giovedì 18 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta (versione per stampa)


Come i più attenti e assidui tra i miei lettori avranno notato, ho deciso di rendere più agili le puntate del Diario della crisi finanziaria, riducendo di circa un terzo lo spazio che mi ero prefissato quando, oltre seicento puntate fa, ho dato il via a questa avventura editoriale che è per me, allo stesso tempo, croce e delizia, una vera sfida rispetto alle mie tendenze più o meno karmiche, per non parlare di quella insensata decisione di mantenere a tutti i costi una cadenza quotidiana che volutamente non tiene conto né dei week end, né delle feste più o meno comandate.

Poiché sono in partenza per la prima breve vacanza dall’estate del 2007, dovrò fare ricorso alla programmazione anticipata delle puntate, ma, volendo fare di necessità virtù, vorrei approfittarne per fare il punto della situazione nei sistemi finanziari maggiormente colpiti dal meltdown dei valori rappresentativi della ricchezza, un’opportunità che difficilmente si ripeterà quando la cronaca della prossima ondata della tempesta perfetta, da me prevista nell’arco delle prossime due-quattro settimane, riprenderà necessariamente il sopravvento sulle ricostruzioni più o meno storiche.

Anche per ricollegarmi alla puntata di ieri, partirò dal Regno Unito, una nazione che ha subito un impatto quasi devastante sin dalle prime ondate della tempesta perfetta, non solo e non tanto per aver rivissuto, dopo centosessantasei anni, l’assalto agli sportelli di una banca, la successivamente nazionalizzata Northern Rock, ma anche perché, forse anche a causa del molto originale sistema di vigilanza, ha richiesto un intervento estremamente energico da parte del Governo, un intervento che si è tradotto in qualche forzata concentrazione e in una forte presenza dello Stato in ben due delle quattro maggiori banche, la Lloyds Bank e la Royal Bank of Scotland, mentre la Hong Kong Shanghai Banking Corporation e la Barclays tentano ancora, non sempre brillantemente, di cavarsela da sole (per la seconda, è utile vedere la puntata di ieri).

Chiunque abbia un po’ di memoria del drastico processo di ristrutturazione dell’industria finanziaria britannica negli ultimi decenni del secolo scorso, ricorderà che, al pari di quanto avvenne nel settore industriale, anche in quello dell’investment banking si realizzò la vendita di quasi tutte le banche della specie che vennero entusiasticamente acquisite da banche basate in Europa, Svizzera ovviamente compresa, negli USA e persino in Oriente, una decisione presa quasi all’unisono e in larga misura legata alla trasformazione delle principali banche commerciali in vere e proprie banche universali, una tendenza largamente mutuata da quanto stava avvenendo nel frattempo negli States e che venne solo più tardi mutuata anche dalle banche del Vecchio Continente e che è tra le principali cause della tempesta perfetta che si appresta a breve a compiere il suo secondo anno di vita.

Il recente successo dell’aumento di capitale della Lloyds e la contestuale decisione presa dalla stessa banca di iniziare la restituzione di parte dei 18 miliardi di sterline ricevuti dallo Stato, un successo che ha reso ancora più amara l’esperienza precedentemente vissuta dalla Royal Bank of Scotland consente di intuire che la banca colpita dalla cosiddetta “maledizione di Groenick” per la partecipazione, assieme al Santander e a Fortis, alla sventurata contro OPA sull’ABN AMRO fortemente voluta dalla rivale Barclays potrebbe finire in dote alla stessa Lloyd o a qualche altra delle banche britanniche che riusciranno a sopravvivere più o meno indenni alla crisi finanziaria, non esclusa, e sarebbe davvero una nemesi, l’antagonista Barclays, mentre nessuno è in grado di dire quale sarà la sorte di Northern Rock, anche se tutto questo tocca le prospettive del sistema finanziario britannico che non può essere esaminato separatamente dalla crisi politica e della quale parlerò più diffusamente nella puntata di domani.
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L’ipotesi che, alla fine della fiera, resteranno solo tre grandi banche nel paese attualmente governato da Gordon Brown per conto di Sua Maestà Elisabetta II è non solo molto probabile, ma molto in linea con quanto è avvenuto nei principali paesi membri dell’Unione europea, paesi come la Germania, la Francia e alla Spagna, che, pur caratterizzati da una pletora di banche e banchette pubbliche e private, vedono l’attività bancaria concentrata su due o al massimo tre grandissimi gruppi caratterizzati come banche universali a operatività più o meno globale, una situazione non molto dissimile da quella italiana, anche se da noi, accanto ai due gruppi principali, esistono ancora almeno quattro gruppi di rilevanti dimensioni, ma che, molto probabilmente, vivranno ulteriori fasi di concentrazioni in un futuro prossimo venturo.

