martedì 30 novembre 2010

I mercati snobbano il piano di salvataggio!


Il salvataggio dell’Irlanda, sarebbe meglio dire delle banche irlandesi già statalizzate e di quelle in via di esserlo, rappresenta un salto di qualità rispetto alla ‘colletta’ a suo tempo organizzata dai paesi dell’Unione europea con il concorso generoso del Fondo Monetario Internazionale, in quanto il fondo di salvataggio è stato istituito soltanto dopo.

Il salto di qualità è rappresentato dalla destinazione specifica di parte delle somme previste, 35 miliardi di euro sui complessivi 85, alle banche, mentre il resto verrà utilizzato per la riduzione del deficit che attualmente viaggia intorno al 32 per cento del prodotto interno lordo, ma è anche la prima applicazione al fondo di salvataggio previsto dai sedici paesi dell’eurozona, un applicazione onerosa in quanto il tasso previsto è del 6 per cento, più del 5,25 spuntato dalla Grecia, ma sensibilmente inferiore all’attuale rendimento dei bond decennali irlandesi.

Il finanziamento è suddiviso in tre parti uguali tra il fondo di salvataggio, il bilancio dell’Unione europea e il Fondo Monetario Internazionale, ma a queste somme si aggiungeranno prestiti bilaterali concessi dalla Gran Bretagna, dalla Svezia e dalla Danimarca.

A garanzia del prestito, anche questa è una novità, verranno messe le riserve dei fondi pensione irlandesi per un ammontare di 16,5 miliardi di euro, un’altra via per colpire i cittadini, una volta come contribuenti e la seconda come futuri pensionati, ma aggiungerei anche una terza, come destinatari di un welfare che sarà drasticamente ridimensionato dal piano di tagli e aumenti delle tasse presentato in questi giorni da un Premier che può già essere definito uscente.

Gli unici a sorridere in questa specie di tragedia sono gli imprenditori che, nonostante le pressioni dei partner europei, vedono mantenuta al 12,5 per cento la corporate tax, anche se fossi in loro mi preoccuperei della domanda interna che dovrebbe risentire e non poco delle conseguenze dei tagli al welfare state!

Ma i tedeschi e i francesi non mollano la presa sulla loro proposta di rendere permanente il fondo di salvataggio, raddoppiandone le risorse rispetto ai 444 miliardi di euro attuali, prevedendo inoltre la partecipazione dei privati e la ristrutturazione dei bond delle entità pubbliche o private entrate in difficoltà.

Per ora si tratta soltanto di proposte che dovranno raccogliere il consenso degli altri quattordici paesi membri dell’Eurogruppo, ma resta certo, invece, il prolungamento di quattro anni, da sei a dieci, del prestito in favore della Grecia.

Quello che è altrettanto certo è l’effetto deflattivo che i piani di austerità avranno su Grecia e Irlanda, così come effetti depressivi eserciteranno i piani degli altri paesi che vorranno mettersi in regola con i parametri previsti dal trattato di Maastricht.

I mercati azionari europei, dopo un’iniziale salita, hanno girato decisamente in rosso, in particolare quello italiano dopo che il differenziale tra BTP e Bund si è portato a 201 punti base!

lunedì 29 novembre 2010

S&P's affonda le banche irlandesi!

skip to main | skip to sidebar

E’ difficile distrarsi rispetto a quello che sta accadendo nel Vecchio Continente, fosse anche per una sola puntata del Diario della crisi finanziaria, ed eccomi di nuovo a parlare del piano di salvataggio dell’Irlanda e dei rumors che vorrebbero fosse in corso un pressing sul governo del povero Portogallo affinché si decida anche esso a chiedere aiuto ai partners dell’eurozona e ai governi volenterosi che, pur membri dell’unione europea, non hanno accettato di abbandonare le loro monete per confluire nell’euro.

Standard & Poor’s, per non sapere né leggere né scrivere, ha degradato a raffica le banche irlandesi e le affiliate irlandesi di banche straniere, portando i loro bonds a livello dei titoli spazzatura, minacciando anche ulteriori revisioni al ribasso dei ratings se verrà abbassato ulteriormente il giudizio sul debito sovrano irlandese e, così, anche il Portogallo è avvertito.

La cosa curiosa della crisi delle banche irlandesi e di quelle portoghesi sta nel fatto che le prime vedono grossi investimenti delle banche inglesi, mentre quelle portoghesi potrebbero mettere a rischio quelle spagnole, un dato di fatto che fa pensare che possano essere coinvolti due colossi come il Santander e il Bilbao Vizcaya y Argentaria (quest’ultima, al di là del nome così lungo, è una sola banca).

Se le cose stanno così, il salvataggio dell’Irlanda è un po’ anche il salvataggio della Gran Bretagna, e si capisce così meglio la sollecitudine del Governo di Sua Maestà nel partecipare alla schiera dei salvatori, così come alla partecipazione della Svezia potrebbe non essere estraneo qualche massiccio coinvolgimento delle sue banche; d’altra parte anche questo è il bello della finanziarizzazione!

Dopo aver fatto tremare i mercati e contribuito a far affondare l’euro, la cancelliera Angela Merkel ha iniziato a vedere mezzo pieno quello stesso bicchiere che nei giorni scorsi vedeva mezzo vuoto, anche se l’effetto delle valutazioni positive non è stato neanche lontanamente paragonabile a quello delle valutazioni negative precedenti, ma, incurante delle reazioni dei mercati alle sue esternazioni, ora la signora Merkel ci tiene a far sapere che vorrebbe che le cose procedessero più speditamente e tutti lì a profetizzare una conclusione positiva nel fine settimana.

Ieri sera i ministri delle finanze della Unione europea hanno ratificato l'accordo raggiunto tra i ministri dell'eurozona concedendo 85 miliardi di euro all'Irlanda, 35 dei quali sono ad appannaggio delle maggiori banche irlandesi, a margine della riunione, Barroso, con senso dell'umorismo, ha detto che le speculazioni sul possibile attacco a Portogallo e Spagna le lascia agli speculatori.

venerdì 26 novembre 2010

Segnali contrastanti dagli States!

skip to main | skip to sidebar

Dopo tante puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate ai problemi dell’Irlanda e dell’area dell’euro, è utile tornare a porre l’attenzione sugli Stati Uniti d’America che rimangono l’area economica nella quale ha avuto inizio la tempesta perfetta.

Un articolo pubblicato su uno dei siti americani che visito maggiormente si permette di ironizzare sulle differenze tra il nuovo e il vecchio continente, dimenticando che buona parte dei problemi di cui soffre il sistema bancario irlandese e un po’ tutto quello europeo hanno origine nei prodotti più o meno tossici sparsi per il mondo dalle investment banks e dalle banche più o meno globali con sede negli States.

Nei giorni in cui ho volto la mia attenzione altrove, ci sono state notizie importanti quali la revisione verso l’alto della crescita annualizzata del prodotto interno lordo statunitense nel terzo trimestre, passata dal 2,0 al 2,5 per cento, l’aumento dei redditi e dei consumi, ma anche quella della propensione al risparmio (dal 5,6 al 5,7 per cento del reddito disponibile), il calo degli ordini di beni durevoli in ottobre (-3,3 per cento), un forte calo dei jobless claims e un fortissimo calo delle vendite di nuove case, giunte al minimo degli ultimi 47 anni.

Come si vede un bel minestrone di notizie alquanto contraddittorie tra di loro, ma che non mi inducono a cambiare opinione sulla crescita negli USA come di un fenomeno in larga misura attribuibile al ciclo delle scorte, anche perché la revisione della crescita nel terzo trimestre non ha toccato la componente consumi che allo 0,8 (cioè 0,2 moltiplicato 4) era e tale è rimasta, così come il calo a 407 mila dei jobless claims settimanali dovrà vedere conferma nelle prossime settimane prima che lo si possa giudicare una vera inversione di tendenza.

Un discorso a parte lo merita l’aumento della propensione al risparmio, un fenomeno cui assistiamo da parecchi mesi e che è clamoroso ove si pensi che prima della tempesta perfetta si aggirava intorno all’uno per cento, quasi sei volte meno dei valori toccati attualmente, un dato che va di pari passo con la risistemazione del debito delle famiglie, che vede non solo una razionalizzazione, ma anche una riduzione dei debiti.

