sabato 28 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (settima parte)


L’emissione dei cosiddetti Tremonti Bonds da parte delle banche interessate a ricevere gli aiuti di Stato rappresenterà, d’altra parte, un chiaro test dell’influenza raggiunta dall’Esecutivo nei confronti dei vertici dei maggiori gruppi creditizi italiani, cui è destinata una quota che si aggira intorno all’80 per cento dei 10-12 miliardi di euro previsti, un test significativo in quanto, alla fine di un lungo ed estenuante braccio di ferro, il ministro dell’Economia l’ha spuntata su ABI, Banca d’Italia e ambienti della maggioranza sensibili alle ragioni delle banche ed è riuscito a imporre una serie di condizioni che, soltanto un anno fa, le banche avrebbero sdegnosamente respinto al mittente, ma che ora si apprestano a subire, seppur non senza qualche molto silenzioso mugugno!

L’adozione di un codice etico, la moratoria per un anno dei mutui a cassintegrati e disoccupati, un deciso abbassamento dei mega bonus e delle stock options milionarie (pro capite), il controllo esercitato dai Prefetti sulla stabilità degli impieghi alle imprese, in particolare a quelle piccole e piccolissime, non sono proprio bocconi facili da ingoiare per il gotha dei banchieri italiani, gente abituata a condizionare i politici, piuttosto che esserne condizionata, se non apertamente minacciata dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia che, in più di un’occasione, ha ripetuto il suo jingle preferito sui banchieri in caso di default.

Certo, come ogni vincitore che si rispetti, Tremonti ha riposto sia l’arme della critica che quella delle armi, accontentandosi di avere messo in riga tutti quelli che, a torto o a ragione, ancora considera i responsabili dei danni subiti dai risparmiatori/investitori in una lunga serie di vicende dal carattere eccezionale, da Parmalat a Cirio, dai Bonds argentini a Giacomelli, ma che considera un po’ disinvolti anche nella attività ordinaria, in merito alla quale ha lasciato lunghe le briglia sul collo all’Antitrust che, in realtà, da un po’ di tempo si sta dando parecchio da fare sulle vere cause della cronica assenza di concorrenza nel mercato creditizio italiano, un comportamento che vede poche differenze tra le banche italiane e quelle straniere.

Confermandosi l’enfante terribile del giornalismo economico italiano, Oscar Giannino dal ‘suo’ Libero mercato ha lanciato una bordata non c’è male contro i maggiori gruppi bancari italiani, sottoponendoli allo stesso stress test previsto per le prime diciannove banche statunitensi e traendone la conclusione che, con la sola eccezione positiva di UBI Banca, tutte le altre si pongono di poco al di sopra del 3 per cento, ove il patrimonio venga depurato dell’avviamento, del marchio e di altre voci che non reggerebbero due minuti ove l’istituto di credito esaminato si trovasse realmente in difficoltà, una verifica che capita a fagiolo mentre si dibatte tanto sull’utilità o meno degli aiuti di Stato per le banche.

Richiamandosi esplicitamente all’esperienza in materia fatta dalla Francia, il Governo italiano punta a ottenere il massimo risultato possibile in termini di influenza e moral suasion nei confronti di quei gruppi che rappresentano tanta parte del sistema bancario italiano con il minimo esborso di mezzi, peraltro molto meglio remunerati di quanto il Tesoro corrisponda ai suoi creditori, mentre Tremonti continua ad accreditarsi come un novello Robin Hood agli occhi di quegli imprenditori di piccola taglia che già erano o rischiavano fortemente di essere le principali vittime del credit crunch in corso.

Lanciata una discreta manciata di brioches al popolo degli imprenditori, Berlusconi può così dedicarsi agli affari più importanti, raggiungendo un’intesa strategica sul nucleare con l’amico Sarkozy, cornice alla sigla di un deal tra ENEL e EDF, rimette il turbo al Ponte sullo Stretto di Messina, cerca di sedare la rissa nel pollaio milanese intorno al Big Business legato all’Expo prossimo venturo, tutte opere molto in là da venire ma che consentono al premier e ai suoi ministri di mettersi un casco bianco o giallo in testa e lanciare messaggi rassicuranti su un futuro fatto di decine e decine di miliardi di euro di opere pubbliche e di interessi molto privati.

Ma dove, almeno al terzo tentativo, Berlusconi compie il suo capolavoro è in quell’opera di intercettazione delle paure più o meno reali del suo pubblico, poco importa quanto le stesse siano amplificate da media che definire embedded e poco più di un eufemismo, un’opera nella quale il nostro non sbaglia davvero un colpo, poco importa che si tratti di immigrati, delinquenza più o meno organizzata, fannulloni, scioperanti nei servizi pubblici, con particolare attenzione ai trasporti, una lista molto lunga di obiettivi caratterizzati da un denominatore comune: una chiara maggioranza nei sondaggi preventivamente favorevole a che si faccia qualcosa, senza andare troppo per il sottile e senza curarsi degli effetti collaterali!

In perfetta assonanza con quanto previsto nel noto manifesto di una delle organizzazioni più o meno segrete di chiara ispirazione atlantica, anche nella sua terza esperienza governativa, Silvio Berlusconi ha ben chiaro che a quella residua parte del Paese che si ostina a non diventare un lavoratore autonomo o un imprenditore nemmeno a part time è rimasto un unico baluardo e che questo è rappresentato dalle organizzazioni sindacali che, a differenza dei partiti del centro sinistra o della sinistra attualmente esclusa dal Parlamento, sono ancora caratterizzate da un forte radicamento sociale e da una significativa capacità di influenzare i propri iscritti che, includendo i pensionati, continuano a superare la soglia dei dieci milioni di donne e di uomini, un numero importante, anche se oramai, come ho scritto nella prima puntata, i lavoratori dipendenti nel loro complesso siano divenuti una minoranza.

Pur non rappresentando un capitolo della politica economica in senso stretto, è tuttavia evidente che quello delle relazioni con le organizzazioni sindacali rappresenta un capitolo cruciale della strategia di Berlusconi, ma che è anche il capitolo sul quale ha incontrato le maggiori difficoltà nelle sue due precedenti esperienze governative, al punto da decidersi a delegarle completamente al duo Sacconi-Brunetta, i due ministri che, assieme a Tremonti, maggiormente risentono dell’influenza di Franco Reviglio della Venaria, una circostanza rivendicata dall’ex ministro socialista delle Finanze in una sua recente apparizione televisiva andata in onda a tardissima notte.

Le prossime settimane e i prossimi mesi chiariranno se l’azione congiunta di Brunetta e Sacconi avrà successo, anche se il solco che si stava creando tra la CGIL da un lato e le altre tre confederazioni sindacali dall’altro sembra si stia riducendo, alla luce della consapevolezza che l’obiettivo potrebbe non essere solo il ridimensionamento dell’organizzazione con sede a Corso d’Italia, quanto il Sindacato tout court, un dubbio che serpeggia sempre di più tra gli stati maggiori della CISL, della UIL e della UGL, in particolare da quando Epifani e i maggiori esponenti della sua confederazione stanno assumendo un atteggiamento più prudente.


Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

venerdì 27 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (sesta parte)


Nonostante le dimensioni nel frattempo raggiunte, non vi è dubbio alcuno che il Monte dei Paschi di Siena rappresenti l’ultimo esempio di banca molto attenta alle esigenze del territorio senese, non indifferente alle esigenze degli abitanti della Toscana, ma ancora non del tutto consapevole di quel ruolo di banca nazionale che pure ha raggiunto da lungo tempo, una contraddizione destinata a divenire stridente dopo l’onerosissima e fulminea acquisizione di Antonveneta al prezzo record di nove miliardi di euro per una banca oramai lontana dai livelli di attività e radicamento vantati solo pochi anni orsono, peraltro privata di una importante partecipata bancaria, venduta a parte dall’abile Don Emilio Botin.

Quando mi sono ripetutamente occupato della questione, l’azione del gruppo senese quotava a un multiplo di quanto vale oggi, mentre l’assorbimento del patrimonio della Fondazione nella sua maggiore partecipata continua a mantenersi intorno alla stratosferica percentuale del 90 per cento, il che renderà molto problematico rispondere alle indiscrete ma puntuali domande contenute nella missiva ricevuta dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, una lettera circolare a tutte le fondazioni di origine bancaria che chiede risposte dettagliate su questioni quali i rischi finanziari, la redditività, l’eventuale utilizzo del fondo di stabilizzazione e via discorrendo, domande delle quali, almeno nel caso di Siena, conosce già, almeno per sommi capi, le risposte.