Così come non vi è dubbio che la posizione anomala del sistema britannico su diversi aspetti della vita economica e sociale abbia subìto serissimi colpi dalla tempesta perfetta, anomalie che riguardano sia il controllo bipartito sul sistema finanziario, sia la pervicace auto esclusione dalla moneta unica europea, una scelta certamente popolare tra i sudditi di Sua Maestà, ma che ha reso necessario un di più di iniziativa da parte del premier per evitare a una nazione con una storia importante e una collocazione geopolitica perlomeno strabica di finire affondato sotto gli strali della speculazione, un’esperienza già vissuta nel 1992, quando la sterlina, in compagnia della lira italiana, furono costrette a svalutare drasticamente e a uscire dal sistema monetario europeo allora vigente.

Pur considerando gli indubbi meriti dello sparigliamento effettuato nel momento certamente peggiore della tempesta perfetta da un Gordon Brown quasi profetico e che si dice fosse stato ispirato da un banchiere pentito, un’azione determinata e atal punto efficace da far modificare in corsa il piano Paulson e spingere i leaders politici dei principali paesi europei a garantire il garantibile, non vi è tuttavia dubbio che il sorprendentemente recupero del leader laburista si sia fermato di fronte alla scelta di spingersi fino in fondo, anteponendo, come a suo tempo fece Helmut Kohl, l’ingresso nell’euro alla sua stessa sorte politica, un’idea che lo ha certamente sfiorato, ma che è stata rapidamente accantonata in favore della sua innata e indiscussa predisposizione al piccolo cabotaggio, una scelta, o per meglio dire una non scelta, che rischia, anche a vedere i risultati disastrosi del suo partito nelle recenti elezioni per il Parlamento europeo, di condannarlo a quella sicura sconfitta alle prossime elezioni politiche, una malasorte per sé e i suoi che avrebbe anche potuto evitare rischiando il tutto per tutto!

E dire che lo stesso cinicissimo mercato dei cambi aveva scommesso su tale possibilità, fino a spingere la sterlina a una propedeutica quasi parità con l’euro, così come ha fatto in fretta a ricredersi, riposizionando la valuta britannica nell’orbita di quel dollaro destinato a un destino non troppo dissimile da quello di questo primo ministro di Sua Maestà che ha avuto tra le mani il biglietto vincente della lotteria e lo ha buttato via il giorno prima dell’estrazione.

Una nazione sempre più industrializzata e con la velleità di essere la principale piazza finanziaria europea quasi certamente tramontata rischia davvero di finire per trasformarsi nella Cenerentola d’Europa, sempre che non venga in mente ai sempre più litigiosi partners dell’Unione che la pervicacia britannica nell’esercitare l’opting out prevede l’esclusione dallo stesso sodalizio europeo, un’ipotesi affatto remota e che aprirebbe prospettive ancora più inquietanti e che renderebbe sempre più largo il canale della Manica.
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Vi sono molte più somiglianze di quanto possa apparire a prima vista tra la situazione del mercato finanziario francese e quella che caratterizza il sistema finanziario tedesco, in entrambi i sistemi, infatti coesistono grandi banche a carattere globale con realtà cooperativistiche nel caso francese e pubbliche, seppure a carattere regionale, in quello tedesco, una distinzione che non è solo dimensionale, ma che prevede una divisione del lavoro che, fatte salve alcune e anche tragiche eccezioni, è stata sostanzialmente rispettata sino a oggi.

