giovedì 15 gennaio 2009

Ma qual'è il male oscuro di Citigroup? (2)


E’ da diverse puntate che lancio l’allarme sulla progressiva rottura di importantissime soglie psicologiche da parte della quotazione dell’azione del colosso creditizio Unigroup, una banca che forse più di altre rappresenta in modo quasi emblematico gli errori commessi negli oltre venticinque anni di globalizzazione, finanziarizzazione e deregolamentazione selvaggia, anche perché, in assenza della demolizione dei paletti più che opportunamente posti nel corso della Grande Depressione degli anni Trenta, Citicorp non sarebbe mai diventata quel mostruoso supermarket del credito pazientemente edificato da Sandy Weill prima e dall’avvocato Chuck Prince III, un entità con duecento milioni di clienti sparsi su un numero di paesi appena inferiore a quelli rappresentati alle nazioni Unite, ma, soprattutto, uno dei maggiori ricettacoli di titoli più o meno tossici della finanza strutturata magna pars di quei 2.500 miliardi di total assets che da mesi l’alquanto disperato Vikram Pandit sta cercando di ridurre con massicce operazioni di deleverage e vendita dell’argenteria di famiglia ad un ritmo che ricorda molto la Lehman Brothers delle settimane precedenti al fallimento.

Risulta forse solo oggi più chiaro il motivo per il quale Pandit si è a suo tempo battuto come un leone per accaparrarsi le spoglie di Wachovia, la quarta banca al dettaglio degli Stati Uniti, e vi era quasi riuscito, complici il Tesoro e Bernspan, se gli azionisti della sventurata banca non avessero fatto carte false perché prevalesse la ben più generosa offerta avanzata da Wells Fargo, un’entità che, forse anche per la sua storia, sta imbarcando molta meno acqua sotto gli alti marosi della tempesta perfetta in corso oramai da diciotto mesi, anche se si tratta di giudizi che risentono della scarsità delle azioni disponibili, come ben dimostra il progressivo appannamento del mito che vedeva una J.P. Morgan-Chase quasi più forte di quanto fosse prima dell’avvio della crisi finanziaria.

Come è peraltro universalmente noto, una delle modalità più gettonate seguite dai Chief Financial Officer di banche o aziende in difficoltà è rappresentata dalla messa in atto di un take over più o meno ostile, una mossa che rende per un lungo periodo di tempo quasi del tutto indecifrabili i conti dell’entità risultante, una regola che forse non viene insegnata nei corsi post graduate di Yale o di Harvard ma che è ben conosciuta dai banchieri o presunti tali basati sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, personaggi che sembrano quasi divertire nel portare alla follia i poveri analisti che non si raccapezzano più tra confronti su base omogenea, perimetri che vengono continuamente spostati e tutto quanto suggeriscono i consulenti pagati a un tanto al chilo che non mancano mai quando si dà luogo a un merger!

Purtroppo per lo sventurato Pandit e per il baronetto di Sua Maestà britannica che per arcani motivi venne scelto dal dipartito Robert Rubin come presidente molto pro tempore, fallita miserevolmente, anche grazie alla energica presidentessa della Federal Deposit Insurance Corporation, l’acquisizione a titolo pressoché gratuito di Wachovia non restava che lavorare di forbici e vendere quello che risultava più appetibile, ma che poi spesso coincide anche con le realtà aziendali più profittevoli, come è stato appunto il caso della divisione denominata Smith Barney dal nome della investment bank acquisita ai tempi d’oro dall’ineffabile e inossidabile Weill, sì proprio quello che accettò di licenziare su due piedi il suo pupillo ed erede Chuck Prince supinamente soggiacendo al diktat del principe saudita che di Citi era allora il primo azionista, un infuriato Bin Al Wahleed che avrebbe decretato che mai più un avvocato avrebbe occupato il posto di numero uno del colosso newyorkese.

Anche se con un po’ di ritardo, gli operatori e gli investitori/risparmiatori sembrano avere sentito puzza di bruciato e si sono dilettati nel vendere a piene mani le azioni di Citi, che sono giunte a bruciare anche un quinto del loro valore in una seduta, complice anche il disastroso dato sulle vendite nel mese di dicembre che hanno segnato un calo del 2,7 per cento rispetto a quelle del mese di dicembre, un tonfo più che doppio delle previsioni degli analisti e che rappresenta il sesto calo mensile consecutivo di un indicatore cruciale per comprendere l’andamento dell’economia a stelle e strisce, mentre, con riferimento all’intero 2008, il calo dello 0,1 per cento va confrontato con il +4,1 per cento annuo registrato nel 2007.

Non che in Europa le cose siano andate meglio, complici il pessimo bilancio relativo al quarto trimestre della Deutsche Bank che, ad onta delle nuove norme contabili, ha evidenziato una perdita di 4,8 miliardi di euro, mentre la perdita relativa all’intero esercizio è pari a 3,9 miliardi, sempre di euro, ben poca cosa rispetto alle stime degli analisti che vedono necessario, se non indispensabile, un aumento di capitale per 20-30 miliardi di euro per il colosso britannico Hong Kong Shanghai Banking Corporation che è non a caso sprofondato nell’area delle cinque sterline, mentre ulteriori iniezioni di capitali pubblici e/o privati potrebbero essere necessari anche per le maggiori banche degli altri principali paesi membri dell’Unione Europea.

D’altra parte, erano settimane che non si assisteva a crolli delle quotazioni delle banche e delle compagnie di assicurazione come quelli che si sono registrati nella giornata di mercoledì sui principali mercati azionari europei, cali talmente pronunciati che hanno finito per trascinare con sé anche il Footsie di Londra, il CAC 40 parigino, il Dax 30 di Francoforte, l’indice dei principali titoli quotati sulla piazza milanese e chi più ne ha ne metta.

Quanto sta avvenendo in questo primo scorcio del 2009 rischia di rendere concreto il rischio di essere costretti a rimpiangere anche l’orribile 2008, anno bisesto e anche tanto funesto!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.