martedì 23 settembre 2008

Alla fine le Investment Banks hanno fatto proprio la stessa brutta fine dei dinosauri!


Sono bastati gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da almeno tredici mesi per distruggere quel castello di carte e cartolarizzazioni che prendeva il nome di Investment Banks, almeno per quanto riguarda le storiche Big Five statunitensi, prima ridottesi al numero di due, poi ieri notte scomparse definitivamente dal panorama finanziario a stelle e strisce, in quanto, secondo la pietosa ricostruzione fornita dal portavoce di Bernspan, avrebbero richiesto e gentilmente ottenuto dalla Federal Reserve di essere considerate banche commerciali a tutti gli effetti, una circostanza che fa perdere loro il blasone avito, ma consente, allo stesso tempo, di potere ricevere normali depositi da una clientela che dovrebbe, non si sa bene perché, fidarsi di più ad affidare a Larry Blankfein e compagni piuttosto che alle altre banche commerciali di ogni ordine e grado.

Non so ancora per quale impulso inconscio avevo titolato la puntata di qualche giorno fa “E’ proprio la caduta degli Dei”, anche perché confesso che allora non immaginavo neppure lontanamente questa evoluzione delle cose, pur essendo giunte anche alle mie orecchie poste a migliaia di miglia dall’epicentro del terremoto localizzato a Wall Street che il povero Bernspan era veramente stanco di continuare a prendersi tonnellate di carta che nessuno vuole proprio più ad un valore quasi facciale in cambio di denaro sonante che rivedrà solo ad 84 giorni data al miserevole tasso annuo del 2,25 per cento da entità che non era neanche titolato a vigilare, per il semplicissimo motivo che venivano sorvegliate da quel fulmine di guerra di Effe O Ixs che, non sapendo che altro fare, ha nuovamente cambiato in questi giorni le regole del gioco a partita pienamente in corso, ripristinando, fino alla fine del mese in corso, lo stop alle vendite allo scoperto per le azioni di 780 società.

Mentre i nostalgici del bel tempo che fu sono lì a riflettere sulle conseguenze della metamorfosi delle due ultimi superstiti Investment Banks, una delle due, Morgan Stanley ha reso noto di avere finalmente trovato un pretendente nipponico che ha deciso di prendere sulle sue spalle un quinto delle azioni della banca di investimento di cui meno si era parlato in questi lunghi e difficili mesi, il che, come in ogni romanzo giallo che si rispetti, avrebbe dovuto indurre chi ne avesse avuto voglia a capire che anche nel grattacielo sede di quella banca vi era qualcosa che veramente non andava per il verso giusto.

Non so proprio perché la Mitsubishi Financial Group abbia deciso di gettare la sua fiche dalla per ora del tutto ignota consistenza sul tavolo verde di quel casinò a cielo aperto cui da tempo è ridotta l’alta finanza statunitense, ma certamente ha scelto il momento giusto per infilare un piede nella un tempo celebre Investment Bank dagli alquanto facili costumi appena trasformatasi in una rispettabile e holding bancaria finalmente giunta sotto il controllo della non troppo severa banca centrale a stelle e strisce, pronta a contendere la migliore clientela alle altrettanto esauste maggiori banche commerciali di quella grande nazione, ansiosi di poter sventolare un libretto di assegni quasi altrettanto prestigioso di quelli che porteranno il nome della potente e molto preveggente Goldman Sachs.

Poiché non ho mai creduto alle coincidenze, sono portato a pensare che la repentina decisione dei vertici di Goldman e Morgan Stanley non sia del tutto spontanea ma faccia, bensì, parte di quel negoziato serrato in corso tra i due maggiori partiti che da sempre si contendono la leadership degli Stati Uniti d’America, ben rappresentata dall’edificio con vista giardino sito nel bel mezzo di Washington di cui John Mc Cain e Baraci Obama si stanno contendendo in uno scontro all’ultimo sangue il privilegio di abitarvi per i prossimi quattro anni, mediante un contratto con il popolo americano che prevede la possibilità di ottenere in futuro una proroga di altri quattro anni.

Avendo superato da qualche anno l’età in cui qualcuno mi leggeva le favole per favorire il mio più o meno dolce sogno, non mi illudo che gli asinelli democratici e gli elefanti repubblicani siano realmente in grado di resistere a quelle stesse seducenti sirene che suonano le ammalianti sinfonie redatte dai migliori cervelli di Big Finance cui non hanno resistito le compagnie di assicurazione, non necessariamente monoline, gli allegri gestori dei fondi pensione e di quelli di investimento, i severi analisti delle agenzie di rating, le banche straniere più o meno globali, insomma quanti rischiano seriamente di fare indigestione di quella montagna di titoli della finanza strutturata che hanno allegramente sottoscritto e che adesso rischiano di non valere nemmeno la carta su cui sono stampati!

Non c’è peraltro bisogno di possedere le indiscusse doti del Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz, per sentire una maledetta puzza di bruciato nel pacco confezionato da quell’indiscussa volpe (altro che quel politicante di Effe O Ixs!) che risponde al nome di Hank Paulson, uno che non ha certo lasciato la sua più che dorata posizione al vertice di Goldman Sachs solo perché colto dall’improvvisa smania di vestire, pressoché pro bono, i panni di civil servant, scambiando i cento milioni di dollari cento guadagnati dal suo successore Blankfein nel solo 2007 per le poche centinaia di migliaia di dollari che rappresentano la mercede per tutte le rogne di cui si è dovuto sobbarcare in questi lunghissimi e veramente terribili tredici mesi iniziati quel 9 di agosto dell’anno scorso, quando non è stato proprio più possibile nascondere la polvere sotto i preziosi tappeti che adornano gli uffici dei top bankers di investimento e dei loro omologhi posti al vertice delle banche più o meno globali basta sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico.

Eppure, le obiezioni mosse, non si sa con quanta convinzione e/o determinazione, mosse dai massimi leaders democratici al Congresso, sono tutt’altro che infondate o peregrine, anche perché rappresentano il tentativo in extremis di mettere almeno sullo stesso piano gli interessi di Main Street rispetto a quelli di Wall Street, ma il solo fatto che né Nancy Pelosi, né alcun altro esponente del partito democratico abbia avanzato in modo limpido la richiesta irrinunciabile che non sia Hank Paulson a decidere in totale autonomia l’importantissima questione del prezzo a cui acquistare quella montagna di toxic assets, definizione per primo coniata da un altro enfante prodige di casa Goldman, John Thain, che è poi lo stesso che ha consentito a Merrill Lynch di non fare la miserevole fine di Lehman Brothers liberandosi di buona parte dei titoli della stessa specie al prezzo di 22 centesimi per dollaro che, almeno a suo dire, era il massimo che era riuscito a spuntare walking across the market!

D’altra parte, qualche serio dubbio comincia a serpeggiare anche tra gi analisti e gli operatori che avevano salutato le primi indiscrezioni abilmente pilotate dal prode Hank con due sedute da record che avevano chiuso in bellezza quella che si apprestava ad essere la peggiore settimana borsistica da quando la tempesta perfetta ha preso il via, al punto da spingere i tre principali indici di Wall Street, a meno di un’ora dalla salvifica campanella, verso una riedizione di quello che avevamo visto nelle prime tre sedute della scorsa settimana e di riportare verso il basso il valore del dollaro.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.