giovedì 11 settembre 2008

Bye, bye, Richard Fuld


Oramai nessuno pensa più alla nazionalizzazione alquanto forzosa di Fannie Mae e freddie Mac, anche se l’incremento monstre del debito pubblico statunitense peserà a lungo sulle prospettive della nazione ancora più potente del mondo, in quanto tutte le attenzioni sono ora rivolte alle sorti tutt’altro che magnifiche e progressive di Lehman Brothers, anche perché l’anticipazione dei risultati del terzo trimestre ha lasciato l’amaro in bocca agli analisti ed agli operatori che si attendevano fuochi di artificio e si sono trovati tra le mani il classico pugno di mosche, un insieme di notizie trite e ritrite aggravate da una perdita che sfiora i 4 miliardi di dollari ed una riduzione del 93 per cento dell’utile annuale, portato alla misera somma di 5 cents.

Se si vuole avere una misura della delusione del mercato basti pensare che, in attesa della presentazione di Richard Fuld, l’azione di Lehman aveva registrato un rialzo del 25 per cento che, seppur non sufficiente a compensare la perdita del 45 per cento con cui si era chiusa la seduta precedente, era pure un buon viatico per un recupero dai minimi vergognosi del giorno prima, ma, dopo le non notizie e l’annuncio della mega perdita, l’azione ha progressivamente preso a scivolare per chiudere poco al di sopra dei 7 dollari, soglia infranta nelle contrattazioni successive alla chiusura ufficiale.

Per chi ha ascoltato la ormai celebre conference call tenuta da Erin Callan poche ore prima della sua rimozione dall’incarico di Chief Financial Officer di Lehman, è sembrato di vivere un deja vu vedendo Richard annaspare letteralmente tra le cifre evidentemente a lui ostiche e che pure dovevano servire da cortina fumogena per mascherare l’assoluta assenza di un compratore, ad un giorno esatto dall’ufficializzazione del ritiro dalle trattative della Korea Development Bank, il sacrificio rappresentato dalla vendita in blocco del wealth management, lo split a prezzi irrealistici di 25-30 miliardi di titoli della finanza strutturata, gli stessi di cui Merrill Lynch si è liberata qualche tempo fa a 22 centesimi per dollaro, dovendo peraltro finanziare pressoché integralmente il compratore e garantendogli il riacquisto a sterminate anche se irrealistiche, almeno al momento, condizioni.

Nel frattempo, lo spread evidenziato dai credit default swaps sono volati a 580 punti base, dopo avere toccato anche i 610 punti base, un livello ampiamente superiore a quello che caratterizzava i bonds di bear Stearns poche ore prima del suo default e del successivo salvataggio da parte di J.P. Morgan-Chase, salvataggio avvenuto solo in virtù di un mega finanziamento da 30 miliardi di dollari a carico della Federal Reserve e, cioè, come sempre a carico dei contribuenti, né è di consolazione per Flud il fatto che lo spread che caratterizza il debito di Washington Mutual si poneva ieri a livelli largamente superiori a quelli di Lehman.

Anche se ormai abbiamo fatto il callo a situazioni di fallimento strisciante di importanti istituzioni finanziarie americane, non vi è dubbio che, in assenza del solito cilindro dal cappello estratto dall’ineffabile Henry Paulson, fra molto poco tempo i saloni del quartier generale di Lehman rischiano di essere affollati da nugoli di esponenti della Fed, della Sec, del ministero del Tesoro, nonché dagli esponenti della banca in default e di quelli della banca candidata all’acquisto, esattamente quando avvenne, in una notte tra mercoledì e giovedì ai primi di marzo, nella sede della defunta Bear Stearns.

Purtroppo, come dicevo ieri, è veramente improbabile un aiuto pubblico all’eventuale salvataggio di Lehman, per la semplicissima ragione che tutte le cartucce pubbliche sono state impiegate per mettere una pezza al disastro colossale rappresentato dal fallimento tecnico di Fannie e Freddie, un intervento che verrà ricordato nei libri di Storia, in quanto ha rappresentato la definitiva messa in soffitta di tutto l’armamentario liberista che ci affligge dall’epoca di Ronald Reagan e che è proseguito attraverso ponderose dissertazioni sulla necessità e l’utilità dello Stato minimo e assolutamente non interventista in economia.

Dopo la penosa performance dell’unico top manager rimasto legato al timone della “sua” Lehman, il problema non è più quello della sopravvivenza o meno della quarta banca di investimenti statunitense, ma piuttosto quello dell’esatto timing del default e delle possibili soluzioni che le altre banche saranno in grado di escogitare per evitare che il contagio si espanda alle altre sette maggiori entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, anche se va detto con chiarezza che non è assolutamente possibile escludere seri contraccolpi anche su quella decina di banche europee a vocazione più o meno globale.

Lasciando per un attimo le ambasce delle banche di primo piano di oltre Oceano, vorrei spendere qualche parola sul prevedibile e previsto sgonfiamento della bolla speculativa sul greggio e le altre materie prime, derrate alimentari incluse, anche perché credo fermamente che il punto di svolta sia stata l’intervista del re dell’Arabia Saudita che ha rappresentato realmente quello che in gergo viene definito un sell signal che è stato colto al volo dai grandi operatori che hanno con grande perizia ed ottima scelta dei tempi girato le proprie posizioni in modo profittevole, lasciando il cerino acceso in mano agli improbabili comprimari, a partire dai fondi pensione, dai fondi di investimento e, per soprammercato, da una miriade di medi e piccoli operatori che erano entrati in questo rischiosissimo gioco senza avere l’expertise, la strumentazione e le informazioni delle banche di investimento e delle banche più o meno globali.

Si è trattato di un tentativo, solo in parte riuscito, di minimizzare le perdite già emerse in conseguenza della tempesta perfetta, a sua volta legata allo scoppio di due bolle speculative gigantesche, quella dell’immobiliare statunitense e quella, ad essa fortemente connessa, della finanza strutturata, con l’aggravante che si è trattato di un gioco che ha avuto contraccolpi, a volte proprio drammatici, sulle condizioni di vita di miliardi di persone, una parte non marginale delle quali ha visto mettere a repentaglio la propria stessa sopravvivenza per i livelli assurdi raggiunti dai prezzi dei generi alimentari, il tutto con le svariate Authority ed il Governo statunitense al completo con la testa girata decisamente da un’altra parte, partecipi e molto comprensivi verso le necessità del Big Business che consideravano, una volta tanto al gran completo, avesse il diritto di prendere una rivincita parziale dopo le perdite subite nei mesi precedenti.

Ho letto con grande attenzione l’articolo di Tito Boeri sul comportamento tenuto in questi mesi da Corrado Passera e Cesare Geronzi, due banchieri che più diversi per età, storia e formazione non potrebbero essere più diversi, ma che si sono trovati accomunati in una visione della gestione del poter economico strettamente interconnesso a quello politico che stride nettamente con la visione che scaturisce dalla recente intervista che la bravissima Milena Gabanelli ha fatto in modo estremamente professionale a Matteo Arpe.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.