Un’altra forte analogia tra i due sistemi finanziari è data dalla presenza delle compagnie di assicurazione nel capitale delle banche, una presenza a volte discreta, a volte determinante come è stato nel caso della tedesca Dresdner, sino a poco tempo fa vero e proprio braccio bancario dell’Allianz e poi da questa ceduta alla Commerzbank, un’acquisizione pagata a caro prezzo dalla banca acquirente, al punto da rendere necessario un forte intervento statale, mentre l’Allianz, oltre a liberarsi di una patata davvero bollente, ha ottenuto un significativo pacchetto azionario della stessa Commerzbank, che, salvo sorprese, è destinata a sopravvivere ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, non fosse altro che per il fatto di non essere caratterizzata da un leverete ratio come quello che ancor oggi caratterizza il colosso Deutsche Bank.

Per quanto divenuta meno rilevante dopo l’ingresso del governo belga e di quello lussemburghese a seguito dell’acquisizione delle attività bancarie di Fortis in quelle due nazioni, la presenza del gruppo assicurativo Axa in BNP Paribas resta senz’altro significativa, così come quella di altre compagnie in altre importanti banche francesi, presenze, al pari di quelle esistenti in Germania, che contribuiscono a spiegare il peso molto più che proporzionale delle entità finanziarie di questi due paesi sulla torta complessiva rappresentata dalle attività finanziarie europee, un peso certamente superiore al cinquanta per cento e che ha consentito ricavi di tutto rispetto almeno sino alla prima metà del 2007, quando, come per incanto, l’oro ha cominciato a trasmutarsi in piombo nelle ali sia delle banche che delle compagnie di assicurazioni tedesche e francesi, così come nelle non episodiche joint ventures, quali la molto travagliata Dexia.

Trattandosi di due realtà nazionali che hanno vissuto processi di concentrazione notevolissimi nell’ambito del settore finanziario, la prima difficoltà emerse sin dall’avvio della tempesta perfetta è stato proprio quello dimensionale, non essendo assolutamente ipotizzabile, ad esempio, una fusione tra le prime due grandi banche tedesche, così come, nel caso della Francia, l’unica operazione di concentrazione realizzabile è stato quello tra il sistema delle casse di risparmio e quelle delle banche cooperative, un’entità alla guida del quale è stato mandato un fedelissimo di Sarkozy, così come un suo ex collaboratore è stato spedito in fretta e furia a occuparsi della molto disastrata Dexia.

Scartata l’ipotesi della ulteriore crescita dimensionale, non resta in fondo a Nicolas Sarkozy e ad Angela Merkel che incrociare le dita e augurarsi che gli interventi dirigisti messi in atto possano aiutare le maggiori entità protagoniste dei rispettivi mercati finanziari a completare l’opera di pulizia degli asset più o meno tossici presenti al di sopra e al di sotto della linea dei loro bilanci, così come non resta che sperare che non scoppino insieme le sempre più vistose contraddizioni presenti in quei new comers dell’Unione europea caratterizzati da rilevanti presenze di entità finanziarie tedesche e francesi, insomma, come avrebbe detto Eduardo De Filippo, è proprio vero che “adda passà a nuttata”!
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Prima di affrontare l’esame dello stato dell’arte nell’industria finanziaria in Italia e Spagna, gli ultimi due grandi mercati finanziari europei che avevo in animo di trattare, è il caso di approfondire la questione rappresentata dalla cosiddetta spada di Damocle pendente sul capo delle principali entità finanziarie europee, che è poi rappresentata dalla tenuta prospettica dei paesi un tempo facenti parte dell’area di influenza sovietica e che sono già divenuti membri dell’Unione europea o sono in lista di attesa per esservi ammessi, paesi che, come ricordavo in coda alla puntata di ieri, sono stati di fatto colonizzati dalle banche tedesche e austriache, ma anche da quelle francesi, italiane e britanniche, che hanno acquisito quote di mercato rilevanti in Polonia, in Ungheria, in Bulgaria, nella repubblica Ceca e in quella Slovacca, nelle repubbliche baltiche, in Ucraina, in Russia e in molte repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nei paesi della ex Jugolavia, in Turchia e in numerosi paesi dell’Africa Settentrionale.

