lunedì 30 giugno 2008

Quello che era meglio per l'Alitalia e per l'Italia!


Nel mese di dicembre dello scorso anno, ho dedicato una puntata speciale del Diario della crisi finanziaria a quella che sembrava ai più la soluzione migliore (in verità l’unica presentata al termine di una gara pubblica lunghissima e non priva di colpi di scena) per risolvere i problemi della ex compagnia di bandiera italiana in crisi di liquidità e di prospettive, una soluzione che prevedeva la vendita di Alitalia al colosso francese Air France, il tutto sulla base di un piano industriale presentato che appariva credibile, anche se, come tutte le cose della vita, certamente perfettibile nel corso del previsto confronto sindacale che avrebbe cercato certamente di strappare condizioni migliorative rispetto a quelle inizialmente illustrate dal CEO della compagnia francese, Cyril Spinetta.

Sempre in quella puntata, forse la più ripresa in assoluto da altri siti, sottolineavo la determinazione ed il coraggio del Consiglio di Amministrazione di Alitalia che, non limitandosi a svolgere il ruolo di passacarte, aveva lungamente esaminato ed approvato l’offerta francese, così come l’atteggiamento una volta tanto decisionista dell’allora Governo Prodi che aveva, a sua volta, prontamente espresso la propria approvazione, dando così il via libera al confronto tra Air France e le nove organizzazioni sindacali presenti in Alitalia.

Volutamente, non sono intervenuto sui successivi miglioramenti al piano originario presentati da Spinetta nei mesi successivi, miglioramenti legati all’evolversi della trattativa e miranti ad eliminare alcune asperità previste con ogni probabilità in chiave di tattica negoziale dagli offerenti, ma che si prevedeva, altrettanto probabilmente, sin dall’inizio di rimuovere per giungere all’approvazione di massima, in quanto giudizi di merito sulla trattativa allora in corso esulavano del tutto dai motivi che mi avevano spinto ad esprimere una valutazione positiva della possibile soluzione degli annosi problemi che avevano spinto l’Alitalia fino sull’orlo del burrone.

Come tutti sappiamo, l’intervento a gamba tesa in piena campagna elettorale del leader maximo del centrodestra, Silvio Berlusconi, contribuì in larga misura al fallimento del difficile negoziato in corso, spingendo, infine, Air France a ritirare la sua offerta ed il capo azienda di Alitalia, Maurizio Prato, a presentare le sue dimissioni irrevocabili, con il conseguente aggravamento della crisi di Alitalia che ha prodotto la decisione, su base bipartisan, di avallare un prestito ponte di 300 milioni di euro in favore di Alitalia che è già stato giudicato aiuto di Stato dalla Commissione di Bruxelles con un dispositivo, però, che non prevede la restituzione immediata del prestito e concede alcuni mesi per trovare una soluzione alternativa al certo fallimento della compagnia aerea.

Quello che vi è di certo e di nuovo è che la fantomatica cordata di imprenditori italiani ansiosi di mettere mano al portafoglio per conservare in mani italiane il controllo di Alitalia, evocata con forza da Berlusconi nel mese di marzo, non si è, ad oggi, ancora materializzata, né vi è per il momento nemmeno un nome di azienda tricolore certamente presente al suo interno, mentre è tristemente certo che il nuovo numero uno della compagnia aerea ha ottenuto l’approvazione da parte dell’assemblea di un bilancio che presenta una perdita di poco inferiore ai 500 milioni di euro, ben sapendo, sia lui che coloro che hanno partecipato al voto, che i conti del primo semestre 2008 che si chiudono oggi e le prospettive per il secondo semestre che domani si apre sono ancora peggiori di quelli del pur orribile 2007.

Dimenticavo, vi è un’altra novità ed è rappresentata dal cambiamento della precedente procedura di vendita e dall’affidamento, per un periodo di sessanta giorni che stanno oramai volgendo al termine, del ruolo di Advisor della operazione a Banca Intesa-San Paolo, o per meglio dire, al suo Chief Executive Officier, Corrado Passera, che si è visto premiato per i silenzi alquanto eloquenti che lo hanno caratterizzato rispetto alle ripetute dichiarazioni del candidato premier Berlusconi che attribuivano al gruppo creditizio da lui guidato un ruolo attivo nella costituzione della fantomatica cordata, ad onta del ritiro dalla gara dell’unico acquirente rimasto in lizza quel Carlo Toto di Air One, assistito proprio da Intesa-San Paolo.

Malgrado le insistenti indiscrezioni sui sempre più frequenti mal di testa del Presidente del Consiglio di Sorveglianza, il Prof. Avv. Giovanni Bazoli, un malessere del quale il banchiere bresciano notoriamente soffre da sempre, ma che si sarebbero intensificati da quando il gruppo che ha creato con ostinazione e determinazione è sembrato sfuggire al suo controllo, in gran parte a causa dei comportamenti dell’ex enfante prodige della finanza per lungo tempo a lui disciplinatamente sottoposto, ma che è apparso ai più folgorato sulla via di Arcore, quasi come accade duemila anni orsono al Santo che dà il nome ad una delle componenti principali del gruppo avvenne, pare altrettanto improvvisamente, sulla via di Damasco, Passera si è alacremente messo al lavoro sul difficile dossier ed è in procinto di presentare il tanto atteso piano industriale della compagnia aerea basata in Via della Magliana in Roma.

Pur non essendo mio costume commentare un piano industriale prima della sua presentazione, non posso, tuttavia, ignorare le concomitanti, particolareggiate ed omogenee informazioni fornite dalle agenzie di stampa e dall’intero circuito mediatico in questi giorni, indiscrezioni troppo verosimili per non essere in qualche modo ispirate da persone a conoscenza dello stato di avanzamento dei lavori del piano e, altrettanto verosimilmente volte, a preparare il terreno in vista dell’impatto che il documento avrà sui dipendenti di Alitalia, sui sindacati e sull’intera opinione pubblica, in particolare su quanti fra gli appartenenti alle tre categorie citate ha ritenuto, sin dall’inizio, che per la compagnia aerea ed i suoi dipendenti le previsioni sarebbero state significativamente peggiori di quelle illustrate nei mesi scorsi dal pugnace ma leale Spinetta.

Sarebbe ingiusto nei confronti di Corrado Passera e dei suoi più stretti collaboratori, da settimane impegnati a tempo pieno nell’immane fatica di trovare la quadratura del cerchio, impresa ben più difficile di quella rappresentata dal risolvere un koan zen (anche detto problema insolubile se ci si basa solo sulla mente), non ricordare il peggioramento dello scenario delle compagnie aeree di tutto il mondo legate, essenzialmente, ad un incremento del prezzo del greggio che sfiora l’80 per cento rispetto a quando Air France ha presentato la sua offerta vincolante, o, per aggiungerne solo una, il forte calo dei ricavi di Alitalia legato al crollo delle prenotazioni a loro volta legate al clima di incertezza che circonda le sorti della compagnia aerea.

Ma, forse, il problema sta proprio nel fatto che è stato un errore fatale, per altro commesso da molti, non stringere i tempi della trattativa con Air France ed attendere che maturassero condizioni ben più difficili legate al peggioramento ulteriore dei conti aziendali (largamente prevedibile) ed al vero e proprio boom del prezzo del greggio che ha tra le sue cause la crescita esponenziale dell’operatività in derivati delle banche globali dirette concorrenti di Intesa-San Paolo, che, secondo i maligni, starebbero cercando di mettere così una pezza alle perdite derivanti dalla crisi finanziaria in corso.
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Ricordo che il diario della crisi è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ e che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

sabato 28 giugno 2008

Le vere cause della paralisi decisionale del G8


E’ sempre utile ascoltare quanto dice il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, sulla crisi finanziaria in corso, anche perché indicativo di quanto rappresenterà tra pochi giorni agli otto capi di stato e di governo dei paesi del G8 riuniti in Giappone per confrontarsi su di una fitta agenda dei lavori, ma che non potrà che avere al centro il meltdown in corso nel mercato finanziario globale, il vero e proprio squagliamento della valuta statunitense e l’impazzimento che sta caratterizzando le quotazioni del prezzo del petrolio e delle altre materie prime energetiche e non, derrate alimentari incluse.

Nella sua veste di presidente del Financial Stability Forum, Draghi dovrà, infatti, presentare il testo finale del rapporto sulle cause della tempesta perfetta e, soprattutto, sulle nuove regole da adottare per evitare l’allargamento della crisi e per evitare di mettere la polvere sotto il tappeto, creando le premesse per la creazione di nuove bolle speculative, semmai di dimensioni maggiori di quelle che attualmente stanno sgonfiandosi, un rapporto commissionato dagli stessi leaders globali all’indomani della crisi di liquidità avviatasi nell’agosto del 2007 e poche settimane dopo le inquietanti scene provenienti dalla civilissima Gran Bretagna e che vedevano, per la prima volta da 166 anni, i solitamente compassati sudditi di Sua Maestà Britannica dare letteralmente l’assalto agli sportelli della Northern Rock, banca tecnicamente fallita e successivamente nazionalizzata dopo aver esperito ogni tentativo per trovare un compratore.

Ebbene, le forti preoccupazioni espresse ieri da Draghi sulla recrudescenza recente della crisi finanziaria, il suo accenno alla estrema fragilità del sistema finanziario negli Stati Uniti d’America, ma anche altrove, l’impossibilità di prevedere un orizzonte temporale per quanto approssimativo nel quale collocare una possibile conclusione della tempesta in corso, sono tutti elementi che rafforzano gli osservatori e gli analisti non embedded nella convinzione che, al di là della difficoltà per i regolatori di avere un quadro esatto delle criticità, vi sia una vera e propria lack of governance a livello globale, nonché l’incapacità o l’impossibilità di porre correttivi al treno impazzito della finanza globale mentre lo stesso corre a folle velocità.

L’aspetto più grave dell’attuale situazione è dato dal fatto che le persone attualmente al vertice dei dicasteri economici o delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati non difettano, almeno nella maggior parte dei casi, delle conoscenze, delle esperienze e delle competenze necessarie per maneggiare fenomeni come quelli che si presentano nel variegato e sofisticato settore della finanza strutturata, avendo molti di loro rivestito posizioni di vertice di importanti Investment Banks, come nel caso di Henry Paulson, una vita trascorsa in Goldman Sachs, o lo stesso Mario Draghi, che delle banche d’affari e di quelle di investimento è stato autorevole interlocutore prima nel suo incarico di effettivo privatizzatore di larga parte dell’industria e della finanza facenti capo alla mano pubblica e, successivamente, nella sua qualità di senior partner della stessa Goldman Sachs, conoscenze ed esperienze sul campo che caratterizzano anche molti altri loro colleghi posti a capo sia di dicasteri economici che alla guida di banche centrali.

Eppure, sta forse proprio nella loro conoscenza ed esperienza dei complessi meccanismi che regolano i rapporti tra l’economia reale e quella monetaria, nonché delle tecnicalità sofisticate proprie dell’investment banking e dei prodotti della finanza strutturata di ultima generazione il tallone di Achille di queste persone, anche perché sono perfettamente consapevoli che non esistono ricette miracolose e soluzioni semplici per riportare in porto il vascello della finanza globale al momento in alto mare ed esposto ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, una tempesta che presenta caratteristiche di durata ed intensità che fanno impallidire quella che si verificò nell’ottobre del 1907 e che fu risolta in tempi rapidi grazie all’intervento risolutore di quel John Pierpoint Morgan, forse il banchiere più bravo e più spregiudicato mai vissuto, un uomo che comprese che bisognava fornire una risposta alla crisi di fiducia impegnando prontamente tutto il patrimonio della sua banca e quello suo personale.

