggi una flessione del 3,1 per cento, la più ampia mai verificatasi negli ultimi 17 anni e che vede una conferma della progressiva polverizzazione dei prezzi delle abitazioni in Stati tutt’altro che secondari quali sono la California e la Florida, tanto per citare quelli più appetiti dai sempre più depressi abitanti delle regioni poste all’Est ed al Centro degli Stati Uniti d’America.

Non si è ancora spenta l’eco del doppio colpo alla residua dose di reputazione dei top manager statunitensi proveniente dal doppio colpo subito ieri da American International Group (AIG), che non si è accontentata di turbare gli operatori con la quasi triplicazione dell’aumento di capitale annunciato contestualmente alla mega perdita registrata nell’orribile primo trimestre di questa anno, ma ha dovuto anche incassare il comunicato con il quale la Securities and Exchange Commission ha reso noto di aver avviato l’inchiesta sull’operato del precedente numero uno della compagnia di assicurazioni.

Come sempre più spesso accade nel corso di questa sempre più lunga crisi finanziaria, i listini azionari statunitensi hanno cercato di riprendere fiato dopo l’ennesimo record del petrolio che, come avevo facilmente previsto ieri, non si è accontentato del raggiungimento della soglia dei 132 dollari al barile, ma ha avuto l’ardire di polverizzarlo in poche ore, crescendo progressivamente sino a chiudere le contrattazioni a 135 dollari al barile e spingendo il prezzo alla pompa ormai ad un passo dalla soglia psicologica dei 4 dollari al barile.

Non nutro davvero molte speranze sulla volontà del capo della SEC, l’ormai mitico Fox, di accendere un faro su quanto sta accadendo, un giorno sì e l’altro pure nel ben poco controllato settore dei derivati sulle materie prime energetiche e sulle derrate alimentari, un faro che dovrebbe fare luce sui comportamenti delle maggiori banche di investimento che, secondo un giudizio che trova un numero sempre maggiore di sostenitori, starebbero, in allegra compagnia con gli hedge funds di ogni ordine e specie e le locuste dei private equità in piena crisi di astinenza non vedendo uno straccio di LBO degno di questo nome apparire all’orizzonte ormai da lunga pezza, cercando di rifarsi almeno in parte delle immani svalutazioni sui titoli della finanza strutturata e delle altrettanto gigantesche perdite che sono costrette a registrare ad ogni trimestre che Dio manda in terra dall’estate del 2007 speculando one way in posizione rialzista ai danni dei sempre più disperati consumatori americani e globali che vedono compromessi in un sol colpo diritti inalienabili come quello all’abitazione, alla mobilità e al cibo ad un prezzo che non sia troppo iniquo.

Qualcuno un giorno dovrà pur fornire una risposta alla stranezza dell’andamento maniacalmente rialzista dell’oro nero in uno scenario che vedeva, sino a pochi mesi orsono, un sostanziale equilibrio tra la domanda e l’offerta, equilibrio rotto solo saltuariamente da eventi geopolitica o guasti a qualche impianto, una situazione che non dovrebbe essere certo peggiorata in presenza del vistoso rallentamento della crescita statunitense e dei sempre più udibili colpi a vuoto dei sino a poco tempo fa ruggenti motori dei paesi asiatici, per non parlare poi della non proprio scoppiettante economia europea che, con la lodevolissima eccezione della Germania, non sembra proprio in una fase di forte espansione.

Se qualcuno nutriva ancora qualche residua speranza sul fatto che fosse rimasto un colpo nella pistola rovente di Bernspan e complici, il duro ed inequivocabile resoconto dell’ultima riunione del Federal Open Market Committee della Fed le ha istantaneamente fatte svanire come neve al sole, anche perché un qualsiasi ritocco verso il basso dei tassi di riferimento statunitensi provocherebbe una richiesta di ricovero coatto dell’emulo di Alan Greenspan e dei suoi colleghi e la promozione sul campo dei due coraggiosi membri dello stesso comitato che ormai da mesi si ostinano a cercare di ricondurre alla ragione Ben mani di forbice.