Collegare questo fenomeno alla riduzione degli ordini di beni durevoli è quasi automatico e credo che se ne vedranno presto conseguenze marcate nella produzione di questi beni che sono di per sé costosi e che un tempo erano acquistati attraverso finanziamenti di tipo finalizzato o meno!

Così come un discorso a parte lo merita il tonfo delle vendite di case nuove, quelle esistenti sono ancora drogate dalla presenza massiccia di vendite legate agli espropri, vendite che sono seguite da quanti sanno che, se non si assisterà ad una svolta nell’edificazione di case nuove e all’apertura di nuovi cantieri, difficilmente si potrà parlare di una fine della crisi.

giovedì 25 novembre 2010

La Germania getta benzina sul fuoco!


Finora non si sono viste le file agli sportelli delle maggiori banche irlandesi come accadde nell’estate del 2007 di fronte a quelli della poi nazionalizzata Northern Rock, un po’ perché la maggior parte di esse sono state già nazionalizzate, mentre per Bank of Ireland si pensa lo sarà molto presto, di fatto o di diritto ancora non si sa, per ora si assiste alla fuga degli azionisti che vendono a rotta di collo portando verso lo zero le quotazioni che già la settimana scorso era ridotte a poche decine di centesimi di euro.

Le dichiarazioni di martedì del ministro delle finanze tedesco, Schauble, e ancor più quella della Cancelliera, Angela Merkel, hanno affondate le borse al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, ma anche quelle asiatiche di ieri mattina, una drammatizzazione propria degli esponenti politici tedeschi, seguita a stretto giro di posta dal downgrade di Standard & Poors, da AA ad A, sul debito irlandese.

Secondo il numero due del Fondo Monetario Internazionale, John Lipsky, le rinnovate turbolenze nei mercati europei del debito potrebbero contagiare l’economia reale, così come la ritrosia di fronte all’acquisto di debito sovrano potrebbe espandersi anche verso altre regioni, attraverso maggiori costi della raccolta,, una stretta (sic) del credito e un’inversione di tendenza nei flussi di capitale, per non parlare dei drammatici effetti sulle finanze pubbliche dei paesi colpiti.

Come insegnava John Maynard Keynes, quando i mercati si orientano in senso negativo, quello che conta non è il valore vero dei titoli scambiati quanto il modo di pensare degli operatori, un modo che raramente è improntato a razionalità e sangue freddo.

Il balletto in corso nel governo irlandese, con il premier che vorrebbe restare sino a che la manovra di austerità venga approvata e l’opposizione e pezzi della sua maggioranza che vorrebbero arrivare ad elezioni anticipate prima di Natale rende ancor più risibile l’analogo balletto in corso in Italia, dove, per paura dei mercati e degli organismi sopranazionali, sembra sia impossibile aprire una crisi di governo di fatto già esistente.

Se decideranno di sparare sull’Italia, gli speculatori lo faranno sia che ci sia un governo Berlusconi con una maggioranza risicata e che va sotto un giorno sì e l’altro pure, sia se ci sarà un governo istituzionale, sia che si vada al voto anticipato!

Le dichiarazioni di Lipski fanno invece pensare che sia iniziato l’allarme per il debito sovrano dei new comers dell’Unione europea, paesi sulle sorti dei quali si è steso un velo di silenzio almeno da un anno a questa parte, un default dei quali avrebbe conseguenze per le banche dei paesi europei più forti che sono presenti in forze e con investimenti di non poco conto.

Per quanto riguarda invece il confronto tra la bellicosa Corea del Nord e l’industriosa Corea del Sud, penso, a costo di essere smentito, che tutto si risolverà come sempre in un nulla di fatto, dopo l’intervento di Stati Uniti e Cina.


mercoledì 24 novembre 2010

Tintinnio di manette a Wall Street! (2)

skip to main | skip to sidebar

L’irruzione di uomini del Federal Bureau of Investigation nelle sedi di tre hedge funds ha gettato altra benzina sul fuoco della mega inchiesta sull’insider trading avviata tre anni fa dal distretto giudiziario di New York che si avvale dell’assistenza dell’ FBI e di altre agenzie governative, la tensione è aumentata quando si è appreso che, oltre a documenti, dalla sede di uno dei tre hedge funds visitati sono state portate via anche tre persone.

Che il mercato cominci a prendere sul serio questa indagine è ben dimostrato dalle perdite di oltre il 4 per cento subite lunedì a Wall Street da Goldman Sachs e di quelle attorno al 3 per cento subite da Bank of America che non è nemmeno citata dall’articolo del Wall Street Journal tra le banche indagate.

Non vi è dubbio che l’amministrazione Obama, uscita malconcia dalle elezioni di Mid Term abbia tutto l’interesse di portare sul banco degli imputati le banche e i loro clienti privilegiati e quelli istituzionali, anche per dimostrare che il Governo è schierato più dalla parte di Main Street che da quella di Wall Street.

Ma un’altra nube attorno alle grandi banche statunitense ed è rappresentata dalle implicazioni dell’accordo di Basilea III che prevede che il Core Tier 1 debba non solo essere portato dal 4 al 7 per cento, ma che prudenzialmente dovrebbe essere dell’8 per cento.

Ebbene, uno studio del Financial Times ha fatto i conti in tasca alle banche statunitensi, scoprendo che le stesse per raggiungere i requisiti patrimoniali previsti avrebbero bisogno di aumenti di capitale per un ammontare compreso tra i 100 e i 150 miliardi di dollari e che il 90 per cento di tale cifra, cioè tra i 90 e i 135 miliardi di dollari, farebbero capo alle prime sei banche a stelle e strisce, banche che si sono già viste costrette negli ultimi anni a varare massicci aumenti di capitale.

Non che per le banche poste al di qua dell’Oceano Atlantico le cose vadano meglio, anche esse infatti dovranno varare aumenti di capitale per rispettare i nuovi requisiti e per superare gli stress cui vengono sottoposte dalle rispettive autorità di vigilanza, il che rende un po’ strano l’interesse del Financial per le banche USA invece che per quelle del Vecchio Continente.

Venendo proprio alle vicende europee, risulta evidente che l’avvio dei veri negoziati per il finanziamento da concedere all’Irlanda non ha dissipato le nubi su quel paese e sull’intera area dell’euro e, per il secondo giorno consecutivo, le azioni delle banche irlandesi sono sotto tiro pur avendo delle quotazioni da prefissi telefonici!

Ma le forti perdite di ieri nei mercati azionari di tutto il mondo sono legate al rischio di un conflitto tra le due Coree e alle dichiarazioni di parte tedesca sui rischi che sta correndo in questa fase l’euro, ma di tutto questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.

Marco Sarli

martedì 23 novembre 2010

L'Irlanda chiede aiuto ai parenti serpenti!


I lettori di più lunga data del Diario della crisi finanziaria ricorderanno bene le sceneggiate via carta stampata e via apparizioni televisive dei Chairman e dei Ceo di banche statunitensi che giuravano e spergiuravano sulla solidità della propria banca o azienda sotto attacco da parte degli speculatori nel bel mezzo della tempesta perfetta.

I casi che passeranno alla storia riguardano Lehman Brothers, Countrywide, Bear Stearns, Wachovia Bank (per quest’ultima si è appena chiusa, con una transazione da 100 milioni di dollari la contesa tra Citigroup e Wells Fargo, la banca che l’aveva spuntata sborsando sei volte quanto aveva offerto l’avara Citi), ma è un elenco che occuperebbe un’intera puntata, cosa non opportuna visto che il copione è lo stesso, così le frasi pronunciate con più o meno enfasi da quei disperati protagonisti finiti sommersi sotto gli alti marosi della tempesta perfetta e i cui nomi sono destinati all’oblio.

Devo dire, alla luce dell’esperienzza della Grecia prima e dell’Irlanda poi, che gli statisti non sono da meno dei banchieri, giurando e rigiurando, infatti, che mai il loro paese chiederà aiuti e finanziamenti per poi presentarsi ad un consesso in teleconferenza a mendicare quattrini con il cappello in mano.