Certo, si trattava di tempi molto diversi da quelli attuali e l’entità dei fenomeni sottostanti era altrettanto certamente di dimensioni molto più gestibili di quanto lo sia l’altissima montagna dei titoli della finanza strutturata della quale nessuno conosce l’esatta altezza e volume, ma che ceto rappresenta non meno della metà della ricchezza finanziaria globale, di quegli almeno 150 mila miliardi di dollari che rappresentano a loro volta un decuplo del PIL statunitense espresso a valori correnti.

Paulson e Draghi, tanto per fare un esempio, sarebbero perfettamente in grado di escogitare delle misure stringenti in grado di contrastare la crescita esponenziale, in larga parte via derivati, del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, nonché delle derrate alimentari, ma sanno benissimo che i principali responsabili di questo fenomeno sono quelle stesse entità operanti nel mercato finanziario globale che cercano di recuperare così parte delle perdite già emerse (non meno di 400 miliardi di dollari) ed ancor più di quelle molto più consistenti che le caratterizzeranno per un consistente numero di trimestri a venire, per un conto finale che il quasi omonimo del ministro del Tesoro statunitense, l’hedge funder John Paulson, stima in 1.300 miliardi di dollari, una cifra che può spaventare ma che temo sia ancora approssimata, e di molto, per difetto.

Conoscere alla perfezione i meccanismi di moltiplicazione dei pani e dei pesci caratteristici del Corporate & Investment Banking, i livelli raggiunti dal leverage nelle maggiori Investment Banks e gli effetti altrettanto drammatici di un develerage spinto quale quello messo in atto dalla ormai ex Chief Financial Officer di Lehman Brothers, Erin Callan, sapere quanto sia vera la formuletta escogitata dal Chief Economist per gli USA di Goldman Sachs, Ian Hatzius, per misurare il tristissimo fenomeno del credit crunch determinato dalla distruzione di capitale, può indurre anche il più coraggioso decision maker o regolatore ad una sorta di paralisi che non caratterizzerebbe uno come Giulio Tremonti che, proprio a partire dalla sua scarsa conoscenza di questi fenomeni, potrebbe forse trovare una ricetta semplice per uscire dalla crisi finanziaria in corso, ma non oso pensare al livello dei danni collaterali che le sue “semplici” soluzioni potrebbero arrecare all’economia reale e cioè ai livelli risultanti di occupazione, reddito ed investimenti.

Vi è un solo aspetto dell’approccio teorico caratteristico dei liberisti e dei neoliberisti che condivido pienamente ed è dato dalla consapevolezza del fatto che interventi malpensati e, soprattutto, malgestiti dalle autorità pubbliche competenti sono da temere più di quanto lo sia il marasma attuale, opinione che, ne sono certo, era condivisa anche da John Maynard Keynes, un grande pensatore, prima ancora che un grande economista, che pure aveva avuto modo di comprendere i guasti ed i danni gravissimi prodotti dalla credenza superstiziosa nelle salvifiche caratteristiche intrinseche del laissez faire, con particolare riferimento a quanto accade per un tempo lunghissimo nel corso di quella che giustamente è stata definita la Grande Depressione, ma che era altrettanto convinto che da misure centralistiche dettate dalla paura potevano venire danni addirittura peggiori.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

venerdì 27 giugno 2008

Perquisite le sedi italiani di UBS, J.P. Morgan-Chase, Deutsche Bank e Depfa, indagate per truffa aggravata ai danni del Comune di Milano!


Come ricordavo nei giorni scorsi il vagone impazzito della finanza globale si trovava sospeso dopo l’ennesimo saliscendi dei vagoni delle impervie montagne russe dalle quali non riusciamo ad uscire da almeno dieci mesi, una posizione che non poteva durare per più di qualche seduta e che ieri è stata abbandonata per iniziare una discesa caratterizzata da una ripidità senza precedenti in questa tempesta perfetta dalla durata veramente senza precedenti dalla fine del secondo dopoguerra.

L’entità del tracollo registratosi ieri a Wall Street non mi induce a modificare la valutazione che ho ripetuto ormai all’infinito e che è rappresentata dal fatto che continuo a non ritenere gli indici azionari l’indicatore che rappresenta meglio il dissesto in corso, in quanto oggi come nell’agosto del 2007 il vero problema continua ad essere rappresentato dalla impossibilità di smaltire l’altissima montagna di titoli della finanza strutturata, una montagna dalla quale sono stati estratti, via svalutazioni o immissione nelle discariche a cielo aperto prontamente allestite dalle più che compiacenti banche centrali meno di un decimo del mostruoso outstanding.

Eppure, le notizie diffuse ieri rispettavano quasi perfettamente le previsioni rese note alla vigilia, con particolare riferimento al conseguimento di una crescita del prodotto lordo statunitense più elevata nella lettura definitiva di quanto lo fosse nella precedente stima (dallo 0,9 all’1,0 per cento) e, almeno per chi si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno, da un mini rimbalzo delle vendite di case esistenti (+2 per cento)che si accompagnava però ad un’ulteriore e pesante flessione del prezzo mediano che, nel confronto anno su anno, si è ridimensionato di qualcosa di più del 6 per cento, mentre lo stock di case invendute registra un miglioramento marginale, pur continuando a richiedere un numero di mesi per lo smaltimento ancora pari al doppio di quello necessario nel quinquennio del boom immobiliare statunitense.

Non sembrano a prima vista notizie tali da determinare una flessione degli indici azionari di intensità tale da rendere necessaria l’attivazione dei meccanismi automatici di raffreddamento adottati dopo il martedì nero dell’ottobre del 1987, una serie di misure che vede come prima azione la disattivazione dei sistemi di contrattazione automatici, mentre l’ora tarda nella quale si è verificato lo sfondamento della soglia del 3 per cento di perdita da parte del Nasdaq non ha consentito che si è giungesse alla interruzione delle contrattazioni, il che avrebbe almeno impedito al ben più significativo Standard & Poor’s 500 di sperimentare l’onta di sfondare verso il basso l’importante soglia psicologica dei 1.300 punti.

D’altra parte, il comunicato che ha accompagnato ieri il nulla di fatto da parte del Federal Market Open Committee della Fed non lascia alcuno spazio all’immaginazione in merito all’avvio di una fase rialzista della quale non si conosce soltanto la data esatta di avvio e l’intensità con la quale verrà tirata la corda del boia da parte di un Bernspan che appare ora molto ansioso di riprendere la sua vera identità e di dimostrare che non ha del tutto dimenticato quanto si è sforzato di insegnare per decenni sulle crisi finanziarie ai suoi allievi nel prestigioso ateneo di Princeton.

Le decisioni che prenderà in un futuro prossimo venturo la Fed non potranno non tenere conto di quanto farà il germanizzato Jean Paul Trichet e quel manipolo di neotemplari che affollano la sala del board della Banca Centrale Europea, anche perché, come ripeto in modo quasi ossessivo, è certo che l’erede di Tietmeyer non si accontenterà certo di un rialzo quasi simbolico di un quartino del tasso di riferimento, un livello assolutamente non giudicato di sicurezza rispetto ad un tasso di inflazione dell’area euro che è oramai ad un passo dalla soglia del 4 per cento, traguardo che, al di là della indubbia valenza psicologica, è alquanto ragionevole ritenere potrebbe essere infranto, e non di poco, già nei prossimi mesi.

Faceva una certa impressione, ieri, assistere allo squagliamento delle quotazioni delle maggiori banche statunitensi di ogni ordine e specie, un vero e proprio meltdown del sttore finanziario che non ha risparmiato praticamente nessuno e che, fatta salva qualche lodevolissima eccezione, ha visto le Investment Banks e le banche più o meno globali toccare o infrangere decisamente i minimi delle ultime 52 settimane, il che ha certamente mandato in brodo di giuggiole David Einhorn e quella manica di miliardari che si sono accodati a lui nello scommettere già sul finire della scorsa estate contro le principali entità operanti nel mercato finanziario globale.

La grandinata di ordini di vendita al meglio non ha risparmiato neppure il colosso creditizio extracomunitario UBS che aveva beneficiato martedì della bella favola che la vedeva preda dell’altrettanto colosso britannico Hong Kong Shanghai Banking Corporation, una banca, quest’ultima, che ha già abbastanza guai per conto proprio per caricarsi di quelli, di immense dimensioni, che affliggono ormai da tempo la banca svizzera, anche perché HSBC è riuscita sinora a rappresentare un relativo porto sicuro per gli investitori proprio perché, a differenza della maggior parte delle altre banche globali, ha deciso per tempo di immettere tra le proprie attività e passività quel che restava dei suoi SIV e Conduits per un ammontare pari a decine di miliardi di dollari.

Troppo impegnato nel disperato tentativo di sottrarsi alle sue responsabilità addossando tutte le colpe del disastro in corso a Bernspan, Christopher Fox (sì, proprio Effe O Ixs), non ha ritenuto di chiedere immediatamente conto alle due banche globali coinvolte in un rumor che è stato talmente convincente da sottrarre UBS all’ennesimo test del minimo storico, balzando in avanti di più del 4 per cento, anche se il rimbalzo è durato esattamente lo spazio di un mattino, sfumando tristemente non appena gli analisti hanno avuto il tempo di fare due conti e sono giunti alla conclusione che nemmeno la prospettiva di una pistola puntata alla tempia avrebbe indotto i vertici di HSBC ad imbarcarsi in un’avventura del tutto suicida.

Quando saranno finalmente istruiti i processi a carico degli innumerevoli responsabili del diastro in corso, dibattimenti che vedranno sul banco degli imputati un numero molto elevato di banchieri, assicuratori, analisti e compagnia cantante, sono certo che qualche brutto quarto d’ora lo passeranno anche Bernspan ed Effe O Ixs, mentre temo che l’ineffabile Henry Paulson se la caverà anche questa volta.

In uno scenario di questo genere, non stupisce che, sulla onda di voci relative a nuove tensioni nei paesi arabi, il prezzo del petrolio abbia ieri infranto ieri una nuova soglia psicologica, rappresentata stavolta dal livello dei 140 dollari al barile, cosa che mi induce a ripetere per l’ennesima volta l’invito ad una estrema cautela a quanti si sono messi in scia ai grandi operatori che da tempo scommettono su rialzi pressoché infiniti del prezzo del petrolio, confermando al contempo la previsione di un prezzo di 75 dollari al barile entro il 2008 formulata alla fine dell’anno scorso.
ULTIMA ORA
La Guardia di Finanza ha eseguito ieri perquisizioni nelle sedi milanesi e romane di quattro banche estere operanti in Italia nell'ambito di una inchiesta della Procura di Milano che vede indagati dieci dirigenti e le stesse quattro banche, UBS, J.P. Morgan-Chase, Deutsche Bank e la fracese Depfa, con l'ipotesi di reato di truffa aggravata ai danni del Comune di Milano per una vicenda che riguarda contratti derivati rinegoziati più volte dalle banche, vicenda sulla quale un consigliere comunale dell'opposizione, con un brillante passato nella affiliata italiana di una banca estera, ha presentato il 9 maggio scorso un dettagliato e circostanziato esposto che, secondo le dichiarazioni degli inquirenti, si è soltanto inserito su una indagine già in corso.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

giovedì 26 giugno 2008

Bernanke continua ad essere Bernspan!


Non vi è niente di più scontato di una decisione scontata, in particolare se la stessa è profondamente sbagliata, come nel caso della scelta del Federal Open Market Committee della Federal Reserve di lasciare i tassi sui Fed Funds al 2 per cento ed il tasso ufficiale di sconto lì dove era stato lasciato nella precedente riunione.

