lunedì 26 novembre 2007

Crisi di liquidità: atto II

L’entrata in vigore del FASB157, il pressing delle società di rating sulle compagnie che assicurano la restituzione di capitale ed interessi dei bond di ogni specie e natura in caso di default dell’emittente sul versante statunitense della crisi, il salvataggio della francese Natixis, o meglio del suo braccio assicurativo coinvolto nelle garanzie ai prodotti della finanza strutturata, nonché gli effetti prossimi venturi di Basilea II e di Solvency II sui ratio patrimoniali, rispettivamente di banche e compagnie di assicurazioni, sul versante europeo hanno certamente guastato la già laboriosa digestione dei protagonisti del mercato finanziario statunitense alle prese con gli effetti di quell’orgia culinaria rappresentata dal pasto del giorno del ringraziamento, mentre i loro omologhi europei e giapponesi hanno certamente impiegato il weekend ad interrogarsi sulla non del tutto improvvisa accelerazione della crisi di liquidità sul mercato interbancario europeo.

Sugli effetti dell’entrata in vigore, all’inizio della settimana scorsa, dei nuovi criteri contabili previsti dal FASB157, un esame analitico della situazione delle maggiori banche statunitensi può essere senz’altro di ausilio, anche perché il venir meno della possibilità di valutare “in casa” il valore effettivo dei cosiddetti crediti di terza fascia elimina, o almeno dovrebbe, ogni possibilità di edulcorare la realtà nei conti aziendali in relazione a prodotti della finanza strutturata che presentano, in alcuni e non rari casi, più di una difficoltà a fare prezzo in mercati di fatto illiquidi.

Secondo stime fornite dal Daily Telegraph e riprese da un quotidiano finanziario italiano, la sola Citigroup sarebbe in possesso di titoli della finanza strutturata per 128 miliardi di dollari, cifra pari al 220 per cento del suo patrimonio, mentre Morgan Stanley disporrebbe di 88 miliardi di dollari di titoli della specie(pari al 270 per cento del suo patrimonio, Goldman Sachs, di cui ho ricordato la mega svendita di questa roba effettuata a partire del novembre 2006, continua ad averne per 72 miliardi di dollari (210 per cento del patrimonio) e la Lehman Brothers “solo” 35 miliardi (190 per cento del patrimonio), un outstanding, per le sole quattro entità considerate, pari a 323 miliardi di dollari che, mediamente, rappresentano più di due volte del doppio del patrimonio complessivo.

Se si considerano le svalutazioni compiute, ad esempio, da Merrill Lynch, Bank of America, JP Morgan-Chase, Wachovia, Fannie Mae, Freddie Mac, si comprende meglio il motivo per il quale autorevoli analisti hanno stimato, già all’indomani dell’entrata in vigore dei nuovi criteri contabili, che le perdite derivanti da svalutazioni e senza considerare l’effetto di rimbalzo negativo del FASB159 largamente utilizzato per lenire le perdite del terzo trimestre, dovrebbero collocarsi, tra l’ultimo trimestre di quest’anno e il primo del 2008, tra i 250 e i 500 miliardi di dollari.

Il mini rimbalzo di venerdì che ha accomunato i tre indici principali di Wall Street, ma in particolare il sotto indice dei titoli finanziari, in una giornata a chiusura anticipata per il lungo week end del Thanksgiving Day, è realmente indicativo non solo di quella schizofrenia dei mercati che ha dato il meglio di sé a partire dal 9 agosto scorso, ma anche di un mercato in qualche modo autoreferenziale in una giornata in larga misura di esclusivo dominio degli investitori istituzionali, poco disturbati dal parco buoi che ha concentrato, come avviene da molte sedute, sull’acquisto di Tbills e di Tbonds di varia durata.

Segnalo da qualche giorno che, dopo un lento e costante allentamento delle tensioni sul mercato interbancario europeo durato alcune settimane e che aveva portato i tassi a tre mesi almeno 20 punti base al di sotto del massimo del 5,79 per cento, la tensione continuava a salire anche al ritmo di 5 punti base al giorno, sino a sfiorare il 5,70 per cento venerdì, quando, come era già accaduto mercoledì, le banche hanno smesso di prestarsi soldi tra di loro, rinviando ogni operazione ad oggi.

Solo a mercati chiusi, la Banca Centrale Europea ha emesso uno scarno e secco comunicato nel quale afferma di essersi accorta (sic) delle tensioni in corso sul mercato dei prestiti interbancari ed ha promesso che non farà mancare la liquidità, almeno fino alla scadenza (che già si preannuncia rovente) di fine anno, ma omette di dire che il livello dei tassi e la sfiducia reciproca delle banche avviene a livelli di quasi 30 punti base al di sopra del livello toccato il 9 agosto, quando, dopo il congelamento temporaneo di tre fondi da parte di BNP Paribas, il Board autorizzò, dopo frenetici contatti telefonici tra i membri in vacanza, un’immissione di liquidità di 96 miliardi di euro, pari ad una volta e mezzo l’intervento effettuato alla riapertura dei mercati dopo gli attentati dell’11 settembre.

Così come ovviamente omette di dire che ad immissioni di liquidità sempre più massicce, accompagnate dal via libera ad accettare anche l’inaccettabile dalle banche come titoli a garanzia delle suddette immissioni, per lunghe settimane la situazione non accennò a migliorare e bastò una, seppur grave, incomprensione tra il Cancelliere dello Scacchiere britannico e lo sventurato Governatore della Bank of England, per assistere all’assalto agli sportelli della Northern Rock e al successivo adeguamento della BoE al frenetico interventismo della BCE e della Federal Reserve che avevano da tempo abbandonato il principio, sacro quando tutto va bene, che non vanno in alcun modo premiati i comportamenti scorretti degli operatori finanziari.

Pur essendo ovvio, giunti a questo punto di disvelamento, che la pensata di Henry Paulson, la creazione, cioè, di una sorta di meccanismo cooperativo volto ad assorbire, a quali prezzi?, la spazzatura che sta soffocando le banche di tutto il mondo rischia, come tempestivamente ammonì il Maestro Greenspan, di risultare non utile e forse anche controproducente, anche perché non vi è chi ha potuto esimersi dal notare che la più grande istituzione finanziaria del mondo, Goldman Sachs, sta giocando, e come si è visto da un anno almeno a questa parte, apertamente controcorrente, con l’obiettivo, neppure troppo nascosto, di uscire vincitrice da una ristrutturazione feroce al vertice non solo delle Big Five, ma anche delle banche commerciali statunitensi.

Pur non appartenendo alla schiera dei dietrologi e di quelli che vedono un complotto in ogni evento rilevante, non posso esimermi dal notare che alla riunione annuale del Gruppo Bildberg svoltasi in Turchia a giugno, oltre ad una vasta rappresentanza degli uomini al vertice di Goldman Sachs o con un passato in quella istituzione, vi erano tutti i protagonisti della finanza mondiale, incluso Jean Claude Trichet, mentre, per l’Italia, spiccava la presenza di Franco Bernabè, Mario Monti, Paolo Scaroni e Domenico Siniscalco. Pur essendo secretati gli interventi, è possibile che la crisi prossima ventura non sia stata nemmeno sfiorata?

1 commento:

mariolik ha detto...
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