Come c’era da aspettarsi, dopo l’euforia iniziale dei mercati per l’annuncio del salvataggio prossimo venturo dell’Irlanda è emerso subito, come giustamente nota Andrea Bonanni su La Repubblica, che è venuto meno l’intento originario degli ideatori del fondo di salvataggio da 700 miliardi e che era proprio quello di prevedere che il fondo non sarebbe stato mai utilizzato in quanto gli speculatori sapevano bene che dietro ai Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, anche se molti dicono che quella i potrebbe stare anche per Italia) c’erano gli altri paesi dell’area dell’euro e, alla bisogna, anche la Gran Bretagna e altri paesi membri dell’Unione ma non appartenenti al club dell’euro.

Questo significa che, invece di placarsi, la speculazione internazionale sposterà la sua attenzione ai paesi giudicati più pencolanti e potrebbe non accontentarsi del Portogallo e della Spagna, ma puntare all’Italia, il paese con il rapporto debito pubblico prodotto interno lordo più elevato anche di quello che caratterizza la Grecia.

Mi scuso per la lunga premessa, ma era doveroso rinfrescarci tutti la memoria sui comportamenti degli uomini posti al vertice di banche e istituzioni, ma nel caso irlandese c’è qualcosa di ancor più indecoroso, in quanto per quel poco che si sa del salvataggio ancora tutto da definire, quello che è certo è che i sacrifici riguarderanno i cittadini di quel paese mentre le banche continueranno ad essere sostenute a piè di lista e le imprese continueranno ad essere soggette ad un imposizione del 12,5 per cento che non ha pari in Europa!

Non conosco le vicende politiche di quel paese, ma credo proprio che i cittadini non potranno rinnovare, nel più o meno prossimo appuntamento elettorale, la loro fiducia a un esecutivo che propone la più iniqua delle manovre in quanto le uniche cifre che sono trapelate sui tagli offerti ai negoziatori europei e agli inviati del Fondo Monetario Internazionale sono quelli al welfare.

lunedì 22 novembre 2010

Tintinnio di manette a Wall Street!

skip to main | skip to sidebar

Proprio mentre nelle sale cinematografiche di tutto il mondo esce il secondo film con Michael Douglas sulle malefatte di alcuni protagonisti della cittadella newyorkese della finanza, la gazzetta ufficiale della tempesta perfetta, il Wall Street Journal, ha annunciato che è in fase di chiusura un’inchiesta durata tre anni su una serie di casi di insider trading che hanno consentito la realizzazione di profitti illeciti per cifre di notevole consistenza e tra i tanti nomi di soffiatori di notizie vi è anche la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs, non nuova ad accuse del genere.

Sotto accusa sono i cosiddetti analisti indipendenti mentre il grosso della clientela sarebbe costituito da decine di hedge funds e mutual funds che venivano riforniti di notizie sensibili che permettevano loro di, come si suol dire, giocare sul sicuro, in particolare su operazioni di takeover riguardanti il settore sanitario, quello tecnologico e imprese di altri settori.

Un gran jury federale riunito a New York avrebbe già esaminato le prove raccolte e si appresterebbe a convocare le persone inquisite entro la fine dell’anno e solo allora sarà possibile capire le dimensioni del fenomeno e quali tipo di accuse verranno mosse agli individui e alle società coinvolte nella vicenda.

La notizia ha fatto il giro dei siti americani, veicolata da un breve articolo della Associated Press che si limita a riportare i punti salienti dell’articolo del Wall Street Journal, anche perché è a tutti noto che il fenomeno della propagazione di notizie non di pubblico dominio ai clienti è particolarmente diffuso e che i fatti sotto indagine non sono che la punta di un iceberg di dimensioni ragguardevoli.

In una puntata del Diario della crisi finanziaria dell’anno scorso, avevo già riportato le notizie dell’indagine che allora sembrava incentrata sulla sola Goldman Sachs, entità nella quale i traders limitavano l’invio di notizie riservate riguardanti operazioni della banca solo ad una parte dei grandi clienti.

Venendo da questa parte dell’Oceano Atlantico, vi sarebbe un'intesa di massima tra i ministri delle finanze dell'Unione europea per concedere un finanziamento tra gli 80 e i 90 miliardi di euro alla repubblica irlandese, finanziamento che avrebbe durata triennale ad un tasso intorno al 5 per cento.

venerdì 19 novembre 2010

GM in trionfo e banche sotto stress!

skip to main | skip to sidebar

Ieri è stato un grande giorno per gli Stati Uniti d’America, in quanto la General Motors risorta dalle ceneri del percorso fallimentare ha effettuato la più grande IPO a Wall Street, collocando 546 milioni di azioni ad un prezzo compreso tra i 31 e i 33 dollari, con una domanda superiore all’offerta e che garantirà una cifra intorno ai 20 miliardi di dollari per la quota di azioni che metterà a disposizione dell’operazione.

Lo Stato è uscito con profitto dai prestiti fatti alle grandi banche per 9 miliardi di dollari, mantiene una quota di tutto rispetto in Citigroup, ha il 55 per cento di Gmac, il 92 per cento della disastrata AIG e la totalità delle azioni di Freddie Mac e Fannie Mae, anche se sarà molto difficile che realizzerà profitti dalle ultime tre entità considerate.

E’ certo, anzi, che il Tesoro dovrà concedere ulteriori finanziamenti sia a Fannie Mae che a Freddie Mac, dei quali garantisce inoltre a piè di lista l’enorme debito, così come, al di là delle rilevanti dismissioni in corso, non è escluso che debba rifinanziare anche l’AIG.

Per avere un’idea della situazione basti pensare che sono ancora da restituire 180 miliardi di dollari dei 388 miliardi a suo tempo concessi e che, nel solo settore bancario, ci sono 590 entità che hanno ricevuto i finanziamenti previsti dal TARP e che devono ancora restituire somme per 38 miliardi di dollari, restituzione che richiederà tempi molto lunghi.

Questi interventi diretti o indiretti dello Stato nel capitale di banche, compagnie di assicurazione, finanziarie, case automobilistiche ha portato a una revisione profonda del rapporto tra Stato e mercato in un paese, come gli Stati Uniti d’America, che aveva fatto della separazione tra queste due entità una sorta di religione, un credo quasi bipartisan che è stato spazzato via dagli alti marosi delle tempesta perfetta.

Attualmente decine di dipendenti del Tesoro siedono in consigli di amministrazione di banche, compagnie di assicurazione, case automobilistiche, mentre altri loro colleghi sono impegnati nelle sale operative di grandi banche per evitare che si ripetano modus operandi come quelli che hanno portato alla più grave crisi finanziaria dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Nel frattempo, la Federal Reserve ha comunicato alle 19 maggiori banche ed entità finanziarie operanti negli USA che le sottoporrà nuovamente agli oramai famosi stress test e che solo quelle che li supereranno avranno la possibilità di aumentare i dividendi concessi agli azionisti, mentre quelle per le quali l’esito sarà negativo dovranno procedere alle opportune ricapitalizzazioni!

Venendo all’Europa, non erano ancora iniziati i colloqui con la delegazione formata da esponenti della Unione europea, del Fondo Monetario Internazionale e della BCE, che già il governatore della banca centrale irlandese parlava di finanziamenti per decine di miliardi di euro, una notizia che ha spinto l’euro nell’area degli 1,36 dollari e le borse di tutto il mondo al rialzo.


giovedì 18 novembre 2010

Salvataggi di ieri e di oggi


In giornate in cui tutti si pronunciano sui salvataggi effettuati, la grecia, o da effettuare, Irlanda e Portogallo, dall’estremo oriente giungono le parole del Leone di Omaha, al secolo Warren Buffett, che si spertica in lodi sui salvataggi, di banche in primis, effettuati dagli Stati Uniti con Bush prima e Obama poi.

Anzi, nel suo discorso, Buffett cita proprio il fallimento della Lehman Brothers, un fallimento deciso a tavolino da quello stesso trio Bush-Bernspan Paulson che poi si fece artefice del TARP, il fondo di salvataggio da 700 miliardi di dollari inizialmente destinato alle sole banche, ma che venne poi utilizzato in minima parte per scongiurare anche che, invece del fallimento pilotato, General Motors e Chrysler finissero a zampe all’aria.