Che nella sua trasfigurazione dal mite professore di Princeton con il pallino dello studio delle crisi finanziarie all’ibrido personaggio un po’ dr. Jekill un po’ mr. Hide che ho avuto modo di denominare sin dall’inizio del Diario della crisi finanziaria con l’appellativo di Bernspan, Ben Bernanke abbia deciso di stare perennemente behind the curve, se non addirittura behind the market è cosa oramai ultranota, ma che persistesse alquanto diabolicamente nel suo erroe, ebbene, questo finisce per sorprendere me, ma lascia del tutto estasiati i suoi estimatori, che sono poi né più né meno gli stessi che andavano in visibilio per le gesta del clarinettista provetto e previsore Alan Greenspan, il Maestro per ben quattro presidenti degli Stati Uniti d’America che ha guidato la Fed per 19 anni, contribuendo in misura determinante al marasma nel quale siamo non proprio felicemente tutti immersi.

Ad onor del vero, non credo che Greenspan avrebbe esitato come il suo tremulo erede di fronte al deciso rialzare la testa dell’inflazione, che, anche alla luce dell’inevitabile effetto di trascinamento, minaccia di rendere il tasso sui Fed Funds ancora più negativo ove lo stesso venga espresso in termini reali, al pari di quanto sta accadendo per quel tasso ufficiale di sconto che rappresenta il ben misero ticket da pagare per l’ingresso nella ampia discarica a cielo aperto di titoli della finanza strutturata graziosamente aperta dalla Fed di New York ad uso e consumo delle banche commerciali e financo delle Investment Banks, discariche nelle quali i suddetti titoli vengono scambiati pressoché alla pari con fruscianti Treasury Bonds o denaro contante.

Negli anni trascorsi come Fed watcher e Buba watcher, ho avuto modo di osservare le repentine giravolte del Maestro Greenspan, perfettamente in grado di passare, in materia di tassi di interesse, da un lassismo spinto ad un uso veramente disinvolto della “corda del boia” e credo veramente che, giunti a questo punto, non avrebbe esitato a tirarla senza indugio alcuno, del tutto, o quasi, indifferente ai desiderata delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, anche se il suo approccio mai avrebbe potuto essere caratterizzato dalla durezza al limite della spietatezza di un Hans Tietmeyer o di un Otmar Issino, i veri antenati dei neotemplari che affollano il board di quella Banca Centrale Europea che sta facendo veramente di tutto per dimostrarsi la degna erede dello spirito e dei valori della Bundesbank.

Non è certo un caso se una nonostante tutto speranzosa Wall Street abbia prontamente spento i suoi alquanto tiepidi ardori all’annuncio che la forsennata ed alquanto dissennata smania ribassista di Bernspan e complici è ormai del tutto evaporata e che, anche se si sono presi una spero breve pausa di riflessione, la prossima mossa consisterà in un più o meno deciso rialzo dei tassi di interesse che riguarderà sia quello sui Fed Funds che quel tasso ufficiale di sconto destinato, al più presto, a tornare tra i reperti archeologici della politica monetaria statunitense, dove peraltro era placidamente stato negli ultimi decenni, prima di essere richiamato in servizio al solo scopo di tenere in vita le banche di ogni ordine e specie e consentire alle stesse di smaltire almeno una parte della montagna di titoli della finanza strutturata di cui le stesse erano, loro malgrado, rientrate in possesso.

In un mercato finanziario globale nel quale le aspettative contano assai di più della realtà, l’approssimarsi a certo tempo data della politica monetaria restrittiva rischia di produrre effetti veramente devastanti, anche alla luce dell’alquanto ovvia considerazione che nemmeno una politica estremamente accomodante è bastata per evitare all’orso di Stearns di tirare mestamente le cuoia e ad altre importanti entità del mercato finanziario medesimo di rischiare un giorno sì e l’altro pure di seguirne le orme, anche perché la moltiplicazione dei pani e dei pesci sulle rive di un lago mediorientale è riuscita ad una sola persona duemila anni circa orsono, con lo spiacevole corollario che non gli ha detto neanche troppo bene.

La ben diversa politica seguita dalla BCE guidata dallo germanizzato Jean Claude Trichet vedrà a giorni l’avvio di una serie di rialzi del tasso di riferimento che non si concluderà finché lo stesso non si troverà a distanza di sicurezza dal tasso di inflazione ormai prossimo al 4 per cento, scenario al quale i governi dei paesi dell’area dell’euro e le banche ivi basate si stanno rapidamente adattando, nella speranza che questo almeno consenta di uscire dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso senza troppi morti e feriti, ma, soprattutto, senza dover essere costretti a rivivere le code agli sportelli sperimentate alla fine della scorsa estate nella civilissima Gran Bretagna.

Se qualcuno si attendeva ieri qualche buona notizia proveniente dall’economia reale statunitense è rimasto certamente deluso, in quanto si sono registrate solo brutte notizie provenienti dal disastrato settore immobiliare, con le vendite di nuove case calate in maggio del 2,5 per cento rispetto al dato di aprile ed un valore annualizzato appena superiore alle cinquecentomila unità, mentre il prezzo mediano delle stese è calato del 5,7 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, portandosi ad un alquanto infimo valore di 231 mila dollari.

Nel contempo, gli ordini di beni durevoli non è riuscito che a mantenersi flat, il che non è proprio una bella cosa ove si consideri che nei due mesi precedenti gli ordini avevano registrato flessioni significative ed anche alla luce del fatto che il non verificarsi del terzo calo di fila è spiegabile con il balzo in avanti degli ordini di aerei per uso civile e di una crescita ancora più sostenuta di aerei per usi militari, mentre continuano a calare gli ordini legati all’automobile e, al netto del volatile settore dei trasporti, gli ordini di beni durevoli sono scesi in maggio di un soffio meno dell’uno per cento rispetto al mese precedente.

Gli analisti, nel frattempo si ostinano a sperare di potersi riconsolare con l’aglietto rappresentato dalla diffusione prevista per oggi della terza stima relativa al GDP statunitense che potrebbe, almeno a loro avviso, passare dallo 0,9 della seconda lettura ad un non certo esaltante uno per cento tondo.

Nel frattempo, il buon livello delle scorte statunitensi di prodotti petroliferi ha inciso significativamente sul prezzo del greggio che martedì aveva provato a ritestare i recenti record e approfitto dell’occasione per ricordare l’invito ad una estrema cautela che ho rivolto nella puntata di ieri a quanti si sono recentemente messi in scia ai grandi operatori che da tempo scommettono su rialzi pressoché infiniti del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari comprese.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/
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Per uno strano scherzo del destino, ho appreso solo ieri ed in modo del tutto casuale che un amico conosciuto sin dai tempi del ginnasio, una persona speciale per le sue doti di dirittura morale e per la passione con la quale esercitava la sua professione di giuslavorativa, è prematuramente scomparso quasi due mesi orsono, lasciando la moglie, Silvana, e due splendidi figli ed in me un vuoto che sarà molto difficile colmare.
Buon viaggio, Duccio!

mercoledì 25 giugno 2008

Salvate i soldati Ryan delle Investment Banks!


Permane una situazione alquanto surreale nel mercato finanziario globale che ha vissuto ieri l’ennesima prova della forte volatilità esistente nel comparto finanziario statunitense, testimoniata da un rimbalzo delle quotazioni delle azioni delle principali entità colpite nelle scorse sedute da una vera e propria alluvione di vendite, un rimbalzo peraltro singolare alla luce delle notizie diffuse ieri, sempre negli Stati Uniti d’America, notizie che segnalavano un significativo crollo della fiducia dei consumatori e flessioni record, sia su base mensile che annuale, dei già molto depressi prezzi delle case.

L’unico motivo che potrebbe spiegare questa temporanea pausa nel meltdown delle quotazioni azionarie delle banche (siamo, in moltissimi casi, a livelli che si collocano alla metà o meno dei massimi toccati nelle ultime 52 settimane) potrebbe essere individuato nelle netta accelerazione nei processi di downsizing in corso nelle Investment Banks e nelle banche più o meno globali, processi di riduzione del personale che sembrano accanirsi in particolare sulle donne e gli uomini che operano, in molto casi operavano, nelle sale operative e negli uffici dell’investment banking, come si è visto, a solo titolo d’esempio, con l’annuncio dei 6.500 licenziamenti di investment bankers fatto nei giorni scorsi dal quartier generale di Citigroup, colosso creditizio che si appresta a diffondere i dati relativi a quello che già si preannuncia come un pessimo secondo trimestre di questo orribile 2008.

Anche se è veramente difficile tenere il conto delle svalutazioni dei titoli della finanza strutturata e quello molto più delicato relativo al massiccio taglio delle teste degli addetti a vario titolo alle diverse entità che operano nel mercato finanziario, il fenomeno del progressivo ridimensionamento delle attività di Corporate & Investment Banking ha ormai raggiunto dimensioni tali da indurre a ritenere che, più che accettare le sempre più pressanti ed autorevoli richieste di splittare le CIB dalle banche più o meno globali, i vertici aziendali si stiano orientando verso il mantenimento delle stesse ma a prezzo di un loro dimagrimento che sta raggiungendo livelli preoccupanti e che indicano una quasi paralisi delle attività sottostanti.

E’ il caso del colosso creditizio extracomunitario UBS, alle prese non solo con una montagna di perdite e previsioni alquanto fondate che il triste fenomeno si ripeta nei trimestri a venire e con forti rischi reputazionali negli USA e all over the world, ma anche con processi di ridimensionamento delle enormi sale operative di Londra e New York che prevedono l’uscita di diverse migliaia di addetti che, almeno sino all’anno scorso, si ritenevano del tutto al sicuro da provvedimenti così drastici e si trovavano spesso a cambiare casacca in risposta alle offerte allettanti provenienti da altre banche interessate a sviluppare o ad impiantare ex novo le allora lucrosissime attività nel sempre in ascesa mondo della finanza.

Come ho avuto più volte modo di ricordare in più di una puntata del Diario della crisi finanziaria, i pesanti ridimensionamenti degli organici in corso nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche globali o di quelle CIB delle CIB che sono rappresentate dalle Investment Banks rappresentano un fenomeno che presenta aspetti inquietanti e che non si riducono alle preoccupazioni degli addetti per la loro sorte, in quanto vengono colpite risorse ad alta se non altissima qualificazione con effetti devastanti forse ancora maggiori per quelli che restano piuttosto che per quelli costretti ad andare via, con un peggioramento del clima aziendale che, seppure forse inevitabile, diviene una variabile strategica quando si verifica in ambienti impegnati in attività delicatissime e nelle quali un relativo clima di certezza e di stabilità occupazionale non rappresentano esattamente un optional.

So bene che fenomeni, anche significativi, di ridimensionamento degli organici nell’investment banking si sono verificati in diverse occasioni negli ultimi venticinque anni, in occasioni di quelle crisi periodiche che si sono susseguite a partire dal crollo di Wall Street nel 1987 alla crisi asiatica, dalla crisi russa allo squagliamento del Nasdaq, ma mi permetto di sottolineare che tutti questi sussulti si verificarono nell’ambito di un trend espansionistico di lungo periodo che permetteva di riassorbirli in tempi relativamente rapidi, cosa che non è prevedibile nel caso della tempesta perfetta in corso, a seconda delle datazioni, da un minimo di 10 mesi ad un anno e della quale nessuno è, al momento in grado di prevedere la fine.