Non so, intanto, cosa altro stanno aspettando le sempre più screditate agenzie di rating, con la lodevole eccezione della sempre più severa Fitch’s, a degradare brutalmente le due maggiori compagnie monoline, MBIA ed Ambac, prima che, flessione dopo flessione, non si renda necessario un delisting di autorità delle loro rispettive azioni dal listino newyorkese, nel quale la seconda delle due ha già raggiunto il record di liquefazione del rispettabilissimo livello toccato appena un anno fa.

Come si usava dire un tempo, se Sparta piange, Atene non ride e non vi è dubbio che i sempre maggiori guai delle Investment Banks, delle banche commerciali e delle compagnie di assicurazione di oltre oceano vengano udite sulle rive del Tamigi e nelle principali piazze dell’Europa continentale come i lugubri rintocchi di una campana che sta suonando un po’ per tutti, seppur confortati dalla sempre maggiore credibilità della Banca Centrale Europea che continua a mantenere, via intangibilità di tassi di interesse doppi nei confronti di quelli statunitensi, una ancora efficace diga nei confronti delle sempre più pressanti spinte al rialzo dei prezzi sia al dettaglio che all’ingrosso.

Vorrei condividere con i miei pochi ma fedeli lettori l’esperienza vissuta oggi con il primo di una lunga, almeno spero, serie di incontri con le associazioni delle persone della terza età, incontri volti a fornire loro delle semplici istruzioni per l’uso che consentano loro di difendere al meglio i loro sudati risparmi, spesso oggetto delle mire di quanti ritengono sempre di sapere cosa è meglio per loro, colmandoli di spesso non richieste attenzioni che hanno provocato, in un passato non troppo lontano, delle vere e proprie tragedie; devo dire che è stata un’esperienza che mi ha ripagato delle tante fatiche di questi veramente terribili nove mesi.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

giovedì 22 maggio 2008

Chi assicurerà gli assicuratori (3)


American International Group (AIG), il colosso statunitense delle assicurazioni, ha reso noto di aver raccolto 20 miliardi di dollari sotto forma di aumento di capitale, una cifra largamente superiore a quella annunciata una decina di giorni fa contestualmente ai disastrosi dati relativi al primo trimestre del 2008, quando un comunicato ufficiale della società rese noto che sarebbe stato messo in piedi un aumento di capitale da 7,5 miliardi di dollari, mentre ulteriori 5 miliardi sarebbe stati successivamente chiesti al mercato in forme che ancora non erano state stabilite.

Ovviamente, la notizia della quasi triplicazione dell’aumento di capitale precedentemente noto ha spinto le quotazioni dell’azione ai livelli minimi toccati esattamente dieci anni orsono, ai tempi del salvataggio del hedge fund LTCM (uno dei capolavori di Alan Greenspan che costrinse un pool di banche statunitensi a salvare la creatura dei premi Nobel Merton e Scholls) e della crisi russa, in quanto anche le pietra di cui è lastricata Wall Street hanno capito che le cose per AIG si stanno mettendo veramente male, mentre gli azionisti stanno facendo i conti sul notevole dividend washing derivante dal incremento del numero delle azioni, anche se ritengo francamente che vi sarà poco da dividersi per quest’anno e, forse, anche per quello prossimo.

Non mi ritengo un profondo conoscitore della psicologia dell’investitore medio americano, ma, da quel poco che so, desumo che quello che li manda veramente in bestia non sono tanto le cattive notizie, che poi una stampa docile si affretta sempre a definire migliori dei disastri previsti ma raramente comunicati, quanto le verità dolorose fornite a rate, soprattutto se il lasso temporale tra una comunicazione e l’altra si misura addirittura in giorni.