Come i lettori del Diario della crisi finanziaria ben sanno, nutro grande ammirazione per Buffett, così come per George Soros, ma non posso esimermi dal sottolineare che quei salvataggi, ma soprattutto il mancato salvataggio di Lehman, siano rimasti senza quelle giuste contropartite che potevano essere richieste alle banche con l’acqua alla gola e cioè l’acquisizione temporanea di parte di esse a garanzia che le vagonate di soldi ricevute originasse un rivolo consistente di finanziamenti all’economia, ma, e forse soprattutto, la rinegoziazione di buona parte dei mutui!

Ha poco senso, infatti, lamentarsi del basso livello di crescita dell’economia a stelle e strisce quando le banche continuano a preferire il trading al lending e milioni di famiglie hanno perso la casa, mentre altri milioni stanno lottando con le unghie e con i denti per evitare che anche a loro succeda lo stesso.

Dai salvataggi del passato veniamo a quelli del presente, l’Irlanda appunto, dopo gli incontri di martedì e in vista di quello di ieri, la posizione irlandese si è molto ammorbidita e il ministro delle finanze, Brian Lehinan, ha affermato che i colloqui con l’Unione europea e il Fondo Monetario Internazionale inizieranno già giovedì, ma la vera novità è che il governo di Londra, non facente parte dell’eurogruppo, sarebbe disposto a venire in aiuto delle banche irlandesi che, lo ripeto, sono il vero problema di quel paese.

Già si parla di un viaggio di una delegazione mista Unione europea e FMI che dovrebbe valutare le necessità dell’Irlanda, ma è oramai chiaro che non verranno prese decisioni vincolanti fino alle elezioni politiche che si terranno il 25 di questo mese, una scadenza che chiarisce la melina portata avanti in questi giorni dalle autorità politiche di quel paese.

Nel frattempo si è svegliata la Lch Clearnet, la cassa di compensazione europea per gli scambi di titoli di stato che ha raddoppiato, portandoli al 30 per cento, i margini richiesti per le posizioni in bond irlandesi.

mercoledì 17 novembre 2010

L'Irlanda e i parenti serpenti! (3)

skip to main | skip to sidebar

Dopo aver oscillato di poco intorno alla parità, nella seduta di ieri i tre principali indici azionari statunitensi hanno iniziato a reagire alla crisi irlandese, ben comprendendo che l’attacco ai titoli di stato irlandesi è solo un preludio a quelli, forse più massicci, che verranno mossi ai titoli di stato portoghesi e poi a quelli spagnoli e poi dopo chissà.

A riprova che quello dei titoli di stato è un mercato davvero globale, sono schizzati verso l’alto i rendimenti dei Treasury Bonds, mentre il Dow Jones ha bucato verso il basso la soglia degli 11 mila punti, forti scivoloni per l’oro e il petrolio, mentre l’euro scivolava nella parte alta dell’area degli 1,34 dollari.

Oggi si riuniscono i ministri dell’economia dei sedici paesi facenti parte dell’eurogruppo, un gruppo del quale fanno parte anche la Grecia, già colpita e affondata, l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo, ma già alla vigilia di questo importante appuntamento, il titolare del dicastero economico irlandese e il suo omologo portoghese facevano a gara nel dichiararsi il più virtuoso nonché il meno propenso a chiedere gli onerosi aiuti.

Ma la questione, come ha ben sottolineato il presidente dell’Unione europea Herman van Rompuy, non riguarda solo i paesi colpiti o gli altri paesi dell’area dell’euro, ma riguarda bensì la stessa possibilità di sopravvivenza dell’Unione a 27.

Alla questione della crisi del debito sovrano di paesi membri dell’Unione europea e battenti la valuta unica dedica un lungo articolo il New York Times, un articolo che si interroga sulla possibilità di fronteggiare due o tre crisi contemporaneamente, pur in presenza di un fondo di salvataggio dotato di fondi per 500 miliardi di euro.

Non è un mistero per nessuno che la nascita dell’euro con i suoi primi dodici paesi partecipanti, cui si unirono proprio alcuni tra i paesi ora in difficoltà, venne vista con scetticismo, se non malcelata ostilità, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, in quanto la moneta unica veniva a essere l’espressione di un’area economica paragonabile a quella degli Stati Uniti d’America e poteva insidiare nel tempo la supremazia del dollaro come valuta di riserva e come principale mezzo di pagamento negli scambi internazionali.

Ma in realtà, dietro la crisi irlandese, vi è un errore che è uguale a quello commesso negli USA e, cioè, il salvataggio delle banche un errore fatale per i conti pubblici e al quale si potrebbe ovviare utilizzando i finanziamenti del fondo di salvataggio per rientrare dei 45 miliardi di euro spesi, lasciando alle banche l’onore e l’onere di restituire quanto riceveranno!

martedì 16 novembre 2010

L'Irlanda e i parenti serpenti! (2)

skip to main | skip to sidebar

Mentre il primo ministro irlandese si sgola a ripetere di non aver chiesto aiuti all’eurogruppo, da Bruxelles circolano cifre di un finanziamento da 80-90 miliardi di euro finalizzato a far cessare l’attacco dei mercati ai titoli di stato di quel paese.

Mentre viene negato da Dublino il ricorso al fondo di salvataggio come Stato, non si fa mistero che un aiuto è stato richiesto per sostenere le banche irlandesi a valere sul fondo di salvataggio e questa è una precisazione non da poco ove si pensi che i problemi delle prime cinque banche irlandesi sono nell’ordine dei 45 miliardi di euro.

La ritrosia irlandese ad adire la fondo di salvataggio come Stato è ben comprensibile alla luce del pressing che l’Unione europea sta esercitando sulla Grecia, il primo paese ad essere oggetto di un piano di salvataggio, affinché riduca deficit e debito ed è di ieri la notizia che il rapporto tra deficit e prodotto interno per il 2010 è stimato dal ministro greco dell’economia al 9,4 per cento, oltre tre volte, cioè, il limite previsto dal Trattato di Maastricht.

Il dato sul deficit greco segnala comunque un notevole recupero sul dato rivisto dall’Unione europea (15,3 per cento), segnalando un calo di 14 miliardi di euro rispetto al 2009 che resta però tutto da verificare, mentre va detto che il dato medio per i 16 paesi dell’eurogruppo vede il rapporto tra il deficit e il prodotto interno lordo passare dal 2,0 per cento del 2008 al 6,3 per cento del 2009 con il rapporto debito/pil che si è nello stesso lasso di tempo portato dal 67 ad oltre il 79 per cento.

Come sostenevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, vi è un problema di oneri finanziari legati al ricorso al fondo di salvataggio (più che doppi rispetto all’utilizzo delle facilitazioni offerte dal Fondo Monetario Internazionale), ma vi è soprattutto la rinuncia all’ampio margine di manovra di cui dispone il governo di uno stato sovrano, un’ipotesi tutt’altro che teorica alla luce di quello che sta passando il governo greco da quando ha ottenuto il finanziamento da 110 miliardi di euro.

Chiedere l’aiuto per le banche e non per lo Stato consentirebbe al governo irlandese di mantenere intatta la sua autonomia, rivendicando al contempo la severità della manovra triennale di rientro, una manovra che ha già inciso per 6,5 miliardi di euro sui conti del 2010 e che porterà, al termine del periodo considerato, ad una riduzione del deficit per 15 miliardi di euro.

Mentre scrivo si sta diffondendo la notizia che anche il Portogallo sarebbe sul punto di chiedere finanziamenti a valere sul fondo di salvataggio, un allargamento del contagio che determina una situazione di grande incertezza della quale sta facendo le spese l’euro, scambiato a1,360 dollari rispetto agli 1,428 toccati in occasione dell’annuncio del Quantitative Easing II da parte della Federal Reserve.

lunedì 15 novembre 2010

L'Irlanda e i parenti serpenti!

skip to main | skip to sidebar

Ovviamente, il consesso dei venti capi di Stato e di governo riuniti a Seul non è stato in grado di approvare il piano di Timothy Geithner che aveva come obiettivo la creazione di un sistema volto a dissuadere i singoli Stati dal superare la soglia del 4 per cento, ma ha dato, invece, il via libera alle nuove regole per la finanza proposte, a nome del Financial Stability Group, dall’italiano Mario Draghi, che dell’organismo è da tempo il presidente oltre a essere il Governatore della Banca d’Italia.

