venerdì 22 agosto 2008

Lehman Brothers colpita dal fuoco amico!


Non conosce soste, né interventi di peacekeeping la guerra per banche negli Stati Uniti d’America, una guerra combattuta a suon di reports redatti dagli analisti a libro paga delle Investment Banks e delle banche più o meno globali e che vede tra le più attive in questo tipo di operazioni che si potrebbero definire di fuoco amico la potente e molto preveggente Goldman Sachs che ha sciolto uno dei suoi uomini di punta, il quale all’inizio di questa settimana ha colpito ed affondato in un solo giorno, nell’ordine, Lehman Brothers, Citigroup, Merrill Lynch e J.P. Morgan-Chase, ossia quattro delle sue principali concorrenti.

Chi ha avuto la fortuna di leggere il testo della ormai storica conference call che è costata il posto alla brava e preparata Chief Financial Officer di Lehman, Erin Callan (per sua fortuna, ma soprattutto per i suoi meriti, prontamente approdata nel relativamente porto sicuro di Credit Suisse- First Boston), ricorderà certamente che le domande più insidiose le vennero proprio dall’analista di Goldman, domande che, peraltro, denotavano quanto il bravo analista fosse interno all’intensissimo lavoro di deleverage avviato nella sua banca di investimenti quasi un anno prima dell’avvio della tempesta perfetta, difficilmente, altrimenti, sarebbe stato così efficace nell’evidenziare le contraddizioni della ricostruzione fatta da Erin del gigantesco alleggerimento del portafoglio di Lehman a costi relativamente modesti rispetto a quelli sostenuti da UBS ed altre banche globali impegnate a liberarsi di zavorra di analoga qualità.

Se si vuole, una delle cause della lunghezza e persistenza della tempesta perfetta risiede proprio nella ridicola costruzione di muraglie cinesi tra le diverse attività operative delle banche globali, ma anche della fragilità delle pareti divisorie che dovrebbero garantire l’effettiva autonomia di attività come la ricerca economica e, appunto, quella volta a fornire alla clientela giudizi tempestivi, affidabili e neutrali sullo stato di salute delle principali entità operanti nel mercato finanziario globale, un’attività che, come la moglie di Cesare, deve apparire e non solo essere assolutamente immune da sospetti di rispondere ad interessi che non siano quelli di una corretta rappresentazione degli aspetti positivi e di quelli negativi presenti e prospettici delle entità finanziarie esaminate.

Certo, sarebbe difficile aspettarsi dagli analisti a libro paga delle banche più o meno globali un comportamento irreprensibile sotto il profilo etico e deontologico dopo la certo non esaltante performance delle società di rating propriamente dette, per non parlare di quella fornita, a suo tempo, dalla multinazionale della revisione Arthur Andersen che, però, pagò con la sua scomparsa il fio delle sue vere o presunte malefatte, anche perché non risulta che né Moody’s, né Standard & Poor’s siano state, almeno sinora, chiamate a rispondere della pur palese commistione tra l’attività di rating e quella di consulenza prestate, contemporaneamente, all’emittente di titoli di turno.

D’altra parte, la derubricazione dall’agenda dei sette grandi del pianeta (scrivo sette perché ritengo che molto difficilmente la Russia, dopo quanto sta avvenendo in questi giorni in quel di Georgia, sarà invitata a partecipare ai futuri summit) dell’attesissimo rapporto finale del Financial Stability Forum, ma, soprattutto, delle 65 raccomandazioni esposte da Mario Draghi, Henry Paulson e Bernspan nella oramai storica cena delle beffe del Gotha finanziario mondiale svoltasi a margine dei lavori delle assemblee dell’International Monetary Fund e della World Bank, le due colonne dell’ordine economico internazionale scaturito da quella conferenza di Bretton Woods che, avvenendo a secondo conflitto mondiale ancora in corso, non poté che subire la posizione degli Stati Uniti d’America che erano pur sempre gli azionisti di maggioranza della coalizione impegnata a fermare la minaccia rappresentata dalla Germania nazista e dall’espansionismo giapponese in larga parte dell’Asia.

Anche se mercoledì abbiamo potuto assistere ad uno scatto di orgoglio della principale vittima dell’analista di Goldman Sachs, Lehman Brothers (che, peraltro, ha operato in buona ed ampia compagnia), che è riuscita ad andare in piena controtendenza rispetto al meltdown in corso nel settore finanziario statunitense, mettendo a segno un sensibile rialzo della quotazione dell’azione che, purtroppo, non consente a nessuno di farsi soverchie illusioni sulle sue possibilità di sopravvivenza come entità autonoma, con buona pace di quel combattente che risponde al nome di Richard Flud, letteralmente legato al timone del suo vascello oramai sommerso dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso!

Restando nel campo delle entità finanziarie maggiormente sospettate di prossimo, prevedibile, se non inevitabile, default, non credo sia da interpretare l’oramai sempre più evidente liquefazione delle azioni di Fannie Mae e Freddie Mac nelle ultime sedute, soprattutto alla luce del fatto che, tra i valori di chiusura di mercoledì e quelli segnati appena due giorni prima, manca all’appello più del 50 per cento del valore dell’azione di Fannie Mae, mentre la perdita ascrivibile all’azione di Freddie Mac è soltanto di poco inferiore.

Quello che mi ha colpito maggiormente, però, non è tanto che le due gigantesche entità semipubbliche stiano quotando ad un valore di poco al di sopra del 5 per cento del massimo toccato negli ultime due anni, o, come notano i siti americani, ai minimi degli ultimi diciotto anni, prima cioè che iniziassero a formarsi le varie bolle speculative favorite dai vari big bang finanziari e dala sempre più spinta deregolamentazione, quanto la notizia che riferisce che Fannie Mae sta aprendo due uffici locali in Florida e California al precipuo scopo di smaltire le 54 mila abitazioni di cui è entrata in possesso a causa delle procedure di foreclosure avviate nei confronti dei mutuatari sparsi in tutti gli States, ma particolarmente nei due Stati dove sono previste le aperture degli uffici, che sono poi proprio le due aree del Paese nelle quali le quotazioni delle case erano state più gonfiate dalla bolla immobiliare formatasi in precedenza e che ora segnalano flessioni del valore delle abitazioni che vanno dal 30 al 50 per cento.

Cosa accadrà in settembre, quando andrà all’asta una buona parte delle 750 mila abitazioni delle quali le banche di ogni ordine e rango sono entrate, con loro non grande giubilo, in possesso, spesso case lasciate in fretta e con tanta furia dai precedenti proprietari colpiti dalle foreclosure (molte sono letteralmente distrutte all’interno, mentre in altre sembra che i precedenti abitanti siano fuggiti per una scossa di terremoto, lasciando la tavola da stiro aperta con i panni sopra), anche perché si tratta di un quinto circa delle case messe attualmente in vendita negli Stati Uniti d’America, con un effetto depressivo sui già molto depressi prezzi realmente realizzati che non è difficile immaginare e che si accompagna ad un costo medio che le banche sostengono per escutere le loro garanzie che si aggira sui 50 mila dollari.

Non è, quindi, un caso se mi sono trovato ad esprimere un giudizio molto lusinghiero sul progetto, prontamente abortito, della responsabile federale che suggeriva di aiutare, nello stesso interesse delle banche, la maggior parte dei mutuatari, mediante un’opportuna rinegoziazione dei mutui!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.