Mentre il mondo intero trattiene il fiato, interrogandosi sull’impatto che l’inedita mossa di Bernspan e soci avrà sul decorso della tempesta perfetta ancora virulentemente in corso dopo diciotto mesi di ininterrotta virulenza, trovo il tempo per tornare sull’ampiamente annunciato cambio al vertice della Banca dei Territori del gruppo bancario Intesa-San Paolo, una vicenda che si è conclusa con le dimissioni concordate di Pietro Modiano, nominato presidente del gruppo Tassara azionista rilevante della stessa Intesa, e l’ascesa alla carica di direttore generale unico, nonché capo della Banca dei Territori di Francesco Micheli, che occupava sino ad ieri la terza posizione esecutiva, dopo Corrado Passera, Chief Executive Officer, Pietro Modiano, direttore generale e vice CEO.
Avendo già espresso la mia opinione sull’opportunità di questo cambio della guardia nel pieno della più grave crisi finanziaria mai vista almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, non tedierò i miei lettori con considerazioni sulla stranezza dell’allontanamento di un banchiere che ha, a giudizio di tutti, ben operato in questo come negli incarichi precedentemente ricoperti nel gruppo direttamente concorrente di Intesa, riuscendo ad ottenere risultati lusinghieri in un’attività come quella del retail banking che, pur non soffrendo nello stesso modo del Corporate & Investment Banking degli effetti della tempesta perfetta, sta pur tuttavia vivendo una fase estremamente difficile.
Mi preme molto di più fare qualche considerazione più generale sul mestiere del banchiere, un mestiere che sembrava, anche in un paese come l’Italia che ha vissuto la triste esperienza delle terne proposte, a volte molto spintaneamente, dal Governatore della banca d’Italia di turno ai membri del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio che poi comunicavano al proponente, tenuto fuori dalla stanza della riunione, l’esito, cioè la nomina del presidente o del direttore generale della banca di diritto pubblico o della cassa di risparmio di turno.
Grazie anche alla legge Amato ed al ruolo svolto da Carlo Azeglio Ciampi, sembrava proprio che avessimo finalmente voltato pagina e che alla guida delle banche di ogni ordine e grado dovessero andare soltanto persone caratterizzate dalle doti che, con poche differenze rispetto a quando l’attività bancaria ha visto la luce qualche secolo fa, sono ritenute universalmente necessarie per garantire i depositanti sulla non secondaria circostanza che i loro risparmi siano al sicuro e che i prestiti vengano deliberati esclusivamente in base al merito creditizio del richiedente ed alle prospettive dell’attività economica dallo stesso gestita.
Si tratta, come è d’altra parte ovvio, di un’arte che richiede un training molto lungo e che, normalmente, prevede che il candidato a posizioni di vertice abbia maturato il maggior numero possibile di esperienze, oltre a disporre in partenza di una cultura specialistica non troppo disomogenea rispetto all’attività finanziaria e bancaria, il che non avveniva ai tempi della lottizzazione delle poltrone in un settore bancario che per almeno il settanta per cento era sotto il dominio diretto od indiretto dello Stato, ma che dovrebbe rappresentare un must quando si è giunti alla terza e forse decisiva fase di ristrutturazione del settore del credito.
Il problema vero è rappresentato dal fatto che nelle precedenti fasi del lungo e non ancora concluso processo di ristrutturazione, un processo che si è anche caratterizzato per concentrazioni che a loro volta sommavano insieme aggregazioni precedenti, come si è visto nel caso Intesa-San Paolo (dove di San Paolo è rimasto oramai poco più che il nome, privilegio volutamente non concesso alla acquisita in precedenza Banca Commerciale Italiana) ed in quello di Unicredit-Capitalia, i banchieri lottizzati sono stati sostituiti da uomini con esperienza nel settore della consulenza o in imprese del settore industriale o dei servizi, ma con poca o nessuna esperienza specifica nel settore creditizio.
E’ anche da questo vizio di origine che sono scaturiti processi e percorsi di aggregazione volti più a rispettare le autonomie delle entità, spesso fondazioni di origine bancaria, che avevano aderito al progetto di fusione, ma che erano riuscite ad imporre clausole non scritte volte a conservare il potere di influenza sull’azienda bancaria da loro conferite ad Intesa, ad Unicredit o allo stesso San Paolo di Torino quando questo era ancora un istituto aggregante e non, come poi è successo, aggregato, percorsi e processi i cui costi complessivi sono cifrabili in svariate decine di miliardi di euro e che hanno, giocoforza, portato verso i modelli attuali che peraltro non sono ancora quelli definitivi.
Tutto questo era possibile fino a che le banche andavano, per così dire, da sole, grazie alla permanenza della forma di mercato definita dal termine oligopolio collusivo e permanevano comportamenti di ‘cartello’ quali quelli sanzionati dalla Banca d’Italia con riferimento all’Associazione Amici della Banca o, sul piano più istituzionale, in quella sorta di stanza di compensazione dei rispettivi interessi rappresentata dall’Associazione Bancaria Italiana, ma è difficile che possa sopravvivere sotto gli alti marosi della tempesta perfetta e in presenza dell’approccio non del tutto amichevole del per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, uno che, ripresa la scrivania un tempo appartenuta a Quintino Sella, vi ha ricollocato il barattolo di pelati Cirio, emblematico segnale della lunghezza della sua memoria rispetto ai comportamenti tenuti nel recente passato da buona parte degli attuali presidenti ed amministratori delegati delle principali banche italiane!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.