Come si sa, nella non troppo remota tentata scalata della Banca Nazionale del Lavoro da parte del rinomato duo Consorte-Sacchetti, con Caltagirone e furbetti del quartierino al seguito, Unipol si trovò in rotta di collisione proprio con il Monte dei Paschi di Siena e alcune importanti cooperative, il che ha poi portato a sciogliere i nodi societari che da tempo legavano le due entità, anche se, almeno limitandosi a vedere i corsi di borsa, non sta andando troppo bene neanche per Unipol Gruppo Finanziario, come da qualche tempo è stata ribattezzata la compagnia assicurativa di Via Stalingrado in quel di Bologna.

Una delle letture più interessanti della mia gioventù era intitolata Magnati e popolani nella Firenze dei Ciompi, un libro che mi fornì uno squarcio sul carattere particolare dei toscani, anche se devo dire che l’anno di studi trascorso in quella città nell’anno dell’alluvione mi fornì qualche impressione più di prima mano, per cui non trovo del tutto strana l’ostinazione dei contradaioli senesi a ritenere la banca fondata nel XV secolo un affare di loro esclusiva pertinenza, una convinzione alla quale l’impresa corsara del giovane avvocato Mussari, calabrese di nascita ma senese di adozione, ha inferto un colpo che credo proprio si rivelerà mortale, anche per la coincidenza della presenza, nell’azionariato e nel consiglio di amministrazione, di quello stesso Caltagirone che tanta parte ebbe nell’infrangere le ambizioni della Bilbao Vizcaya y Argentaria che BNL la voleva proprio tanto!

Quale potrebbe realisticamente essere la soluzione lo ho scritto tempo fa e continuo a essere convinto che il destino dei senesi e quello di Unipol torneranno a incontrarsi, anche a suggello del patto di non aggressione tra la Lega delle Cooperative e Berlusconi, ma che occorrerà per completare l’operazione la partecipazione di un importante gruppo creditizio francese che in Italia è oramai di casa, proprio attraverso quella BNL che tanti lutti addusse agli assicuratori bolognesi, conditio sine qua non perché la Fondazione di Rocca Sansedoni possa scendere, ricevute le opportune garanzie, a quel 30 per cento prescritto a suo tempo per legge da Tremonti, ma poi cancellato dal suo infido successore dopo l’agguato di Palazzo (Chigi) ordito ai danni di Giulio dalla strana coppia formata da Fini e Casini, complice l’assenza per grave malattia di Umberto Bossi che a Tremonti è legato da un patto di acciaio.

Non mi soffermo sulle caratteristiche tecniche connesse all’operazione da me soltanto, ovviamente, immaginata, se non per dire che sarebbero certamente molto più significative sul piano industriale di quelle che hanno caratterizzato ‘tutte’ le aggregazioni fatte sull’onda della paura degli azionisti stranieri e potrebbe anche rappresentare, alla luce degli ottimi rapporti tra berlusconi e Sarkozy, una valida compensazione della diluizione potenzialmente patita da Bollorè e compagni in Mediobanca e, di riflesso, in Generali, ove né Innominati, né Don Rodrighi di turno dovessero frapporre ostacoli ai promessi sposi Mediobanca e Unicredit Group!

Da tutto questo Ambaradan ai piani alti del sistema finanziario italiano, resterebbero al momento estranee le entità che, pur presenti tra i primi cinque gruppi bancari e pienamente ammesse al listino di Piazza Affari, continuano a definirsi di credito cooperativo, un nome che fa venire l’orticaria a Berlusconi e Tremonti e che, non del tutto a caso, l’ex segretario generale di Palazzo Chigi, poi divenuto presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, della stranezza si è lungamente occupato nella recente indagine conoscitiva sulla corporate governance di banche e compagnie di assicurazione, un testo che è stato opportunamente inviato, per le determinazioni del caso, a Governo e Parlamento e che prevede che quanto previsto per le piccole e medie banche popolari, o per le singole banche di credito cooperativo (già il discorso cambia, secondo l’Antitrust, per le federazioni regionali delle stesse BCC) non può valere per colossi del calibro di UBI Banca, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano o Banca Popolare dell’Emilia Romagna.

Pur trovandoci in pieno mare in tempesta, non vi è dubbio che le eventuali modifiche sul piano legislativo e regolamentare riguardanti le banche popolari di maggiori dimensioni verranno precedute o seguite da ulteriori processi di aggregazione che dovrebbero ridurre almeno della metà il numero delle stesse, cosa peraltro già tentata in passato dalla BPER e dalla Banca Popolare di Milano, anche se non realizzata per lo sfilamento, in extremis, di una delle due entità coinvolte, anche se il recente cambiamento dello statuto della stessa, fortemente voluto dalla Banca d’Italia e il mutamento degli equilibri interni potrebbero favorire il riavvio di questa o di altra operazione di aggregazione, anche perché, essendo quattro le entità potenzialmente coinvolte, le combinazioni possibili possono essere le più svariate, sino a quella Superpopolare di cui qualcuno ha parlato in passato, un’entità di dimensioni talmente grandi che potrebbe tranquillamente permettersi di perdere i benefici derivanti dalle norme realtive al credito cooperativo e competere ad armi pari con gli altri colossi del credito.

Immaginando per un attimo di essere al giorno dopo della riorganizzazione in corso al vertice della classifica dei gruppi creditizi italiani, risulterebbe evidente che, senza necessariamente passare per alcuna nazionalizzazione, l’influenza del Governo sulle principali banche italiane potrebbe davvero definirsi compiuta e consentire più agevolmente la realizzazione di quei progetti relativi all’economia reale su cui mi soffermerò domani.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

giovedì 26 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (quinta parte)


Al di là della proliferazione dei vertici tra capi di Stato e di Governo riscontrabile dall’autunno del 2007, è certo che gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo hanno messo in evidenza quel che manca nel progetto di edificazione degli Stati Uniti d’Europa, un processo che dalla visione iniziale dei padri fondatori ha certamente compiuto significativi passi in avanti, in particolare sul piano monetario, con la progressiva adesione di ben sedici paesi su ventisette alla moneta unica, il rafforzamento del parlamento e delle istituzioni europee, ma al quale mancano passaggi significativi e fondamentali che rischiano seriamente di allontanarsi di molto nel tempo, se non di finire per non realizzarsi più, in primis la possibilità di giungere ad un Governo unico, con precise competenze almeno in materia di difesa, politica economica e rapporti con l’estero.

Mentre la crisi finanziaria ha reso molto più probabile l’adesione all’euro dei paesi che hanno sinora utilizzato la clausola dell’opting out, non vi è dubbio che l’impossibilità di giungere alla definizione di un piano di salvataggio unitario ha ridato fiato a quelle spinte mai sopite a favorire gli interessi nazionali, anche a scapito degli altri paesi membri, accresciuto la tendenza al rafforzamento e alla difesa dei cosiddetti ‘campioni nazionali’, nonché la tentazione di eliminare, spesso via aggregazioni successive, qualsiasi presenza ‘straniera’ ingombrante nel settore finanziario.

Se questa è una peculiarità francese, in parte legata a motivi storici, non vi è dubbio che nel settore creditizio italiano questa logica abbia avuto un ruolo prevalente nelle motivazioni che hanno portato all’acquisizione fulminea del San Paolo-IMI da parte di Banca Intesa e di Capitalia da parte di Unicredit, mentre non è stato risolto in Mediobanca che è, e intende rimanere, l’azionista di riferimento di quelle Assicurazioni Generali che hanno non del tutto a caso appena deciso l’incorporazione delle controllate Alleanza e Toro.

Non dispongo di alcun elemento di conoscenza in merito ai rapporti esistenti tra Giulio Tremonti e l’anziano banchiere di Marino, Cesare Geronzi, mentre è certo che quest’ultimo intrattiene rapporti cordialissimi sia con Silvio Berlusconi che con il suo braccio destro Gianni Letta, nel cui ufficio di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio si svolgono quotidianamente incontri bilaterali, riunioni e conciliaboli, una sorta di stanza di compensazione tra le strategie da tempo delineate e l’applicazione pratica delle stesse.