Strapazzati, tranne il duo giapponese, da un formidabile jet lag, i grandi della terra hanno, come capita sempre a Bernspan, dimostrato di essere un passo indietro agli eventi che sono rappresentati non solo dall’immensa questione cinese, ma anche dal riesplodere della necessità di procedere a un nuovo bailout in favore dell’Irlanda, dopo di che il mercato inizierà a prendersela prima con il Portogallo e poi con la Spagna, o con tutte e due nello stesso tempo, al che non resterà che mettere sotto tiro i BTP italiani, in particolare se la crisi politica sarà deflagrata, mentre nel frattempo il differenziale del decennale italiano con il bund di pari scadenza si è portato ancora più vicino ai 300 punti base.

Come facevo notare nella puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata al tiro al piccione che gli investitori stanno facendo nei confronti dei titoli di stato irlandesi, il governo di quel paese ha messo mano alla scure, tagliando le spese e aumentando le imposte, e altrettanto si è impegnato a fare nei prossimi tre anni, una situazione ben diversa da quella della Grecia, rea di spesa facile e, addirittura, di falsificazione dei conti, pubblici si intende!

Portare a quasi 700 punti base il differenziale con i titoli tedeschi di un paese che si sta già dando le sanzioni da solo può apparire strano, ma lo è solo in apparenza in un mercato finanziario che non ha smesso di assomigliare a un immenso casinò a cielo aperto e, non me ne voglia l’ottimo presidente del Financial Stability Group, ma non credo che le nuove regole cambieranno più di tanto questa situazione!

Immaginate per un momento che, come vaneggia in questi giorni il nostro presidente del Consiglio, si imponga un margine del 50 per cento in contanti nella vendita allo scoperto di un titolo, di una commodity o di un’azione, questo non modificherà di molto l’appeal dell’operazione quando in poche sedute si può portare, soprattutto se questo è il.sentimento comune, a valori di assoluto realizzo.

Il Wall Street Journal suggerisce, in un ampio reportage, al governo irlandese di non fare ricorso al fondo istituito dai paesi dell’eurogruppo, a tassi di interesse del 5,5 per cento, ma di utilizzare la facilitazione possibile presso il Fondo Monetario Internazionale, dove spunterebbe tassi pari a meno della metà di quello richiesto dai partners che battono euro.

E’ sempre vero il detto che dice “dagli amici mi guardi Iddio che dagli altri mi guardo io”!

venerdì 12 novembre 2010

in vista del G20 un progetto scaccia l'altro!


Abituato a vivere nel paese della smentita, mi sono guardato bene dal commentare la sorprendente uscita del presidente della Banca Mondiale che qualche giorno fa aveva proposto, senza entrare in dettagli tecnici, un ritorno di un gold exchange standard limitato alle valute più importanti del pianeta e cioè il dollaro, l’euro, la sterlina e lo yen, lasciando anche capire che sarebbe stato auspicabile estendere tale sistema anche allo yuan cinese.


Nella rettifica odierna, Robert Zoellick afferma di non avere mai voluto proporre il ritorno a quel sistema che aveva il suo perno nel rapporto tra 35 dollari e un oncia di quello che Keynes chiamava un relitto barbarico, ma che non è igienico chiudere gli occhi sul ruolo da elefante nella stanza (noi diremmo elefante in un negozio di ceramiche), un ruolo che è sotto gli occhi di tutti e che ha portato l’oro a toccare e superare la quotazione di 1.400 dollari per oncia, segno inequivocabile della sfiducia di molti investitori nell’economia di carta.


Il bello è che non sono passati molti giorni da quando Timothy Geithner aveva proposto in pieno G20 l’adozione di un sistema che assomigliava molto alla International Clearing Union sostenuta da John Maynard Keynes alla Conferenza di Bretton Woods del 1944 e bocciata proprio dal ministro del Tesoro dell’epoca, anche se va detto che la proposta di Keynes era molto più restrittiva di quella di Geithner che, in luogo di un saldo della bilancia commerciale pari o prossima allo zero, prevede avanzi e disavanzi contenuti entro una soglia del 4 per cento, per di più trattabile.


Va detto che all’epoca in cui Keynes proponeva il suo sistema gli eventuali deficit comportavano la perdita proprio del oro di cui ha parlato nei giorni scorsi Zoellick, il che comportava immediate misure correttive per evitare di intaccare ulteriormente le riserve auree.


Sarebbe errato ritenere che questo fiorire di proposte, in particolare quella di Geithner e quella di Zoellick, siano accademia, per almeno due ordini di motivi, il primo rappresentato dalla persistenza di squilibri commerciali a carattere strutturale, soprattutto il disavanzo statunitense e, di converso, gli avanzi della Germania, del Giappone e di quella Cina che ha conseguito ieri un avanzo di 29 miliardi di dollari e rotti, il secondo record mai realizzato, mentre il secondo è rappresentato dalle possibile conseguenze del Quantitative Easing II da poco annunciato dal FOMC della Federal Reserve.


E’ molto concreto, infatti, il rischio che l’inflazione cominci a correre negli Stati Uniti d’America, pur in presenza di bassi livelli di crescita, così come è del tutto probabile che il dollaro ricominci a scivolare verso il basso ad onta di tutti i tentativi fatti dalle banche centrali europee e asiatiche effettuati affinché ciò non accada, sforzi che, nel medio periodo difficilmente potranno conseguire il risultato sperato

giovedì 11 novembre 2010

Dopo la Grecia, è la volta dell'Irlanda?

Dopo la decisione dei 16 paesi dell’eurozona di creare un fondo da 750 miliardi di euro per fare fronte al rischio default di alcuni Stati membri, una decisione presa dopo che l’Unione europea e il Fondo Monetario Internazionale erano stati costretti a erogare prestiti per 110 miliardi di euro alla Grecia, sembrava che le cose potessero calmarsi nell’immenso mercato dei titoli di stato.

Purtroppo, si trattava di una vana speranza, come è facile vedere osservando gli spreads dei titoli di alcuni paesi europei nei confronti sia dei Bund tedeschi che dei Treasury Bonds statunitensi, un livello tale dei differenziali da rendere i 170 punti base esistenti tra il BTP italiano e il Bund poca cosa.

Il caso più eclatante è rappresentato dai titoli di stato irlandesi ormai a 600 punti base sul bund,, avendo oramai lo yield toccato il livello dell’8,55 per cento, un livello ancora lontano da quelli raggiunti al culmine della crisi dai titoli di stato dell’Islanda, ma un livello comunque preoccupante per un paese che, a differenza dell’Islanda, è non solo membro dell’Unione europea ma che appartiene anche all’eurogruppo ed è anche il primo paese a subire l’onta della decisione di Russia e Cile di non acquistare più titoli irlandesi.

Il problema dei problemi è rappresentato dal fatto che il costo del salvataggio di cinque banche è costato all’Irlanda 45 miliardi di euro, una cifra enorme per quella piccola nazione e che, come nota un servizio dell’Associated Press è pari a 10 mila euro per ogni abitante, bambini e vecchi compresi, una cifra che, per la parte di competenza del corrente esercizio, porterà il deficit pubblico irlandese al 32 per cento, dieci volte il limite posto dal Trattato di Maastricht a questo indicatore, e fortuna che sino a prima della crisi il debito pubblico irlandese era a livelli modesti.

Per fare fronte all’emergenza dei conti pubblici, il governo irlandese ha varato tagli di spesa per 4,5 miliardi di euro, mentre ha imposto nuove tasse per 1,5 miliardi di euro, ma questo doloroso mix di misure è solo l’antipasto in quanto si inserisce in un piano quadriennale volto ad abbattere il deficit di 15 miliardi di euro, un piano valutato così duro che, secondo il Governatore della banca centrale irlandese, crea ben pochi spazi a richieste da parte sia dell’Unione europea che del Fondo Monetario Internazionale.

Non molto meglio dell’Irlanda sta il Portogallo che vede i rendimenti dei titoli decennali portarsi dal 6,24 dell’asta di settembre al 6,80, mentre la Spagna presenta differenziali un po’ più contenuti, dell’Italia ho detto all’inizio, anche se l’attuale fase di instabilità politica potrebbe riservare qualche sorpresa.