Poiché come sovente accade le brutte notizie non vengono mai sole, non ha destato in me stupore lo scoprire che, a sole 24 ore dall’annuncio che ha mandato a picco l’azione di AIG, si è appreso che il precedente numero uno della compagnia assicurativa è stato convocato dalla Securities and Exchange Commission, quella presieduta dall’ormai celebre Effe O Ixs (Fox), per una torbida questione che riguarda anche una delle compagnie facenti capo al gruppo Berkshire di Warren Buffett, una vicenda che rischia di macchiare la reputazione sin qui alquanto adamantina del Leone di Omaha, uno dei due contemporanei, insieme a George Soros, che ho eletto a mie stelle polari nel corso di questa tempesta perfetta.

L’estensione del contagio dalle ormai quasi liquefatte monoliner alle maggiori compagnie di assicurazione statunitensi non depone certo bene sul decorso prossimo venturo della crisi finanziaria, anche perché rende evidente quello che i più smaliziati tra gli osservatori avevano già compreso da un pezzo e, cioè, che le attività finanziarie delle compagnie hanno ormai raggiunto dimensioni che non hanno nulla di invidiare a quelle delle divisioni Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali o a quelle che caratterizzano quelle CIB delle CIB che sono le banche di investimento statunitensi, il che mette a rischio la stessa solvibilità di attori del mercato finanziario della cui solidità era sino a poco tempo fa quasi un orribile sacrilegio osare dubitare.

Non tutte le compagnie di assicurazione, infatti, hanno la fortuna della tedesca Allianz, che ha ficcato gran parte dei titoli problematici della finanza strutturata nella controllata Dresdner Bank che, non certo a caso, sta cercando in ogni modo di sbolognare a qualcuno, cosa che al momento non le è riuscita, contenendo almeno in parte i rischi diretti afferenti al suo stesso bilancio, ma non le conseguenze fortemente negative derivanti dall’elevato livello di perdite della sua sempre più disastrata controllata.

Ben più grave, anche se ancora sottotraccia, potrebbe presentarsi la situazione di quelle compagnie che, non disponendo di bracci armati bancari, hanno sviluppato in casa fabbriche prodotto, sale operative e, soprattutto, strutture specializzate inzeppate di titoli della finanza strutturata di dimensioni tali da far venire il mal di testa, per non parlare poi di quei prodotti assicurativi che sono del tutto indistinguibili, per struttura e caratteristiche tecniche, dai titoli della finanza strutturata medesimi.

Non credo sia un caso che nei giorni scorsi le mie due stelle polari e l’ormai mitico Trichet si siano esposte formulando dichiarazioni volte a smentire la tesi del tipo “il peggio è ormai alle spalle”, autorevolmente formulata da personaggi del calibro di Henry Paulson (un nome che, assieme a CIB ed Investment Bank, risulta avere la maggiore frequenza nel Diario della crisi finanziaria) tesi, peraltro, ribadita da molti banchieri che hanno preferito mantenere l’anonimato, così come credo che non sia irrilevante il fatto che i tre critici di questa tesi hanno un’età che permette loro di ricordare analoghe dichiarazioni ottimistiche formulate nel pieno di una crisi venire fragorosamente smentite dagli eventi successivi.

Mi permetto di suggerire ad Effe O Ixs di accendere un faro su quanto sta accadendo nel poco controllato settore dei derivati, in particolar modo su quelli aventi ad oggetto le materie prime energetiche e le derrate alimentari, un faro che risulta particolarmente urgente in occasione dell’ennesimo record del prezzo del petrolio che ha raggiunto oggi a New York i 132 dollari al barile, livello che è valido al momento in cui scrivo, ma che potrebbe venire infranto prima della chiusura delle contrattazioni in terra americana.