Ho l’impressione che Alessandro Profumo non si sia accorto di quanto accadeva in questi mesi a Palazzo Chigi e dintorni, forse confidando troppo nella difficoltà di conciliare la visione tremontiana e le dichiarate ambizioni nutrite da Geronzi, nonché sull’attiva attività di interdizione svolta dal Governatore della Banca d’Italia che, in più di un caso, ha promulgato disposizioni che sembravano rispondere più che criteri di carattere generale alla volontà di sbarrare la strada verso quegli incarichi di vertice nelle Generali cui Geronzi sembrava aspirare, una sottovalutazione dei rapporti di forza che è deflagrata in occasione della conversione ad u sul modello di governance fortemente voluta da Geronzi e ostacolata sia da Profumo che da Draghi.

Tutto è divenuto più chiaro quando un cronista che in Unicredit Group è di casa ha anticipato, sull’organo ufficiale della Confindustria, un resoconto ampio una pagina sulla possibile fusione tra Mediobanca e Unicredit Group, un vero e proprio fulmine a ciel sereno, con ovvio seguito di smentite imposte dalla CONSOB ai due gruppi interessati, ma che altrettanto ovviamente nulla dicevano sulle intenzioni degli azionisti di riferimento dei rispettivi gruppi, in particolare di quelli di parte italiana, di alcuni dei quali è più che nota l’insoddisfazione per la situazione attuale, con particolare riferimento al progressivo squagliamento dell’azione di Unicredit.

Mentre è del tutto difficile, se non impossibile, dire quale sarebbe il senso industriale di una simile aggregazione, anche se di ciò non ci si è troppo preoccupati nelle due mega aggregazioni citate di sopra, o chi guiderebbe le danze, per non parlare poi della governance prossima ventura dell’aggregato risultante, quello che è certo è il cui prodest, anche alla luce dei nomi che sono circolati per le cariche di presidente e di amministratore delegato che i più hanno visto corrispondere, rispettivamente, a quelli di Cesare Geronzi e di Alberto Nagel, mentre, in base ai numeri, la presenza di Bolloré e degli altri soci francesi di Mediobanca si sarebbe diluita in modo drastico e così la loro influenza su quella che è forse la principale ragione di esistere dell’istituto di Piazzetta Cuccia: la partecipazione nelle Generali!

Con la benedizione di Berlusconi e la guida di Geronzi, non vi è dubbio che sia la componente bancaria che quella industriale di origine italiana del patto di sindacato che governa Mediobanca esprimerebbero a larga maggioranza parere favorevole all’operazione, anche se per le banche azioniste si tratterebbe solo di realizzare un capital gain, in quanto, alla luce della recente indagine conoscitiva dell’Antitrust in materia di governance, non sarebbe loro consentito di fare parte degli organi collegiali dell’aggregato risultante, mentre l’operazione rappresenterebbe una boccata di ossigeno per le fondazioni azioniste di Unicredit che, fatta eccezione per Cariverona, non hanno colto il messaggio implicito contenuto nella lettera circolare loro inviata da Tremonti.

Sarà un caso, ma la puntata che ho dedicato a suo tempo a questa operazione è stata una delle più lette sia dall’Italia che dall’estero, così come quelle dedicate al male oscuro che affligge Unicredit da quando è divenuto Group, anche se credo che difficilmente si procederà al solo fine di allontanare Profumo e Rampl dalle loro rispettive poltrone, anche perché credo che l’obiettivo dei padrini dell’operazione sia molto più ambizioso e molto più omogeneo a quel desiderio di controllare che siano garantiti, almeno dai due principali gruppi creditizi italiani, i flussi di impieghi essenziali per quello sterminato numero di imprese che già vede in Berlusconi una sorta di novello Re Mida, mentre fornirà un concreto motivo di fede per quelle che ancora mantengono un atteggiamento agnostico.

Se l’eventuale matrimonio tra Mediobanca e Unicredit Group è una pratica direttamente gestita da Berlusconi e Letta, delle prospettive del Monte dei Paschi di Siena se ne occupa direttamente Tremonti, sia perché l’attuale proprietario è una fondazione di origine bancaria, sia perché il tempo concesso a Rocca Sansedoni per ravvedersi è, per il poco paziente ministro, oramai pressoché scaduto, con il rischio che la complessa operazione che avrebbe dovuto fare nascere il terzo polo bancario e assicurativo italiano potrebbe essere divenuta più difficile da realizzare, ma di questo mi occuperò nella puntata di domani!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

mercoledì 25 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (quarta parte)


Prima di proseguire, mi vedo costretto a rivolgere lo sguardo a quanto sta accadendo in queste ore sulle due sponde dell’Atlantico, in quanto nel week end, come era largamente prevedibile, si sono consumati alcuni avvenimenti che incideranno, e parecchio anche, sulle questioni che ho affrontato nelle tre precedenti puntate sulle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi!

La prima è rappresentata dall’anomalo vertice dei capi di Stato e di Governo dei principali quattro paesi dell’Unione Europea, Italia, ovviamente, inclusa, a cui partecipavano anche il presidente della UE, Barroso, il premier olandese, quello spagnolo e quello della Repubblica Ceca, causa presidenza di turno semestrale, una riunione tutt’altro che effimera e nella quale è stata messa giù una molto impegnativa agenda in vista del G20/G21 previsto per il 2 aprile prossimo venturo in quel di Londra, un’agenda che prevede, tra l’altro, la lotta senza quartiere ai paradisi fiscali rei di essere base di quei 7 mila miliardi di euro che non solo sono in gran parte sottratti agli oneri fiscali previsti nei paesi di appartenenza, ma vengono anche visti, a torto o a ragione, come la hot money che imperversa, a fini altamente speculativi sul mercato finanziario globale travolto dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso.

Ma nell’agenda è previsto anche quanto sta già avvenendo negli Stati Uniti d’America, la nazionalizzazione di fatto di larga parte del sistema bancario e finanziario a stelle e strisce, un’operazione iniziata già in ottobre con Fannie Mae, Freddie Mac, Ginnie Mae e il colosso assicurativo AIG che è tornato ieri a bussare cassa, ma che da ieri sta coinvolgendo Citigroup, Bank of America, attraverso la conversione della montagna di preferred shares già acquisite in common shares, azioni ordinarie, previa immissione di altre decine e decine di miliardi di dollari direttamente sotto forma di azioni ordinarie, mentre sarebbe prevista la conversione di tutti gli interventi previsti dalla prima parte del TARP in altrettante azioni ordinarie delle entità a suo tempo beneficiate, incluse Wells Fargo, J.P. Morgan-Chase, Goldman Sachs e Morgan Stanley, sempre che le stesse non restituiscano quanto ricevuto (sic)!

E’ ora molto più comprensibile la recente esternazione di Silvio Berlusconi dopo l’incontro a Roma con il “salvatore del mondo” Gordon Brown” svoltosi in vista del vertice sopra menzionato, così come è chiaro che anche i governi dei maggiori paesi europei stanno seriamente considerando l’opzione statunitense, indubbiamente la più efficace per mettere in sicurezza i rispettivi mercati finanziari, anche se, quando tutto ciò si verificherà, stuoli di giornalisti e commentatori alquanto emebedded si sgoleranno a giurare che si tratterà soltanto di misure temporanee, peccato che nessuno di loro sarà in grado di indicare la data di conclusione dell’esperimento, anche perché è chiaro a tutti che non vi è nulla che piaccia di più ai governanti di turno come l’esercizio del potere pressoché assoluto sulla distribuzione del credito, che ovviamente sarà effettuata da persone da loro direttamente indicate o a loro certamente gradite!

