domenica 4 maggio 2008

Profitti privati e perdite pubbliche

L’azione sempre più aggressiva delle banche centrali, ormai sempre più coordinate, quasi federate, tra di loro, non sta tralasciando nessuno degli aspetti di maggiore criticità presenti in un mercato finanziario globale sempre più esposto agli alti marosi di una tempesta perfetta che tra quattro giorni vedrà scadere il nono mese intercorso dal suo inizio, un avvio che prende le mosse dalla totale crisi di liquidità verificatasi il 9 agosto del 2007.

Se all’inizio del 2007, qualcuno, non importa se economista, analista, guru dei mercati o premio Nobel per l’economia, avesse osato predire quello che è accaduto in questi densi ed a tratti realmente drammatici nove mesi sarebbe stato preso per pazzo, tanta era la fiducia imperante sulle magnifiche e progressive sorti di quello che, e non è un gioco di parole, doveva dimostrarsi di lì a poco avere la solidità di un castello di carte.

Il fatto che il principale obiettivo della forsennata campagna di mega iniezioni di liquidità, rappresentato dalla necessità di riportare la fiducia tra quel ristretto numero di banche di investimento, globali o semi globali che dettano legge sul mercato interbancario espresso nelle diverse e principali valute, non sia in alcun modo stato raggiunto non sembra scuotere in alcun modo la fiducia di Bernspan, Trichet, King e compagnia cantante sul fatto che, per amore o per forza, alla fine la fiducia ritornerà e l’abnorme spread tuttora riscontrabile sui tassi di mercato non potrà che ridursi, riprendendo quella fisiologica e minima divergenza rispetto ai tassi ufficiali di riferimento.

L’aggravante rispetto alla ormai sempre più chiara lack of governance che continua a caratterizzare la tempesta perfetta, solo apparentemente in contraddizione con il frenetico agitarsi di governi, banche centrali ed organismi sovranazionali, è data, inoltre, dall’ampliarsi dello strumentario che gli improvvisati cerusici dei tassi e delle monete hanno deciso di utilizzare, in aggiunta a quelli aventi natura più tradizionale, in questo, almeno, dimostrando che, al di là dei proclami ad uso dei giornalisti embedded, un’analisi alquanto precisa delle vere cause della crisi finanziaria in corso è ormai patrimonio comune di quel ristretto numero di donne e di uomini abitanti ai piani alti delle istituzioni nei paesi maggiormente industrializzati.

Se, infatti, mi permetto spesso e volentieri di irridere all’apertura delle sempre più capaci discariche nelle quali vengono sversati ogni giorno titoli della finanza strutturata per miliardi, se non decine di miliardi di dollari, con questo non voglio affatto sottovalutare il non trascurabile fatto che, in assenza di tali vitali boccate di ossigeno, un numero significativo di Investment Banks e di banche più o meno globali sarebbe dovuto ricorrere alla protezione dei vari capitoli della legge fallimentare statunitense o agli interventi pubblici dei governi e delle banche centrali di numerosi paesi europei ed asiatici, al pari di quanto è accaduto alle circa ottanta banche specializzate nel settore del mortgage negli Stati Uniti d’America, fallite o in una sorta di amministrazione controllata prima che Bernspan e complici decidessero di aprire a dismisura i cordoni della borsa, a spese dei contribuenti, of course.

Risparmio ai miei pochi ma affezionati lettori la prevedibile tirata sull’altrettanto ovvio oblio dei più volte citati proclami fatti un giorno sì e l’altro pure dai protagonisti delle suddette scelte sulla necessità di punire, si aggiunge sempre severamente, l’azzardo morale continuato ed aggravato evidenziatosi negli ultimi decenni, così come gli altrettanto frequenti giuramenti sulla intoccabilità delle tasche dei contribuenti per salvare la pelle dell’orso di turno, in particolare di quelli che usano svernare nelle confortevoli caverne poste all’ombra del Wall (assicuro i lettori pignoli che sono perfettamente al corrente che, a differenza di quello celeberrimo del pianto, non ne esiste fisicamente uno nell’omonima strada di Manhattan).

Comprendo altrettanto bene che esistono fasi delle vicende economiche, nel corso delle quali vale sempre il motto di un importante e molto pragmatico e defunto leader cinese, che usava dire che non è assolutamente importante che il gatto sia grigio o nero (perché non anche bianco), purché acchiappi il topo, ma la questione sta proprio nel fatto che Bernspan, Trichet, King & Co. di gatti, a prescindere dal colore, non sembrano proprio in grado di acchiapparne nessuno, così come sembrano del tutto refrattari ad individuare qualsivoglia e benché minima soluzione rispetto alla sofferenza di milioni di famiglie americane ed europee che stanno perdendo la loro abitazione o il lavoro, in non pochi casi, almeno negli States, tutti e due.

In un’apposita puntata, ricordavo come siano cambiate alla velocità della luce anche tutte le teorie economiche da decenni in voga, spesso molto diverse tra loro per le sfumature dottrinarie e le scuole di appartenenza, ma tutte sempre accomunate dal quasi assiomatico principio che vede la libera iniziativa ed il libero mercato come la fonte di ogni salvezza per l’intero genere umano, mentre lo Stato meno si occupa dell’economia, meno regole emana e meglio sarà per tutti i partecipanti del mercato.

In verità, come ha sostenuto con molta precisione ed altrettanta decisione il numero uno della un po’ traballante Deutsche Bank, Ackermann, prima di addentrarsi nella sala nella quale, assieme ad un non meglio precisato numero di colleghi, si sarebbe dovuto sorbire le reprimende, peraltro rigorosamente a porte non chiuse ma blindate, dei Governatori delle banche centrali e dei ministri economici del G7, sia lui che i suoi colleghi di nuove e più stringenti regole, di un rafforzamento incisivo dei poteri dei regolatori e vigilatori, così come dell’esigenza di una maggiore trasparenza dei prodotti venduti agli investitori istituzionali od ai semplici risparmiatori, di tute queste cose e delle altre che non sto qui ad enumerare, loro non vogliono proprio saperne, mentre sono da mesi in attesa che le banche centrali vengano in loro soccorso, bellamente sorvolando che quella montagna di titoli della finanza strutturata provengono dalle fabbriche prodotto della sua e delle altre banche più o meno globali, più o meno di investimento, non certo cadute dal cielo come fiammeggianti e pirotecniche meteore.

Quella dei profitti privati e delle perdite da socializzare, peraltro, non è certo un’invenzione dei banchieri un tanto al chilo che ci ritroviamo, anche se spesso a peso d’oro quando si tratta delle loro remunerazioni fisse o variabili, quanto, come ognuno ben sa, una vecchia storia che si ripete invariabilmente ad ogni crisi economica o finanziaria che sia, così come il tanto aborrito modello di partecipazioni statali per lungo tempo imperante nella Vecchia Europa è spesso scaturito dalle necessità imposte dalle più gravi tra le tante crisi occorse nel secolo da poco terminato, sistemi invocati quando servono alle imprese o alle banche, per essere poi demonizzati quando possono essere d’ostacolo allo sviluppo della libera intrapresa, oppure occasione di grandi affari in sede di frettolose e spesso improvvisate privatizzazioni.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione dei giornalisti free-lance all’indirizzo www.flipnews.org