Mi vedo costretto ad una doverosa errata corrige rispetto a quanto scritto nella puntata in cui rivolgevo un amichevole e sommesso suggerimento alla Fondazione Monte dei Paschi di Siena, in quanto, ad aumento di capitale terminato e risoltosi in un quasi completo successo, il peso dell’investimento complessivo nell’omonima banca non è, come scrivevo, pari all' 82,01 per cento del patrimonio netto della Fondazione, bensì, in base a quanto riportato oggi da vari organi di informazione, all’88,88 per cento, in quanto l’esborso totale è stato pari a 2,87 miliardi di euro in larghissima parte ottenuti mediante finanziamenti semplici e complessi che andranno prima o poi restituiti mediante opportune alienazioni di quella parte del patrimonio avente caratteristiche di facile alienabilità, innescando un processo al termine del quale le fortune della Fondazione saranno quasi integralmente dipendenti da quelle del gruppo bancario omonimo.

Come avevo annunciato nei giorni scorsi, avrà luogo domani, organizzato dal Fenacom (la federazione che organizza i pensionati della Confcommercio), il primo incontro nel quale sono chiamato a fornire le istruzioni per l’uso ai risparmiatori ed ai piccoli investitori per proteggere i propri risparmi in una fase difficile quale è quella attuale. L’incontro inizierà alle 16 e 30 in Piazza Mastai, 16 a Roma.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

mercoledì 21 maggio 2008

Ora allacciate davvero le cinture di sicurezza!


La nuova impennata del prezzo del petrolio registrata dopo la dichiarazione del presidente dell’OPEC secondo la quale il cartello petrolifero non avrebbe alcuna intenzione di aumentare la produzione prima della riunione prevista per il lontanissimo mese di settembre ha messo a portata di mano l’ennesima soglia psicologica posta a 130 dollari, un livello che consentirebbe al prezzo alla pompa negli Stati Uniti d’America d’infrangere l’altrettanto psicologica soglia dei 4 dollari al gallone, mentre il gasolio la ha già superata da un bel pezzo, con le evidenti conseguenze derivanti dal fatto che molto difficilmente i prezzi del trasporto su gomma delle merci potranno restare immuni da uno degli elementi fondamentali per la determinazione degli stessi.

Il vero e proprio pateracchio statistico riguardante un alquanto maldestra destagionalizzazione dell’indice dei prezzi all’ingrosso in aprile ha, inoltre messo in risalto che il livello dei prezzi cosiddetti ex food and energy si muove ad un livello esattamente doppio dell’indice complessivo, il che risulta davvero risibile alla luce delle variazioni registrate negli USA e nel mondo intero per le due voci escluse, ma segnala anche ed altrettanto inequivocabilmente che ormai siamo di fronte ad una pervasività della dinamica delle due voci cruciali per il modello americano verso i prezzi dei beni intermedi e finali, uno scenario che rende ancora più attuale la temutissima ipotesi che ci troviamo già immersi nella stagflazione, quella temutissima miscela di inflazione e stagnazione che rende la recessione prossima ventura di lunga se non lunghissima durata.

Pur avendo deciso da tempo di non prestare molta attenzione ai listini azionari operanti sull’intero arco delle 24 ore, mi vedo costretto a fare un eccezione oggi, in quanto sembra proprio che la percezione che ho appena descritto sia condivisa da Tokyo a New York, passando ovviamente per l’Europa, al punto da innescare un’aspettativa di possibile rialzo dei tassi di interesse, un rialzo volto a contrastare con la “corda del boia” il rischio che i tassi di crescita dei prezzi al consumo possano uscire da quel sentieri virtuoso così ben descritto da un’economista in tempi non sospetti in un saggio dall’eloquente titoli The End of the Inflactionary Era.