Chiarito lo scenario internazionale che farà da cornice alle scelte di politica economica e ai piani di salvataggio delle entità protagoniste del mercato finanziario italiano, possiamo riprendere il filo del ragionamento esposto nelle tre puntate precedenti, ricordando che ci eravamo fermati a quanto è emerso nell’intervento del Governatore della Banca d’Italia alla riunione annuale del Forex e delle altre associazioni degli operatori impegnati nel mercato finanziario, un intervento nel quale Draghi ha evitato accuratamente di criticare il Governo per la scarsa entità dei provvedimenti, soprattutto se raffrontati alle cifre multiple messe in campo da Brown, da Sarkozy e dalla Merkel, mentre ha invitato i banchieri presenti (e i tanti stranamente assenti) a valutare molto attentamente il testo che prevede i cosiddetti Tremonti Bonds, che molti, a torto o a ragione, vedono come una sorta di cavallo di Troia di Bermonti per espugnare le alquanto traballanti mura di difesa dei primi cinque gruppi creditizi italiani.

Pur di cacciare dalla sua poltrona l’odiato Antonio Fazio, fu proprio Tremonti a indicare a Berlusconi il nome dell’allora uomo di vertice di Goldman Sachs, ma per un decennio Direttore Generale del ministero del Tesoro, Mario Draghi appunto, pur avendo perfettamente a mente il ruolo fondamentale svolto dal designato Governatore nel processo di privatizzazione di parte del sistema bancario e di aziende del calibro di Telecom, ENI ed ENEL, un ruolo che lo poneva indubitabilmente come elemento di punta del disegno europeista fortemente propugnato da Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi, Carlo De Benedetti e compagnia cantante e che rappresentò una vera e propria festa per le più importanti Investment Banks del mondo, inclusa quella potente e ancor più preveggente Goldman Sachs che molto opportunamente lo cooptò al termine della sua esperienza in Via XX Settembre, affidandogli importanti incarichi in Europa e ammettendolo al proprio comitato esecutivo mondiale!

Non voglio assolutamente entrare nel pur vivace dibattito che vede in quella fase del processo di privatizzazione un’occasione mancata per valorizzare l’esperienza delle Partecipazioni Statali, un regalo a Mediobanca e al capitalismo delle grandi famiglie, ma quello che è certo è che i medi, piccoli e piccolissimi imprenditori restarono, per così dire, a bocca assolutamente asciutta e fecero fatica a comprendere la strategia dei noccioli e nocciolini duri applicata a realtà quali la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, e le importanti utilities sopra citate, un’opposizione sorda e muta che non fu estranea alla prima grande avventura imprenditoriale di Roberto Colaninno e dei suoi compagni di avventura, primo indizio della forma economica che stava assumendo quel partito del Nord che allora era soltanto in ‘mente dei’.

Così come non mi pare il caso di ricordare la doppia presidenza dell’IRI opportunamente affidata a Romano Prodi o che, nella doppia disfida di Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, la prima avvenne, ancora ai tempi del pentapartito e quando Bettino Craxi godeva fama di grande statista, proprio su quella SME della quale il Professore si voleva a tutti i costi liberare, come, tanti anni dopo, dell’Alitalia, tutte occasioni nelle quali venne affidato a un allora giovane Berlusconi il compito di fare il guastafeste, anche se nel mezzo vi è la grande battaglia sulla proprietà della Arnoldo Mondadori Editore, una battaglia di grande e strategica importanza, anche alla luce del fatto che la Rizzoli era già saldamente controllata, via Roberto Calvi, dai padrini del tempo dell’uomo di Arcore.

Allora come oggi, Mediobanca rappresenta uno snodo troppo importante per accettare la presenza di Bolloré e dei francesi, qualcosa che ricorda molto da vicino la situazione esistente in Banca Intesa ai tempi in cui il Credit Agricole ne era l’azionista di riferimento e che fu risolta attraverso la fulmine e più volte ricordata acquisizione del San Paolo-IMI, il che apre al discorso relativo a Profumo e a Unicredit Group che affronterò domani!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

martedì 24 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (terza parte)


L’approccio di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti allo strategico snodo rappresentato dal credito è stato da me illustrato in decine di puntate del Diario della crisi finanziaria, ma credo che sia necessario osservare le mosse dell’ibrido Bermonti da un’ottica leggermente diversa se si vuole comprendere il nesso tra la loro posizione sul controllo, diretto o indiretto non fa, in realtà, grande differenza, di quella parte del settore bancario italiano costituita dai primi cinque gruppi creditizi, che hanno accorpato, nell’arco di un quindicennio, centinaia di istituti di ogni dimensione.

Per quanto riguarda le fragilità e i ritardi dei primi cinque gruppi bancari italiani, rinvio alle cinque puntate del Diario della crisi finanziaria apparse nel mese di luglio del 2008, anche perché è proprio da questi ritardi e da queste fragilità che è possibile comprendere più agevolmente le ragioni della facilità con la quale Giulio Tremonti è riuscito a mettere sotto scacco i vertici di conglomerati che, messi tutti assieme, presentano un totale dell’attivo di dimensioni mostruose, ma che, sul piano dell’influenza politica sono poco più che dei nani, anche perché gran parte degli attuali esponenti di vertice sono visti, a torto o a ragione, come facenti parte di quel complesso finanziario-industriale che non solo si è pervicacemente rifiutato di riconoscere aspetti positivi e condivisibili nella filosofia economica implicita alla strategia politica incarnata da Silvio Berlusconi quale elemento di punta dello schieramento delineato nelle puntate precedenti, ma avrebbe anche costituito la sponda di quella parte dello schieramento politico avverso che è largamente influenzata dal ‘nemico’ numero uno Carlo De Benedetti!

La prima preda nella vorticosa campagna acquisti di Bermonti nel settore bancario è stata certamente rappresentata da Corrado Passera, uno dei due ex enfante prodige della finanza italiana, reo, peraltro, di aver intrecciato parte della sua esperienza professionale con lo stesso De Benedetti sino all’epoca della rottura consumatasi per ragioni che rimangono ancora del tutto oscure, che sembrava sulla via dell’uscita anche dal mega gruppo che aveva attivamente contribuito a costruire nella terza fase del processo di ristrutturazione del sistema creditizio italiano, grazie alla pressoché fulminea conquista del San Paolo-IMI, mentre nel carniere di Intesa era già finito in precedenza un pezzo di pregio quale la Banca Commerciale Italiana, orridamente smembrata e scomparsa perfino dal logo della banca acquirente (non credo sia il caso di ricordare come la Comit sia stata l’emblema storico della finanza laica e la Cariplo, elemento aggregante di Intesa, sia stata da tempo immemorabile un feudo della finanza cattolica).

L’acquisizione di Passera è avvenuta nel pieno della campagna elettorale, quando, l’entrata a gamba tesa effettuata dall’allora leader dell’opposizione, ma accreditato come sicuro vincitore delle elezioni, sulla trattativa in corso tra le nove sigle presenti in Alitalia e l’amministratore delegato dell’acquirente Air France-KLM, lo chiamò esplicitamente in causa, non provocando, come sarebbe stato doveroso da parte di un banchiere, un’esplicita smentita, bensì molto eloquenti ammiccamenti che fecero aumentare gli storici mal di testa del suo presidente, Giovanni Bazoli, amico e sostenitore di Romano Prodi, una scelta di campo che ribaltò i rapporti di forza tra l’amministratore delegato e il presidente e che, a vittoria elettorale certificata, diede luogo al conferimento allo stesso Passera del ruolo di Advisor ufficiale del Governo nella straordinaria procedura di vendita della compagnia di bandiera alla ventina di imprenditori volenterosi capitanati da un altro ex compagno di avventura di De Benedetti, quel Roberto Colaninno che, qui si è toccato il massimo della perfidia, era ed è anche padre di quel Matteo che è ministro ombra dello sviluppo economico per il partito democratico.

Lo schieramento è divenuto poi sistemico con la vittoria di Passera nei confronti del suo vice acquisito in uno con il San Paolo-IMI, quel Pietro Modiano che, alla guida della cosiddetta Banca dei Territori, non aveva affatto demeritato e che aveva come supporter niente di meno che il presidente del consiglio di gestione, Enrico Salza, e non era certo inviso al presidente del Consiglio di Sorveglianza, il già citato Bazoli, ma che doveva in ogni modo essere defenestrato per ragioni di ordine interno ed esterno alla banca.