Da quando è risultato evidente che non era possibile raggiungere un’intesa tra i maggiori paesi europei, causa il fermo veto posto dalla Germania, su un sistema automatico di intervento, ma che si sarebbe proceduto solo caso per caso e solo dopo l’eventuale fallimento o palese insufficienza degli interventi previsti a carico del Fondo Monetario Internazionale o di analoghi organismi finanziari sovranazionali presenti nell’area europea, un fitto velo di silenzio è sceso sulla reale situazione dei sistemi finanziari dei paesi sopra menzionati, un’opacità legata all’inadeguatezza dei sistemi statistici esistenti in quelle nazioni e che costringe gli analisti specializzati a fare del loro meglio per informare i quartier generali delle principali banche e compagnie di assicurazioni europee sulla situazione contingente e prospettica delle economie di paesi che devono buona parte del loro sviluppo agli interventi non coordinati provenienti dai loro fratelli maggiori europei.

Non sono così ingenuo da non immaginare che buona parte delle informazioni, spesso quelle più significative, pervengono alle entità protagoniste del mercato finanziario europeo grazie alle attenzioni che i servizi di intelligence dei paesi maggiormente esposti dedicano a queste aree sino a poco tempo fa caratterizzate da tassi di sviluppo notevoli, ma che ora, fatta eccezione per una Polonia ‘apparentemente’ in controtendenza, stanno regredendo vistosamente e per le quali non è assolutamente escluso il ripetersi di situazioni come quella che ha mandato in default l’Islanda, paese extracomunitario che vantava uno dei più elevati dati di PIL pro capite, un’eventualità che mette, ovviamente, fortemente a rischio gli stock di debito sovrano detenuti direttamente o indirettamente dalle banche europee presenti.

Come è oramai universalmente noto, pur non essendo assenti interessi economici e finanziari extraeuropei, non vi è dubbio alcuno che l’eventuale default di uno o più di questi paesi ricadrebbe in misura prevalente sulle sei o sette nazioni che hanno di fatto adottato le realtà rappresentative di quest’area geograficamente così vasta del continente europeo, interventi che non hanno riguardato solo le maggiori entità finanziarie locali, ma anche realtà industriali, aziende di pubblica utilità e quelle operanti nel crescente settore dei servizi, interventi che, purtroppo, non sempre sono stati effettuati per applicare in queste realtà emergenti le migliori best pratiche e gli standard sia di qualità che sociali prevalenti nei paesi finanziatori, una triste realtà che riguarda più o meno tutti i settori di intervento, ma che è drammaticamente vera in quello delle attività finanziarie che ha rappresentato per la maggior parte dei soggetti stranieri la possibilità di ricreare forme di mercato di oligopolio collusivo difficilmente praticabili nelle rispettive patrie e che ora rischiano di trasformarsi in un vero e proprio boomerang per le case madri!
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Le questioni affrontate nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria apprestano una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta nell’ambito dell’area europea, un rischio ulteriore e difficilmente quantificabile che fa il paio con la lentezza con la quale le maggiori banche europee, i bracci armati finanziari delle compagnie di assicurazione e gli investitori istituzionali basati nell’area hanno compreso le vere ragioni che spingevano la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs e il colosso creditizio extracomunitario UBS, You & Us, a vendere tutto il vendibile delle rispettive montagne di titoli della finanza più o meno strutturata in loro possesso, una maxi svendita iniziata nel mese di settembre del 2006 e terminata soltanto tra febbraio e marzo dell’anno successivo, quando l’ex (?) investment banker Hank Paulson ha sentito la necessità, dopo otto mesi di permanenza sulla poltrona più alta del dicastero del Tesoro a stelle e strisce, di lanciare un warning alle banche statunitensi e a quelle più o meno globali sul rischio crescente di una crisi finanziaria, un evento che si materializzò platealmente il 9 agosto dello stesso anno con quel blocco totale della liquidità interbancaria che segnò l’avvio della tempesta perfetta.

Un altro elemento differenziale attiene maggiormente alle technicalities operative proprie delle attività di Corporate & Investment Banking nella fase di massimo sviluppo delle medesime attività, un aspetto che intendo trattare in questa sede solo di sfuggita, ma che ha molto a che fare con i sistemi di controllo interno, di risk management e di attendibilità dei sistemi informativi, tutte attività che vengono svolte da una figura quale quella del Chief Operating Officer, spesso solo nominalisticamente mutuata dalle maggiori banche europee, in particolar modo da quelle italiane, una sottovalutazione della centralità del ruolo di questa figura accompagnata da una scarsa attenzione al fatto che, a esempio, in un’entità come Goldman Sachs di COO ne esistono ben due e percepivano, proprio nel cruciale 2007, 70 milioni di dollari di compensation complessiva, una cifra di poco inferiore a quella percepita dal Chairman e Chief Executive Officer, Larry Blankfein, e e ampiamente superiore a quella percepita nello stesso anno dal Chief Financial Officer e vero salvatore di Goldman, David Viniar, un aspetto che forse dirà poco agli addetti ai lavori, ma che non sfugge a chi sa che in pochi ambiti di attività la retribuzione è una proxy attendibile dell’importanza e della delicatezza del ruolo svolto come nell’investment banking!