Non so proprio cosa farà il pistolero Bernspan ed i suoi allegri compari presenti con voto decisionale nel Federal Open Market Committee, ma so benissimo che Jean Claude Trichet e la stessa pavida Bank of England non ci metterebbero un secondo a decidere di stringere ed anche decisamente il cappio attorno al collo della già non brillante economia europea sia al di qua che al di là della Manica, in quanto il terribile scenario degli anni Settanta che mise in ginocchio l’economia britannica e gettò le basi per la successiva rivoluzione di Mrs. Thatcher, ma che notevoli disastri produsse anche in Italia ed in molti altri paesi europei non potrebbe essere tollerata da una Banca Centrale Europea che sintetizza la meglio l’eredità della Bundesbank e del suo clone olandese, con un Board che farà di tutto per dimostrarsi degno epigone di quel granitico consiglio della banca centrale tedesca che è sempre stata disposta a sopportare qualche milione di disoccupati in più piuttosto che veder rivivere l’incubo di Weimar.

E’, quindi, bastata una sola seduta sulle tre piazze principali dell’economia globale per fare giustizia sommaria delle giaculatorie dei governanti e degli opinionisti che si affrettavano a mettere il cartello The End sul film della tempesta perfetta che sta dimostrando con grande nettezza che i suoi marosi possono, quasi dieci mesi dopo il suo avvio, essere ancora più temibili di quanto lo siano stati sino ad ora, con l’aggravante che i miei pochi ma fedeli lettori ben conoscono e che è data dal fatto che, almeno negli Stati Uniti, è già stato fatto tutto quello che era possibile sul fronte dei tassi, su quello dell’accoglimento dell’accoglibile nelle capaci discariche a cielo aperto aperte dalla Fed per ospitare i titoli della finanza strutturata, così come è difficile immaginare di poter fare qualcosa di più di quello che si è fatto sugli altrettanto caldi fronti della liquidità interbancaria e del sostegno del cambio del sempre più evanescente dollaro.

Non stupisce, così, che le quotazioni delle monoliner siano in caduta libera, così come quelle di pressoché tutti gli attori del mercato finanziario globale, in quanto mancano solo quattro o cinque settimane alla scadenza dell’ultimatum lanciato all’unisono da Mario Draghi ed Henry Paulson ai maggiori tra i loro ex colleghi che, a differenza di loro due, hanno ancora la sfortuna di essere alla guida delle principali banche di investimento e delle maggiori banche più o meno globali, mentre è altrettanto certo che la posizione dei loro omologhi posti ai vertici delle compagnie di assicurazione, dei fondi pensione o di quelli di investimento non se la passano certo meglio in questa ben poco piacevole congiuntura.

Se la situazione non fosse davvero tragica, verrebbe da sorridere pensando alle tonnellate di articoli e di dichiarazioni che ci siamo dovuti sorbire nelle ultime settimane da parte di quanti, al di là della loro indubbia posizione di embedded, hanno, in molti casi in perfetta buona fede, preferito credere a quello che riusciva a rassicurarli, piuttosto che avere il coraggio di raccontare quello che, ogni giorno che passa, diventa sempre più chiaro anche a chi non si è mai occupato di questione economiche e finanziarie, e cioè che non sarà possibile uscire da questa situazione con mosse astute o con il piccolo cabotaggio, anche perché la dimensioni del problema che è alla base della tempesta perfetta è di dimensioni che vanno dalle trenta alle quaranta volte quello che governi, banche centrali e privati volenterosi possono realisticamente mettere in campo.

Quando, nei primi giorni di settembre dell’anno scorso, avevo tentato di mettere in fila le principali tessere del mosaico della crisi finanziaria, ero giunto ad un totale compreso tra 25 e 30 mila miliardi di dollari, ma le tessere che si sono aggiunte nei mesi successivi mi fanno ritenere che la parte alta della forchetta di stima possa essere tranquillamente moltiplicata per due, con l’aggravante che l’ultima mega svendita di titoli relativamente buoni effettuata dalla extracomunitaria UBS ha evidenziato uno sconto del 32 per cento, il che fornisce un’idea di quale possa essere il valore dei titoli della finanza strutturata che potremmo definire di pessima qualità.

