martedì 8 aprile 2008

Pompieri al lavoro nei fortini assediati delle Investment Banks e delle CIB delle banche globali

La favorevole accoglienza ricevuta dall’aumento di capitale “blindato” per 4 miliardi di dollari deliberato da Lehman Brothers, molto più della tardiva indagine aperta dalla Securities and Exchange Commission, ha avuto il prevedibile effetto di bruciare le dita dei venditori allo scoperto delle azioni della investment bank che rimane la principale candidata a fare la fine dell’orso di Stearns, non fosse altro per averne l’identico livello di leverage capital ratio (abbondantemente al di sopra del rapporto di 30 a 1).

La rete di protezione stesa dalle consorelle, peraltro non proprio ansiose di restare in tre a pochi giorni dalla perdita della amata-odiata quinta delle Big Five, e le continue corse della brava ma iperstressata Chief Financial Officer, Erin Callan, alla vicina discarica della Fed di New York che applica ormai per miliardi di dollari al giorno, sembrano aver convinto gli agguerriti speculatori che non è ancora giunto il momento propizio per muovere l’attacco finale ai fratelli Lehman, ma che sia più salutare per loro attendere e, nel caso, attaccare più di una investment bank per rendere impossibile agli uomini di Bernspan di poterle soccorrere tutte.

Il bello è che il mondo è pieno di miliardari che, a volte stando comodamente sdraiati in un esclusivo resort in Polinesia, muovono micidiali bordate contro gli esausti abitanti di quelle cittadelle assediate che sono ormai le blasonate case di investimento newyorkesi, avendo la sfrontatezza, almeno uno di loro, di aver dichiarato le proprie non proprio benevole intenzioni sin dall’ormai lontano mese di ottobre dell’anno scorso e considerate che spesso le loro sono previsioni che assumo le caratteristiche delle profezie autorealizzantesi, anche a causa della vera e propria folla di accodatori che si mettono in scia alle loro mosse rese note dall’infedele dealer o trader di turno.

Ovviamente non vi sarebbe nulla di illecito in tutto questo, se non fosse per il piccolo particolare, sul quale appunto indagano gli sceriffi della SEC e qualche procuratore della più attiva procura statunitense quando si tratta di reati finanziari, quella di New York, che spesso i ribassisti si aiutano mettendo in giro, direttamente o indirettamente, voci più o meno infondate sullo stato di salute della preda di turno, forti anche del fatto che è sempre difficile scoprire l’origine di queste voci e, soprattutto, il ricarico che le stesse hanno avuto passando di bocca in bocca.

D’altra parte, non c’è bisogno di scomodare l’inesorabile legge di causa ed effetto per dire che di rumor ferisce spesso di rumor perisce, perché è incontrovertibile che le donne e gli uomini che stanno facendo la catena per portare i secchi d’acqua per spegnere i fuochi divampanti all’interno dei lussuosi uffici delle Big Five, sono stati per lungo tempo impegnati nello stesso gioco, soprattutto quando il valore di un azione non ne voleva proprio sapere di andare nella direzione della scommessa al ribasso o al rialzo effettuata dagli analisti ad un tanto al chilo al servizio delle stesse banche.

Nel frattempo, anche Washington Mutual, la maggiore tra le savings and loan statunitensi, è stata costretta a far appello ai non proprio disinteressati investitori istituzionali, alzando qualcosa come 5 miliardi di dollari in cambio dell’emissione di un mare di azioni ordinarie e privilegiate, pari ad un quarto dell’attuale stock delle medesime, sottoscritte dal fondo TPG (ma non doveva salvare Alitalia nella cordata promessa da Berlusconi?) e da altri non meglio precisati investitori indigeni e stranieri, evento, ovviamente, salutato ieri da un rialzo dell’azione che ha sfiorato il 30 per cento, ignorando bellamente il connesso ed inevitabile effetto diluizione.

Mentre nelle Investment Banks si fanno turni di 24 ore su 24 per sventare gli attacchi ed organizzare le difese, facilitati dall’essere stati per tanto tempo dall’altra parte della barricata, non si dorme neanche nelle banche globali statunitensi, né tanto meno in quelle basate in Europa, inclusa, ovviamente, l’extracomunitaria UBS, in quanto è in corso, più o meno in tutte queste entità, una resa dei conti che, semplificando come sempre al massimo, vede gli uomini del retail e del commerciale opposti ai fino ad ieri vincenti abitanti del mondo separato del Corporate & Investment Banking, che temono sempre di più che prenda piede l’idea di Luqman di tagliare la corda che li lega al vascello principale e di essere lasciati andare alla deriva nel non proprio tranquillo mare in tempesta perfetta.

Anche in questo caso, è necessario andare dove tutto ha avuto inizio, almeno negli States, e tornare, quindi, proprio alla banca sino a poco tempo fa guidata dall’ineffabile Chuck Prince III, l’avvocato che ha proseguito le nefaste gesta del suo predecessore David Weill che lo ha licenziato in combutta con quel ricchissimo principe reale di casa saudita nell’iperteconoliga tenda nel deserto di quest’ultimo, quella Citigroup che, a furia di stratificazioni di salvataggi, non sa assolutamente più quale sia il suo azionista di riferimento e che, proprio ieri, ha tagliato brutalmente un’altra delle sue teste al vertice, quella del sessantanovenne C. Michael Armstrong, presidente del comitato di audit e rischi della banca, ed ha assunto Mark Rufeh in qualità di Chief Administrative Officer, un uomo che ha la fama di essere il più determinato tagliatore di costi tra quanti operano all’ombra del wall.

Il comunicato ufficiale emesso al riguardo da Citigroup è veramente patetico, in quanto si smentisce che si sia trattato di un siluramento dell’anziano top manager, cui vengono rivolti gli apprezzamenti di rito, molto simili ai coccodrilli di giornalistica memoria, ma di normale rotazione di incarichi (sic), ma non manca di aggiungere elementi di panico per i sopravvissuti alle epurazioni già effettuate in questi mesi, annunciando che già in estate ne vedremo altre di queste normali rotazioni, con l’implicito avviso ai capoccioni: nessun dorma.

Avendo scritto in tempi non sospetti (dicembre 2007) una puntata intitolata “Quel che è meglio per Alitalia, quel che è meglio per l’Italia”, apparsa come speciale sul sito della UILCA e come editoriale sul quotidiano on line Rosso di Sera, dove mi esprimevo apertamente in favore dell’unica offerta avente caratteristiche industriali valide e che garantiva l’ingresso della compagnia di bandiera nel più grande ed efficiente network europeo, non posso non esprimere il mio sincero sconcerto per quello che è avvenuto negli ultimi giorni sulle spoglie di Alitalia, in totale disprezzo delle sorti dei 17 mila e rotti dipendenti della stessa e, ovviamente, delle loro famiglie, il tutto accettando che la salvezza della compagnia diventasse oggetto della contesa elettorale, un’operazione non degna a cui, purtroppo, non si è dichiarata apertamente estranea la folta delegazione sindacale che avrebbe fatto meglio a respingere con decisione le indebite interferenze, ma, come diceva sempre il Maestro Manzi, non è mai troppo tardi!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL del 19 c.m. è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito Free Lance International Press www.flipnews.org