Poco si sa di quello che sta accadendo ai paesi dell’Est Europa ora membri dell’Unione e della Nato, anche se ritengo che andrebbero seguiti con maggiore attenzione, così come sarebbe utile tenere d’occhio l’euro/dollaro che da 1,428 dollari per euro di pochi giorni fa si è spinto ieri nell’area degli 1,36, per poi recuperare.

mercoledì 10 novembre 2010

Niente stress in North Dakota!

skip to main | skip to sidebar

Ho sempre detto che preferisco parlare della crisi a partire da quell’osservatorio rappresentato dagli Stati Uniti d’America, non solo e non tanto perché la tempesta perfetta ha avuto la sua origine in quel fenomeno di finanziarizzazione che lì ha preso le mosse ed è in questa grande nazione che avevano, e in alcuni casi ancora hanno, sede le più grandi fabbriche prodotto delle investment banks e delle banche più o meno globali, ma anche perché vi è la più ricca messe di informazioni economiche del pianeta fornite sia da organismi pubblici che dalle più svariate entità private, incluse le fonti di informazione.

Ed è di una di queste elaborazioni svolte in ambito giornalistico che voglio parlare oggi, in quanto è stato reso noto ieri l’Economic Stress Index curato dalla Associated Press relativo al mese di settembre e che segnala un minimo degli ultimi sedici mesi, il che significa, per come è costruito l’indice, che la situazione è in via di miglioramento, anche se il valore di 10,0 segnato in settembre è appena inferiore al 10,3 di agosto.

L’indice è costruito su rilevazioni che riguardano tutte le 3141 Contee, riaggregando poi i dati a livello dei singoli Stati, con punteggi che vanno da 1 a 100 e con l’avvertenza che è a partire da 11 che vi è un avvertibile livello di stress.

L’indice prende a riferimento indicatori quali la disoccupazione, le procedure di esproprio e i fallimenti sia personali che aziendali, un mix di indicatori che, a seconda del loro andamento, rendono bene il grado di soddisfazione o disagio sociale di una comunità, anche se non va sottovalutato il ritardo temporale con cui l’informazione viene diffusa.

Come per gli espropri (peraltro uno dei tre indicatori considerati), l’epicentro del disagio riguarda gli stessi cinque Stati, con il Nevada al top del quintetto con un indice quasi doppio di quello che è considerato il valore soglia (21,93), seguito dalla California con 16,15, dalla Florida che, con 15,86, è quasi appaiata al Michigan (15,76) e, infine, dall’Arizona con il 14,90.

Il Nevada è riuscito a polverizzare in settembre tutti i record negativi, vantando, si fa per dire, il primato nella disoccupazione con il 14,4 per cento, così come è al primo posto nelle procedure di foreclosure (addirittura il 6 per cento delle abitazioni sono nel percorso infernale che porta all’esproprio e alla vendita all’asta), ma è anche leader nei fallimenti con il 3 per cento dei contribuenti che hanno chiesto la protezione della legge fallimentare.

Le vere isole felici sono rappresentate dal North e dal South Dakota, il primo con il punteggio di 3,75 e il secondo con il 4,78, seguono il Nebraska con il 5,73, il Vermont con il 5,89 e il New Hampshire con il 6,79.

Per non annoiare i lettori, non citerò le contee più disastrate, fatta eccezione per quella che lo è più di tutte e che è rappresentata dalla Imperial County nello Stato della California che presenta un punteggio più che triplo della soglia di stress (34,04).

martedì 9 novembre 2010

Citigroup dovrà vedersela con la Sec!

Come se non bastasse il problema dei 500 miliardi di dollari e rotti di titoli rappresentativi di mutui per i quali c’è il rischio che i detentori possano chiedere il riacquisto, Citigroup si trova ora ad essere nel mirino della Securities & Exchange Commission, che sta indagando su alcuni fondi che investivano in bond municipali titoli rappresentativi di mutui e le cui quote sono arrivate a perdere anche il 77 per cento del loro valore.

A svelare questa nuova grana per Citi è stato il Wall Street Journal, il giornale finanziario che ha anticipato quasi tutti gli scogli di cui era disseminato il mare nel corso della tempesta perfetta, e, come si usa in questi casi, il redattore ha definito le sue fonti come persone vicine alla vicenda, il che fa presumere che appartengono a quella Sec, che, va detto non è più quella dei tempi di Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox, uno messo lì da Bush e che non non si accorgeva, o fingeva di non accorgersi, quasi di nulla da che il soprannome fox.

Eppure Citi aveva ben pensato di venire incontro agli sventurati che avevano pensato di fare un investimento sicuro, mettendo in piedi operazioni di buy back che riducevano la perdita al “solo” 61 per cento, ma ecco che quei guastafeste della Sec, grazie a tre gole profonde un tempo interne alla vicenda, sostengono che l’informativa sulla rischiosità dell’investimento non sarebbe stata veritiera come la banca sostiene, affermando che avrebbe non solo informato che si trattava di un investimento più volatile di quello in azioni, ma che avrebbero anche potuto perdere tutti i soldi investiti.

I tre brokers loquaci si sono dimessi nel 2008 dalla controllata Smith Barney in polemica su come venivano gestiti questi fondi si sarebbero rivolti alla Sec nel 2009 e nell’estate di quest’anno e avrebbero ora ricevuto l’invito a comparire come testimoni nel procedimento formalmente aperto dalla stessa Sec.

In diverse puntate della prima fase del Diario della crisi finanziaria, avevo messo in guardia dal fatto che uno degli effetti della tempesta perfetta sarebbe stato il fiorire di indagini sui comportamenti tenuti dalle banche poste al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, così come prevedevo un enorme aumento delle liti giudiziarie promosse sia dai risparmiatori danneggiati che dagli investitori istituzionali cui sono state rifilate una parte rilevante dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata.

La nuova serie del Diario è nata proprio a partire dai comportamenti di Bank of America e di altri colossi del credito sia nei confronti dei mutuatari cui, almeno secondo i procuratori generali di 50 Stati, non sempre si era proceduto alle procedure di esproprio in modo corretto, sia nei confronti di investitori, inclusa la Federal Reserve di New York, cui erano stati rifilati bonds legati a mutui immobiliari non del tutto performing!

lunedì 8 novembre 2010

Scontro al femminile su BofA!

skip to main | skip to sidebar

Puntuale come ad ogni primo venerdì del mese è stato diffuso il dato relativo al mese di ottobre del Non Farm Payrolls e, ma basato su un’altra metodologia statistica, il tasso di disoccupazione, positivo il primo, con un’aggiunta netta di 151 mila posti di lavoro, inchiodato, invece, al 9,6 per cento dei due mesi precedenti il secondo, ma entrambe le notizie hanno dato modo ad Obama di esibirsi in una conferenza stampa nella quale ha enfatizzato i progressi nel campo della disoccupazione, sottolineando al contempo i rischi per l’economia americana derivanti dalla concorrenza degli altri paesi, Cina in primis.

Il settore privatola aggiunto in ottobre 159 mila posti di lavoro, che, aggiunti a quelli degli altri nove mesi, fanno la cifra tonda di un milione di posti di lavoro in più, il saldo complessivo è di 874 mila buste paga in più, anche se va considerato che nel biennio 2008-2009 erano stati persi 8 milioni di posti di lavoro, mentre è interessante l’innalzamento dell’orario settimana ad oltre 34 ore, il dieci per cento in più del mese scorso, così come non va sottovalutata la revisione al rialzo dei precedenti dati di agosto e settembre che vedono il settore privato creare 103 mila posti di lavoro in più.

Resta il fatto che poco meno di 15 milioni di cittadini statunitensi continuano ad essere disoccupati, anche se una parte di questi potrebbero provenire dalle file degli scoraggiati, il che spiegherebbe l’andamento diverso delle due statistiche, così come è difficile capire se la “qualità” dei nuovi lavori è equivalente a quella di quello persi.

Assolto Bernspan la sua mission di fornire una stampella per l’economia rimettendo in moto le rotative dalle quali scaturisce il biglietto verde (si veda al proposito la puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria), inizia la querelle tra Obama e i repubblicani sui tagli fiscali che vogliono entrambi, ma che il presidente in carica intende negare al 2 per cento della popolazione più ricca, mentre i repubblicani inalberano lo slogan di meno tasse per tutti, una battaglia che terrà impegnata la politica a stelle e strisce almeno fino a alla fine dell’anno.