Non voglio sottovalutare il peso relativo di un colosso del credito a livello globale quale certamente è Citigroup, ma credo che l’outing da 2.200 miliardi di dollari coraggiosamente pronunciato dal suo nuovo CEO, Vikram Pandit, possa fornire un’idea approssimativa della montagna di titoli della finanza più o meno strutturata che resta ancora da smaltire, una montagna che, con buona pace del professore emerito della sapienza di Roma, Luigi Spaventa, nessun fondo di salvataggio può essere realisticamente in grado di aggredire, a meno che non si ricorra ad una sorta di moratoria dalle conseguenze veramente imprevedibili e che nessun governo che si basi sul consenso espresso attraverso il voto popolare potrebbe essere in grado di proporre senza presentare al contempo le proprie dimissioni.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

martedì 20 maggio 2008

Trichet sale sul piedistallo


Evidentemente non pago del surplus di credibilità ed autorevolezza di cui sta godendo personalmente e come collettivo, il presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, ha deciso di togliersi anche lo sfizio di sbeffeggiare dai microfoni della BBC di Londra quel manipolo di ministri economici e quel folto plotone di giornalisti e commentatori alquanto embedded che ormai da settimane affermano un giorno sì e l’altro pure che la crisi finanziaria sta ormai volgendo al termine, che il peggio è ormai passato e che è, quindi giunta l’ora che i quegli scioperati di investitori e risparmiatori riprendano ad acquistare quanto viene prodotto, seppur a ritmi estremamente ridotti, dalle fabbriche prodotto delle Investment Banks o delle CIB delle banche più o meno globali.

Ebbene il sempre più germanizzato Trichet, posto alla guida del suo fido gruppo di consiglieri neotemplari, non ha certo perso l’occasione per riaffermare che la crisi c’è ed è profonda, così come non ha resistito alla tentazione di togliersi qualche manciata di sassolini dalla scarpa nei confronti di quei non pochi governanti europei che, almeno in passato, gli rimproveravano di essere la causa della possibile catastrofe economica dell’Europa e, rivolgendosi proprio a loro, ha ricordato che è compito comune della BCE e dei governi quello di combattere contro l’inflazione, perché poi la ripresa, come già sta accadendo in Germania, seguirà e sarà sana.

Vedendo che la puntata odierna è la numero 200, credo proprio che bisognerebbe prestare ascolto all’emulo del mitico Hans Tietmeyer, un uomo che assieme al ministro delle finanze olandese Zalm fece vedere i sorci verdi all’Italia che tutti gli italiani, tranne Antonio Fazio, volevano vedere nel primo gruppo dei paesi fondatori dell’euro, come in realtà fu, un personaggio controverso come banchiere, ma che ha dato punti a tutti come presidente del Board con sede a Frankfurt um Mein, uno che non si è lasciato intimorire dal bellicoso presidente francese Nicolas Sarkozy, avendo pochi mesi dopo la soddisfazione di vedere l’estrema divergenza dei rispettivi indici di popolarità, lui alle stelle, mentre il povero Nicolas si trovava alle stalle.

Credo proprio che nessuno ignori la lezione di stile fornita da Paul Volker al suo successore Alan Greenspan o al suo successore e sosia Bernspan (che ha giustamente messo al lavoro un manipolo di studentesse e studenti della sua Università per capire perché si formano le bolle speculative), ricordando, forse unico tra gli abitanti degli Stati Uniti d’America, che per una banca centrale che si rispetti la credibilità e l’autorevolezza sono tutto, opinione che gli valse ben poca simpatia da parte di più di un Presidente USA, ma che oggi gli consente di spiegare che un presidente della Fed tutto deve fare meno che accomodarsi behind the curve, tanto meno, come Bernspan fa da mesi, behind the market.