Se è vero che le banche europee, e segnatamente quelle italiane, presentano una base di raccolta da clientela che le rende relativamente meno vulnerabili ai sommovimenti sui mercati interbancari, non vi è dubbio che la struttura dell’asset & liabilities si è, negli ultimi anni precedenti allo scoppio della tempesta perfetta, profondamente modificata e non certo sul piano di una maggiore stabilità, per non parlare poi del profilo di rischio, che come ricorda sempre il Governatore della Banca d’Italia sono di vari tipi, non escluso e certamente non ultimo per importanza, quello che prende il nome di rischio reputazionale, una tipologia di rischio che è strettamente correlato alla cruciale questione della fiducia dei risparmiatori e degli investitori, quella stessa fiducia che è forse l’elemento maggiormente assente in questa fase e che è all’origine del più persistente e ostinato sciopero degli investimenti mai intervenuto almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale!

Una parte delle differenze esposte di sopra tra il mercato finanziario statunitense e quello europeo sono, in realtà, alla base delle analisi che vedono la concreta possibilità che, quando la tempesta perfetta deciderà finalmente di placarsi, il cumulo di macerie e l’entità assoluta delle perdite potrebbero essere di dimensioni più rilevanti nel Vecchio Continente di quanto lo saranno negli stessi Stati Uniti d’America che, pure, di questa crisi portano il maggior carico di responsabilità.
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Che le due maggiori banche spagnole, il Bilbao Vizcaya e il Banco de Santander, abbiano sofferto molto, ma molto meno delle altre grandi banche europee delle conseguenze della tempesta perfetta oramai da qualche tempo entrata nel suo ventitreesimo mese di vita, è un fatto difficilmente discutibile e che ha le sue ragioni in un complesso di fattori che vanno dalla maggiore rigidità delle regole di vigilanza esistenti in Spagna, dalla estrema prudenza nella presenza nella finanza strutturata, nel forte radicamento in America latina, ma, soprattutto, nella gestione estremamente centralizzata del processo decisionale esistente in entrambi i due mega gruppi creditizi spagnoli, una caratteristica quasi unica al mondo e largamente dovuta al fatto che, al di là della formale esistenza sia degli organi collegiali che di quella pletora di comitati e sottocomitati, in entrambe le banche le decisioni vere vengono prese da una persona nel caso del Santander e da due al massimo in quello del Bilbao.

E’, tuttavia, a tutti noto che lo scivolone del Santander sul caso Madoff è costato parecchio a Don Emilio Botin, vero padre padrone di un Santander del quale non possiede in realtà che una piccola quota azionaria, sia perché ne ha incrinato quell’immagine di successo alla quale Botin tiene in modo quasi maniacale, sia perché gli ha impedito di coronare il suo sogno di archiviare l’orribile 2008 con i previsti 10 miliardi di euro di utile netto, il che gli avrebbe consentito l’accesso di diritto agli annali dei banchieri di maggior successo e avrebbe definitivamente mandato in soffitta quegli atteggiamenti di scetticismo più o meno aperto che ancora albergano nei circoli più esclusivi del mondo bancario che conta rispetto alla sua persona, alla sua banca e ai suoi strettissimi legami con l’Opus Dei.

