mercoledì 6 agosto 2008

Il pilota di Freddie Mac ha ignorato lo stop!


Non sono assolutamente in grado di valutare l’attendibilità delle dichiarazioni dell’ex Chief Risk Officer di Freddie Mac, la travagliata entità semipubblica che, insieme a Fannie Mae, rappresenta spesso l’unica speranza per molti potenziali acquirenti di case di poter ottenere un mutuo a condizioni accettabili, David Andrukonis che, in una intervista rilasciata al New York Times, ha dichiarato di aver lanciato circostanziati e chiari segnali di allarme che il Chief Executive Officer, Richard Syron, non avrebbe assolutamente preso in considerazione, proseguendo imperterrito nella sua politica alquanto indiscriminata di espansione dell’attivo, mostrandosi del tutto incurante dei rischi reputazionali e creditizi connessi alla sua strategia.

Non è, peraltro, la prima volta che il New York Times cerca di togliere lo scettro di giornale di bordo della tempesta perfetta ancora in corso al Wall Street Journal, l’autorevole quotidiano finanziario statunitense che da dodici mesi sembra proprio non sbagliare un colpo e che ha anticipato avvenimenti e crisi aziendali quando ancora nessuno, neanche i soliti ben informati, ne aveva avuto il ben che minimo sentore.

L’entrata a piedi uniti più rilevante del NYT è stata, però, rappresentata dalla pubblicazione di un editoriale del prestigioso quotidiano newyorkese che ha criticato duramente il progetto riservato realtivo alla possibilità per i fondi di private equity, peraltro al momento paralizzati nella loro operatività a causa del credit crunch, di acquisire agli attuali prezzi stracciati quote molto rilevanti delle principali banche di investimento e di banche più o meno globali basate od operanti negli Stati Uniti d’America senza dover sottostare alle regole molto rigide esistenti in quel paese per chiunque acquisisca più di una certa quota percentuale, regole che impongono il fatto di essere considerati holding bancaria se si acquisisce più del 15 per cento di una banca, mentre impongono il divieto di nominare membri del consiglio di amministrazione ove si raggiunga o si superi la soglia del 10 per cento.

Come ho avuto più volte modo di ribadire, una delle cause della tempesta perfetta è rappresentata proprio da quella deregolamentazione spinta intervenuta a partire dagli anni Ottanta e che, non certo a caso, ha consentito, anche nel settore finanziario, l’affermarsi della globalizzazione che si univa alla cartolarizzazione di tutto quanto era cartolarizzabile, un mix deregulation-globalizzazione-finanziarizzazione che ha prodotto, insieme al vero e proprio tonfo dei valori etici e deontologici che ha riguardato una parte rilevante dei top manager delle varie entità che partecipano al mercato finanziario, nonché di quanti hanno operato ai vertici delle agenzie di rating o dei vari organismi, veramente molteplici negli USA, chiamati a vigilare sulla correttezza e la legalità dei comportamenti di questi stessi top manager ed ad operare fattivamente per prevenire l’insorgere dei rischi sistemici poi pienamente divenuti realtà, con l’aggravante che, stavolta, non esistono soluzioni facili ed altrettanto facilmente scaricabili sui contribuenti che spesso hanno già pagato un prezzo salato proprio a causa dell’imperante lassismo nei confronti del moral hazard che ha caratterizzato proprio i vertici di quelle entità finanziarie che si scopre che ancor oggi sono too big to fail.

Non vorrei qui riproporre l’elenco di tutte le regole che la Federal Reserve guidata da Bernspan o il ministero del Tesoro statunitense guidato dall’ineffabile Henry Paulson che sino a due anni orsono era, da numero uno indiscusso di Goldman Sachs, uno dei maggiori responsabili del disastro in corso, hanno volutamente e scientemente fatto saltare pur di consentire improbabili salvataggi, finanziamenti a piè di lista di entità non rientranti nel perimetro di vigilanza della Fed, promesse di sostegni a favore di Fannie Mae e Freddie Mac, in assenza di un provvedimento di nazionalizzazione, o meglio di rinazionalizzazione, delle due più che disastrate entità semipubbliche gravate da un debito che vale oltre la metà del già gigantesco debito dell’intera nazione in cui le stesse sono basate.

Il problema è, tuttavia, rappresentato dall’approvazione a tambur battente di provvedimenti che tentano o di introdurre elementi di vero e proprio socialismo reale nella nazione che più di ogni altra dichiarava di fondarsi sul principio dello Stato minimo e della contestuale minima ingerenza nell’economia e nella finanza, oppure di cambiare le regole del gioco quando la partita è entrata in zona Cesarini, se non a tempi supplementari abbondantemente scaduti, come è accaduto ormai per ben due volte ad opera di Effe O Ixs, il capo della Securities and Exchange Commission, che, in questi ultimi anni, ha del tutto ignorato la corsa folle delle quotazioni azionarie, ma che è stato molto lesto a proteggere diciannove entità, guarda caso proprio quelle protagoniste del mercato finanziario statunitense (straniere ma globali ovviamente incluse), ma continuando a girarsi dall’altra parte quando le oscillazioni del valore delle azione di una di queste entità fa registrare un +50 per cento in una sola seduta ed un dimezzamento di tale folle incremento nelle poche ore in cui si svolge l’after hours relativo alla stessa seduta.

A quanti tra i poveri risparmiatori/investitori statunitensi rimpiangono le durezze di Paul Volker, il presidente della Fed cacciato da Ronald Reagan, mediocre attore di Hollywood che ha ricoperto per ben due volte la carica di Presidente degli States, o di non avere come banchieri centrali quel manipolo di neotemplari della Banca Centrale Europea guidati dal quel francese germanizzato che risponde al nome di Jean Paul Trichet, uno che non ha scrupoli a stringere la corda del boia ad uso ovviamente terapeutico, ma, e forse soprattutto, uno che non ha mai detto di credere nelle virtù taumaturgiche del mercato così care agli economisti, agli opinionisti ed ai politici che per lunga pezza sono andati veramente per la maggiore al di là dell’Oceano Atlantico.

Scrivo questa nota avendo deciso di non aspettare sveglio la decisione del Federal Open Market Committee, ben sapendo che la scelta di stare del tutto behind the curve, o meglio, behind the market assunta nell’agosto dell’anno scorso da Bernspan e complici, spalleggiati peraltro molto efficacemente dalla maggioranza dei politici statunitensi e dal Governo guidato dal presidente Bush, non verrà certo meno per quisquilie e pinzillacchere quali il livello ampiamente negativo dei tassi di interesse reali (per le banche, ovviamente, non certo per la loro clientela!), un livello reso tale dall’impennata dell’inflazione che, anche ove, come prevedo da oltre sette mesi, il petrolio dovesse scendere sino ai 75-80 dollari al barile, difficilmente si sottrarrà a quei micidiali effetti di trascinamento che non dovrebbero esaurire la loro virulenza prima della prima metà dell’anno venturo.

La curiosità ha poi avuto la meglio, anche se non solo Bernspan ha comunicato l’attesissimo nulla di fatto, ma lo ha anche condito con un testo ufficiale salomonico!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.