mercoledì 25 giugno 2008

Salvate i soldati Ryan delle Investment Banks!


Permane una situazione alquanto surreale nel mercato finanziario globale che ha vissuto ieri l’ennesima prova della forte volatilità esistente nel comparto finanziario statunitense, testimoniata da un rimbalzo delle quotazioni delle azioni delle principali entità colpite nelle scorse sedute da una vera e propria alluvione di vendite, un rimbalzo peraltro singolare alla luce delle notizie diffuse ieri, sempre negli Stati Uniti d’America, notizie che segnalavano un significativo crollo della fiducia dei consumatori e flessioni record, sia su base mensile che annuale, dei già molto depressi prezzi delle case.

L’unico motivo che potrebbe spiegare questa temporanea pausa nel meltdown delle quotazioni azionarie delle banche (siamo, in moltissimi casi, a livelli che si collocano alla metà o meno dei massimi toccati nelle ultime 52 settimane) potrebbe essere individuato nelle netta accelerazione nei processi di downsizing in corso nelle Investment Banks e nelle banche più o meno globali, processi di riduzione del personale che sembrano accanirsi in particolare sulle donne e gli uomini che operano, in molto casi operavano, nelle sale operative e negli uffici dell’investment banking, come si è visto, a solo titolo d’esempio, con l’annuncio dei 6.500 licenziamenti di investment bankers fatto nei giorni scorsi dal quartier generale di Citigroup, colosso creditizio che si appresta a diffondere i dati relativi a quello che già si preannuncia come un pessimo secondo trimestre di questo orribile 2008.

Anche se è veramente difficile tenere il conto delle svalutazioni dei titoli della finanza strutturata e quello molto più delicato relativo al massiccio taglio delle teste degli addetti a vario titolo alle diverse entità che operano nel mercato finanziario, il fenomeno del progressivo ridimensionamento delle attività di Corporate & Investment Banking ha ormai raggiunto dimensioni tali da indurre a ritenere che, più che accettare le sempre più pressanti ed autorevoli richieste di splittare le CIB dalle banche più o meno globali, i vertici aziendali si stiano orientando verso il mantenimento delle stesse ma a prezzo di un loro dimagrimento che sta raggiungendo livelli preoccupanti e che indicano una quasi paralisi delle attività sottostanti.

E’ il caso del colosso creditizio extracomunitario UBS, alle prese non solo con una montagna di perdite e previsioni alquanto fondate che il triste fenomeno si ripeta nei trimestri a venire e con forti rischi reputazionali negli USA e all over the world, ma anche con processi di ridimensionamento delle enormi sale operative di Londra e New York che prevedono l’uscita di diverse migliaia di addetti che, almeno sino all’anno scorso, si ritenevano del tutto al sicuro da provvedimenti così drastici e si trovavano spesso a cambiare casacca in risposta alle offerte allettanti provenienti da altre banche interessate a sviluppare o ad impiantare ex novo le allora lucrosissime attività nel sempre in ascesa mondo della finanza.

Come ho avuto più volte modo di ricordare in più di una puntata del Diario della crisi finanziaria, i pesanti ridimensionamenti degli organici in corso nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche globali o di quelle CIB delle CIB che sono rappresentate dalle Investment Banks rappresentano un fenomeno che presenta aspetti inquietanti e che non si riducono alle preoccupazioni degli addetti per la loro sorte, in quanto vengono colpite risorse ad alta se non altissima qualificazione con effetti devastanti forse ancora maggiori per quelli che restano piuttosto che per quelli costretti ad andare via, con un peggioramento del clima aziendale che, seppure forse inevitabile, diviene una variabile strategica quando si verifica in ambienti impegnati in attività delicatissime e nelle quali un relativo clima di certezza e di stabilità occupazionale non rappresentano esattamente un optional.

So bene che fenomeni, anche significativi, di ridimensionamento degli organici nell’investment banking si sono verificati in diverse occasioni negli ultimi venticinque anni, in occasioni di quelle crisi periodiche che si sono susseguite a partire dal crollo di Wall Street nel 1987 alla crisi asiatica, dalla crisi russa allo squagliamento del Nasdaq, ma mi permetto di sottolineare che tutti questi sussulti si verificarono nell’ambito di un trend espansionistico di lungo periodo che permetteva di riassorbirli in tempi relativamente rapidi, cosa che non è prevedibile nel caso della tempesta perfetta in corso, a seconda delle datazioni, da un minimo di 10 mesi ad un anno e della quale nessuno è, al momento in grado di prevedere la fine.

Certo, è difficile prevedere che i magistrati statunitensi e quelli operanti negli altri paesi maggiormente industrializzati si troveranno a giudicare, oltre a legioni di banchieri e di alquanto improvvisati finanzieri, anche gli economisti e gli analisti che stanno dando in questi mesi dimostrazione del peggio di sé nel confondere le già confuse idee degli investitoti di ogni ordine e grado, ma credo realmente che ci siano dei limiti, o almeno ci dovrebbero essere, alle vere e proprie acrobazie compiute da questi individui embedded anima e core alle esigenze del capitalismo finanziario, persone che descrivono per mesi quella in corso come poco più che una tempesta in un bicchiere d’acqua, per poi esibirsi in vere e proprie giravolte teoriche per dimostrare che avevano previsto tutto e che avevano sempre segnalato i rischi incombenti sul settore immobiliare e su quello finanziario.

Tutto questo, ovviamente, riguarda quella che in tempi andati veniva definita la sovrastruttura, ma ritengo sarebbe sbagliato sottovalutare l’impatto del parere, in molto casi strombazzato ed amplificato, di persone che si ammantano di fame spesso non meritate ma altrettanto frequentemente molto accreditate dai media sulle decisioni, spesso poco razionali, della pletora di investitori che si ostinano a frequentare quel vasto e scintillante casinò a cielo aperto che è il mercato finanziario globale.

Mi vedo costretto a tornare sulla questione del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari incluse, in quanto, nonostante le rassicurazioni provenienti dall’Opec e dagli altri produttori di petrolio sulla perfetta consistenza dell’offerta rispetto alla domanda, nonché l’esistenza palmare di un significativo ridimensionamento della domanda nei paesi maggiormente industrializzato ed in quelli emergenti, il prezzo del petrolio ha ripreso ieri la sua folle corsa, riportandosi in prossimità dei massimi toccati nelle scorse settimane.

Lo faccio per rivolgere nuovamente un amichevole e sommesso suggerimento a coloro che sono entrati buoni ultimi in questa folle corsa, per invitarli a riflettere sui rischi altissimi che stanno correndo partecipando ad un gioco guidato da operatori di grandi dimensioni e dotati di apparati analitici sofisticatissimi, veri e propri leaders che potrebbero girare le loro posizioni in un nanosecondo, lasciando i newcomers con il classico cerino acceso in mano.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/