Certo, è difficile prevedere che i magistrati statunitensi e quelli operanti negli altri paesi maggiormente industrializzati si troveranno a giudicare, oltre a legioni di banchieri e di alquanto improvvisati finanzieri, anche gli economisti e gli analisti che stanno dando in questi mesi dimostrazione del peggio di sé nel confondere le già confuse idee degli investitoti di ogni ordine e grado, ma credo realmente che ci siano dei limiti, o almeno ci dovrebbero essere, alle vere e proprie acrobazie compiute da questi individui embedded anima e core alle esigenze del capitalismo finanziario, persone che descrivono per mesi quella in corso come poco più che una tempesta in un bicchiere d’acqua, per poi esibirsi in vere e proprie giravolte teoriche per dimostrare che avevano previsto tutto e che avevano sempre segnalato i rischi incombenti sul settore immobiliare e su quello finanziario.

Tutto questo, ovviamente, riguarda quella che in tempi andati veniva definita la sovrastruttura, ma ritengo sarebbe sbagliato sottovalutare l’impatto del parere, in molto casi strombazzato ed amplificato, di persone che si ammantano di fame spesso non meritate ma altrettanto frequentemente molto accreditate dai media sulle decisioni, spesso poco razionali, della pletora di investitori che si ostinano a frequentare quel vasto e scintillante casinò a cielo aperto che è il mercato finanziario globale.

Mi vedo costretto a tornare sulla questione del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari incluse, in quanto, nonostante le rassicurazioni provenienti dall’Opec e dagli altri produttori di petrolio sulla perfetta consistenza dell’offerta rispetto alla domanda, nonché l’esistenza palmare di un significativo ridimensionamento della domanda nei paesi maggiormente industrializzato ed in quelli emergenti, il prezzo del petrolio ha ripreso ieri la sua folle corsa, riportandosi in prossimità dei massimi toccati nelle scorse settimane.

Lo faccio per rivolgere nuovamente un amichevole e sommesso suggerimento a coloro che sono entrati buoni ultimi in questa folle corsa, per invitarli a riflettere sui rischi altissimi che stanno correndo partecipando ad un gioco guidato da operatori di grandi dimensioni e dotati di apparati analitici sofisticatissimi, veri e propri leaders che potrebbero girare le loro posizioni in un nanosecondo, lasciando i newcomers con il classico cerino acceso in mano.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

martedì 24 giugno 2008

Provaci ancora, Bernspan!


Come si sta verificando spesso nel corso di questa lunghissima tempesta perfetta, il mercato azionario sembra sospeso dopo che il fragile vascello del mercato finanziario globale si è appena inabissato rompendo un importante supporto psicologico quale quello fissato sui 12 mila punti del Dow Jones, quasi vi fosse molta incertezza sulla direzione da prendere, ma questo strano fenomeno non ha certo impedito al settore finanziario di sperimentare anche ieri nuovi minimi, con particolare riferimento alle Big Four ed alle banche più o meno globali, per non parlare poi dei nuovi test verso i profondi abissi nel caso delle pluridegradate monoliner, cui si accompagna, sempre da ieri, anche l’europea Dexia che sino a poco tempo fa riteneva se stessa in una situazione molto diversa da quella sperimentata dalle sue omologhe statunitensi MBIA ed Ambac.

Non manca, peraltro, ormai molto al tanto atteso vertice dei capi di stato e di governo del G8 che si terrà alla fine della prima settimana di luglio in Giappone, un appuntamento preceduto dal vertice finanziario dei ministri economici degli otto grandi e dall’importante, anche se alquanto inconcludente, meeting tra un gran numero di paesi produttori e paesi importatori di greggio, a sua volta conclusosi con un aumento pressoché simbolico della già elevatissima quota di produzione appannaggio della fedele Arabia Saudita, un rialzo talmente impercettibile che ha spinto ad un sensibile rialzo il prezzo del barile scambiato sulla piazza di New York.

La forte attesa per il meeting del G8 è facilmente spiegabile con il fatto che il Governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Forum, Mario Draghi, è chiamato a presentare la versione definitiva del rapporto elaborato dall’organismo da lui presieduto ed una versione più o meno aggiornata delle 65 raccomandazioni presentate in occasione del vertice finanziario del G8 svoltosi in quel di Washington a metà dell’aprile di questo anno bisesto anno funesto, un set di misure illustrate in una non proprio gradita anteprima al gotha della finanza mondiale precettato in una cena esclusiva e che hanno letteralmente mandato il boccone di traverso a quel parterre de roi di amministratori delegati e presidenti di banche e compagnie di assicurazione, non pochi dei quali le hanno a suo tempo tentate davvero tutte per non essere presente all’esibizione del duo Draghi-Paulson.

Devo confessare che vi è ormai molto poco da aggiungere al disastro delle compagnie di assicurazione monoline statunitensi, anche perché, seppur giunte con grave e molto colpevole ritardo rispetto alla coraggiosa decisione presa da Fitch il 18 gennaio, anche le due maggiori agenzie di rating, Moody’s e Standard & Poor’s, hanno tagliato di uno o due tacche i rating delle due compagnie, dichiarando al contempo che non finisce qui e che il rating finale di ambedue le disastrate entità giungerà, stavolta in tempi molto più rapidi, a livelli di gran lunga inferiori rispetto a quelli attuali.

Mentre si ode il battere delle ali dei miliardari che hanno deciso di mettersi in posizione in attesa delo squagliamento definitivo della maggior parte delle monoliner, pronti ad approfittare, mediante l’utilizzo dei leggeri ed agili veicoli appositamente costituiti, a fare il loro ingresso in forze nel lucroso e relativamente sicuro business delle emissioni di bond degli enti locali statunitensi di ogni ordine e grado, grazie anche alla decisione dei vertici della maggiori compagnie monoliner di non accogliere l’alquanto interessato suggerimento di un miliardario voglioso di entrare nel loro business, a patto che avessero deciso di splittare il ramo dedicato a fornire garanzie in relazione all’emissione di quei titoli della finanza strutturata che gli investitori ed i risparmiatori non vogliono più.

D’altra parte, l’avvicinarsi delle posizioni sino a qualche tempo fa diametralmente opposte di Henry e John Paulson, omonimi ma assolutamente non legati da alcun vincolo di parentela, impegnati il primo nell’improba fatica di governare la nave nel corso della più grave tempesta perfetta da un secolo a questa parte, mentre il secondo ha provato invano a lanciare l’allarme in tempi non sospetti, facendo nel frattempo quattrini a palate grazie alle sue alquanto inascoltate profezie, previsioni che si sono comunque verificate molto al di sotto della realtà del diastro prossimo a verificarsi e che ora rilancia con una previsione di perdite finali di gran lunga superiore a quella già di dimensioni abnormi lanciata come un macigno dagli esperti del Fondo monetario Internazionale sul già ricordato vertice dei ministri finanziari e dei governatori delle banche centralizzate degli otto paesi maggiormente industrializzatosi di metà aprile.

I tono insolitamente duri utilizzati dall’altro Paulson, un uomo rotto a tutte le esperienze dell’investment banking, ma che al momento è duramente impegnato nel suo ruolo di pompiere delle ansie e delle paure cui sono preda gli operatori e gli analisti operanti in tutti i paesi del pianeta, con l’aggravante che, anche in virtù della sua duplice esperienza, il buon Henry dispone di stime probabilmente di gran lunga peggiori e verosimilmente molto più vicine al vero di quelle azzardate da John.

L’andamento altalenante del cambio trade weighted della valuta statunitense, il permanere dei tassi interbancari sui livelli massimi, con un innalzamento delle scadenze comprese tra i nove mesi e l’anno, la volatilità presente nei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari purtroppo comprese, sono tutti elementi che inducono a valutare la situazione come prossima ad un punto di rottura che potrebbe essere oltrepassato nel momento in cui i vertici di una o due delle residue quattro Investment Banks americane si vedessero costrette ad alzare le braccia, attendendo, forse invano, la comparsa all’orizzonte di un cavaliere bianco in grado di farsi carico del loro default.

Purtroppo, la situazione si presenta di una gravità tale da non consentire di escludere che qualcosa di analogo possa verificarsi nel teatro europeo, un’area che, con la lodevole eccezione delle due maggiori banche spagnole che sembrano essere passate indenni attraverso gli alti marosi della tempesta perfetta, ha registrato perdite bancarie addirittura superiori rispetto a quelle contabilizzate dalle banche statunitensi, mentre di gran lunga inferiore si presenta la ricapitalizzazione verificatasi in Europa rispetto a quanto è avvenuto nel primo anno della crisi finanziaria negli Stati Uniti d’America.

Non condivido in alcun modo le granitiche certezze degli analisti che si dicono convinti che il FOMC della Federal Reserve iniziato ieri e che si concluderà questa sera si risolverà in un nulla di fatto, un esito che dimostrerebbe una volta di più l’inettitudine di Bernspan e complici.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

lunedì 23 giugno 2008

Una gola profonda mette nei guai UBS


Mentre la crisi finanziaria sta sempre più nettamente imboccando la strada dell’accertamento delle responsabilità delle diverse entità operanti nel mercato finanziario globale o quelle dei singoli individui, è destinata a suscitare clamore la deposizione di Brandley Birkenfeld, cittadino americano ed ex manager del colosso creditizio extracomunitario UBS, in quanto, pur dichiarandosi colpevole di aver gestito trasferimenti di capitale di cittadini statunitensi verso paradisi fiscali allo scopo di eludere il fisco, ha aggiunto di averlo fatto, insieme ad un imprecisato numero di colleghi, in nome e per conto della stessa UBS.

L’outing di Birkenfeld aveva già provocato, l’11 giugno, la richiesta di assistenza alle autorità della Confederazione elvetica da parte delle autorità federali statunitensi, ma ora agli svizzeri viene chiesto di non opporre il segreto bancario alle indagini ed è stato dato mandato al Federal Bureau of Investigations di cercare di capire l’entità effettive del fenomeno e, soprattutto, di cercare di mettere le mani su quella lista di 20 mila clienti di UBS che si sono avvalsi di questo molto particolare servizio offerto dalla banca, un’attività che, a naso, potrebbe avere sottratto svariati miliardi di dollari al severo fisco USA.

Già nei giorni scorsi, i vertici di UBS si erano precipitati a garantire la massima collaborazione, anche se vi è, nell’ambito del quartier generale della banca, la piena consapevolezza che l’eventuale trasmissione delle informazioni richieste dagli inquirenti porterebbe un colpo mortale alla sua attività di compiacente gestore dei patrimoni provenienti da un numero di paesi che è di poco inferiore a quello delle nazioni rappresentate all’ONU, denaro dalle provenienze più disparate e non sempre alimentato da chi ha l’unico obiettivo di evadere le tasse nel proprio paese, ma che potrebbe anche trarre alimento da fenomeni quali il riciclaggio di denari sporco, il traffico internazionale di stupefacenti o piacevolezze del genere.

D’altro canto, pur di evitare l’altrettanto letale minaccia di vedersi revocata la licenza all’esercizio del credito negli Stati Uniti d’America, agli alquanto angosciati banchieri svizzeri non resta che cercare di minimizzare i danni derivanti da questa pressantemente richiesta collaborazione, anche perché la Confederazione ha durato non poca fatica per evitare il rischio di finire sulla black list che include i paesi che non forniscono sufficienti garanzie in termini di trasparenza e contrasto ai movimenti di capitale di dubbia provenienza, una lista che è stata particolarmente “attenzionata” dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, anche grazie ai poteri significativi attribuiti alle entità che in ogni paese si sono viste attribuire l’onere di vigilare sul versante finanziario delle attività terroristiche.

