martedì 10 giugno 2008

Bye, Bye, Lehman Brothers & UBS?


Ci risiamo! Ancora una volta dei top manager spregiudicati giocano con il mercato e cercano in ogni modo di guadagnare tempo per loro prezioso prima di essere finalmente costretti a svelare almeno una parte della verità, anche perché in molti casi l’intera verità si trova nascosta nelle tante pieghe di una catena di comando complessa e non sempre ispirata a concetti obsoleti per i rampanti uomini di affari di Wall Street, concetti quali trasparenza, corretta e completa informazione agli azionisti ed al mercato, composti da persone che o hanno investito il loro denaro nella società o vorrebbero avere elementi sufficientemente attendibili per decidere se sia il caso o meno di mettere i propri soldi nella medesima società.

Era già accaduto nel caso di Bear Stearns qualche mese orsono, quando un presidente che avrebbe certamente meglio a calcare le scene si produsse in una più che rassicurante intervista ad uno dei più autorevoli network specializzati in questioni finanziarie e lo fece soltanto una manciata di ore prima di lanciare un drammatico SOS alla Fed di New York che mise in piedi una complessa operazione, con rischio a carico del contribuente, si intende, regalando di fatto la quinta tra le Big Five statunitensi agli eredi del mitico J.P. Morgan ed a quelli di Nelson Rockfeller, un deal che, almeno nella formulazione iniziale non valeva nemmeno la metà del solo valore dell’immobile nel quale ha (o, meglio, aveva) sede la Investment Bank.

Gli azionisti che prestarono fede alle bugie degli amministratori del defunto orso di Stearns, alle paginate di giornali piene di articoli di esperti e giornalisti embedded pronti a giurare sulla solidità della pencolante banca di investimenti o rassicurati dalla totale inazione di organismi quali la Securities and Exchange Commission o la stessa Federal Reserve, rinunciarono a portare a casa una ben maggiore contropartita per le azioni in loro possesso e si sono dovuti alfine accontentare dei 10 dollari per azione graziosamente offerti da J.P. Morgan-Chase, una cifra peraltro quintupla rispetto all’elemosina inizialmente offerta.

Ebbene, dopo decine di infuocate audizioni parlamentari nelle quali infuriati senatori strepitavano sulle malefatte di una corrotta Wall Street da contrapporre alle virtuose ma sempre più povere Main Street presenti in ogni località, per quanto piccola, degli Stati Uniti d’America, dopo le geremiadi del frastornato presidente della SEC, Effe O Ixs (al secolo Fox), che giurava nelle aule parlamentari ed al di fuori di queste che quanto era accaduto nel caso dell’orso di Stearns non era assolutamente previsto né prevedibile dai sofisticati modelli in dotazione all’organismo da lui presieduto, ecco che ci troviamo nuovamente in una situazione analoga nel caso di Lehman Brothers, un’altra Investment Bank afflitta dallo stesso male di Bear Stearns, un male legato ad un uso selvaggio della leva finanziaria che è a livelli più o meno analoghi nelle altre tre Investment Banks, mentre si pone appena al di sotto della media di settore nel caso della appena più morigerata J.P. Morgan-Chase.

Anche in questo caso il copione è stato recitato alla perfezione, anche se lo domande dirette o indirette rivolte dagli analisti sono state, stavolta, un po’ più insistenti e circostanziate, con i top manager di Lehman che non riuscivano del tutto a confutare le indiscrezioni provenienti dalle banche concorrenti che lasciavano trapelare il fatto che stavano prudentemente limitando l’operatività con la chiacchierata banca di investimento, mentre fonti attendibili parlavano di una crescente fuga dei migliori clienti che temevano di trovarsi intrappolati in un sempre possibile default.

La stessa notizia dell’aumento di capitale da 6 miliardi di dollari (guarda caso, l’esatto ammontare annunciato oggi) aveva provocato una raffica di sdegnate smentite, anche se un particolare aveva colpito la mia un po’ fervida immaginazione e, cioè, la perfetta equivalenza tra la somma richiesta ipoteticamente al mercato e la dotazione dell’hedge fund di quello cha da nove mesi almeno è il più acerrimo avversario di Lehman, il miliardario David Einhorn, un uomo che dal suo resort esclusivo in un paradiso tropicale ha messo sotto tito una dozzina almeno di banche di investimento, banche commerciali e compagnie monoliner, un aggregato di cui è possibile riconoscere l’identità dei componenti basandosi sulle perdite del valore delle azioni, flessioni che vanno da un minimo del 60 per cento ad un massimo del 90-95 per cento.

E’ facile oggi dire che si trattava di una scommessa azzeccato, o, nell’orribile gergo delle sale operative, un vero e proprio calcio di rigore, ma va detto per onestà che tale non era nel settembre del 2007, almeno per chi non disponesse di informazioni dall’interno delle alquanto impenetrabili Investment Banks, per non parlare delle ancora più impenetrabili divisioni Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, per non parlare poi delle divisioni finanza delle compagnie di assicurazione o di quei misteriosissimi organismi rappresentati dagli hedge funds o dagli esclusivi club per miliardari abituati a mirabolanti take over effettuati a buffo che prendono il none di private equity, ma ormai universalmente noti con il loro nome proprio di locuste, molto più voraci, peraltro, delle creature animali dalle quali traggono il nome.

Qui non siamo più di fronte al moral hazard di cui tanto si è parlato quando qualche conferenziere altolocato voleva fare bella figura con poco, per il semplice motivo che le avvisaglie della tempesta perfetta le vedevano solo un pugno di persone che venivano subito etichettate come estremisti visionari affetti da un odio viscerale nei confronti delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo finanziario che marciava spedito dalla metà degli anni Ottanta in poi, agevolato dai processi spesso intersecantesi della globalizzazione, della finanziarizzazione, ma, al di sopra di tutto, della deregolamentazione spinta che aveva reso finalmente possibile qualsiasi avventura finanziaria fosse venuta in mente agli immaginifici capi delle diverse entità che a vario titolo operano nell’immenso mercato finanziario globale.

Nel rendere noto l’aumento di capitale da effettuare, ovviamente, a sconto (o meglio, tale era il valore richiesto quando l’azione era molto meglio valorizzata qualche seduta orsono), l’amministratore delegato, ancora per poco, pare, di Lehman Brothers, ha anche reso noto che nel secondo trimestre la banca da lui gestita avrebbe perso poco meno di 3 miliardi di dollari, mentre la zavorra eliminata ammonterebbe non a 100 ma a 130 miliardi di dollari di valore nominale, mentre non è ancora dato di sapere l’entità delle relative perdite legate alla maxi svendita (difficilmente inferiore, sulla base di analoghe svendite effettuate, da ultimo, dalla extracomunitaria UBS, a 25-30 miliardi di dollari che, per l’appostazione off balance sheet di buona parte di questi assetts, in altrettanto larga misura si collocano al di fuori del perimetro che ha generato la di per sé già rilevante perdita).

Resto nel frattempo in trepida attesa dell’outing della UBS davanti ai giudici della Florida che sta processando un suo ex dipendente che, al pari di molti altri suoi colleghi, ha aiutato numerosi ricchi statunitensi a porre i propri patrimoni al di fuori dei confini degli Stati Uniti d’America.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/