domenica 26 luglio 2009

Piccole banche USA falliscono!


Una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta nei suoi primi due anni di attività è rappresentata dal relativamente basso numero di banche statunitensi costrette a chiudere i battenti, un fenomeno in netta controtendenza rispetto a quanto si era verificato poco meno di venti anni orsono nel settore delle Saving & Loans, gli istituti di credito più o meno assimilabili a quelle che erano le nostre casse di risparmio, o in altre crisi finanziarie verificatesi nel secondo dopoguerra, crisi che, pur avendo un’intensità di gran lunga inferiore a quella attuale, provocavano una vera e propria morìa di banche di ogni ordine e grado.

Tra l’ecatombe di banche provocate dalle precedenti crisi e quelle acquisite nel corso del rilevante processo di concentrazione che ha riguardato il sistema creditizio statunitense, il numero delle banche a stelle e strisce si è pressoché dimezzato da oltre 14 mila a poco più di 7 mila, anche se va detto che processi analoghi hanno riguardato le banche britanniche e quelle degli altri grandi paesi membri dell’Unione europea, per non parlare di quello che è avvenuto in Giappone, un paese costretto da venti anni a convivere con una sostanziale recessione anche a causa del fatto che la perdurante crisi bancaria è stata affrontata in gran parte mediante processi di fusione e acquisizione che hanno portato alla creazione di banche di dimensioni gigantesche ma spesso ancora più deboli delle entità che avevano partecipato alla aggregazione.

L’attivismo senza precedenti del sistema della riserva federale e del Tesoro statunitense, per non parlare dell’azione estremamente incisiva della donna posta a capo della Federal Deposit Insurance Corporation, Sheila Bair, nonché l’inondazione di liquidità a tassi prossimi allo zero, sono tutti elementi che hanno contribuito a evitare l’effetto domino che avrebbe determinato la chiusura di centinaia se non di migliaia di banche, ma è altresì evidente che questa sorta di miracolo difficilmente è destinato a durare nel tempo, non fosse altro che l’oramai evidente rarefazione dei fondi a disposizione ha costretto Timothy Geithner non solo a non procedere al salvataggio con fondi pubblici di CIT, ma anche a chiarire che, d’ora in avanti, le soluzioni al possibile dissesto di un’entità finanziaria le dovranno trovare i diretti interessati, azionisti e creditori in primis, e non lo Stato!

Ma qualcosa sta cambiando anche nella contabilità dei default bancari statunitensi, in quanto con le sette chiusure annunciate venerdì scorso sale a 64 il numero delle banche americane rilevate, grazie al sostegno della FDIC, dall’inizio del 2009, un numero più che doppio rispetto a quello registrato nell’orribile 2008, anche se i 25 dissesti dell’anno scorso sono appesantiti dalla ingombrante presenza di Lehman Brothers, l’ex investment bank costretta da Bernspan e Paulson, nonché dai propri stessi errori, a fare ricorso alla protezione della legge fallimentare statunitense, una procedura dalla quale uscirà un giorno neanche troppo lontano e mantenendo lo storico nome, anche se non sarà che una pallidissima ombra della sola tra le Big Five che aveva osato sfidare la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

Il ritorno al mercato promesso da Geithner e le alquanto fosche recenti profezie formulate da un Bernanke in uno dei rari momenti in cui non interpreta il ruolo di Bernspan indurrebbero a ritenere che potrebbe essere spedita in soffitta anche il too big to fails che, con la citata eccezione di Lehman, ha sinora guidato la mano della vecchia e della nuova amministrazione, anche se su questo mi permetto di suggerire una robusta dose di sano scetticismo ai lettori del Diario della crisi finanziaria!