domenica 23 dicembre 2007

Dopo il flop di Alitalia, forse è meglio che i banchieri tornino a fare il loro mestiere

Il terremoto in corso nel mercato finanziario globale sta toccando in modo significativo il nodo della governance delle principali entità operanti nel comparto creditizio ed in quello assicurativo, sia negli Stati uniti che in Europa, mentre un ruolo molto diverso lo stanno giocando la Cina e altri protagonisti asiatici di quel, seppur parziale, riequilibrio che sta avvenendo tra le diverse aree economiche del pianeta.
Sebbene sia ancor presto per tracciare un bilancio, sono già dodici le banche statunitensi ed europee, nonché il più grande private equity del mondo ed il primo ad essersi quotato in borsa, ad avere ricevuto il soccorso, non proprio disinteressato e spesso a titolo molto oneroso, dei vari fondi di investimento governativi di cui dispongono la Repubblica popolare cinese, Singapore, Dubai, Abu Dhabi e, questa è la vera novità, anche un fondo anonimo, pare riconducibile all'Arabia Saudita.
Trattandosi di banche del calibro di Citigroup, UBS, Merrill Lynch, Hong Kong Shanghai Banking Corp. (che, al di là della storia e del nome, è un banca britannica), Deutsche Bank, Standard Chartered, Morhan Stanley, Merrill Lynch, Barclays, Bear Stearns, Merfin Popular Bank e del fondo Blakstone, con interventi stranieri che vanno da uno a dieci miliardi di dollari, è evidente che si tratta di un fenomeno che non potrà non avere riflessi sui processi decisionali e sulle stesse scelte di questi protagonisti della scena finanziaria mondiale.
Per quanto alquanto tramortiti da una crisi finanziaria che dura ormai da poco meno di cinque mesi, non vi è dubbio che gli Stati Uniti non sono indifferenti a queste non tracurabili modifiche negli assetti proprietari di una così larga parte del loro sistema finanziario, anche perche si tratta pur sempre di una nazione che ha posto degli invalicabili paletti all'intervento dei capitali stranieri nei settori considerati strategici, ma un contrasto quasi feroce è in corso tra gli azionisti del colosso svizzero UBS, non tanto per la partecipazione acquisita dal fondo governativo di Singapore, quanto per la quota facente capo al già citato fondo anonimo che dovrebbe fare capo all'Arabia Saudita, un evento, quello di un fondo anonimo, senza precedenti e che ha indotto alcuni azionisti di UBS a promuovere un'azione legale contro il potentissimo istituto di credito elvetico.
La stagione delle trimestrali e dei dati relativi all'intero 2007 è appena agli inizi negli Stati Uniti e per quelle banche globali che adottano la tempistica abbastanza accelerata imposta dalle norme e dai regolamenti vigenti negli USA, mentre per le banche europee sarà necessario aspettare parecchio per avere le informazioni ufficiali sullo stato di salute delle banche e degli altri soggetti finanziari operanti nel continente, ma se il buon giorno si vede dal mattino, è possibile sin d'ora dire che, molto più di quanto è avvenuto con i conti del terzo trimestre, la verità sta, seppur faticosamente, venendo a galla.
Si tratta, per lo più, di una realtà anche peggiore di quanto fosse lecito immaginare e non è un caso che la maggior parte dei sinora rari annunci sia stata accompagnata dall'arrivo dei capitali stranieri in soccorso delle banche dichiaranti, prefigurando, in analogia con quanto accadde con le due crisi petrolifere del secolo scorso, la necessità, per i grandi detentori di surplus commerciali strutturali verso gli Stati Uniti, di impedire un crollo verticale della finanza statunitense e della stessa valuta di quel paese che avrebbe effetti micidiali sugli stock di ricchezza finanziaria in larga parte espressi in dollari e parcheggiati in titoli rappresentativi dell'immenso debito pubblico della, almeno per ora, più importante nazione del mondo, una scelta alquanto forzata, non si sa quanto temporanea e che, comunque, non dovrebbe impedire la prosecuzione di quel processo di diversificazione delle riserve valutarie e dei relativi investimenti, un processo che pare ormai inarrestabile.
Ma se gli Stati Uniti non sono messi bene, ancor più grave sembra la situazione attuale, ma ancor più quella in prospettiva della Gran Bretagna, un paese che ha fatto della deindustrializzazione e del passaggio in mani staniere delle poche attività produttive rimaste quasi una bandiera, puntando, anche attraverso l'ostinata non adesione all'euro, su di una finanziarizzazione spinta e sulla un po' velleitaria ambizione di poter rappresentare nella finanza un polo di dimensioni più grandi di quello rappresentato dall'area euro nel suo complesso.
Ora che i nodi giungono finalmente al pettine, non vi è dubbio che tutti quelli che sono stati i punti di forza di questo isolazionismo strategico dalle sorti del vecchio continente sembrano fatalmente destinati a divenire altrettanti punti di debolezza, dalla forza della sterlina a quello che sembrava un boom perenne del settore immobiliare, da livelli più che statunitensi di credito al consumo che non poca parte hanno giocato nel portare la bilancia commerciale del paese ormai a livelli prossimi al collasso.
Guardando la per tanto tempo invidiata posizione dell'economia britannica, si può certamente dire che le scelte degli altri grandi paesi membri dell'Unione europea, scelte per tanto tempo criticate dai guru dei due paesi anglosassoni, sembrano molto più paganti per le prospettive future e sono sicuro che il giovane Cameron, con tutta probabilità prossimo primo ministro della Gran Bretagna, si guarderà bene dal ripercorrere la strada suicida seguita da Tony Blair e, per quel che resta del giorno, da Gordon Brown.
Ma, per non enfatizzare troppo le disgrazie altrui, credo proprio che sia necessario spendere qualche parola sul fallito tentativo di Intesa San Paolo e, segnatamente, del suo amministratore delegato, Corrado Passera, di accasare Alitalia con la mini compagnia aerea di un altrimenti oscuro costruttore marchigiano, tale Toto, affermando che tale scelta era da preferirisi al concreto progetto industriale presentato da quella Air France che già controlla KLM, una scelta perseguita con ostinazione degna di miglior causa, anche perché era come dire che era meglio che Bertone acquistasse la Fiat, scartando un'offerta avanzata da Volkswagen o da Renault.

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