martedì 22 luglio 2008

Riusciranno Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà a correggere le anomalie del sistema bancario italiano? (seconda parte)


L’attivismo congiunto di Mario Draghi ed Antonio Catricalà, rispettivamente Governatore della Banca d’Italia e Presidente dell’Antitrust (due organismi cui la legge per la tutela del risparmio del dicembre 2005 attribuisce competenze, sia pure distinte, sul settore bancario), sembra non trovare orecchie attente né nell’Associazione Bancaria Italiana, né nei singoli maggiori gruppi creditizi o banche di rilevanti dimensioni che si collocano alle spalle di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group (nato dalla fulminea acquisizione di Capitalia da parte di Unicredit), né i banchieri italiani appaiono granché preoccupati delle disposizioni di legge introdotte dal Governo Prodi o delle chiarissime intenzioni bellicose del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, forse il politico che ha nel modo più trasparente reso note le sue idee su questioni tutt’altro che marginali quali il rapporto tra Fondazioni di origine bancaria e banche da esse partecipate o ampiamente controllate, sui metodi con i quali vengono piazzati tra investitori e risparmiatori i titoli della finanza più o meno strutturata e sulle ragioni che spiegano gli elevati margini di profitto dell’industria finanziaria.

In un Paese normale un simile schieramento farebbe fare Giacomo, Giacomo alle ginocchia dei vertici delle banche di ogni ordine e grado, ma non in Italia, in quanto da noi è molto chiaro il rapporto tra affari e politica, e l’ordine in cui vengono indicati è tutt’altro che casuale, per la semplicissima ragione che, almeno sino ad oggi, il sistema bancario si è sempre prestato, seppur con lodevoli e significative differenze, a cavare le castagne dal fuoco delle continue crisi industriali che, dalla Ferruzzi alla Fiat, passando per i gruppi di medie o minori dimensioni, non mancano proprio mai, per non parlare dell’intervento a gambe tese del candidato Berlusconi che ha spinto Air France a battere saggiamente in ritirata dalle sue mire di acquisizione della più volte tecnicamente fallita Alitalia, anche se della cordata di salvatori più reclamizzata della storia industriale italiana non si è ancora vista traccia.

Non credo di rivelare particolari segreti, ricordando l’anomalo ruolo giocato dall’ex enfante prodige della finanza italiana, Corrado Passera, nel fallimento del tentativo coraggiosamente portato avanti dall’amministratore delegato di Air France, che in piena e difficilissima trattativa con le nove organizzazioni sindacali presenti nella malridotta compagnia di bandiera italiana, ha visto non smentite ufficialmente da Intesa-San Paolo un non meglio definito ruolo che il candidato Berlusconi attribuiva non tanto al gruppo bancario quanto direttamente al suo amministratore delegato che, peraltro, voci maliziose accreditavano come simpatizzante dello schieramento di centro-sinistra, cosa certa per quanto riguarda il presidente del consiglio di sorveglianza del gruppo, il Prof. Avv. Giovanni Bazoli, delle cui idee politiche fanno fede diverse ed ampie interviste rilasciate ad importanti quotidiani e periodici.

Ma quali mai potevano essere i motivi che potevano spingere il Chief Executive Officer di Intesa-San Paolo ad infilarsi in una disfida lanciata in piena campagna elettorale dal candidato e per la terza volta premier, Silvio Berlusconi? Nonostante gli eloquenti silenzi del banchiere, non vi era chi non ricordasse che, soltanto nel luglio del 2007, la cordata di Carlo Toto di Airone, da lui apertamente patrocinata, si era sottratta alla offerta vincolante, pur essendo rimasta senza concorrente alcuno e che l’offerta di Air France era venuta solo dopo il ritiro di Passera e Toto. Così come era noto a tutti che mancavano del tutto i presupposti finanziari ed industriali perché fosse possibile finalizzare la poco probabile acquisizione dell’Alitalia da parte della newco appositamente costituita da Toto grazie al sostegno finanziario del gruppo guidato dal summenzionato Passera, non si sa quanto supportato dal Prof. Avv. Bazoli.

Eppure, Passera aveva molti motivi per saltare in corsa sul carro del sicuro vincitore della aspra e combattuta tenzone elettorale ed i motivi non vanno certo ricercati nell’incarico puntualmente ricevuto dal gruppo creditizio di fungere da advisor della privatizzazione della compagnia di bandiera, con modalità molto opportunamente modificate dal nuovo governo che tutto voleva meno che un fallimento del sondaggio con annesso piano industriale del quale nessuno ovviamente saprà nulla sino alla scadenza del mandato prevista per il 10 agosto prossimo venturo.

Le ragioni vere dell’impegno indefesso di Passera e di Micciché, capo della divisione di Corporate & Investment Banking del gruppo, risiedono nel fatto che dopo più di un decennio di cantieri perennemente aperti in quello che allora era soltanto il gruppo Intesa, dopo un tourbillon di piani industriali ad un tanto al chilo, era stato proprio l’ex amministratore delegato di Poste Italiane, ma un tempo top manager di una importante componente del costituendo gruppo, a dire la verità che consisteva poi nel fatto che il tanto strombazzato modello su base federale, che era stato venduto come il miglior modello gestionale possibile, era costato miliardi di euro in mancate sinergie, dando vita ad un piano alquanto più credibile, con il suo scontato corollario di lacrime e sangue per gli stakeholders del gruppo, dipendenti ovviamente in primis.

I cantieri si stavano finalmente chiudendo e il modello divisionale aveva fatto giustizia di buona parte delle innumerevoli banche marchio di cui Banca Intesa si componeva (inclusa quella della storica ma sfortunata Banca Commerciale Italiana), quando, spinti dalla necessità tutta torinese di liberarsi dell’ingombrante presenza del Santander guidato dal molto decisionista Senor Botin e da quella milanese di estromettere, seppur a caro prezzo, l’azionista di riferimento Credit Agricole, Bazoli e Passera ed i loro omologhi al vertice del San Paolo-IMI (che nel frattempo aveva fatto indigestione con la costosissima acquisizione di Cardine e la meno onerosa ma non certo meno problematica annessione del Banco di Napoli), in un solo week end e senza informare il Governo, decisero la nascita del nuovo e colossale gruppo, decisione che favorì l’adozione del duale all’italiana, un modello ancora una volta necessitato dalla altrimenti impossibile composizione degli amministratori e dei membri dei collegi sindacali dei due gruppi felicemente convolati a nozze.

Se c’è un aspetto dell’operazione che non è stata gradita dal neo Governatore della Banca d’Italia, appena subentrato al molto discusso e discutibile Antonio Fazio, è rappresentato dal fatto che uniche vittime della fulminea operazione furono proprio un buon numero di quegli appartenenti ai collegi sindacali che pure dovevano costituire l’asse portante di quel Consiglio di Sorveglianza che, lo dice anche il nome, dovrebbe avere come mission principale quella di gettare occhiate attente e severe su quei discoli ragazzi chiamati a gestire il gruppo bancario risultante dalla aggregazione, anche se un impertinente potrebbe dire che basta ed avanza la rinomata severità ed attenzione dell’ottimo Prof. Avv. Giovanni Bazoli, un nome ed una garanzia verrebbe proprio da dire!

Di qui la necessità di un severissimo piano di integrazione, con il dovuto corollario di un piano industriale ed un accordo sindacale che riuscì, ancora una volta, a salvare quel principio di volontarietà nell’adesione all’accompagnamento ed al pensionamento che tanto erano costati, dopo l’accordo triangolare del giugno del 1997 tra l’ABI, il Sindacato ed il Governo, il conseguente accordo quadro del febbraio 1998 e la contestuale intesa su un fondo per la salvaguardia dell’occupazione, che, pur nato come applicazione originale delle rigide previsioni della Legge sui licenziamenti collettivi, aveva poi trovato, grazie alle previsioni del contratto del luglio del 1999 e per intesa tra le parti stipulanti, la possibilità di giungere alla menzionata volontarietà.