Torniamo ora all’altro tormentone sul quale sono riprese le puntate quotidiane di questo blog e, cioè, le accuse mosse alle banche, Bank of America in prima linea, di avere agito in modo alquanto disinvolto sulle procedure di esproprio nei confronti dei mutuatari morosi, per scoprire che la povera BofA è invece una paladina dei diritti degli occupanti le case contese e lo dimostra il fatto che la lettera che ha ricevuto da uno studio legale di New York l’accusa di non aver aperto in tempo le foreclosure, chiedendo anche per questo il riacquisto di bond per 49 miliardi di dollari.

Vi è anzi una vivace polemica a distanza tra Barbara J. Desoer, a capo del dipartimento mutui di BofA, e Kathy D. Patrick (che in una puntata precedente avevo erroneamente chiamato Connor), con la Desoer che dice “non è meglio modificare un contratto di mutuo e tenere la gente nelle loro case piuttosto che espropriarli?”.


venerdì 5 novembre 2010

Bernspan ripete l'errore!

Indifferenti, anzi negativi in chiusura, alle notizie provenienti mercoledì dal mondo della politica, i tre principali indici azionari statunitensi hanno salutato ieri sin dall’apertura con vivaci rialzi il quantitative easing II deciso da Bernspan e compagni, con la sola eccezione del presidente della Fed di Kansas City, Thomas Hoenig che ha sostenuto che i rischi derivanti da questa seconda manovra superano i benefici.

In buona sostanza, la Federal Reserve ha annunciato che acquisterà titoli di stato a stelle e strisce per 900 miliardi, di cui 600 miliardi da ora ad agosto, quantità in linea con le attese del mercato, ma la vera sorpresa è rappresentata dal fatto che i nove decimi di questa somma saranno utilizzati per acquistare scadenze inferiori a quella decennale e trentennale su cui ci si aspettava che concentrasse la sua attenzione.

Per capire cosa potrà accadere è utile soffermarsi sugli esiti della manovra precedente, consistente in acquisti per 1.700 miliardi di dollari di titoli di stato, prevalentemente a lunga e lunghissima scadenza, acquisti effettuati in piena tempesta perfetta e che non hanno indotto, nonostante i tassi di interesse bassissimi gli incrementi desiderati nella spesa per investimenti e, men che meno, in quella per consumi.

Quel primo tentativo di quantitative easing avveniva nel corso di quella che molti chiamano la Grande Recessione, per cui uno dei rischi maggiori connessi a manovre del genere, un’impennata dei prezzi al consumo, era chiaramente poco probabile, mentre, allora come ora, non è da escludere la formazione di una bolla speculativa nel mercato dei titoli di stato e abbiamo visto che effetti può avere il formarsi di una bolla, ad esempio quella che ha riguardato fino al 2006 il mercato immobiliare e il correlato mercato dei mutui, un mercato quest’ultimo che ha dimensioni gigantesche, aggirandosi sugli 11.000 miliardi di dollari

Quello che colpisce nel comunicato della Fede che, a sedici mesi dall’avvio ufficiale della ripresa negli Stati Uniti d’America, che “il ritmo della ripresa sia nel settore della produzione che in quello dell’occupazione continua ad essere lento”, una frase che fa giustizia in un colpo solo degli ottimisti a un tanto al chilo.

Quello che è mancato nella prima manovra della Fed e che molto probabilmente mancherà anche in quella avviata ieri è rappresentato dal fatto che i titoli sono stati acquistati dalle banche nella speranza, poi mostratasi in gran parte vana, che queste avrebbero girato questa liquidità aggiuntiva ai richiedenti prestiti o mutui, cosa che è avvenuta in minima parte, almeno a vedere dall’impennata verificatasi nel contempo dei mercati dei derivati!

Di questo clamoroso errore ha fatto le spese Obama, ma in questo verrebbe da dire ben gli sta, avendo più volte rinnovato la sua fiducia a quel Timothy Geithner che ha partecipato ai salvataggi delle banche insieme a Bernspan e a Henry Paulson.


giovedì 4 novembre 2010

Si mette male per Obama!


All’alba di ieri, ora italiana, erano chiare le cifre del disastro alla Camera dei Rappresentanti determinato dal completo rinnovo della camera bassa nel corso delle elezioni di Mid Term, un risultato che vede 244 seggi ai repubblicani e 191 ai democratici, mentre il partito di Obama mantiene una maggioranza risicata al Senato, in rinnovo solo per un terzo, con 51 seggi ai democratici 47 ai repubblicani e 3 indipendenti.

Non è la spallata che i repubblicani e Wall Street si attendevano ma poco ci manca e non a caso i vincitori reclamano già a gran voce l’abrogazione di quella riforma sanitaria già frutto di estenuanti compromessi e l’affossamento di quella riforma dei mercati finanziari che Obama è a malapena è riuscito a far passare quando il suo partito dominava in entrambi i rami del Congresso.

All’insegna del buy the rumor sell the news, ieri i tre principali indici di Wall Street hanno aperto alquanto appiattiti sulla chiusura del giorno precedente, con il Nasdaq addirittura in negativo, seppur di poco.

Lasciando agli americani il peso del clima rissoso prossimo venturo nell’agone politico, vorrei concentrare l’attenzione su due questioni, la prima l’attesa per l’annuncio della Federal Reserve sui tanto attesi acquisti di titoli del tesoro a stelle e strisce, la seconda fase di quantitative easing dopo la prima che ha visto la Fed intervenire per 1.700 miliardi di dollari, la Fed stavolta si impegnerà per 900 miliardi di dollari, ma di questo parlerò più diffusamente nella putata di domani del Diario della crisi finanziaria.

Molto dipenderà quindi dagli ammontari, dalla gradualità degli acquisti e dall’identità dei venditori, ma quello che è certo è che questo nuovo avvio delle rotative potrà sì dare un impulso all’economia, contribuire a ridurre i tassi di interesse, ma avrà certamente anche un’influenza negativa sui corsi del dollaro che era ieri appena al di sopra degli 81 yen, mentre servivano 1,40 dollari per acquistare un euro.

La seconda questione riguarda ancora una volta i mutui, con un bel servizio della CNBC che fa le pulci al colosso Citigroup per gli ingenti ammontari di mutui, sfusi o a pacchetti si sarebbe detto un tempo, che ha ceduto a un numero imprecisato di controparti per un ammontare complessivo di oltre 500 miliardi di dollari.

Ebbene a fronte di perdite potenziali che vanno da 37, secondo la visione più ottimistica, a 134 miliardi di dollari ove le cose si mettessero davvero al peggio, le riserve specifiche presenti nel bilancio della banca sono di appena un miliardo di dollari arrotondati per eccesso!

mercoledì 3 novembre 2010

Una visione con le lenti rosa!


Dopo tre sedute vissute oscillando intorno alla parità, ieri il Dow Jones ha mostrato i muscoli sin dall’apertura, così come hanno fatto gli altri due indici principali, un segnale chiarissimo di speranza che nelle elezioni di Midterm la destra conservatrice incarnata dal partito repubblicano acquisisca il controllo della Camera dei Rappresentati e, forse, anche del Senato, un’espressione di voto del mondo degli affari che non stupisce, visto che le poche cose fatte da Obama sono state mal digerite dalla upper class a stelle e strisce.

Il vero problema è rappresentato dal fatto che anche i diretti beneficiari della riforma sanitaria e del mega stimolo economico varato nei primi mesi di mandato dell’attuale inquilino della Casa Bianca continuano a pensare che si sarebbe potuto fare di più, forse utilizzando parte delle somme previste dal TARP per salvare, invece delle banche, le tante piccole e medie imprese in difficoltà, oppure cancellando l’iniqua riforma fiscale a suo tempo varata da Bush o altro ancora, ma è certo che sarebbe arduo trovare entusiasmo per l’attuale politica di Washington anche in questi ceti medi e popolari.

Eppure credo che faremmo meglio tutti a riflettere sulle parole pronunciate in Marocco da Dominique Strauss Kahn, il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, che ha posto l’accento sull’occupazione, che è la prima, la seconda e la terza questione, un enfasi che non deve stupire alla luce dei 30 milioni di posti di lavoro persi a causa degli alti marosi della tempesta perfetta.

