sabato 7 febbraio 2009

Il casinò della finanza ignora il crollo degli occupati e scommette sui salvataggi bancari prossimi venturi!


Per quanto largamente atteso come fortemente sfavorevole, il dato sul Non Farm Payrolls relativo al mese di gennaio, nonché le revisioni in peggio dei già pessimi dati relativi ai due mesi precedenti, ha rappresentato un elemento di turbativa per gli analisti, per gli operatori e per i risparmiatori/investitori, che hanno visto il saldo netto tra assunzioni e licenziamenti portarsi a un soffio dalla soglia delle 600 mila unità (598 mila per la precisione) e il tasso di disoccupazione portarsi al 7,6 per cento dal 7,5 per cento rivisto da 7,2 del mese di dicembre.

Come avevo scritto qualche tempo fa. Si è avuta ieri la triste conferma del fatto che non vi è praticamente più alcun settore produttivo che sia in grado di far registrare un benché minimo saldo positivo, inclusi quei settori legati al comparto sanitario o direttamente o indirettamente connessi al settore pubblico allargato che pure hanno rappresentato per oltre un anno l’unico canale significativo di assorbimento di nuova manodopera, un fenomeno oramai del tutto esaurito e che sta anzi contribuendo a quell’emorragia di poco meno di due milioni di posti bruciati negli ultimi tre mesi, sul totale dei 3,6 milioni di buste paga in meno totalizzate negli ultimi dodici mesi trascorsi da quando l’economia statunitense è entrata in recessione secondo gli esperti che cercano di guardare anche a indicatori diversi da quel prodotto interno lordo che fotografa solo in parte l’andamento reale dell’economia a stelle e strisce.

Il fatto che, almeno nelle prime ore di contrattazione, i tre principali indici statunitensi abbiano del tutto snobbato un dato di dimensioni così catastrofiche non rappresenta che la dimostrazione palmare di quello che è oramai diventato il mercato finanziario non solo negli Stati Uniti d’America, ma anche a livello globale, una sorta, cioè, di immenso casinò a cielo aperto nel quale predominano insieme avidità, inconsapevolezza e paura, una miscela esplosiva che ha prodotto la tempesta perfetta e dalla quale non si uscirà se non tramite un percorso che riporti la reputazione e la fiducia al centro di quel processo che vede i risparmiatori/investitori fare i conti con la loro propensione per la liquidità a fronte di alternative trasparenti, eque e sufficientemente garantite da regole e regolatori degni di questo nome!

So bene che, pochi minuti dopo avere digerito la portata dello squagliamento in corso sul mercato del lavoro, un dato peraltro largamente anticipato dall’ulteriore balzo in avanti di un indicatore come il weekly jobless claims che ha in pochi mesi infrante l’una dopo l’altra la soglia delle 300 mila unità, poi quella delle 400 mila, quella delle 500 mila e, giovedì scorso, ha superato d’un balzo e con relativa sicurezza l’asticella posta a 600 mila unità, già gli operatori e gli investitori stavano speculando su quanto questi dati drammatici, insieme al perdurante meltdown immobiliare, avrebbero influito sui tempi dell’oramia certa approvazione del gigantesco pacchetto di stimoli all’economia fortemente voluto dal nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

Ma il peggioramento dello scenario congiunturale fa anche ben sperare questi stessi soggetti sulla possibile maggiore arrendevolezza della nuova amministrazione sull’utilizzo della seconda metà dei 700 miliardi di dollari del TARP in un modo molto più simile a quanto è avvenuto sotto la gestione solo apparentemente dilettantesca che è andata in scena tra novembre e dicembre a opera dell’ex (?) investment banker Hank Paulson, del quale si sono perse le tracce da quando il suo giovane successore, Timothy Geithner, si è insediato sulla poltrona di ministro del Tesoro, convinti come sono che le minacce di un uso più intelligente e oculato delle risorse verranno travolte dalle preoccupazioni per il possibile fallimento di una o più delle grandi banche sopravvissute alla prima e devastante fase delle tempesta perfetta che sta per compiere i suoi primi diciannove mesi di vita.

La stampa ha molto sottolineato la divergenza tra le scelte della Bank of England e della Banca Centrale Europea, che nei loro meeting svoltisi giovedì scorso, hanno deciso l’una di portare il tasso ufficiale all’un per cento, mentre l’altra si è ostinata a considerare per il momento, ma solo per il momento appunto, invalicabile verso il basso quella soglia rappresentata dal 2 per cento che a Jean Claude Trichet e ai suoi neotemplari colleghi del Board dell’istituto di Francoforte rappresenta già un livello bassissimo e che si pone troppo poco al di sopra del pur precipitosamente discendente tasso di inflazione, una vicinanza che agli eredi naturali della Bundesbank appare talmente ravvicinata da richiedere una pausa di riflessione che è prevista non concludersi prima di marzo.

Ma i banchieri europei non sono tanto rimasti sorpresi dal rinvio del taglio del tasso di riferimento, quanto devono esserlo proprio stati per l’inatteso pronunciamento della Commissione dell’Unione europea che ha salutato con favore la decisione del nuovo inquilino della Casa Bianca di porre una limitazione a mezzo milione di dollari ai compensi annui previsti per i top manager delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce, una soddisfazione accompagnata dalla rivendicazione di avere invitato già l’anno scorso i banchieri e gli assicuratori europei a darsi una regolata sul piano della compensation, un invito che è stato accolto solo in parte dai diretti interessati e che ora potrebbe essere stabilito tassativamente per le banche che dovessero essere destinatarie dei finanziamenti pubblici previsti dai piani nazionali di salvataggio.

Mentre si avvicina un nuovo weekend che potrebbe essere foriero di novità nell’intenso processo di concentrazione e ristrutturazione da tempo in corso nei principali paesi membri dell’unione europea, è interessante notare come non poche tra le principali banche abbiano partecipato solo in minima parte alla euforia che ha caratterizzato i relativi indici azionari nazionali, una performance divergente che ha caratterizzato, a solo titolo d’esempio, la francese Socgen e l’italianissimo Monte dei Paschi di Siena, questo ultimo, peraltro da giorni vicino ai minimi storici!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .