mercoledì 9 aprile 2008

E ora tocca agli investitori istituzionali

L’aggiornamento del Global Financial Stability Report del Fondo Monetario Internazionale, rilasciato ieri a pochi giorni di distanza dall’appuntamento che vedrà a Washington la riunione del G7 ai margini delle assemblee della Banca Mondiale e dello stesso FMI, fornisce stime preoccupanti sulle perdite complessive derivanti dalla tempesta perfetta in corso, elevando dagli iniziali 100 miliardi di dollari all’astronomica cifra di 945 miliardi di dollari le perdite previste, ma fornendo uno spaccato del dato destinato a suscitare un vivace dibattito, in quanto fa entrare prepotentemente in scena i cosiddetti investitori istituzionali, fondi pensione e fondi di investimento, cui vengono attribuite perdite multiple di varie volte quelle attribuite alle banche di ogni ordine e specie.

Mentre le perdite delle banche dovrebbero segnare un tutto sommato lieve peggioramento rispetto ai 200 miliardi di dollari di perdite già annunciate, in quanto l’FMI prevede che ne verranno contabilizzate più o meno per ulteriori 80 miliardi di dollari, il complemento a cento dei 945 miliardi viene attribuito ad altre istituzioni finanziarie, quali fondi pensione e fondi di investimento, per un ammontare previsto, almeno al momento, pari a 665 miliardi di dollari.

Se c’era una cosa che aveva colpito i pochi analisti ed economisti non embedded era proprio il silenzio veramente assordante che in questi lunghi e difficilissimi mesi proveniva, si fa per dire, dagli investitori istituzionali, anche perché era a tutti noto, o lo è divenuto dopo il 9 agosto dell’ano scorso, che il letale giochetto delle tre carte delle maggiori agenzie di rating statunitensi, quello di assistere a pagamento gli emittenti per garantire la tripla A o la valutazione massima equivalente alla carta sempre più improbabile da loro proposta, consentendo quindi di trasformare il piombo in oro, ebbene, quel giochetto era motivato proprio dal fatto che, in base ai loro statuti, alle norme regolamentari o alle direttive interne, era di fatto inibita a questi soggetti l’acquisizione di titoli della finanza più o meno strutturata che non godessero, appunto, del massimo rating.

Mentre tutta l’attenzione era concentrata sulle Investment Banks e sulle CIB delle banche globali, non mi risulta che nessuno si sia preoccupato del fatto che una parte della montagna di titoli della finanza strutturata potesse avere preso la strada degli ampi bilanci dei fondi pensione o dei fondi di investimento, ma, in ogni caso, credo proprio che il solitario indovino avesse anche lontanamente ipotizzato che le perdite potenziali, una proxy in realtà dell’outstanding complessivo (basta moltiplicare per quattro o per cinque i 665 miliardi citati nel rapporto del FMI).

Il problema dei problemi è rappresentato dal fatto che, seppur tardivamente, le tre maggiori agenzie di rating stanno degradando, stavolta senza guardare in faccia a nessuno, decine di migliaia di emissioni, così come minacciano, e qualche volta lo fanno, di degradare le disastrate compagnie monoline che queste emissioni le hanno garantite, il che costringe, o almeno costringerebbe, gli investitori istituzionali a disfarsi precipitosamente di questi titoli che ormai nessuno vuole se non a prezzi di assoluti saldo, non avendo, questi soggetti, neppure la possibilità di applicare le stracolme discariche aperte dalla Fed e dalle altre banche centrali in favore delle banche e di altri intermediari finanziari.

Non posso esimermi dal ricordare il vivace dibattito, e vi assicuro che si tratta di un eufemismo, svoltosi tra due miei correlatori al convegno sulla crisi finanziaria e le sue ricadute sociali che ricordo in calce ad ogni puntata, i chiarissimi professori Elsa Fornero dell’Ateneo di Torino e Paolo Leon cattedratico in Roma, che se le sono dette di tutti i colori a proposito del passaggio, preteso con decisione dalla Fornero, dal sistema delle certezze a quello dell’investimento, ovviamente mediato dai fondi pensione, passaggio fermamente contestato, anche alla luce dei poco graditi rischi connessi dal professor Leon, scontro che ha visto anche l’intromissione dell’economista Luigi Spaventa, del quale, purtroppo, non ho capito la posizione a causa del volume della voce dei due principali contendenti.

Nella contesa, la Fornero trovava anche l’occasione per vilipendere il rendimento offerto per legge dal trattamento di fine rapporto, che ricordava prevedere 175 punti base oltre i tre quarti dell’inflazione, un rendimento che ho chiesto di giudicare agli addetti ai lavori di una CIB, i quali lo hanno trovato, senza esitazione alcuna e senza sentire il bisogno di fare calcoli complessi, un ottimo rendimento per un titolo di lungo o lunghissimo periodo, anche alla luce del fatto che, grazie alle successive riforme previdenziali, è ben difficile che qualcuna o qualcuno se la possa, in prospettiva, cavare con meno di quaranta anni di più o meno duro lavoro.

Non intendo certo aprire in questa sede una riflessione sul riformismo embedded, anche perché credo che i miei pochi lettori abituali sanno benissimo come la penso sulle riforme pensate in qualche studiolo e poi calate dall’alto (sempre con la scritta lampeggiante: nell’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori), ma credo proprio che quanto sta accadendo in questi mesi, per non parlare dei tristi e ferali esempi di un passato peraltro molto prossimo, dovrebbe indurre anche gli economisti di professione e gli sherpa governativi di ogni colore a pensare che forse farebbero meglio a dedicarsi, se ne hanno, ai fatti propri, invece di occuparsi, non richiesti, dei nostri.

Il preoccupante rapporto del Fondo Monetario Internazionale e le altrettanto inquietanti minute dell’ultimo FOMC della Fed, quelle relative alla riunione ufficiale che ha deciso il taglio di 75 punti base e non alla teleconferenza di otto giorni prima che ne aveva tagliati altri 50, hanno sì determinato una seduta negativa dei tre principali indici di Wall Street, ma di un’entità che conferma che il mercato finanziario ed i suoi attori sono in uno stato di coma letargico, anche se gli operatori hanno ancora l’energia sufficiente per mandare sulle montagne russe i titoli della banca, della compagnia di assicurazione o della corporation che si trovino, volta per volta, nel mirino per fatti realmente accaduti, ma più spesso per voci o per rumors.

Mi astengo dal mettere in linea le entità già toccate in profondità dalla tempesta perfetta, ma penso che dopo le Investment Banks, le banche globali, le compagnie monoline, le aziende a corto di credito, le locuste arrostite dei private equity, i carry traders, ci mancavano solo i fondi pensione ed i fondi investimento per portare la nave nella quale siamo tutti imbarcati al di sotto della linea di galleggiamento, proprio mentre siamo esposti agli alti marosi della tempesta perfetta e viene da dire ai compagni di sventura: non fate l’onda!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL del 19 c.m. è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/