Travolto dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso e dalle sue stesse scelte gestionali in merito, all’acquisizione di Hipoverein con annesse province orientali, di Capitalia con i suoi cronici guai, dell’espansione autonoma nei paesi dell’Europa dell’Est, Alessandro Profumo ha cercato in ogni modo di risalire la china derivante dal chiaro non gradimento di Bermonti, sia riannodando i rapporti più che consumati con il rivale Passera, sia aprendo con sollecitudine a tutti o quasi gli input provenienti da Via XX Settembre e Palazzo Chigi, ma tutto ciò non servirà, con ogni probabilità, a salvargli la poltrona, quando e se verrà deciso che non servirà più a fare da bersaglio delle invettive Tremontiane e a fare da catalizzatore delle inquietudine degli azionisti, fondazioni bancarie in primis.

Saltati, per molto improbabili ragioni familiari, gli amministratori delegati del Banco Popolare e di UBI Banca, Fabio Innocenzi e Giovanni Auletta Armenise, inchiodata dalla lettera circolare di Tremonti la un tempo poco meno che onnipotente Fondazione Monte dei Paschi di Siena alle proprie responsabilità, a Bermonti non resta che sedersi sulla classica riva del fiume per attendere il passaggio dei più o meno odiati nemici, quelli, per intendersi, che, quando non andavano alle adunate di categoria in quel di Siena per ascoltare il verbo di Massimo d’Alema, si favoleggia mandassero il certificato medico.

Ma il dettagliato e insidioso questionario contenuto nella già menzionata lettera circolare di Tremonti a ‘tutte’ le fondazioni di origine bancaria ha anche lo scopo di ammorbidirne, e di parecchio, le posizioni in merito a quello che è in realtà il vero pilastro dell’architettura prossima ventura del sistema bancario italiamo, quella Cassa Depositi e Prestiti, amministrata da poco tempo da un fedelissimo del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, che risponde al nome di Massimo Varazzani e alla cui presidenza è stato chiamato, con perfidia quasi craxiana, l’ex ministro Franco Bassanini, a suo tempo ministro di valore di diversi governi di centro-sinistra, una Cassa controllata dallo Stato e largamente partecipata dalle Fondazioni e alla quale è stato da pochissimo concesso di poter utilizzare una maggiore quota parte del risparmio postale.

L’altrettanto inviso Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha lanciato di recente un chiaro messaggio alle banche, seppur, come si usa, tra le righe e con linguaggio paludato, invitandole di fatto a non fare ricorso ai finalmente partoriti Tremonti Bonds, un passaggio essenziale per il disegno di Bermont, ma di questo parlerò più diffusamente domani!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

lunedì 23 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (seconda parte)


Ma la sola analisi della particolare stratificazione sociale che caratterizza l’Italia spiegherebbe solo in parte la radicale mutazione dell’orientamento politico-ideologico della maggioranza degli italiani, ove non venisse opportunamente integrata da un’analisi della collocazione geografica del fenomeno stesso, che, come è oramai largamente noto, è incentrato nelle regioni del Nord, con particolare riferimento a quelle del Nord Est e a una parte importante della Lombardia, ma attecchisce sempre di più in Emilia Romagna e in parti non marginali di quelle che un tempo erano considerate le regioni ‘rosse’, caratterizzate da un modello sociale ed economico altrettanto anomalo rispetto al modello prevalente europeo, seppur con la presenza di elementi solidaristici e culturali molto più forti di quelli presenti del Nord inteso in senso stretto.

Si può ironizzare quanto si vuole sugli aspetti folcloristici e chiaramente demagogici di quel movimento a suo tempo ideato dal politologo Gianfranco Miglio e guidato da un personaggio assolutamente originale quale è Umberto Bossi, ma sarebbe molto errato non comprendere che quello stesso movimento ha letteralmente scardinato in larga parte delle regioni settentrionali, partendo dagli interessi materiali di larga parte della popolazione, gli schemi classici destra-centro-sinistra che, a cavallo del cambio di millennio, erano ancora pienamente operanti nel resto del Belpaese, anche se è altrettanto vero che è solo dopo l’alleanza strategica con Berlusconi, quella del 2001 non quella del 1994, che vede la sua nascita quel partito del Nord che inizia a essere l’asse portante dello schieramento di centro-destra al punto di costringere la componente di destra, pena la certa marginalizzazione, ad aderire al progetto del partito unico che, non del tutto a caso, consente alla sola Lega la libertà di non aderire.

Paradossalmente, l’unico esponente del centro-sinistra che ha capito sino in fondo la mutazione genetica che stava avvenendo non solo nel Nord, ma anche in una parte significativa delle regioni del Centro, è stato proprio Romano Prodi, l’unico peraltro, ad avere sconfitto due volte Berlusconi, anche se la seconda di strettissima misura, ma che non è riuscito a intercettare le ragioni profonde di quel cambiamento, avendo avuto prima la missione dell’ingresso nell’euro e poi dovendo accettare, come elemento di garanzia, la presenza quale ministro dell’Economia, dell’euroburocrate Padoa-Schioppa, circostanze che per due volte visto trafitto più dal fuoco amico che da quello nemico.

Insomma, il capolavoro di Berlusconi quale elemento di punta degli atlantici di provata fede e dell’applicazione pratica e capillare dell’ideologica antieuropeistica e anticentralistica di Gianfranco Miglio effettuata da Bossi è stato quello di intercettare la pancia dei lavoratori autonomi e di quei milioni di imprenditori di ogni ordine e grado esclusi dal salotto buono di Mediobanca, in buona parte esclusi da quel rapporto preferenziale che legava le forze del Pentapartito e il maggiore partito di opposizione nella prima repubblica, il PCI, e che vedeva queste forze politiche sempre prone alle esigenze del capitalismo delle grandi famiglie, pur elargendo sostanziose mance a larghi strati della popolazione italiana, attraverso il proliferare di provvedimenti assistenziali che hanno del tutto scassato i conti pubblici per poi tradursi in quelle politiche di rigore forse inevitabili ma che hanno favorito l’insofferenza radicale sia di quanti ne venivano colpiti, sia di quelli che non pagavano né le sovrattasse, né le tasse, ma che temevano di essere colpiti dal progressivo affinamento delle capacità di accertamento del fisco!

Se questa è la base sociale dell’asse strategico Berlusconi-Tremonti-Bossi, è abbastanza facile capire le linee di una politica economica che sarebbe altrimenti del tutto incomprensibile, almeno alla luce dei criteri seguiti nei maggiori paesi dell’Unione Europea, una politica economica e fiscale che ha come obiettivo principale la creazione di un blocco dei produttori e dei lavoratori autonomi in grado di sostituire il capitalismo delle grandi imprese che, non a caso, non stanno ricevendo le stesse attenzioni loro dedicate in Gran Bretagna, Germania e Francia e che, anzi, vengono aiutate solo quel tanto che basta per non mettere in ginocchio l’indotto formato da piccole imprese.

Il banco di prova del nuovo approccio la si è avuta con l’apparentemente folle opposizione strenua al salvataggio di Alitalia da parte dell’unico pretendente in corsa, l’Air France-KLM, attraverso la costituzione di un gruppo di imprenditori di medie dimensioni che hanno dato via, grazie all’impegno profuso dall’amministratoe delegato di Intesa-San Paolo, Corrado Passera, alla CAI prima e all’acquisizione di parte delle attività di Alitalia poi, per poi aprire le porte alla sconfitta Air France che, alla fine dei giochi e tra qualche anno, spenderà la stessa cifra prevista in partenza, ma che ne dovrà corrispondere la parte più rilevante non allo Stato o ai creditori della vecchia compagnia di bandiera, ma ai molto lungimiranti capitani coraggiosi che hanno avuto il merito di credere alla visione di Silvio, un capolavoro che non sarebbe riuscito neanche alle oggi tanto vituperate Investment Banks e che vede i cittadini chiamati a pagare qualcosa come 3-4 miliardi di euro ancora più convinti a sostenere l’attuale governo.

