Il brusco defenestramento di Ken Thompson dal suo incarico di Chief Executive Officer di Wachovia Bank di cui avevo riferito ieri è stato solo il primo della giornata, in quanto un altro avvicendamento al vertice ha riguardato anche Washington Mutual, un’entità di notevoli dimensioni specializzata nel mortgage troppo grossa per ircorrere alla protezione del Charter 13 della legge fallimentare statunitense, ma la contempo troppo piccola per godere delle attenzioni della Federal Reserve, mentre le Investment Banks sopravvissute sinora alla tempesta perfetta affrontano il secondo giorno di sofferenza sotto una grandinata di vendite iniziate in concomitanza con la chiusura del secondo trimestre che già si annuncia come un vero e proprio momento della verità per tutte e quattro le entità.
Ma il vero occhio del ciclone era ieri dislocato nuovamente in Gran Bretagna, a causa delle crescenti difficoltà di un’altra banca prevalentemente specializzata nel mortgage, la Branford & Bingley che ha annunciato perdite lorde per 8 miliardi di sterline a causa della sua esposizione ai crediti immobiliari e delle difficili condizioni economiche, notizia che ha spinto la quotazione della azione bruscamente in giù del 27 per cento, anche perché si è compreso che non è servito a nulla l’intervento del fondo di investimento statunitense, Texas Pacific Group, che aveva investito la ben misera somma di 179 milioni di sterline per acquisire poco meno di un quarto del capitale della Brandford.
Se vi era la necessità di qualche fatto concreto a sostegno della tesi che vede le rassicuranti dichiarazioni del solito Henry Paulson e del suo codazzo di esperti e giornalisti embedded alle logiche del capitale finanziario globale, quanto sta avvenendo sulle due sponde dell’Oceano Atlantico provvede a spazzare via come foglie al vento le vuote parole di chi si ostina a non vedere il problema nelle sue drammatiche dimensioni e si ostina in ogni modo a vedere l’uscita dal tunnel sempre dietro il fatidico angolo.
Le stesse dichiarazioni in video conferenza del presidente della Fed lasciano letteralmente senza parole gli economisti di mezzo mondo, in quanto, riaffermato che le sue pistole sono ormai del tutto scariche, a Ben Bernanke non resta che sperare nell’effetto di quanto ha già fatto nel modo dissennato che è sotto gli occhi di tutti e nella mancia alquanto micragnosa con la quale Bush ed i tremebondi parlamentari statunitensi hanno cercato di dare un po’ di ossigeno alle alquanto esauste famiglie americane che o non ne avevano bisogno o hanno visto l’assegno di 600 dollari per i single e di 1.200 dollari per le coppie come la classica goccia di acqua durante una difficile traversata nel deserto.
In attesa di sapere cosa penseranno del loro maestro le studentesse e gli studenti di Princeton che hanno ricevuto l’incarico dal loro ex professore di analizzare le cause dell’attuale tempesta perfetta e, soprattutto, di individuare qualche rimedio più valido delle 65 raccomandazioni contenute nel rapporto di 90 pagine elaborato dal Financial Stability Forum presieduto da Mario Draghi, un rapporto che per ora conserva il suo carattere di bozza preliminare in attesa della scontata approvazione da parte dei sette grandi del pianeta che si riuniranno in Giappone a metà del mese di luglio.
Vorrei sommessamente ricordare a Bernanke, Paulson, Draghi e compagnia cantante che il problema era e rimane quello di trovare una qualche soluzione alla nuova peste che continua ad essere rappresentata dalla gigantesca montagna di titoli della finanza strutturata e dall’enorme credit crunch legato al blocco del turn over dei titoli medesimi, un rinnovo mancato che impedisce alle corporation di ottenere credito a buon mercato, ai consumatori di continuare a spendere allegramente, ai private equità di continuare a lanciare mirabolanti take over più o meno ostili senza tirare un solo dollaro dalle proprie casse, alle banche di investimento ed alle divisioni Corporate & Investment Banking di continuare a macinare profitti stellari, mentre stanno spingendo al fallimento le compagnie di assicurazione monoline che hanno deciso di garantire le emissioni di titoli che hanno visto una velocissima perdita del rating massimo ottenuto grazie ad agenzie di rating molto compiacenti.
Ho molta simpatia per le idee del professor Luigi Spaventa, ma ho l’impressione che la sua idea di trovare una soluzione che somigli alla fortunata invenzione dei Brady Bonds, idea che ho peraltro potute sentire in anteprima nel corso del convegno della UIL sulla crisi finanziaria tenutosi il 19 di marzo di questo veramente orribile 2008, non tenga conto della distanza siderale esistente tra lo stock del debito dei paesi in via di sviluppo oggetto di quell’intervento e le decine di migliaia di miliardi di titoli restati sul groppone delle banche, delle compagnie di assicurazione e, the last but not the least, degli sventurati investitori istituzionali che, oltre ad essere considerati i maggiori destinatari delle totale delle perdite, devono ora difendersi anche dalla accusa di essere tra i principali responsabili della fiammata inflazionistica derivante dagli aumenti fortissimi registrati dal prezzo delle materie prime più o meno energetiche e delle derrate alimentari, aumenti che uno stuolo di investigatori più o meno federali imputa al tentativo di rifarsi delle perdite derivanti dalla crisi finanziaria operando one way su contratti derivati che nel 99 per cento dei casi non producono un reale scambio della materia prima o della derrata alimentare sottostante.
Buona ultima nel cercare di alzare qualche miliardo di dollari di denaro fresco mediante aumento di capitale, Lehman Brothers, già colpita duramente da vendite senza precedenti negli stessi giorni nei quali stirava tristemente le zampe l’orso di Stearns (e solo perché era circolata in Asia una mail di una banca indonesiana che avvertiva i suoi correspondent bankers di non operare con la storica banca di investimento), starebbe meditando di procedere ad una richiesta ai propri azionisti od ai soliti volenterosi di sottoscrivere un aumento di capitale che, secondo i soliti bene informati, dovrebbe aggirarsi sui 4 miliardi di dollari, anche se le stesse fonti si affrettano a precisare che questa sarebbe solo una delle decine di opzioni allo studio dei vertici della Investment Bank, anche se confesso che siamo tutti curiosi di conoscere queste altre opzioni e preoccupati per lo stato di salute della bravissima Chief Financial Officer della stessa Lehman che aveva confessato le apure vissute solo qualche mese fa quando l’azione perse in poche ore il 56 per cento del suo valore.
C’è un aspetto della tempesta perfetta che un po’ per distrazione, un po’ per mancanza di tempo non ho sottolineato a sufficienza e che è rappresentato dall’alquanto inedito fatto che questa è la prima crisi finanziaria che non tocca in maniera massiccia i semplici investitori e risparmiatori, grazie al fatto che, fatta eccezione per un po’ di commercial papers, la stragrande maggioranza degli ABS, LBO, CDO e tutte le altre diavolerie prodotte dagli apprendisti stregoni operanti nelle fabbriche prodotto delle varie entità protagoniste del mercato finanziario globale sono rimaste on ed off balance sheet delle medesime entità, anche se molto spesso a parti invertite rispetto alla origination.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/
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