La collaborazione dei banchieri svizzeri, attualmente alle prese con svalutazioni mostruose di parte del loro attivo e di una vivace contestazione da parte dei loro azionisti capitanati dall’ex amministratore delegato Luqman, è peraltro dovuta, in quanto proprio nel 2001 (una data non del tutto casuale) è stato stipulato un accordo tra il governo statunitense e quello svizzero, accordo che prevede l’obbligo per le banche svizzere di segnalare i clienti che hanno legami fiscali con gli Stati Unitid’America.

Non del tutto a caso, nell’ambito del più generale processo di riorganizzazione della Banca d’Italia, Mario Draghi ha voluto che l’Ufficio Italiano dei Cambi, l’entità che svolge questa attività di vigilanza e di contrasto per l’Italia, diventasse parte integrante della banca centrale e ne ha affidato la responsabilità all’ottimo De Cataldo, la persona che fece saltare i progetti di quei furbetti del quartierino che vedevano nell’allora Governatore, Antonio Fazio, il loro nume tutelare e nell’allora responsabile della Vigilanza una sorta di loro consulente.

Non vorrei apparire un dietrologo di professione, ma ritengo che l’inchiesta Alce Nero della procura di Forlì avente ad oggetto un traffico di capitali di dimensioni non meglio precisate tra l’Italia e le alquanto disinvolte banche e finanziarie che affollano la Repubblica di San Marino meriti grande attenzione da parte di De Cataldo e dei suoi preparati collaboratori, così come meriterebbe l’attenzione delle cronache nazionali dei quotidiani e degli altri media, cosa che, salvo qualche lodevole eccezione, non si è assolutamente verificata, pur essendo sotto indagine in qualità di controparti italiane un discreto numero di grandi banche con sede all’interno dei nostri confini nazionali.

Ricordavo ieri le drammatiche cifre fornite da John Paulson, gestore dell’omonimo hedge fund ed uno dei pochissimi che avevano lanciato per tempo l’allarme sulla possibilità che le cose nel mercato finanziario globale si mettessero proprio male (è sua la previsione di una perdita finale di 1.300 miliardi di dollari a carico di banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione e fondi di investimento), ma credo opportuno ricordare che le dimensioni del mercato ascendono a 150 mila miliardi di dollari, 50 mila dei quali sono gestiti da un numero molto esiguo di soggetti, dieci per l’esattezza.

Se la tempesta perfetta non riesce a placarsi, una parte non secondaria della spiegazione sta proprio nell’elevatissima concentrazione degli assett gestiti a fronte di una più o meno equivalente raccolta, così come non va sottovalutato il fatto che alcune di queste entità presenti nella Top Ten, sono banche ordinarie che si trovano nella non piacevole situazione, almeno in questa difficile fase, di vedere un peso dell’attività creditizia tradizionale ampiamente sovrastata da quello abnorme assunto dalle attività finanziarie.

Si tratta di un fenomeno che, insieme al livello mostruoso assunto dal rapporto tra indebitamento e patrimonio che caratterizza da tempo le Investment Banks (un rapporto che, a livello lordo, oscillava sino a qualche mese orsono intorno al proibitivo valore di 30), spiega l’assoluta inutilità delle azioni compiute dai regolatori e dalle banche centrali, entità che, per loro stessa ammissione, conoscevano solo una piccola parte dei fenomeni sottostanti ed hanno agito a partire da questa loro non conoscenza, esaurendo, per di più, in un breve lasso di tempo, la quasi totalità delle munizioni a loro disposizione, o almeno questo è quanto è avvenuto negli Stati Uniti grazie alle dissennate mosse di Bernspan ed i numerosi colpi a vuoto esplosi dal ministro del Tesoro, Henry Paulson, che, a differenza del mire professore di Princeton, delle dimensioni del fenomeno una qualche idea ce l’aveva, anche alla luce del fatto che sino a metà del 2006 era un banchiere di investimento di lunghissimo corso presso la fortunata e molto preveggente Goldman Sachs.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

domenica 22 giugno 2008

John Paulson versus Henry Paulson


L’insolitamente dura requisitoria pronunciata dal ministro del Tesoro statunitense, Henry Paulson, nel corso di un incontro con esponenti finanziari della Repubblica Popolare Cinese, un’allocuzione condita di non velate minacce nei confronti dell’ambiente dal quale Paulson proviene, quello dell’investment banking nel quale ha militato per una vita sino a diventare l’indiscusso numero uno della sempre fortunata e molto preveggente Goldman Sachs, per poi passare, proprio alla vigilia del clamoroso dietrofront della sua banca nei confronti di quella finanza strutturata della quale è stata maestra per generazioni di investment bankers, una fuorisciuta guidata dal suo successore Larry Blanfein (100 milioni di dollari di compensi nel 2007), suggerita dall’”anziano” Chief Financial Officer David Viniar (59 milioni di dollari) e coordinata dai “due” Chief Operating Officer di Goldman (70 milioni di dollari cadauno) di dimensioni veramente mostruose, ma che, se ha salvato la storica banca di investimenti da un certo default, non è stata sufficiente a porla del tutto al riparo dagli alti marosi della tempesta perfetta iniziata 10 mesi dopo il brusco girare delle posizioni avviato nel lontano settembre del 2006.

In un bellissimo articolo apparso ieri sul quotidiano La Repubblica, il bravissimo Federico Rampini, ottimo conoscitore degli Stati Uniti d’America e della Cina (entrambi paesi dai quali è stato ed è corrispondente), ha voluto sottolineare un particolare significativo dello speech di Paulson, quando, invitando i banchieri cinesi ed il loro governo a darsi una mossa, lodava i benefici della deregulation e della finanziarizzazione, via cartolarizzazione di tutto il cartolarizzabile, suscitando l’ilarità dei solitamente compassati cinesi che, prima di entrare nella sala, avevano avuto modo di seguire gli arresti ripresi in diretta dei due ex manager di Bear Stearns inchiodati alle loro responsabilità da intercettazioni che rivelavano aspetti realmente raccapriccianti dei loro comportamenti non certo esemplari, anche se alquanto diffusi in quel casinò a cielo aperto che è diventata la finanza globale.

Ho avuto modo di conoscere per qualche mese una delegazione di futuri banchieri cinesi in stage presso l’ufficio studi nel quale ho lavorata nella prima metà degli anni Ottanta, persone molto gentili e di grande spessore culturale che ricordo con affetto e che, con ogni probabilità, oggi siedono ai piani alti del sistema bancario cinese e che forse erano seduti in platea ad ascoltare l’ineffabile Paulson, facendo i debiti scongiuri rispetto agli inviti che il nostro rivolgeva loro ad aprirsi di più ai rischi e ad abbandonare le loro alquanto rigide regolamentazioni che proteggono abbastanza efficacemente il loro paese dai guai in cui è immerso il capitalismo finanziario multinazionale.

Ripeto da dieci mesi nel Diario della crisi finanziaria, ma da decenni nella mia attività di economista prima la servizio di una sala operativa e poi del mio sindacato di categoria, segnalo che, se a nessuno sfuggono i guasti prodotti dai regimi vincolistici o iper vincolistici quali quello che ha sperimentato l’Italia dal 1936 alla fine degli anni Ottanta, regimi nei quali è consentito a pochi quello che è severamente vietato ai più, altrettanto palese è che non è stato molto saggio seguire pedissequamente i desiderata dei banchieri di investimento e non, finendo, come è purtroppo tragicamente avvenuto, con il buttare via il bambino con l’acqua sporca ed accettare se non favorire un processo degenerativo del quale ora stiamo iniziando a cogliere i frutti avvelenati, letali assaggi di un più ampio raccolto sulle dimensioni del quale le valutazioni divergono molto, ma certamente in grado di determinare uno scenario rispetto al quale è molto facile prevedere che, alla fine dei giochi, nulla sarà come prima, con buona pace di Henry e degli apprendisti stregoni che la sua banca ha allevato, vezzeggiato ed ampiamente gratificato per un tempo veramente infinito.

Ma, come spesso accade, il diavolo fa le pentole ma raramente è in grado di fare i coperchi, e se questo, ragionando in lassi di tempo opportuni, è sempre vero, ancor più lo è quando l’avidità, la spregiudicatezza ed una mentalità che non è esagerato definire criminale divengono i valori di riferimento di una intera classe di finanzieri rampanti del tutto incuranti degli ampi e devastanti effetti collaterali delle loro azioni, comportamenti che hanno mandato letteralmente in frantumi quell’American Dream che vedeva nella casa, intesa come un’unità autonoma in luogo dell’alquanto anonimo e spersonalizzante flat molto diffuso in Europa, nella mobilità a basso costo ed in una relativa fiducia nella correttezze lealtà dei comportamenti i suoi pilastri, un sogno che rischia sempre più seriamente di trasformarsi in un incubo, aprendo, in piena campagna elettorale, uno scenario di tutti contro tutti che presenta profili di rischio di dimensioni assolutamente mostruose.

Concordo pienamente con quanti sottolineano il carattere molto strumentale dell’indagine mutui malevoli in corso, per il semplice motivo che ritengo molto più esemplare quanto è avvenuto intorno alla defunta Bear Stearns e alle altre Investment Banks, così come comprendo pienamente i sentimenti della dirigente della Securities and Exchange Commission, Linda Chatman Thomson, capo della vigilanza della Sec, che non riesce a credere che quanto sta emergendo dal vero e proprio sistema di insider trading generalizzato possa, come purtroppo sta emergendo con dovizia di particolari dalle indagini, avere avuto tali dimensioni e riguardato buona parte dei miliardari posti al vertice delle entità di ogni ordine e specie operanti nel mercato finanziario globale, ed invoca, temo invano, l’istituzione di una potente vigilanza mondiale, quella che il povero Padoa Schioppa non è riuscito ad ottenere a livello europeo dai suoi riottosi omologhi posti al vertice dei dicasteri economici dei paesi dell’Unione europea.

Quanto sopra, non vuole assolutamente sottovalutare la gravità dei comportamenti di quei veri e propri procacciatori di mutui che hanno infestato per anni gli USA, né il ruolo delle spregiudicate finanziarie cui gli stessi facevano, a vario titolo, capo, ma soltanto evidenziare come sia gli uni che le altre non fossero altro che gli ultimi terminali di un sistema finanziario che, secondo Sarkozy e Koheler (presidente della Germania, ma in precedenza direttore generale del Fondo Monetario Internazionale), è letteralmente impazzito e, sempre a loro avviso, va regolato da un sistema di regole più rigide e sorvegliato da organismi meno distratti.

Se qualcuno pensa che queste siano considerazioni moralistiche lo invito ad esaminare le stime che sta offrendo al mercato un omonimo di Henry Paulson non avente con lui alcun rapporto di parentela ed assiso al vertice di uno dei più grandi hedge fund del pianeta, a quanto afferma John Paulson in una intervista al Financial Times ricordata da Federico Rampini nell’articolo citato di sopra.

Ebbene, l’altro Paulson, uno dei pochi a lanciare per tempo l’allarme su quanto stava purtroppo per accadere, smentisce le già drammatiche stime relative alle perdite in circolazione, stime che, nella loro versione più cupa (FMI) si fermavano a 945 miliardi di dollari, parlando di una perdita potenziale che, almeno al momento, non dovrebbe essere inferiore ai 1.300 miliardi di dollari.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

sabato 21 giugno 2008

La tempesta perfetta si porta a forza 9!


L’America è ancora scossa per i retroscena inquietanti che iniziano a filtrare dalla vasta inchiesta giudiziaria che prende il significativo nome di malicious mortgage, un’indagine che ha visto lavorare alacremente ed in silenzio donne ed uomini del Federal Bureau of Investigations, della Securities and Exchange Commission, della Federal Reserve, procuratori distrettuali di ogni parte degli Stati Uniti d’America, ma in particolare di quelli operanti nel distretto di New York che ha competenza su Wall Street, e che ha al momento messo oltre 400 persone sotto indagine, ottenendo già poco meno di 200 condanne.