Eppure, Don Emilio era stato l’unico a sfuggire alla maledizione di Groenick, l’ex numero uno di ABN AMRO che fece il possibile e l’impossibile per sfuggire all’assedio congiunto della Royal Bank of Scotland, di Fortis e dello stesso Santander, decidendo, anche in questo caso molto rapidamente e in perfetta solitudine, di rivendere la preda italiana di sua spettanza, la Banca Antonveneta, per ben 9 miliardi di euro al Monte dei Paschi di Siena, ottenendo pure di vendere ad altri e separatamente l’ex istituto di credito speciale che di Antonveneta era parte integrante, con il risultato da guadagnare 3 miliardi di euro nel volgere di pochi giorni, una somma certamente rilevante ma che coincide quasi millimetricamente con le perdite subite dai suoi migliori clienti caduti nello schema di Ponzi dell’oramai mitico ex presidente del Nasdaq, perdite che sono sicuro pagherà la banca di Don Emilio anche nell’esercizio 2009 come in larga misura è stato fatto in quello dell’anno precedente.

Non avrei voluto essere nei panni dei suoi massimi dirigenti nell’incontro che Botin ama tenere ogni domenica sera nella sua residenza privata la volta che iniziò a emergere la truffa ordita da Madoff e il di cui relativo alla clientela del Santander, ma credo che questa esperienza eserciterà un’influenza positiva sul molto irascibile banchiere spagnolo.

Così come accadde a suo tempo ai due massimi esponenti del Bilbao nel corso della crisi asiatica del 1997, quando, come ebbe modo di raccontare non ricordo se il presidente o l’amministratore delegato, di fronte alle rassicurazioni udite nel corso dell’assemblea annuale del Fondo Monetario Internazionale, i due si guardarono negli occhi e decisero di liquidare nel più breve tempo possibile tutte le posizioni inerenti l’area asiatica, una decisione della quale i due non ebbero mai a pentirsi e che evitò perdite miliardarie alla banca basca.
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Come i più attenti tra i miei lettori avranno notato, ho volutamente lasciato l’Italia in coda ai numerosi casi nazionali esaminati nelle puntate precedenti di questa serie dedicata a cercare di capire quali saranno le caratteristiche più o meno innovative del sistema finanziario europeo e quali le conseguenze principali della tempesta perfetta che festeggerà tra poco meno di due mesi il suo secondo compleanno, una scelta che non ha niente a che fare con le tesi molto ottimistiche avanzate sia a livello governativo che a quello dei diretti interessati e che vedono una relativa maggiore stabilità e solidità delle nostre banche, una tesi, a dire dei suoi sostenitori, supportata dalla sostanziale arretratezza delle nostre banche e che non vedrebbe sostanziali differenze tra i maggiori gruppi creditizi basati in Italia e le banche di minori se non infime dimensioni.

Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alla confutazione di simili tesi, raccogliendone alcune in un articolo uscito nel numero di settembre del 2008 della rivista Lavoro Italiano, mentre dell’argomento mi sono occupato nuovamente nelle puntate del ciclo intitolato “Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi”, il che mi consente di non soffermarmi ulteriormente su questo argomento, se non per dire che, almeno con riferimento alle prime sei o sette banche nostrane, non vedo tanto un sottrarsi alle operazioni della finanza più o meno strutturata, quanto un ritardo nella realizzazione di quei necessari sistemi di controllo interno e di quelli necessari a una valutazione sufficientemente sofisticata dei rischi, ma di tutti i rischi, elementi che costituiscono il loro vero tallone di Achille e che avranno conseguenze che potranno essere correttamente valutate soltanto essendo in possesso dei necessari elementi valutativi, il che, per ora, semplicemente non è!