Ma le ambizioni del citato asse strategico non si fermano certo a quella ventina di imprenditori, che scommetto avranno anche ottimi ritorni all’Expo e dintorni, puntando a creare un blocco di centinaia di imprenditori di riferimento che, a loro volta, divengano il volano di altre attività di minori dimensioni, un progetto, però, che per marciare appieno ha bisogno non solo di appalti e commesse, ma anche di un sostanzioso e costante sostegno dal sistema creditizio, il che appare perlomeno difficile nell’attuale contesto di crisi finanziaria e che richiede, quindi, l’inderogabile necessità di mettere le mai e/o condizionare pesantemente le scelte almeno dei primi cinque grandi gruppi creditizi, cosa in larga parte già riuscita con riferimento al gruppo Intesa-San Paolo, in particolare dopo l’uscita del poco omogeneo, anche per motivi familiari, Pietro Modiano, ma che richiede opportuni interventi in Unicredit Group, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare e UBI Banca, interventi che non possono solo basarsi sui finalmente approvati e molto onerosi Tremonti Bonds, ma richiedono anche qualcosa di cui parlerò nella puntata di domani!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

domenica 22 febbraio 2009

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (prima parte)

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Uno dei libri più belli e più animati da una grande passione civile che mi sia capitato di leggere è certamente The Economic Consequences of the Peace scritto da John Maynard Keynes nel 1919, all’indomani del suo polemico abbandono dei lavori della Conferenza di Pace di Versailles che poneva fine a quella mattanza di massa che era stato il primo conflitto mondiale, un testo da lui scritto per protestare contro le assurde pretese degli alleati nei confronti della Germania sconfitta, pretese che contrastavano nettamente con gli impegni previsti nell’atto di resa e che crearono le condizioni più adatte all’avvento del nazionalsocialismo dopo il disastro iperinflattivo che aveva caratterizzato la Repubblica di Weimar.

Pur avendolo eletto a mio punto di riferimento principale per orientarmi tra gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, confesso che credo che nessun economista sia stato tirato tanto spesso in ballo attribuendogli, nella maggior parte dei casi, idee che lo stesso Keynes avrebbe giudicato quanto meno alquanto sballate e, soprattutto e cosa per lui molto più importante, molto poco basate sulla logica formale, uno strumento di cui era talmente dotato da far dire a Bertrand Russell che era molto impegnativo discutere con lui.

Nell’accingermi a scrivere una serie di puntate del Diario della crisi finanziaria espressamente dedicate alle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, avrò come riferimento proprio quella passione civile che caratterizzò il mai troppo compianto economista inglese, non solo nella redazione dell’opera citata di sopra, ma anche nel secondo libro dedicato al trattato di pace, in Can George Lloyd Do It? e in numerosi articoli e discorsi raccolti nelle Collected Writings of John Maynard Keynes, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che l’argomento che ho scelto difficilmente susciterà le reazioni provocate da opere che intervenivano su scelte di portata storica e che divisero profondamente l’opinione pubblica mondiale.

Come è a tutti noto, dopo un passato imprenditoriale di sicuro successo, seppur caratterizzato da alcune ombre legate agli esordi, Silvio Berlusconi decise di impegnarsi in prima persona nell’agone politico in una fase in cui i partiti storici della cosiddetta prima repubblica andavano letteralmente in frantumi sotto l’onda di sdegno popolare suscitato dalle inchieste del pool di Mani Pulite, un fenomeno di rigetto che travolse i cinque partiti di maggioranza, incrinò l’immagine dell’allora Partito Comunista Italiano, mentre lasciò più o meno intatta la forza dell’allora Movimento Sociale Italiano e della Lega Nord.

Utilizzando in modo molto abile gli strumenti della comunicazione televisiva, anche ma non solo a partire dalle tre reti di cui disponeva e dispone, la forza della rete dei venditori degli spazi pubblicitari di Mediaste, slogan semplici ma efficaci e un jingle molto accattivante, conquistò nel 1994 la sua prima vittoria elettorale e diede vita a un governo che durò soltanto pochi mesi, rifacendosi poi nelle elezioni del 2001 e in quelle del 2008, entrambe vinte con largo margine, mentre venne sconfitto da Romano Prodi sia nel 1996 che nel 2006.

Come afferma tra le righe l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, al di là di un modo molto naif di intendere la politica, caratteristica peraltro molto più apparente che reale, il politico Berlusconi proviene da uno schieramento di sicura e provata fede atlantica, di indiscusso anticomunismo, uno schieramento caratterizzato dal proliferare di organizzazioni più o meno segrete come gladio, la loggia massonica Colosseum e la successiva loggia Propaganda 2, della quale Berlusconi fece parte al pari di numerosi esponenti del partito da lui fondato quando sembrava ineluttabile la vittoria delle sinistre.

Lo scontro tra questo schieramento atlantico e il molto composito fronte che potremmo, in estrema sintesi e con qualche forzatura, definire europeista dura oramai da sessanta anni e ha condizionato in misura fortissima lo sviluppo dell’economia italiana, soprattutto per quanto riguarda la finanza, la grande impresa privata e le cosiddette partecipazioni statali, mentre scarso, se non nullo, interesse veniva dedicato alle imprese di medie, piccole e piccolissime dimensioni che costituiscono il carattere distintivo dell’economia del nostro paese, forse l’unico al mondo ad avere un esercito di milioni di imprenditori su una popolazione che non arriva a sessanta milioni di abitanti, per non parlare di quello sterminato numero di partite IVA che sono più assimilabili agli imprenditori che ai lavoratori dipendenti.

Sommati assieme, imprenditori e lavoratori autonomi presentano dimensioni non troppo lontane da quella rappresentata dai lavoratori dipendenti, una caratteristica forse unica tra i paesi europei, ma che assume caratteristiche ancora più particolari ove si tenga conto del fatto che molti lavoratori dipendenti svolgono, in modo palese o meno, attività di carattere imprenditoriale o autonomo sia in agricoltura che in altri settori dell’attività produttiva, una circostanza che spiega l’estrema labilità dei confini tra le classi sociali in Italia e che crea una base sociale molto più ampia di quanto emerge dai dati ufficiali per il messaggio politico berlusconiano, un messaggio molto in sintonia con il sentire comune di questo esercito di imprenditori un po’ “fai da te”.

Mi scuso per la lunga premessa, ma credo proprio che questa stratificazione sociale molto poco ‘europea’ della società italiana costituisca una delle ragioni meno esplorate del successo della solo apparentemente semplicistica formula berlusconiana che vede uno Stato poco o punto invadente, soprattutto sul piano di quelle pretese fiscali che fanno venire l’orticaria la popolo delle partite IVA e a quei piccoli imprenditori che non possono permettersi costosi fiscalisti, quali, a solo titolo di esempio, il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti. (il seguito a domani)

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sabato 21 febbraio 2009

Sarà il week end decisivo per le banche?


Nonostante si sia oramai entrati nel diciannovesimo mese della tempesta perfetta, non possiamo certo dire di avere visto tutto il male del mondo, parafrasando lo scomparso Siegg Larsson e la sua mitica trilogia Millennium, un autore che mi torna in mente leggendo le cronache della fuga alquanto ingloriosa del Madoff in sedicesimo, il miliardario R. Allen Stanford, arrestato in Virginia dall’FBI e prossimo a essere processato per reati molto più infamanti di quelli attribuiti all’ex presidente del Nasdaq che aveva in fondo solo deciso, in tarda età, di baloccarsi con lo schema di Ponzi ai danni dei suoi amici miliardari.

D’altra parte, non possiamo dire neppure di avere visto il peggio del peggio sui mercati, anche perché queste due ultime sedute a Wall Street e dintorni hanno poco da invidiare alle tumultuose giornate di ottobre 2008, quando, come soleva dire il numero del Fondo Monetario Internazionale ed ex ministro socialista delle finanze, Dominique Strauss Kahn, il mercato finanziario globale era giunto maledettamente vicino, se non un po’ oltre, il ciglio di un profondissimo burrone.

Non è tanto per la battuta del premier italiano, Silvio Berlusconi, in quel di Londra e dopo un colloquio a quattr’occhi con Gordon Brown, anche perché ho oramai capito che per esperienza che raramente una sua gaffe è veramente tale, anche quelle più incredibili, ma semplicemente perché il suo accenno alle nazionalizzazioni viene dopo molte concrete applicazioni, sia in terra britannica che tedesca, con qualche interessante variante alla francese e molta pratica statunitense.

