venerdì 17 aprile 2009

Quanto durerà la recessione? (seconda parte)


Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.

Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!

Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.

Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!

Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.

Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!

Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.

Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ tra la fine del 2008 e l’intero 2009, una drammatizzazione dell’immediato unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una certa ripresa nel 2010, ma di questo parlerò domani.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog