Ho impiegato alcune settimane per cercare di riflettere con più calma su quello che sta davvero accadendo nei mercati finanziari, uno sforzo non da poco dopo i devastanti ventotto mesi di tempesta perfetta che hanno provocato perdite e lutti alla flotta delle entità a diverso titolo operanti nel mercato finanziario globale.
Si è trattato in ogni caso di una pausa salutare dopo due anni di impegno quotidiano che hanno trasformato il Diario della crisi finanziaria nel giornale di bordo non autorizzato del maggiore sommovimento nei mercati finanziari mai registrato dalla crisi del 1929, anche se, e non solo il solo a pensarla a questo modo, sotto molti aspetti la magnitudo dei fenomeni che stiamo ancora vivendo è stata addirittura maggiore di quella registrata ottanta anni orsono.
Ma quello che rende difficoltoso fare il punto della situazione è rappresentato dalla domanda che pongo quasi incessantemente da oltre due anni: quale è la vera dimensione della montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata ancora in circolazione e quale è l’esatta distribuzione degli stessi tra le diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale?
Dopo la recente restituzione operata da Citigroup, si può dire che quasi tutte le maggiori banche statunitensi hanno saldato il proprio debito nei confronti dello Stato, liberandosi così dalle limitazioni sui compensi imposti dall’amministrazione Obama, ma sorte analoga non sono destinati ad avere i titoli che sono stati graziosamente sollevati dai loro bilanci e i cui relativi rischi gravano ancora sulle entità pubbliche che se ne sono fatte carico.
L’altro corno del dilemma, rappresentato dalla situazione del mercato immobiliare, non presenta maggiori punti di chiarezza, a meno di non fermarsi al rimbalzo delle vendite stimolate dagli sgravi fiscali e dai prezzi di assoluto realizzo degli immobili, una condizione quest’ultima destinata a continuare alla luce del crescente numero di procedure di foreclosure.
Ma vi è un terzo aspetto della tempesta perfetta che sta togliendo il sonno agli investitori ed è quello connesso alle pesanti tosature cui sono sottoposti i detentori di obbligazioni tradizionali emesse da entità o entrate in procedura fallimentare o in difficoltà nella restituzione, come nel caso della Dubai World, che ha chiesto una moratoria di sei mesi sulla restituzione sia degli interessi che dei bonds in scadenza.
Queste tre criticità spiegano il sostanziale arresto della crescita dei tre principali indici statunitensi dopo una corsa del 60 per cento circa dai rispettivi minimi toccati nel corso del mese di marzo, una battuta di arresto che dovrebbe preludere, almeno secondo il giudizio di uno dei più importanti gestori del mondo, il chief executive officer di PIMCO, Mohammed El-Erian, a un ribasso in tempi brevi del dieci per cento del rappresentativo Standard & Poor’s 500.
D’altra parte, una ripresa sostenuta in larga misura dall’elevatissimo deficit spending governativo e dai tassi prossimi allo zero non è destinata ad avere vita lunga e sostenibile né a produrre quei tassi di crescita che potrebbero consentire quel significativo riassorbimento del tasso di disoccupazione che potrebbe segnalare una vera inversione di tendenza.