Quando ho affrontato una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta in Europa ho elencato diversi fattori che saranno suonati alle orecchie dei nostri principali banchieri come un “De te fabula narratur”, non fosse altro che quella sorta di rischio sistemico rappresentato dai paesi dell’Europa dell’Est, dalla Russia e da alcune delle repubbliche un tempo facenti parte dell’Unione Sovietica, dalla Turchia e da paesi posti nell’area del Nord Africa e in quella del medio oriente coinvolge appieno almeno Unicredit Group e Intesa-San Paolo, con l’aggravante per il gruppo guidato dall’ex enfante prodige della finanza italiana, Alerssandro Profumo, derivante dal più che raddoppio della presenza in queste aree determinata dalla acquisizione della tedesca HVB e della sua controllata Bank Austria, successivamente divenuta la subholding di controllo di tutte le presenze del Gruppo di Piazza Cordusio nella maggior parte dei paesi di sopra ricordati.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno che dei 150 miliardi di euro di esposizione complessiva del sistema bancario italiano prudenzialmente stimati dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso di una sua recente audizione parlamentare, una parte molto consistente faccia capo proprio ai due gruppi bancari che si contendono la leadership nel nostro paese, mentre sarebbero molto più modeste le quote in carico alle altre tre-quattro banche facenti capo del gruppo di testa, così come non è un mistero il coinvolgimento affatto marginale di Unicredit Group, sempre via Bank Austria, nello schema di Ponzi di Madoff, o altre grane, stavolta via Pioneer e l’attività della divisione di investment banking, nelle quali il gruppo italiano è stato coinvolto e che hanno portato a una riduzione programmata di tale segmento di operatività, nonché al ridimensionamento degli organici, un insieme di questioni che, forse, avrebbe richiesto maggiori accantonamenti prudenziali di quanti ne siano stati effettuati sia nel quarto trimestre dell’anno scorso che nel primo trimestre di quest’anno.
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Pur non sottovalutando le differenze tra i rischi elencati nella puntata precedentemente con riferimento a Unicredit Group e quelli inseriti nelle pieghe del bilancio di Intesa-San Paolo, non vi è dubbio, non di meno, che la patata bollente dei finanziamenti a rischio nei numerosi paesi non coperti da garanzie dei rispettivi governi non si troppo dissimile in entrambi i casi, così come i rischi intrinseci a un’attività finanziaria svolta dai Passera’s Boys in modo non troppo dissimile da quello che non troppa fortuna ha portato agli uomini della finanza operanti alle dipendenze di Profumo.

Trattandosi di due gruppi oltremodo cresciuti e i guai dei quali vengono opportunamente riflessi in quotazioni di borsa che, seppur distanti dai minimi assoluti, si presentano ancora molto, ma molto distanti dalle vette toccate in concomitanza con quelle fulminee operazioni di consolidamento che hanno portato i primi quattro gruppi creditizi a ridursi a due, potrei anche fermarmi qui, anche perché sono portato a ritenere che qualcosa di molto più interessante avverrà ai piani immediatamente più bassi del sistema bancario italiano, tra quelle otto banche che completano i primi dieci posti in graduatoria e che, per ragioni della più diversa specie e natura, sembrano non riuscire a capire cosa vorranno fare da grandi.

Pur esprimendo sempre pieno rispetto per quanto ritiene al riguardo il Governatore della Banca d’Italia, penso, tuttavia, che potrebbe anche non trascorrere l’intero 2009 senza che nell’ampio segmento rappresentato dalle banche popolari si muova foglia, una supposta immobilità che non tiene conto delle rispettive fragilità di alcune tra le principali banche della categoria, una condizione non del tutto appropriata quando si è sottoposti ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, anche se sono certo che, ove avvenissero, eventuali operazioni di concentrazione verrebbero sempre opportunamente, seppur in modo discreto e informale, sottoposte al vaglio attento delle autorità monetarie.

Premetto anche che una eventuale aggregazione che avesse a perno il martoriato Banco Popolare opportunamente affidato alle sagge cure di un banchiere di lungo corso di scuola Banca Commerciale Italiana, quale certamente è Piergiorgio Saviotti, non potrà che essere effettuata che con una realtà guidata con criteri del tutto privatistici e che disponga di più che adeguati ratio patrimoniali!

Così come credo che non sarà proprio possibile lasciare trascorrere un intero semestre senza porre attenzione, se non mano, a quell’alquanto scottante dossier intitolato al Monte dei Paschi di Siena e alla fondazione omonima che ne resta azionista di maggioranza assoluta, un dossier probabilmente seguito con maggiore attenzione dal per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che dal Governatore.

Né penso che, al proposito, sia sfuggito ad alcuno il vero senso della lunghissima intervista concessa non troppo tempo fa dal presidente della fondazione Cariplo e al contempo massimo esponente dell’ACRI e uomo di punta del mondo delle fondazioni nel capitale di Cassa SpA, Giuseppe Guzzetti, un’intervista che potrebbe essere agevolmente riassunta in un ‘chi sbaglia paga (fosse anche una fondazione di origine bancaria) e i cocci sono suoi’, opportunamente affiancato dalla rivendicazione orgogliosa di aver mantenuto l’investimento in Intesa-San Paolo addirittura al di sotto del limite previsto dalle norme!