Se qualcuno ha pensato alla solita voce dal sen fuggita del premier italiano, è bastato attendere poche ore per ascoltare dal presidente della commissione bancaria del Senato degli Stati Uniti d’America parole non molto dissimili sull’ineluttabilità, e a breve termine, della nazionalizzazione di importanti banche americane per capire che questo week end sarà davvero lunghissimo e gravido di notizie importanti sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, anche perché siamo oramai agli sgoccioli e ben al di sotto dei terribili minimi toccati nella fase immediatamente successiva alla fatale decisione di Hank Paulson di lasciare miseramente fallire Lehman brothers, storica rivale della ‘sua’ Goldman Sachs.

Dopo un giovedì nero per le maggiori banche universali statunitensi, l’apertura delle contrattazioni nell’ultima seduta dell’ottava ha fatto scorrere più di un brivido nella schiena già tanto indolenzita degli operatori e investitori americani, che hanno osservato sugli schermi la discesa a rotta di collo delle quotazioni delle azioni di Citigroup, Bank of America e Wells Fargo, giunte anche a segnare perdite oscillanti intorno al 30 per cento, variazioni più degne delle montagne russe che di uno dei mercati regolamentati più importanti del mondo e poco importa se nelle ore successive le tre colossali banche a stelle e strisce hanno recuperato parte del terreno perduto: la frittata era oramai bella che fatta e chi doveva capire ha capito che non era possibile lasciare mano libera al mercato!

Certo, non ha aiutato la notizia che l’iperattivo e molto ambizioso nuovo sceriffo di new York, Andrew Cuomo, ha messo sotto giudizio il potentissimo numero uno di Bank of America, Ken Lewis, per l’orgia di bonus elargita da Merrill Lynch a pochi giorni dall’acquisizione della ex investment bank tecnicamente fallita da parte del colosso creditizio basato in California e che è costata il posto al povero John Thain che, almeno mi auguro per lui, verrà riaccolto a braccia aperte da quella Goldman Sachs nella quale ha lungamente operato prima di diventare presidente del New York Stock Exchange, prima di essere chiamato, con un ingaggio degno di un calciatore, sul ponte di comando della stessa Merrill.

D’altra parte, quello che si era visto sui mercati azionari europei non lasciava adito a dubbio alcuno sul fatto che l’ora delle decisioni più o meno fatali si stava irrimediabilmente avvicinando per Gordon Brown, Nicholas Sarkozy, Frau Merkel, mentre ancora non è chiaro quello che faranno Bermonti e Zapatero, ma è chiaro a tutti che sarà bene che oltre alla non secondaria questione della sopravvivenza delle principali banche domestiche si preoccupino di stendere una qualche forma di rete di salvataggio attorno a quei paesi dell’Est Europa che rischiano di trascinare nel baratro le maggiori banche europee che, negli ultimi anni, si sono spartite quelli che allora erano mercati creditizi molto, ma molto promettenti, facendo la parte del leone nello spartirsi la ricchissima torta di commissioni e marine da gestione denaro come nelle rispettive patrie non si vedevano da tempo.

Vediamo la possibile tabella di marcia delle decisioni prossime venture sulle due sponde dell’Atlantico e che dovrebbe prevedere il colpo di teatro della nazionalizzazione delle tre principali banche universali, con l’eccezione, forse, di quella J.P. Morgan-Chase che ha resistito meglio delle sue competitors agli alti marosi della tempesta perfetta, mentre sembra che resteranno private Goldman Sachs e Morgan Stanley, le uniche due superstiti dell’un tempo magico quintetto delle Big Five dell’investment banking.

Alquanto più arduo è capire cosa accadrà in Gran Bretagna, Germania e Francia, anche perché già tanto è stato fatto ed è molto difficile prevedere nei dettagli quali direzioni prenderà questa fase cruciale del processo di concentrazione, mentre quello che è certo è che, alla fine, non resteranno che un paio di grandi gruppi per paese e tutti saranno in qualche modo controllati dai rispettivi Stati ed è quasi certo che l’Italia e la Spagna entreranno in gioco solo nei tempi supplementari, in un week end prossimo venturo da collocare comunque nel non breve lasso di tempo che ancora ci separa dal G20/G21 previsto a Londra il prossimo 2 aprile.

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venerdì 20 febbraio 2009

Berlusconi si precipita a mettere il cappello sulla nazionalizzazione delle banche!


Braccato alla stregua di un criminale comune e dopo non essere riuscito a prendere in affitto un aereo per raggiungere la sua seconda patria causa banale rifiuto della sua molto dorata credit card, R. Allen Stanford, titolare della quasi omonima Stanford International Bank, è stato arrestato ieri dalle donne e dagli uomini del Federal Bureau of Investigations che gli davano la caccia da giorni dopo che la “nuova” Securities and Exchange Commission aveva svelato una truffa da 8 miliardi di dollari in relazione all’emissione e relativa sottoscrizione di certificati di deposito che garantivano tassi molto elevati, purtroppo, secondo la stessa Sec, basati su ipotesi del tutto irrealistiche e infondate.

In nuovo colpo alla reputazione del sistema finanziario globale viene pochi mesi dopo l’impatto psicologico e patrimoniale molto violento legato alle gesta di Bernard L. Madoff, l’ex presidente del Nasdaq, nonché quinto operatore nello stesso mercato, una persona molto stimata nel mondo della finanza e degli affari non solo negli Stati Uniti d’America, ma, come si è visto dal molto provvisorio elenco delle sue vittime più famose, anche dai miliardari di molti paesi nati in altri continenti, anche se spesso residenti, come i loro capitali, in comodi e accoglienti paradisi fiscali più o meno inclusi nella black list stilata dall’occhiuto organismo sopranazionale che si occupa del contrasto alle attività di antiriciclaggio del denaro sporco, una definizione che non si applica soltanto ai proventi delle attività malavitose, ma anche a quello che milioni di persone cercano, spesso riuscendo, di sottrarre alle pretese del fisco del paese o dei paesi nei quali svolgono buona parte delle loro attività economiche!

Come viene reso noto dalle agenzie di stampa americane, nel caso di Stanford si sta indagando anche in questa direzione, a causa di sospetti che, attraverso la sua fitta rete di filiali e affiliate sparse in parecchi paesi dell’America Latina, abbia fornito servizi ai tanti resi miliardari dal traffico degli stupefacenti e altre piacevolezze in cui è specializzata la Mafia SpA, al di là delle etichette con le quali è conosciuta all over the world, un’eventualità che getta ombre parecchio inquietanti su quelle discrete attività di gestione del risparmio che vedono una fetta rilevante della ricchezza mondiale, prudenzialmente stimata in 150.000 miliardi di dollari, fare capo alle attività malavitose e alle lucrosissime attività di copertura gestite dalle ‘famiglie’ basate in tutti e cinque i continenti.

Apprendo dalla stampa che una delle entità protagoniste, assieme a Citigroup, del wealth management in un numero di paesi di poco inferiore a quello presente nel lunghissimo elenco dei partecipanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite, il colosso creditizio extracomunitario UBS, You and Us, avrebbe patteggiato la somma di 780 milioni, di cui 400 per pendenze dei suoi clienti con il fisco, e si strenne impegnato non solo a non fornire più i suoi servigi a decine di migliaia di cittadini statunitensi presunti infedeli nei confronti del fisco del loro paese, ma anche a fornire l’elenco degli stessi alle competenti autorità, anche se in numero molto ridotto rispetto alle richieste dell’FBI che agisce per conto del giudice della Florida che ha raccolto la testimonianza di un ex dirigente pentito di UBS dalla memoria sterminata e molto bisognoso delle previsioni premiali previste dalla legislazione a stelle e strisce, anche per il comprensibile desiderio dello stesso di evitare di vedere pressoché a vita il sole dal chiuso di una più o meno confortevole cella di un supercarcere federale.

Prima o poi, nel rapporto di odio-amore che caratterizza gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese, verrà affrontato anche il delicatissimo tema dell’impenetrabile segreto bancario esistente nelle banche della ex colonia britannica di Hong Kong, un territorio oramai da tempo parte integrante della Cina ma ancora dotato di una magistratura nota, come ben ricordano gli inquirenti del pool di Mani Pulite, per rispedire ai colleghi di tutto il mondo le missive contenenti richieste di assistenza o di rogatoria senza nemmeno prendersi la briga di aprire le buste per vedere di che cosa si tratti, un comportamento che ha contribuito a rendere spesso Hong Kong il porto terminale del vorticoso giro che i capitali compiono alquanto vorticosamente in tutto il mondo!