Per dare un’idea della complessità dei problemi che il Chief Executive Officer Corrado Passera ed il Direttore Generale, ma da poco nominato Chief Operating Officer, Francesco Micheli, così come il top manger Pietro Modiano, a suo tempo fuoriuscito da Unicredit ed approdato al Pan Paolo-IMI ed uno dei pochi sopravvissuti all’acquisizione, fatta la debita e notevole eccezione per Enrico Salza, si trovano ad affrontare, basti pensare che la permanenza nel gruppo di oltre un centinaio di aziende giuridicamente indipendenti crea una vera e propria ragnatela aziendale che certamente non risolve i problemi di governance connessi all’adozione articolata di strategie per loro natura centralizzate, né fornisce una idea di efficienza ed efficacia che pure un ex Mc Kinsey come Passera, peraltro accomunato, almeno in questo, al CEO di Unicredit Group, Alessandro Profumo, dovrebbe certamente avere a cuore.

Ma evidentemente le preoccupazioni di Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà non attengono tanto a questo tipo di difficoltà nelle quali da tempo si dibattono i top manager di Intesa-San Paolo, quanto, come loro stessi hanno più volte dichiarato, alla ricerca dell’evidenza di un trasferimento agli stakeholders, ma proprio a tutti gli stakeholders, clienti e dipendenti ovviamente inclusi, dei vantaggi che certamente hanno mosso i vertici dei due gruppi convolati a nozze a prendere la così tempestiva decisione di unire indissolubilmente i propri destini, vantaggi che, almeno a sentire Draghi e Catricalà, non risulterebbero affatto evidenti, mentre, anzi, cresce il coro di lamentazioni dei clienti per le condizioni loro applicate e per le non sempre eccezionali performance dei prodotti finanziari di ogni tipo e natura loro venduti in base, almeno secondo i sindacati aziendali, quelle che in gergo vengono definite pressioni commerciali, problema cui non sono estranee le grandi realtà creditizie di cui mi occuperò nelle prossime puntate.

Non credo con questo di aver esaurito l’esame delle problematiche legate alla prima delle fusioni lampo che hanno caratterizzato e, forse, continueranno a caratterizzare la terza fase di ristrutturazione del settore del credito in Italia, anche se mi permetto di osservare come le criticità emerse non siano di natura molto diversa da quelle riscontrabile nel lungo processo che dalla iniziale fusione tra il Nuovo Banco Ambrosiano e la Cariplo, che si vantava a suo tempo di essere la più grande cassa di risparmio del mondo, ha via, via aggregato decine e decine di casse di risparmio di ogni dimensione, acquisendo poi la sora Camilla Banca Commerciale Italiana, nonché tutto quanto era ragionevolmente acquisibile nel prosieguo, sino all’ultima importante acquisizione in ordine di tempo, quella della Cassa di Risparmio di Firenze, che, al di là delle certamente ottime intenzioni degli acquirenti, rischia di rinviare a data da destinarsi la completa chiusura dei cantieri perennemente aperti in Intesa prima ed in Intesa-San Paolo poi, portandosi, inoltre, in dote il contenzioso aperto con BNP Paribas per il controllo della gallina dalle uova d’oro Findomestic, sino a poco tempo fa leader davvero incontrastata nel molto redditizio settore del creditizio al consumo.

Nella terza parte, che apparirà domani, tratterò le non meno complesse questioni connesse all’altro grande gruppo creditizio formatosi in tempi relativamente recenti, Unicredit Group, mentre per quanto riguarda il costituendo terzo polo bancario ed assicurativo e le problematiche connesse ai difficili ed ardui passaggi legati alla sua realizzazione, credo proprio che dovrò chiedere un ulteriore sforzo di sopportazione ai miei lettori, dedicando una quarta e spero ultima parte che dovrebbe apparire mercoledì 23.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.