L’assordante risonanza mediatica che sta vivendo in questi due giorni l’inchiesta fa da contrappunto al doveroso riserbo che ha accompagnato le indagini, anche se era impossibile non alzare il velo in presenza di sessanta arresti in un giorno solo, due dei quali veramente clamorosi, in quanto si tratta dei due top manager di Bear Stearns, le cui gesta, esattamente un anno fa, diedero il via alla tempesta perfetta, in quanto molti dei cronisti della crisi fanno risalire proprio al default dei due hedge fund facenti capo alla quinta ed ora defunta banca di investimenti statunitensi l’avvio di quella ondata di sfiducia che determinò, il 9 agosto del 2007, il blocco totale della liquidità interbancaria ed i successivi mega interventi delle banche centrali che inondarono letteralmente di liquidità il mercato.

Quello che colpisce è il cinismo e l’improntitudine che emerge dalle e-mail intercettate intercorse tra il capo ed il suo vice alla vigilia del default da 1,7 miliardi di dollari dei due fondi, preceduto di pochi giorni da una conference call che aveva l’unico scopo di rassicurare gli investitori ed impedire che chiedessero il rimborso delle loro quote, cosa che invece avevano già fatto senza darne notizia i due ex dirigenti dell’orso di Stearns, il tutto mentre, a disastro appena avvenuto, il loro capo massimo, James Cayne, trascorreva la maggior parte delle sue ore di lavoro lontano dall’ufficio impegnato come era a giocare a golf o a carte, un uomo che ha ricoperto sia la carica di Chairman che di Chief Executive Officer per lungo tempo dopo quel disastro e che porta buona parte della responsabilità del fallimento di Bear, un fallimento evitato solo grazie al salvataggio in extremis orchestrato dalla Federal Reserve, mediante l’acquisizione della disastrata banca di investimenti da parte di J.P. Morgan-Chase.

Quello che emerge, invece, dall’inchiesta a tappeto sul settore del mortgage statunitense presenta aspetti, se possibile, ancora più inquietanti, in quanto sta emergendo con chiarezza, forse anche grazie alla fattiva collaborazione da parte di indagati alla ricerca dell’immunità, che all’origine del collasso che ha colpito il settore immobiliare vi era una politica molto aggressiva di concessione dei mutui, basata sulla totale noncuranza rispetto al necessario accertamento del merito creditizio dei mutuatari, requisito considerato del tutto ininfluente in quanto i mutui concessi restavano spesso solo per poche ore presso il concendente per poi essere trasferiti ad altri soggetti che a loro volta li rivendevano o li trasformavano, in modo semplice o sofisticato, in titoli della finanza più o meno strutturata.

Dopo mesi trascorsi a biasimare i mutuatari e la loro irresponsabilità, sono emersi particolari che evidenziano come molti di loro sono stati convinti da aggressivi venditori o procacciatori di affari che non avrebbero corso alcun rischio e che i tassi molto elevati previsti allo scadere del periodo di grazia biennale o triennale non avrebbero costituito un problema, in quanto, nel frattempo, il valore dell’immobile sarebbe aumentato a dismisura consentendo una rinegoziazione del mutuo a condizioni più vantaggiose, una situazione nella quale manca solo l’albero degli zecchini d’oro ed il gatto e la volpe di collodiana memoria.

Spero proprio che nessuno voglia scomodare le tre streghe o altre motivazioni tecniche per il tonfo verificatosi ieri a Wall Street, con particolare riferimento alla catastrofe relativa al settore finanziario, anche perché ritengo che gli indici azionari abbiano retto anche troppo a lungo agli alti marosi della tempesta perfetta in atto ed al vero e proprio sfacelo morale che sta emergendo dall’inchiesta in corso e da quanto avevamo già avuto modo di apprendere in questi lunghi mesi sui comportamenti e la scala di valori imperanti da decenni in questo casinò alquanto impazzito che è il mercato finanziario globale.

Leggere le inquietanti affermazioni di Allen Sinai, uno dei guru più ascoltati dagli analisti e dagli operatori di Wall Street, uno che sinora ha tenuto un low profile, pur evitando accuratamente di unirsi al folto coro al coro di quanti hanno a più riprese previsto la fine della crisi finanziaria, ma che ora prevede o un allungamento significativo di questa fase tutt’altro che felice oppure un calo a picco degli indici azionari determinato da un’intensificazione della crisi bancaria e dalla prosecuzione del meltdown immobiliare statunitense, settore che ricorda essere davvero cruciale per l’economia degli Stati Uniti dìAmerica, ebbene, tutto questo, pur appartenendo da sempre al novero delle possibilità, assume un carattere realmente sinistro ove venga detto da una persona competente e solitamente prudente quale è Sinai.

Ma quelle che trovo veramente inquietanti sono le recentissime affermazioni del ministro del Tesoro statunitense, Henry Paulson, l’uomo che, parafrasando quanto si dice da sempre degli economisti, ha previsto in questi lunghissimi dieci mesi un numero infinito di volte la possibile, se non già avvenuta, uscita dal tunnel della crisi, ed è proprio lui, peraltro banchiere di investimento di lunghissimo corso, a dover ammettere che la situazione è tornata a farsi molto grave, ammonendo al contempo che è ora di togliersi dalla mente che valga ancora il “too big to fail”, escludendo, in linea con quanto ha giurato il povero Bernspan nel corso di numerose audizioni parlamentari, ulteriori salvataggi pubblici dopo quello effettuato in favore di Bear Stearns.

Non aiutano certo a rasserenare il clima le previsioni di ulteriori svalutazioni autorevolmente fatte dal nuovo e giovane CEO di Citigroup, l’indiano Vikram Pandit, così come il rincorrersi di rumors più o meno smentiti su nuovi guai in casa Merrill Lynch, né la scoperta di un emulo in sedicesimo di Jerome Kreviel di Socgen in una banca statunitense, con conseguente sospensione del trader ed indagine da parte dei regolatori, tutte cose che consentono di dire che l’aria che si respira aggirandosi per il mercato finanziario globale sembra essere tornata quella che si poteva sperimentare nell’autunno del 2007, con l’aggravante determinata dal fatto che quasi tutto quello che le banche centrali ed i governi potevano fare per mettere una pezza al disastro in corso è, purtroppo, già stato fatto e non restano molte altre frecce all’arco degli alquanto disperati esponenti finanziari del G8.

Che, in questo contesto, il Dow Jones abbia perso ieri 220 punti, portando il bilancio settimanale ad una flessione di ben 450 punti non deve quindi stupire, anche se non mi stancherò mai di ripetere che, mentre è corso una crisi finanziaria di queste dimensioni, non è tanto agli indici azionari che bisogna prestare attenzione, quanto, piuttosto, allo stato di salute delle banche.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

venerdì 20 giugno 2008

La tempesta perfetta finisce in tribunale!


L’allarme svalutazioni proveniente dal colosso creditizio Citigroup rappresenta solo la ciliegina sulla torta di una pessima settimana che si è aperta con la orribile trimestrale presentata dal numero uno di una Lehman Brothers reduce dalla decapitazione pressoché in diretta del resto del suo stato maggiore, passando per una sostanziale tenuta, non scevra di sinistri scricchiolii, dei conti della potente e molto preveggente Goldman Sachs, a sua volta seguita dal vero e proprio meltdown di utili ma, soprattutto di ricavi per Morgan Stanley, mentre occorrerà attendere la fine del mese per avere un quadro esatto dello stato di salute di Merrill Lynch, l’ultima delle Investment Banks statunitensi a rilasciare i propri risultati, una banca con pochi margini di manovra e di possibile reattività, avendo già sostituito il vertice e richiesto il richiedibile al mercato in termini di ricapitalizzazione.

Archiviata la seduta di ieri con un mini rimbalzo dei tre principali indici azionari, anche Wall Street inizia ad evidenziare le fatiche della fase, con un Dow Jones Industrials che occhieggia in modo sempre più convinto alla soglia psicologica dei 12 mila punti, con una possibile rottura verso il basso che aprirebbe, secondo alcuni analisti in vena di pessimismo non scevro di ragioni, ad una discesa in tempi rapidi verso quella che si presenta come la linea Maginot della tempesta perfetta e che va a coincidere con la diga dei 10 mila punti, una soglia che sembrava lontanissima soltanto nell’ottobre dell’anno scorso, quando, portandosi alquanto inopinatamente al suo massimo storico, si sprecavano gli analisti ed i guru che vedevano a portata di mano lo sfondamento della linea dei 15 mila punti.

Come ho avuto modo di segnalare ripetutamente in questi dieci mesi, la crisi finanziaria in corso non presenta soltanto caratteristiche molto diverse dai sussulti che hanno scosso il mercato negli ultimi venticinque anni, ma assume connotati estremamente preoccupanti ove si prende in esame la vera e propria deriva deontologica intervenuta in molti dei mestieri di quella che qualcuno ha definito l’industria finanziaria globale, una deriva che, secondo le prime evidenze emerse dall’intenso lavoro investigativo in corso negli Stati Uniti d’America, ha assunto in più di un caso caratteristiche che non è esagerato definire criminali e foriere di danni concreti per centinaia di migliaia di spesso inconsapevoli cittadini americani che hanno perso la casa, il lavoro o, non di rado, ambedue.

Non ha destato, quindi, in me alcuno stupore lo notizia dell’ampia pesca di personaggi impegnati a vario titolo nell’un tempo fiorente mercato del mortgage, donne ed uomini finiti nell’ampia rete gettata, su iniziativa di una miriade di procuratori distrettuali, in particolare in quel di Brooklin (New York), dal Federal Bureau of Investigations in mesi di duro e paziente lavoro e che ha già portato, dal 1° marzo di questo orribile 2008, all’incriminazione di 407 persone, 173 delle quali sono state già condannate.

Così come non stupisce che i finalmente solerti investigatori abbiano proceduto ieri all’arresto in diretta dei due principali manager dei due hedge funds facenti capo alla defunta Bear Stearns, ad un anno esatto dal default di questi due organismi con un conto finale di 1,6 miliardi di perdite a carico degli investitori, default preceduto da una molto interessante conference call dei due manager svoltasi a pochi giorni dal disastro e nella quale i due, che nel frattempo si erano liberati, zitti, zitti in mezzo al mercato, delle quote in loro possesso, rassicuravano con grande convinzione sulla solidità dei fondi da loro gestiti, tutto questo mentre l’ineffabile numero uno di Bear, James Cayne, passava il suo tempo lavorativo lontano dal quartier generale, locali angusti cui preferiva, secondo quanto è emerso dalle indagini, i campi da golf o i tavoli da gioco.

Se vestissi i panni dei vertici delle variegate entità impegnate nel rutilante mercato finanziario statunitense, vera colonna del più ampio mercato finanziario globale, inizierei a preoccuparmi per il lodevole attivismo di procuratori, agenti investigativi, funzionari della Sec, della Fed, delle ribollenti commissioni del Senato e della Camera dei Rappresentanti del popolo degli USA, soprattutto perché siamo perfettamente in tempo per un bel po’ di processi ad ampio risalto mediatico da celebrare nella fase più calda dell’anno elettorale che vedrà in autunno l’elezione del nuovo Presidente, il rinnovo parziale del Senato e quello integrale della Camera, nonché quelle relative ai Governatori degli Stati, delle Contee e di uno sterminato numero di municipalità, con relativa ed altrettanto brutale applicazione di uno spoil system che consente a chi vince di fare veramente quello che gli pare rispetto ai responsabili delle entità pubbliche e semi pubbliche esistenti a livello locale.

