E’ sempre utile ascoltare quanto dice il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, sulla crisi finanziaria in corso, anche perché indicativo di quanto rappresenterà tra pochi giorni agli otto capi di stato e di governo dei paesi del G8 riuniti in Giappone per confrontarsi su di una fitta agenda dei lavori, ma che non potrà che avere al centro il meltdown in corso nel mercato finanziario globale, il vero e proprio squagliamento della valuta statunitense e l’impazzimento che sta caratterizzando le quotazioni del prezzo del petrolio e delle altre materie prime energetiche e non, derrate alimentari incluse.
Nella sua veste di presidente del Financial Stability Forum, Draghi dovrà, infatti, presentare il testo finale del rapporto sulle cause della tempesta perfetta e, soprattutto, sulle nuove regole da adottare per evitare l’allargamento della crisi e per evitare di mettere la polvere sotto il tappeto, creando le premesse per la creazione di nuove bolle speculative, semmai di dimensioni maggiori di quelle che attualmente stanno sgonfiandosi, un rapporto commissionato dagli stessi leaders globali all’indomani della crisi di liquidità avviatasi nell’agosto del 2007 e poche settimane dopo le inquietanti scene provenienti dalla civilissima Gran Bretagna e che vedevano, per la prima volta da 166 anni, i solitamente compassati sudditi di Sua Maestà Britannica dare letteralmente l’assalto agli sportelli della Northern Rock, banca tecnicamente fallita e successivamente nazionalizzata dopo aver esperito ogni tentativo per trovare un compratore.
Ebbene, le forti preoccupazioni espresse ieri da Draghi sulla recrudescenza recente della crisi finanziaria, il suo accenno alla estrema fragilità del sistema finanziario negli Stati Uniti d’America, ma anche altrove, l’impossibilità di prevedere un orizzonte temporale per quanto approssimativo nel quale collocare una possibile conclusione della tempesta in corso, sono tutti elementi che rafforzano gli osservatori e gli analisti non embedded nella convinzione che, al di là della difficoltà per i regolatori di avere un quadro esatto delle criticità, vi sia una vera e propria lack of governance a livello globale, nonché l’incapacità o l’impossibilità di porre correttivi al treno impazzito della finanza globale mentre lo stesso corre a folle velocità.
L’aspetto più grave dell’attuale situazione è dato dal fatto che le persone attualmente al vertice dei dicasteri economici o delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati non difettano, almeno nella maggior parte dei casi, delle conoscenze, delle esperienze e delle competenze necessarie per maneggiare fenomeni come quelli che si presentano nel variegato e sofisticato settore della finanza strutturata, avendo molti di loro rivestito posizioni di vertice di importanti Investment Banks, come nel caso di Henry Paulson, una vita trascorsa in Goldman Sachs, o lo stesso Mario Draghi, che delle banche d’affari e di quelle di investimento è stato autorevole interlocutore prima nel suo incarico di effettivo privatizzatore di larga parte dell’industria e della finanza facenti capo alla mano pubblica e, successivamente, nella sua qualità di senior partner della stessa Goldman Sachs, conoscenze ed esperienze sul campo che caratterizzano anche molti altri loro colleghi posti a capo sia di dicasteri economici che alla guida di banche centrali.
Eppure, sta forse proprio nella loro conoscenza ed esperienza dei complessi meccanismi che regolano i rapporti tra l’economia reale e quella monetaria, nonché delle tecnicalità sofisticate proprie dell’investment banking e dei prodotti della finanza strutturata di ultima generazione il tallone di Achille di queste persone, anche perché sono perfettamente consapevoli che non esistono ricette miracolose e soluzioni semplici per riportare in porto il vascello della finanza globale al momento in alto mare ed esposto ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, una tempesta che presenta caratteristiche di durata ed intensità che fanno impallidire quella che si verificò nell’ottobre del 1907 e che fu risolta in tempi rapidi grazie all’intervento risolutore di quel John Pierpoint Morgan, forse il banchiere più bravo e più spregiudicato mai vissuto, un uomo che comprese che bisognava fornire una risposta alla crisi di fiducia impegnando prontamente tutto il patrimonio della sua banca e quello suo personale.
Certo, si trattava di tempi molto diversi da quelli attuali e l’entità dei fenomeni sottostanti era altrettanto certamente di dimensioni molto più gestibili di quanto lo sia l’altissima montagna dei titoli della finanza strutturata della quale nessuno conosce l’esatta altezza e volume, ma che ceto rappresenta non meno della metà della ricchezza finanziaria globale, di quegli almeno 150 mila miliardi di dollari che rappresentano a loro volta un decuplo del PIL statunitense espresso a valori correnti.
Paulson e Draghi, tanto per fare un esempio, sarebbero perfettamente in grado di escogitare delle misure stringenti in grado di contrastare la crescita esponenziale, in larga parte via derivati, del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, nonché delle derrate alimentari, ma sanno benissimo che i principali responsabili di questo fenomeno sono quelle stesse entità operanti nel mercato finanziario globale che cercano di recuperare così parte delle perdite già emerse (non meno di 400 miliardi di dollari) ed ancor più di quelle molto più consistenti che le caratterizzeranno per un consistente numero di trimestri a venire, per un conto finale che il quasi omonimo del ministro del Tesoro statunitense, l’hedge funder John Paulson, stima in 1.300 miliardi di dollari, una cifra che può spaventare ma che temo sia ancora approssimata, e di molto, per difetto.
Conoscere alla perfezione i meccanismi di moltiplicazione dei pani e dei pesci caratteristici del Corporate & Investment Banking, i livelli raggiunti dal leverage nelle maggiori Investment Banks e gli effetti altrettanto drammatici di un develerage spinto quale quello messo in atto dalla ormai ex Chief Financial Officer di Lehman Brothers, Erin Callan, sapere quanto sia vera la formuletta escogitata dal Chief Economist per gli USA di Goldman Sachs, Ian Hatzius, per misurare il tristissimo fenomeno del credit crunch determinato dalla distruzione di capitale, può indurre anche il più coraggioso decision maker o regolatore ad una sorta di paralisi che non caratterizzerebbe uno come Giulio Tremonti che, proprio a partire dalla sua scarsa conoscenza di questi fenomeni, potrebbe forse trovare una ricetta semplice per uscire dalla crisi finanziaria in corso, ma non oso pensare al livello dei danni collaterali che le sue “semplici” soluzioni potrebbero arrecare all’economia reale e cioè ai livelli risultanti di occupazione, reddito ed investimenti.
Vi è un solo aspetto dell’approccio teorico caratteristico dei liberisti e dei neoliberisti che condivido pienamente ed è dato dalla consapevolezza del fatto che interventi malpensati e, soprattutto, malgestiti dalle autorità pubbliche competenti sono da temere più di quanto lo sia il marasma attuale, opinione che, ne sono certo, era condivisa anche da John Maynard Keynes, un grande pensatore, prima ancora che un grande economista, che pure aveva avuto modo di comprendere i guasti ed i danni gravissimi prodotti dalla credenza superstiziosa nelle salvifiche caratteristiche intrinseche del laissez faire, con particolare riferimento a quanto accade per un tempo lunghissimo nel corso di quella che giustamente è stata definita la Grande Depressione, ma che era altrettanto convinto che da misure centralistiche dettate dalla paura potevano venire danni addirittura peggiori.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/