giovedì 22 novembre 2007

La grande fortuna di Goldman Sachs

Il vero e proprio crollo delle azioni delle banche statunitensi, seguite a ruota da quelle europee e, più di recente, anche da quelle giapponesi sta toccando livelli inimmaginabili non più tardi di cinque mesi fa, né nulla di buono può venire dal rapporto reso noto dall’OCSE, nel quale le stime sulle perdite massime per il sistema bancario mondiale sono state innalzate alla cifra di 300 miliardi di dollari.

Dal mondo ovattato e permeato dal massimo riserbo di Goldman Sachs, trapela intanto una ricostruzione dei motivi per i quali una delle banche più impegnate nella finanza strutturata è uscita pressoché indenne dalla “tempesta perfetta” che dal 9 agosto scorso sta scuotendo fin dalle fondamenta le altre quattro partecipanti al club delle Big Five e decine di banche sparse nei cinque continenti.

Secondo un quotidiano finanziario italiano, la ragione del miracolo starebbe nella decisione, presa, nel novembre dell’anno scorso, dal direttore finanziario di Goldman, David Viniar, ma non contrastata dagli altri partner, di iniziare ad alleggerire da quel momento e in modo massiccio la montagna di posizioni in derivati, CDO, LBO, subprime e altri prodotti della finanza strutturata.

Nello stesso articolo, si ricorda l’entusiasmo con il quale le altre banche d’affari statunitensi fecero la fila per acquisire pezzi del portafoglio giudicato non più desiderabile da Goldman Sachs, né mancarono poco riguardosi commenti sull’anziano direttore finanziario che ne aveva deciso la vendita, anche perché, in quella fase, la finanza strutturata appariva alla maggior parte degli operatori come la gallina dalle uova d’oro e nessuno, ma proprio nessuno, sembrava credere che quella crescita esponenziale di commissioni, utili e relativi bonus si sarebbe arrestata a breve e in un modo così drammatico.

In gergo tecnico, la decisione di Viniar viene definita “girare le posizioni”, cosa che risulta ancora più agevole quando il resto del mondo continua ad andare in direzione opposta, ma vi è un valore aggiunto intrinseco nella maxi vendita, ed è rappresentato dal fatto che nessuno come il numero uno di Goldman conosce con relativa esattezza chi e per quanto è nei guai in questi giorni, anche se, a questo punto, la blasonata istituzione newyorkese rischia un mega procedimento per insider, legato allo scetticismo sul fatto che sia stato solo il fiuto di Viniar e non qualche informazione dall’alto, molto dall’alto, a salvare la banca e a darle l’invidiabile primato di essere l’unica a vantare il segno più nelle quotazioni di borsa rispetto ai valori di inizio anno.

Dopo la pubblicazione dei dati di Freddie Mac, il can can degli analisti sui criteri contabili seguiti dalla banca e dal colosso Fannie Mae non accenna a placarsi e le due istituzioni, oltre al tracollo in borsa, sembrano vedere sempre più concretamente sfumare l’ipotesi di essere destinatarie di buona parte dei provvedimenti legislativi prossimi venturi che un Congresso in pieno clima elettorale sembra sempre più ansioso di varare e con maggioranze bipartisan in grado di sventare eventuali veti da parte di Bush.

Dopo Mizuho Financial Group e Sumitomo Mitsui Financial Group, rispettivamente seconda e terza banca del Giappone, è la volta della Mitsubishi UFJ Financial Group a dover evidenziare un calo del 49 per cento nei profitti del primo semestre, flessione legata alle svalutazioni dei crediti nel settore dei mutui subprime (ne ha per 2,38 miliardi di dollari) e in quello delle carte di credito.

L’ormai attivissimo ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, in un’intervista al Wall Street Journal ha reso noto che la situazione prevista per il 2008 sarà ampiamente peggiore di quella, in realtà già alquanto orribile, che stiamo vivendo nell’anno in corso, mentre non è servita certo a risollevare gli animi la notizia della richiesta pressante di documenti avanzata dalla Securities and Exchange Commission nei confronti di MGIC e Radian, le due maggiori compagnie di riassicurazione di prestiti che avrebbero costretto al fallimento C-Bass una loro joint venture specializzata nell’erogazione di mutui subprime.

Nel panorama creditizio europeo, spicca la sempre più precaria situazione delle banche britanniche, con l’azione di Northern Rock in fase di avanzata evaporazione e Royal Bank of Scotland e Barclays ormai quotidianamente impegnate a smentire rumors e a cercare in ogni modo di non segnare nuovi minimi dell’anno, ma non è che le cose vadano granché meglio per le banche francesi, tedesche, italiane e svizzere, queste ultime colpite oggi dal downgrade inflitto a Credit Suisse.

Ma il fronte che minaccia di rivelarsi più caldo è senza dubbio quello valutario, non solo e non tanto per il costante rafforzamento dell’euro che sembra puntare sempre più decisamente alla soglia di 1,50 dollari (cosa che sta portando al calor bianco la polemica, ormai al limite delle contumelie tra i templari della Banca Centrale Europea e i politici, in particolare quelli francesi con Sarkozy alla testa), quanto per la chiusura massiccia di posizioni debitorie in yen che sta spingendo la valuta nipponica nell’area dei 108 yen contro dollaro e verso un rafforzamento generalizzato nei confronti delle altre principali valute.

Sempre sul fronte valutario, non va sottovalutato il crescente nervosismo dei produttori di petrolio e di altre materie prime per il continuo deprezzamento del dollaro, anche perché posizioni sinora di pertinenza degli “estremisti” iraniani e venezuelani vengono ora riproposte, seppur con diversi accenti, dai sauditi e dai paesi del Golfo arabico, le cui valute sono ormai da decenni legate alla valuta statunitense.

Altra giornata in trincea anche per i banchieri italiani, anche se più che il nervosismo dei loro azionisti sembra turbarli l’attivismo sul mercato dei loro concorrenti, anche perché il volume complessivo degli scambi e certe punte che si ripetono ormai più volte al giorno sembrano sempre più provenire da manine, o manone, interessate, né serve pensare che, ove sia vero, si tratta certamente di un gioco suicida e dagli esiti francamente imprevedibili.

Continua nel frattempo a far discutere l’educato j’accuse rinvenibile tra le righe della già citata intervista rilasciata da Matteo Arpe all’Espresso, un’intervista di cui non va peraltro sottovalutata l’anomala collocazione né l’identità dell’intervistatrice, anche perché in una fase nella quale l’attivismo di private equity ed hedge fund sta turbando gli equilibri del nostro capitalismo consociativo, non sono in pochi a temere il ritorno in campo del giovane banchiere.

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