D’altra parte, se è vero come purtroppo è vero che uno dei tratti distintivi della pressoché costante ascesa del mercato finanziario globale successiva alla deregolamentazione, alla finanziarizzazione ed alla globalizzazione è stata quella di una altrettanto crescente avidità delle milioni di persone a vario livello impegnate nell’industria finanziaria globale, c’è poco da stupirsi nello scoprire il livello di vera e propria spregiudicatezza che ha caratterizzato comportamenti che, certamente non di rado, hanno fatto strame delle poche regole rimaste a regolare quello che Nicolas Sarkozy, presiedente francese ma anche ottimo avvocato di affari, giunse a definire un sistema letteralmente impazzito.

Solo alla luce di tutto ciò è possibile comprendere l’apparente sordità della Banca Centrale Europea alle preoccupazioni diffuse a vari livelli sulle prospettive di sviluppo della ormai molto ampia area dell’Unione Europea, così come le seppur provvisorie conclusioni e relative 65 raccomandazioni esposte dal giovane e preparato Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua veste di presidente del Financial Stability Forum, unico invitato alla recente riunione dei ministri economici del G8 svoltasi ad Osaka nei giorni nei quali al terremoto in corso sui mercati si accompagnavano a poche centinaia di chilometri e sempre sul suolo giapponese scosse pari a 7,2 gradi della scala Richter.

Così come credo proprio sia il caso di mettersi l’animo in pace in relazione alle intenzioni dei neotemplari che affollano il board dell’istituto con sede a Francoforte, molto brillantemente presieduto dal germanizzato Jean Paul Trichet, in quanto, come ricordavo nella puntata di ieri, gli eredi della Bundesbank molto difficilmente si accontenteranno di un episodico rialzo di 25 punti base, quando l’inflazione minaccia molto realisticamente di portarsi almeno al livello del 4 per cento, un livello che dovrà essere sovrastato di non meno di 100-125 punti base dal tasso di riferimento previsto per l’area dell’euro.

Non ho fatto alcun riferimento in questi giorni alla bocciatura, via referendum popolare, del Trattato di Lisbona verificatasi di recente in Irlanda ed alle conseguenze derivanti da tale decisione, anche perché vedo in tale avvenimento soltanto una delle mosse in corso nella pluridecennale battaglia che oppone gli atlantici e gli europeisti, una vittoria che potrebbe proprio rivelarsi pari a quella di Pirro.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

giovedì 19 giugno 2008

Profumo benedice il futuro di Matteo Arpe!


Pur avendo conseguito quasi 1,43 miliardi di dollari relativi a due operazioni straordinarie, Morgan Stanley ha registrato una flessione del 56 per cento circa degli utili nel secondo trimestre del 2008 rispetto al risultato netto conseguito nello stesso periodo dell’anno precedente, segnalando una performance non solo nettamente peggiore di quella che ha caratterizzato la potente e molto preveggente Goldman Sachs (utili in calo di appena l’11 per cento), ma addirittura meno brillante di quel vero e proprio disastro che è stato il bilancio trimestrale di Lehman Brothers, tenendo dovutamente conto della mega svendita di titoli della finanza più o meno creativa effettuato da Lehman.

Scendendo maggiormente nel dettaglio, pur in un generale declino dei ricavi che ha caratterizzato tutti i comparti di attività della Investment Bank newyorkese, colpisce il calo dell’85 per cento dei proventi netti relativi al trading nel Fixed Income, ove vengano confrontati con quelli conseguiti nel secondo trimestre del 2007, mentre non desta certo entusiasmi il dimezzamento dei ricavi relativo alle commissioni connesse all’attività di investment banking, anche se va ricordato che flessioni più contenute (-11 per cento) vengono registrate nel comparto azionario.

Vere e proprie perdite prima delle tasse per 277 milioni di dollari, anche se va detto, unica nota positiva in un panorama molto grigio, che la banca di investimenti ha accresciuto il volume delle operazioni prossime al perfezionamento, un dato che dovrebbe stare ad indicare maggiori prospettive di redditività per il terzo trimestre dell’anno in corso.

Il miserrimo livello dell’utile al netto delle operazioni straordinarie ed il vero e proprio meltdown in corso in comparti fondamentali per l’attività di una banca di investimento, non mancheranno di avere un effetto sulla stabilità della posizione del Chief Excecutive Officer di Morgan Stanley, John Mack, in carica da circa tre anni, un top manager già oggetto di pesanti critiche da parte dei molto preoccupati azionisti della banca.

Mentre cresce l’attesa per il rilascio, previsto per la fine del mese, del bilancio relativo al secondo trimestre di Merrill Lynch, una Investment Bank che ha già rinnovato radicalmente il proprio vertice e che ha già bussato abbondantemente a quattrini nei confronti di vecchi e nuovi stakeholders, con il poco piacevole corollario che difficilmente potrebbe sopportare un risultato negativo, soprattutto se legato ad una nuova pioggia di svalutazione dei titoli della finanza strutturata che non fosse accompagnato da un chiaro segnale indicante che le brutte sorprese sarebbero, a quel punto, finite.

Non ho dato conto, nella puntata di ieri, della finalizzazione di un’importante operazione di ristrutturazione di uno Structured Investment Vehicle realizzata, per conto di terzi, da Goldman Sachs, una notizia che è stata salutata con evidente sollievo da parte di numerosi esperti ed analisti, in quanto starebbe ad indicare che l’operazione di smaltimento delle gigantesche posizioni in titoli della finanza più o meno strutturata avviata da Goldman nel lontano autunno del 2006 è giunta talmente a buon punto da consentire alla maggiore delle Investment Banks statunitensi di occuparsi, in modo certamente efficace ed efficiente, dei problemi che affliggono le altre entità operanti nel mercato finanziario globale.

Non minore è l’attesa per i risultati delle maggiori banche commerciali statunitensi, con particolare riferimento a colossi quali Citigroup, J.P. Morgan-Chase e Bank of America, la prima ancora alle prese con problemi di enorme dimensione, mentre le altre due hanno, più o meno spontaneamente, deciso di caricarsi sulle spalle i guai dell’orso di Stearns e di quella Countrywide portata sull’orlo del baratro dal suo fondatore e numero uno Angelo P. Mozilo, con l’aggravante che al quasi dissesto economico si aggiungono, nel caso di Countrywide, un mare di pendenze legali dal potenziale e forte impatto economico e reputazionale.

Mentre si avvertono sempre più sinistri scricchiolii provenienti dal settore delle materie prime energetiche, petrolio in testa (con il rischio molto concreto che un eventuale giro di vite in termini di aumento dei margini e/o di altre misure di stampo restrittivo possa intervenire a bolla speculativa ampiamente già scoppiata), il forte attivismo delle banche centrali a sostegno del dollaro sembra destinato inesorabilmente ad infrangersi contro l’ondata derivante dalla più che certa decisione di rialzare, per la prima volta peraltro da oltre due anni, del tasso di riferimento sull’euro, mentre è quasi altrettanto certo il nulla di fatto da parte del Federal Open Market Committe, una non decisione che rappresenterebbe l’ennesimo errore da parte di Bernspan e dei suoi complici aventi diritto di voto.

Pur considerando che il margine di sicurezza derivante dalla decisione dei neotemplari della Banca Centrale Europea, almeno nel caso che il rialzo dovesse essere limitato ai 25 punti base e, soprattutto, non avesse seguito nel futuro prevedibile, sarebbe tutt’altro che consistente rispetto all’inflazione attuale ed a quella attesa nei prossimi mesi, si confermerebbe, tuttavia, un livello dei tassi reali positivo, mentre quelli vigenti negli Stati Uniti d’America continuano a coprire a malapena la metà del tasso di inflazione effettivo (ooviamente, non di quella vera e propria favola per bambini rappresentata dal cosiddetto ex food end ex energy, un tasso riferibile, al massimo, agli organismi monocellulari) che caratterizza, almeno al momento, gli USA.

Lasciando i banchieri centrali, quelli di investimento e quelli posto a capo delle banche più o meno globali alle loro ambasce, vorrei spendere qualche parola sull’onore delle armi che Alessandro Profumo, per l’interposta persona di un bravo giornalista economico del quotidiano la Repubblica autore di un articolo che chiaramente raccoglie la voce di dentro del top manager del gruppo creditizio con sede in Piazza Cordusio, ha voluto rendere a Matteo Arpe, l’ex amministratore delegato di Capitalia e vera vittima della fulminea acquisizione patrocinata dall’anziano banchiere di marino, Cesare Geronzi, al momento in esilio dorato proprio in quella Mediobanca nella quale un Arpe quasi in fasce mosse i suoi primi passi sotto la accorta tutela di Enrico Cuccia.

Nel lungo articolo, viene infatti ricordato che, il giovane banchiere non è solo riuscito a correggere la maggior parte delle pesanti eredità negative provenienti dall’era Geronzi-Brambilla, ma che è anche riuscito nella quasi incredibile impresa di resistere del tutto alle affascinanti sirene delle Investment Banks e delle CIB delle banche più o meno globali, al punto da non lasciare all’acquirente Unicredit neanche un CDO, un LBO, un titolo salsiccia o qualsiasi altra diavoleria più o meno sofisticata partorita dalle fervide ed un po’ perverse menti degli apprenditi stregoni delle fabbriche prodotto facenti capo, appunto, alle Investment Banks o alle divisioni di Corporate & Investment Banking delle sopra menzionate banche più o meno globali.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

mercoledì 18 giugno 2008

Torna la pioggia di vendite su Lehman Brothers


Come era largamente prevedibile, la nervosa e e molto reticente performance del Chairman e Chief Financial Officer di Lehman Brothers, Richard Fuld, non è assolutamente servita a dissipare i dubbi degli analisti delle maggiori Investment Banks statunitensi e quelli delle banche più o meno globali che ormai iniziano a fiutare il sangue e la concreta possibilità che anche Lehman Bros sia costretta a seguire le orme di Bear Stearns, finita pochi mesi orsono letteralmente a secco di liquidità e salvata in extremis dalla Federal Reserve che l’ha letteralmente regalata ai nipotini di Morgan e di Rockfeller.

La fiducia del mercato, o un accorto utilizzo della leva rappresentata dai programmi di buy back, non sono bastati infatti a ripetere il miracolo di ieri, quando l’azione è riuscita a recuperare un 5 per cento sui disastrosi dati del secondo trimestre di questo orribile 2008, il primo in rosso (per 2,8 miliardi di dollari) dal 1994, anno della quotazione dell’azione della storica Investment Bank a Wall Street.

Oggi è stato il giorno di David Einhorn e dei suoi compagni di avventura che hanno fatto piovere una grandinata di vendite sul titolo, spingendo la quotazione verso un sonoro -9 per cento, un movimento al ribasso a cui non devono essere state estranee le altre banche globali dopo i negativi report dei loro analisti che hanno atteso invano le delucidazioni promesse la settimana scorsa dalla defenestrata Erin Callan, la donna che ha ballato per soli sei mesi sulla tolda di comando di quella che era una solida nave e che ora appare sempre di più come un fragile vascello esposto alle alte ondate della tempesta in corso.

Oggi era anche il giorno dei risultati del secondo trimestre per la potente e preveggente Goldman Sachs, la banca di investimenti che ha anticipato la crisi finanziaria sin dal lontano settembre del 2006, ma che è rimasta comunque incastrata dal volume considerevole di titoli della finanza strutturata che non è riuscita a vendere nonostante il largo margine di vantaggio in termini temporali di cui ha goduto rispetto alle più dirette avversarie.