Non voglio ignorare che anche nell’operato degli emuli della Bundesbank vi è qualche pecca, dovuta alla indigestione di liquidità cui sottopongono un mercato interbancario, come quello dell’euribor che è tutto meno che un modello di trasparenza, una liquidità relativamente a basso prezzo che non riesce proprio ad indurre le primarie banche partecipanti a decidersi finalmente a fidarsi l’una dell’altra, cosa facilmente desumibile dall’incontestabile fatto che i tassi alle varie scadenze continuano ostinatamente a mantenersi a livelli molto più elevati rispetto a quelli che potrebbero essere definiti normali alla luce dell’attuale tasso di riferimento.

Devo dire, tuttavia, che ho molto apprezzato che Trichet non sia incorso nel rischio dell’auto incensamento, così come è da notare l’innata eleganza francese che lo ha spinto a non commentare la lunga ed articolata presa di posizione di Christine Lagarde, una donna che condivide con Sarkozy e con il presidente della Germania un giudizio non proprio lusinghiero sui banchieri di casa sua, ma, più in generale, su quelli a capo delle banche di investimento e delle banche più o meno globali ovunque basate, gente che la costringe ad interrompere le più che meritate vacanze in località esotiche, come accadde nell’agosto del 2007, e le rovina quasi tutti i fine settimana che Iddio manda in terra, anche se ha finalmente avuto la soddisfazione di far abbandonare all’ormai celeberrimo Daniel Bouton di Socgen l’incarico esecutivo che il banchiere francese si ostinava in ogni modo a voler conservare, a dispetto dei santi e di Sarkozy.

Non vi è, d’altra parte, dubbio che lo stato dei mercati non induce in alcun modo all’ottimismo, con le banche di ogni ordine e grado che non sanno se è finalmente giunta l’ora di leccarsi le più o meno vistose ferite, mentre il meltdown dell’immobiliare statunitense si estende anche all’Europa, come è testimoniato dal nettissimo calo delle domande di mutuo nell’area dell’euro ed ancor di più nella più che atlantica Gran Bretagna, con le valute forti che si ostinano, nonostante tutto, a recuperare livelli di guardia nei confronti dell’ormai evanescente dollaro e con i prezzi del petrolio e delle altre materie prime che macinano un record al giorno, mentre è meglio non parlare di quanto sta accadendo alle derrate alimentari.

Eppure, le ultime vicende nei mercati dove si trattano le materie prime e le derrate alimentari, in particolare quando quelli che ci si scambiano sono pezzi di carta relativi ad impegni ad acquistare o a vendere in futuro qualcosa che si sa sin dall’inizio che non si possiederà mai, potrebbero essere un utile case study per le studentesse e gli studenti del professore di economia di Princeton prestato alla gestione della politica monetaria in quel di Washington, anche perché la frenesia di rifarsi delle perdite subite su altri mercati non è proprio quel che si definirebbe una buona consigliera per quella che è una vera e propria orda di speculatori che rischiano, almeno la maggior parte di loro, di rimanere con il classico cerino in mano, non appena Goldman Sachs, le altre banche di investimento statunitensi, UBS ed i grandi hedge funds decideranno che è finalmente giunta l’ora di girare le proprie posizioni, determinando così un autentico bagno di sangue per i soggetti più piccoli e meno informati che si ostinano a mettersi in scia ai più grandi.

Da una tipologia di moral hazard ad un'altra, insomma, tanto quel che conta è portare a casa pane e companatico, un qualcosa che il normale mercato finanziario più o meno globale non offre nelle solite quantità, per non parlare di quella vera e propria moria prevista per le abituali stock options che rischiano di evaporare ben prima che qualcuno decida di mettere un po’ di sano ordine nel casinò della finanza globale.

Se devo essere sincero, non avrei mai pensato quel 3 di settembre del 2007, che sarei giunto alla 200^ puntata di questa avventura editoriale, o, almeno, che vi sarei arrivato senza che si intravedesse la luce, anche da lontano, in fondo al tunnel buio nel quale ci troviamo, anche se venticinque anni di gestione allegra e caratterizzata da una crescita quasi esponenziale non è certo roba che si smaltisce in pochi mesi.
*
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/