Siccome non vorrei che i miei lettori pensino che faccio parte della schiera dei profeti di sventura voglio citare l’articolo di ieri di Daniel Gross su Yahoo.com dal significativo titolo che recita “il cielo non sta cadendo….non per ora” e nel quale vengono citati tre aspetti positivi che vado ad elencare.

Il primo è rappresentato dal fatto che a cinque anni dall’inizio della crisi del settore immobiliare, a tre da quello della tempesta perfetta (aggiungo io), vi è stata una ristrutturazione industriale senza precedenti e un miglioramento della qualità del credito, così come questo è stato il primo fine settimana senza fallimenti di banche.

Il secondo è rappresentato dalla crescita non a ritmi esaltanti, ma sempre una crescita, della spesa per consumi, ma unita a buoni livelli di risparmio (il 5,3 per cento) del reddito disponibile, una miscela, secondo Gross, molto più rassicurante di quelle sperimentate in passato e che non poca responsabilità hanno in quello che poi è accaduto.

Il terzo è rappresentato dai dati dell’ISM che ho commentato nella puntata di ieri, dati che evidenziano il quindicesimo mese di crescita consecutiva con 14 comparti industriali su 18 che segnalano una buona salute in termini di fatturato, vendite, nuovi ordini, occupazione ed esportazioni.

Quella di Gross è una visione delle cose che non condivido appieno, ma che mi è parso utile riportare fedelmente e con rispetto, anche perché mi piacerebbe molto che le cose stiano andando esattamente così!

martedì 2 novembre 2010

La palla al piede della ripresa USA!

Dopo il balzo in avanti dell'ISM statunitense, passato da 54,4 in settembre a 56,9 in ottobre, un analogo movimento al rialzo è stato reso noto ieri mattina con riferimento alla Cina e all'India, dando l'idea di una ripresa in corso a livello globale, grazie anche ad analoghi segnali provenienti da due importanti paesi europei, ed è così che viene visto con una certa enfasi il balzo in avanti del purchase management index cinese, passato dal 53,8 di settembre al 54,7 di ottobre, mentre un analogo indice indiano gestito dalla HSBC è passato dal 55,1 di settembre al 57,2 di ottobre.

La differenza tra i due dati è rappresentata dal fatto che la produzione indiana è in larga misura destinata al mercato interno, mentre quella cinese dipende in misura tutt’altro che marginale dalla domanda estera che, almeno a giudicare dai dati relativi alla bilancia commerciale cinese non sta andando proprio benissimo.

Alla festa dell’Asia non ha partecipato il Giappone, con l’indice Nikkey in calo anche ieri, a fronte di rialzi medi del 2 per cento degli altri mercati asiatici, un paese che non festeggia perché alla produzione industriale in calo, l’indice dei prezzi al consumo che registra variazioni negative e un saldo commerciale che seppure ampiamente positivo non può non risentire di uno yen che sta tentando di battere il precedente massimo nei confronti del dollaro conseguito quindici anni orsono a 79 yen e spiccioli per un dollaro e ieri mattina era 80,4.

Analogo andamento hanno avuto indici similari in Gran Bretagna e in Germania, due paesi che non potrebbero essere più diversi sul piano dei conti con l’estero, strutturalmente deficitario il primo, ad onta del petrolio del mare del nord, strutturalmente in avanzo la seconda e non a caso fiera oppositrice del piano di Tim Geithner che prevedeva un limite del 4 per cento del prodotto interno lordo per avanzi e disavanzi.

Tanto è, alla vigilia di due avvenimenti importanti come le elezioni di Mid Term e il possibile avvio di una fase di quantitative easing da parte della Federal Reserve, i futures sui tre principali indici statunitensi sono saliti sin da quando negli Stati Uniti d’America era ancora l’alba, rialzi che preannunciano un’apertura ben diversa da quella delle ultime due sedute che si sono chiuse sostanzialmente in parità, rallentando solo dopo il pessimo dato su redditi personali e consumi, in calo i primi e in modestissima crescita i secondi.

La palla al piede della prima economia del mondo continua a essere il settore immobiliare, più in particolare la continua flessione dei prezzi delle case al centro di un bel servizio di Les Christie di CNN Money.com, nel quale viene citata la previsione di Fiserv, una società di analisi e previsioni, che vedeva a febbraio di quest’anno una crescita dei prezzi per il 2011 del 4 per cento e che ora ha dovuto rivedere la previsione portandola a una flessione del 7,1 per cento tra il 30 giungo 2010 e il 30 giugno 2011, una variazione di oltre 11 punti percentuali che la dice lunga sul disappunto provocato dai dati mensili sui prezzi che sono tornati in negativo dopo quattro mesi di recupero.

Dello stesso tenore è la visione di Mark Zandi capo economista di Moody’s Analitic, che vede un calo dell’8 per cento da ora al terzo trimestre dell’anno, portando così il calo dal picco dei prezzi al 34 per cento, vedendo una possibile ripresa nel 2012, una previsione che deve fare i conti con il milione di case che saranno espropriate quest’anno e con la stima di Morgan Stanley che vede 3,1 milioni di mutuatari in serissime difficoltà.


lunedì 1 novembre 2010

Al di qua e al di là dell'Atlantico

skip to main | skip to sidebar

Viaggiando nel fine settimana sui siti americani, si poteva cogliere molta delusione per i dati relativi alla crescita del prodotto interno lordo USA nel terzo trimestre, un più 2 per cento annualizzato che fa seguito a una crescita del 3,7 per cento nel primo trimestre e una dell’1,7 per cento nel secondo, tassi più che soddisfacenti se si trattasse di un paese europeo, ma che assolutamente non danno il segno di una svolta che possa far sperare in un rapido assorbimento di quei sette milioni di lavoratori che si sono aggiunti allo stock di disoccupati, portandolo a qualcosa di più di 14 milioni di persone.

Se è vero che sarà l’economia e non l’ideologia a farla da padrona nelle elezioni di mid term che si terranno domani, c’è davvero poco da stare allegri alla Casa Bianca, in quanto sarà gioco facile per i repubblicani e per quella strana creatura chiamata tea party accusare Obama di avere salvata Wall Street e gettato a mare Main Street, dimentichi che il ministro del Tesoro che ha partorito il TARP era l’ex (?) investment banker Henry Paulson e il presidente che lo aveva nominato risponde al nome di George W Bush, ma è altresì vero che è stato Thimoty Geithner a gestire la seconda metà dei 700 miliardi di dollari a suo tempo stanziati dal Congresso.

Certo, è stata varata quella riforma sanitaria, un’impresa non riuscita a Clinton né nel primo né nel secondo mandato, ma, al di là degli indubbi vantaggi, non è roba che si mangia e per chi vive di sussidi (oltre dieci milioni di persone) e buoni pasto c’è ben poco di essere soddisfatti e motivati a recarsi a votare.

Se vi fosse qualche dubbio, basterebbe dare un’occhiata all’ultima rilevazione della fiducia dei consumatori, portatasi in ottobre a 67,7 dal 68,2 del mese precedente e al più basso livello dal novembre dello scorso anno, un dato che un po’ contrasta con la componente consumi del GDP cresciuta del 2,8 per cento, anche se va detto che i consumatori non posso continuare in eterno a dilazionare le spese.

Torna a far sentire la sua voce Mr. Doom, al secolo Nouriel Roubini, il docente di economia che per primo avvistò la tempesta perfetta, per avvertire che vi è il rischio di un deragliamento del “treno” fiscale, anche se l’economista da atto alle politiche messe in atto sinora di avere evitato l’avvitamento della recessione, ma mette in guardia dalle manovre preannunciate dalla Federal Reserve, manovre che non otterranno a suo dire seri effetti antirecessivi.

Se volessero consolarsi, gli americani potrebbero dare uno sguardo a quanto accade al di là dell’oceano Atlantico, ad esempio l’ultimo vertice dei capi di Stato e di Governo che doveva decidere sulle regole, modificando addirittura la costituzione di Lisbona che tanti lutti addusse, e ha finito per partorire un fondo di salvataggio per i paesi membri in difficoltà, rinviando il cambiamento delle regole a tempi migliori!