Va detto, tuttavia, che registrare una flessione di appena il 10 per cento dell’utile rispetto all’irripetibile stesso periodo del 2007 ha quasi del miracoloso di questi tempi, ma rappresenta allo stesso tempo il chiaro segnale che, come ha scritto oggi un analista della stessa Goldman, la tempesta perfetta non si concluderà prima dell’anno prossimo, notizia vissuta con sconforto dagli operatori ma che, a mio avviso, pecca ancora di un ottimismo eccessivo e legato più al dovere di ufficio che ad una valutazione fatta in scienza e coscienza.

D’altra parte, le notizie diffuse ieri dai vari organismi federali sono stati tutt’altro che confortanti per gli alquanto disperati analisti e giornalisti embedded al malmesso esercito del capitale finanziario statunitense e globale, in quanto dall’ennesima flessione della costruzione di nuove case e delle nuove licenze di costruzione al vero e proprio balzo in avanti dell’indice dei prezzi all’ingrosso (+1,4 per cento su base mensile, mentre si è perso il conto della variazione anno su anno), così come il vero e proprio crollo registrato ieri dall’indice industriale relativo all’area di New York, sono tutti dati che inducono a ritenere lo scenario della stagflazione, quello forse più temibile tra quelli possibili, come già attuale.

Non mi soffermo sulle sempre più evidenti imprecisioni delle statistiche statunitensi, che stride nettamente con l’abituale precisione che da sempre le caratterizza, se non per citare la clamorosa revisione del dato di aprile sulle nuove costruzioni che da un incredibile +8,2 per cento è stato portato ad un molto più ragionevole incremento del 2 per cento, mentre ritengo più utile segnalare che nella parte meridionale della California, forse uno degli Stati maggiormente colpito dalla crisi immobiliare, la flessione dei prezzi è giunta a sfiorare il 30 per cento e che si va verso una prevalenza della vendita di case derivanti da espropri bancari sul totale delle vendite effettuate nel periodo.

Mentre le flessione delle quotazioni delle azioni delle Investment Banks e delle banche più o meno globali sta portando le stesse su valori che sono spesso inferiori alla metà del massimo toccato nelle ultime 52 settimane, quello che sta avvenendo nel settore delle compagnie di assicurazione monoline evidenzia un quadro di assoluta desolazione e che vede le quotazioni delle due principali compagnie, MBIA ed Ambac, a livelli che vanno dal 2 per cento del massimo registrato nelle ultime due settimane nel caso di Ambac all’8 per cento per MBIA.

Non ho comunicato ai lettori l’avvenuto defenestramento del Chief Executive Officer, tale Sullivan, del colosso assicurativo statunitense AIG, reduce da un bilancio trimestrale disperante per gli infuriati azionisti, un brusco allontanamento che rende sempre più lunga la lista dei Chairman e dei CEO, spesso ricoprenti felicemente entrambe le cariche, licenziati negli ultimi mesi dalle varie entità operanti nel mercato finanziario globale.

Così come non ho segnalato l’entrata in latitanza del CEO di un hedge fund ritenuto responsabile di un buco di 500 milioni di dollari e che sta tentando di evitare di scontare una condanna a 20 anni di carcere, mentre sono stati incriminati i responsabile dei due hedge fund facenti capo alla defunta Bear Stearns il cui default diede il via, nel giugno del 2007, al disastro nel quale siamo attualmente tutti coinvolti.

Mentre sono attesi entro la fine del mese i dati trimestrali delle altre due Investment Banks statunitensi che ancora mancano all’appello, Morgan Stanley e Merrill Lynch, vi è molta attesa per quelli relativi alle maggiori banche europee relativi all’intero primo semestre dell’anno in corso, anche se, come è noto, le banche del vecchio continente sono abituate a tempi molto più comodi di rilascio delle informazioni, un ritardo che verrà vissuto con ansia in un buon numero di grandi paesi europei, fatta eccezione per la Spagna, paese che annovera due grandi gruppi creditizi che sembrano essersi addirittura avvantaggiati dal vero e proprio disastro che si sta verificando nel resto del mercato finanziario globale.

Anche i due maggiori gruppi creditizi italiani, Unicredit Group ed Intesa-San Paolo, così come i due gruppi che li seguono per dimensione, stanno vivendo una fase difficilissima, come ben testimoniato dal fatto che le relative quotazioni azionarie registrano livelli di perdita sempre più comparabili a quelli statunitensi e del resto del mondo, fatta anche in questo caso la dovuta eccezione per le banche spagnole.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/

martedì 17 giugno 2008

Chi di leva ferisce di leva perisce!


Parafrasando un celebre film americano, verrebbe proprio di dire al Chairman e Chief Executive Officer di Lehman Brothers, Richard Fuld, peraltro l’unico sopravvissuto sulla tolda di comando del semiaffondato ed alquanto fragile vascello alle prese con gli alti marosi della tempesta perfetta in corso: Richard, tu sei il mio eroe!

Incurante degli autorevoli timori della vigilia e delle tante domande rimaste senza risposta nell’ultima conference call tenuta dalla bella e popolare tra i media, Erin Callan, bruscamente allontanata insieme al precedente Chief Operating Officer, Joseph Gregory, Fuld ha ieri dimostrato, infatti, di ben meritare la sua posizione di numero uno, ininterrottamente ricoperta da ben quattordici anni, ed ha preso sulle sue forti spalle tutta la responsabilità dei disastrosi dati del secondo trimestre di questo veramente orribile 2008, il primo in profondo rosso (anzi, per la verità, il primo in rosso) da quando Lehman ha ottenuto di essere quotata a Wall Street nel lontano 1994, quando Richard era già giunto alla massima e duplice posizione di comando della più piccola delle superstiti Big Four.

Non aggiungendo molto in termini di dettagli, se non che l’alleggerimento di ben 130 miliardi di dollari di attività non meglio specificate è relativo al solo secondo trimestre, mentre il saldo dal 2007 è di -147 miliardi, sempre di svalutati dollari, l’ineffabile Fuld ha semplicemente sorvolato sulle domande poste la scorsa settimana alla provata Callan, domande che miravano a sciogliere l’arcano di un entità tutto sommato modesta di perdite derivante da un volume così massiccio di alienazioni, a fronte di quanto è stato lasciato sul terreno, in analoghe anche se molto più modeste svendite, da parte, ad esempio, della extracomunitaria UBS e dalla svalutazione media del 15-20 per cento verificatasi in tutti i casi di inclusione di SIV e Conduit nei bilanci da parte di banche statunitensi e britanniche di rango.

Mentre aleggiavano ancora nell’aria le parole pronunciate ad inizio del mese dal miliardario david Einhorn, ribassista convinto nei confronti della banca di investimenti statunitense, uno che non ha esitato ad uscire allo scoperto su uno dei principali obiettivi delle sue ingenti scommesse e che ha trovato un folto seguito di imitatori, parole che tratteggiavano una preoccupante radiografia dei mali di Lehman che aveva anticipato solo di qualche giorno il dettagliato, anche se molto incompleto, quadro reso dalla oramai ex CFO della banca nella sua lunga conferenza telefonica, un quadro introdotto dall’altrettanto sfortunato ex Chief Operating Officer.

Pur avendo farfugliato qualcosa a proposito di alienazioni in dimensioni accuratamente non precisate di titoli della finanza strutturata della peggior specie, Fuld si è bellamente sottratto alle questioni più scottanti relative, ad esempio, allo stato attuale dell’outstanding dei titoli classificati nella terza fascia, quella introdotta con la forza dai regolatori e che sta ad indicare quelli a maggior rischio, né è riuscito a chiarire il mistero di come sia stato possibile liberarsi di 147 miliardi di dollari di assett al valore nominale con perdite complessive di appena 17 miliardi, solo una piccola parte dei quali spesata effettivamente nel secondo trimestre del 2008, anche se fare l’elenco delle domande poste dagli agguerriti analisti di Goldman Sachs, Citigroup, Merrill Lynch, UBS, Deutsche Bank e compagnia cantante occuperebbe troppo spazio rispetto a quello che da dieci mesi mi sono auto imposto.

Come spesso accade, gli operatori alquanto disperati operanti nel mercato finanziario statunitense ed in quello globale sembrano sempre più inclini a credere a quello che meno aggiunge turbamento e che richiede dosi meno massicce di ansiolitici ed antidepressivi, così hanno accolto con vero sollievo le favole propinate dall’ottimo zio Richard, passando a piè pari su quisquiglie e pinzillacchere quali il valore ampiamente negativo dei ricavi aziendali, crollati rispetto ai 3,5 miliardi del primo trimestre 2008 ed ai 5,5 miliardi del secondo trimestre del 2007, dati che pure qualche riflessione avrebbero dovuto suscitare nelle loro ansiose testoline, mentre sono stati più che lieti di dare ai loro clienti un bel segnale di buy sulle molto depresse azioni di Lehman Bros.

Non so quanto stia pesando l’effetto McDade, dal nome del bravo golfista e numero uno della divisione Fixed Income di Lehman, l’uomo chiamato alla carica più delicata, o, per usare un linguaggio meno polite, quella realmente più rognosa in una Investment Bank, così come in una divisione di Corporate & Investment Banking di una banca più o meno globale, forse anche grazie all’appellativo di Tiger Woods, conquistato sia sul green che nell’agone torrido della battaglia quotidiana sul mercato finanziario globale, uno di quelli che, come si suole dire, non sbagliano mai un colpo.

Mi dispiace per la fama sicuramente meritata di Herbert, ma credo proprio che il compito assegnatogli rappresenti una sorta di nemesi, anche perché i maggiori guai di Lehman dipendono proprio dagli effetti collaterali dei successi dai lui conseguiti nel suo precedente incarico e anche perché l’ottimo McDade ed il suo collega di cui nessuno ricorda il nome e che ha preso il posto sinora brillantemente ricoperto dalla Callan, prima o poi, dovranno fornirle quelle risposte rimaste sinistramente inevase, in gran parte grazie al colpo di teatro messo così brillantemente in scena nei giorni scorsi da Richard Fuld, un talento da regista veramente sprecato sul triste palcoscenico di Wall Street.

Come scrivevo già nei giorni scorsi, non ho certo la pretesa di essere nella testa di Einhorn o di uno qualsiasi dei suoi tanti compagni di cordata, ma credo proprio che ieri sia stata stappata l’ennesima bottiglia di champagne in uno degli esclusivi resort esotici nei quali i nuovi compagni della Tortuga amano trascorrere il loro tempo, tenendosi a debita distanza dalla nevrotica New York, anche perché, armeggiando con i loro molto sofisticati pallottolieri ed ai lor molto volenterosi informatori, si devono essere fatti un quadro molto preciso dello stato di salute, si fa tanto per dire, della loro vittima predestinata.

Già, perché uno degli errori fatali commessi da Erin è stato proprio quello disvelare l’entità delle munizioni difensive approntate presso il quartie generale di Lehman, quei 15 miliardi di cash ed i 45 miliardi complessivi ove si includano anche le linee assolutamente irrevocabili di cui si è dotata la banca, una barricata che dovrebbe essere del tutto inespugnabile ma che, ove nota, rappresenta un vero e proprio invito a nozze per dei raiders dotati dei mezzi e dell’esperienza di Einhorn e compagni, gente, sia detto solo per inciso, che sono diventati schifosamente più ricchi grazie alle scommesse già vinte, inclusa quella che ha ad oggetto una Lehman passata da settembre dai 65 dollari a quotazioni che oscillano tra i 20 ed i 30 dollari.

D’altra parte, mi permetto di ricordare sommessamente a Richard Fuld e ad Herbert McDade che è sempre vero che chi di leva finanziaria ferisce di leva finanziaria perisce!
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