Credo che quanto sopra contribuisca a spiegare, almeno in parte, quanto sta avvenendo in questi giorni nel mercato finanziario statunitense, vera costola del mercato finanziario globale, anche perché è difficile comprendere il fatto che giovedì il Dow Jones abbia rotto con una certa decisione il minimo segnato il 20 novembre del 2008, del tutto incurante dei 1.100 miliardi di dollari circa stanziati nel giro di due giorni dalla nuova amministrazione americana, così come è arduo capire perché molte delle sei principali banche a stelle e strisce sopravvissute, almeno per ora, agli alti marosi della tempesta perfetta abbiano a loro volta visto le quotazioni delle loro azioni portarsi al di sotto dei minimi toccati nel tremendo autunno dell’orribile 2008, un anno da molto considerato bisesto e funesto, ma che dovrà battersela con questo 2009 che si è davvero aperto sotto i peggiori auspici.

Un quotidiano finanziario italiano riporta nella sua edizione del 18 febbraio una preoccupata ricostruzione della situazione dei paesi emergenti, focalizzando la sua attenzione su quei paesi un tempo facenti parte di quello che Ronald Reagan soleva, molto poco diplomaticamente, definire l’impero del Male, cioè il blocco sovietico, un’area disseminata di paesi ora aderenti all’Alleanza Atlantica e, almeno in alcuni casi, anche all’Unione Europea, paesi che non sono stati in grado di garantire le passività delle loro banche, in larga parte dominate da banche straniere più o meno comunitarie, tra le quali un ruolo molto rilevante lo giocano proprio quei due gruppi bancari italiani che rispondono ai nomi di Unicredit Group e Intesa-San Paolo, entrambe alle prese ieri con la rottura di importantissimi soglie psicologiche poste per il primo a un euro e per la seconda a 2 euro, una circostanza che rende molto inquietanti le dichiarazioni fatte ieria Londra da Berlusconi, smentite incluse!

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giovedì 19 febbraio 2009

I patrimoni di "carta" dei maggiori gruppi bancari italiani!

Confesso che non avevo mai pensato a un aspetto dei patrimoni della maggior parte dei gruppi bancari italiani, in particolare di quelli che sono stati protagonisti della terza fase di ristrutturazione del sistema bancario del nostro Paese, sino a che non ho ascoltato in una trasmissione radiofonica che la RAI dedica quotidianamente alle vicende di borsa e ai quesiti dei sempre più preoccupati risparmiatori/investitori alle prese con il meltdown fianziario in corso.

Ebbene, il bravo analista di una SGR, rispondendo ad un quesito su uno dei quattro grandi gruppi bancari italiani, caratterizzato come gli altri da un valore della quotazione azionaria realmente infimo, metteva in guardia l’ascoltatore dal considerare quel valore un’interessante opportunità di acquisto per il semplice motivo che i valori patrimoniali del gruppo in questione sarebbero solo apparentemente dei multipli della capitalizzazione di borsa, in quanto largamente inficiati dal cosiddetto goodwill, il valore di avviamento attribuito alle banche via, via inglobate nel gruppo stesso e che, ovviamente, è stato nella maggior parte dei casi valutato quando ci si strappava di mano gli sportelli anche a 9 milioni di euro cadauno.

Ricordo bene quando, negli oramai lontanissimi anni Ottanta, mi trovavo a spiegare, dalle colonne di un quotidiano, la questione dei cosiddetti profitti di carta, rappresentati da quegli interessi moratori legati ai crediti in sofferenza, quei credit non performing che già allora venivano prontamente messi a perdita nelle banche statunitensi, mentre da noi era pratica diffusa se non totalizzante quella di lasciarli agire almeno sino al livello del margine di contribuzione, se non addirittura sino al conto economico, manovre a volte addirittura costose sul piano fiscale, ma che, insieme all’altrettanto diffusa pratica del window dressing, rendeva particolarmente difficile farsi un’idea corretta dello stato di salute di una banca avendo come unico riferimento il bilancio di esercizio della stessa.

D’altra parte, se al proprietario della banca o della cassa di risparmio, spesso un’entità pubblica, non interessava particolarmente la redditività e il profilo di rischiosità dell’azienda guidata da spesso improbabili personaggi uscite dalle teleguidate terne della Banca d’Italia, poi “lavorate” da un Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio che, al momento fatale delle decisioni, lasciava il Governatore della nostra banca centrale rigorosamente al di fuori della porta a rigirarsi nervosamente tra le mani il foglio delle terne, ben consapevole che non sempre il nome prescelto sarebbe stato il migliore o il più adatto a occuparsi della gestione di quelli che erano allora colossi del credito a livello mondiale, spesso caratterizzati da una rete estera di rilevanti proporzioni, anche se altrettanto spesso non del tutto trasparente!

Non sempre le ciambelle riuscivano con il buco, come accadde, a solo titolo di esempio, quando il professor Gaetano Stammati, stimato studioso e democristiano doc, fu scelto per guidare la Banca Commerciale Italiana, istituto di credito storico a lungo gestito da Raffaele Mattioli e che aveva creato Mediobanca quasi al solo scopo di spedirvi un giovane Enrico Cuccia, reduce da incarichi nelle allora colonie e genero del potentissimo Alberto Beneduce, a sua volta fondatore dell’IRI e delle banche da questo possedute dopo i disastri bancari degli anni Trenta.

Il gruppo dirigente della grande banca italiana fece muro contro quello che, a torto o a ragione, venne da loro considerato come un corpo estraneo rispetto all’indiscussa tradizione laica dell’istituto e lo fece in modo tale da costringere il mite professore destinato a importanti incarichi ministeriali a prendere la per lui certamente dolorosa decisione di rimettere il mandato nelle stesse mani politiche che glielo avevano conferito!

Scusandomi per la digressione storica, devo dire che mi ha fatto una certa impressione sentire dall’analista della SGR i valori relativi al goodwill che fanno parte a pieno titolo del valore di libro dei principali gruppi creditizi italiani, in particolare di quello presente nel patrimonio di Unicredit Group che si ridurrebbe a poco di più della metà ove venisse nettato di questo valore immateriale, che, lo ripeto, viene iscritto nel pieno rispetto delle vigenti previsioni civilistiche relative alla corretta redazione dello stato patrimoniale e del conto economico di una società per azioni quale Unicredit Group certamente è.

Ovviamente, anche con riferimento a Intesa-San Paolo, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare e UBI Banca questa voce relativa all’avviamento assume un rilevante peso percentuale nella determinazione del patrimonio, così come anche in questo caso, ma credo anche in quello dei “profitti di carta” del passato, il tutto avviene nel pieno rispetto delle norme e dei regolamenti vigenti, né mi risulta abbiano mai attirato l’attenzione della pletora di regolatori e vigilatori per quanto attiene alla loro corretta determinazione.

Purtroppo, se ci trasferiamo dal piano delle previsioni legislative e regolamentari a quello gestionale, il discorso assume contorni molto diversi e suscita inquietudini sia a carattere generale, sia, e certamente soprattutto, preoccupazioni collegate al fatto che ci troviamo nel pieno di una tempesta perfetta che, a più di un anno e mezzo dal suo avvio, sembra avere accresciuto il suo potenziale distruttivo, come è ben evidenziato dall’analisi proposta ieri dal sistema della riserva federale statunitense e dagli stessi andamenti delle principali borse mondiali, per il semplice motivo che, sottoposte a opportuni stress test e altre valutazioni proprie del risk management, gli stratosferici valori attribuiti all’avviamento andrebbero considerati con particolare cautela, un esercizio che renderebbe molto più comprensibili gli infimi livelli cui sono giunte le quotazioni azionarie dei cinque principali gruppi creditizi italiani e allineerebbero tali valori con quelli di un patrimonio nettato in tutto o in parte da questa voce, ma credo che di tutto ciò Draghi abbia parlato negli incontri periodici con i banchieri!

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Riuscirà Obama a prendere il toro della tempesta perfetta per le corna?

A un solo giorno di distanza dalla firma apposta alla legge che prevede tagli alle tasse e interventi di spesa per complessivi 787 miliardi di dollari, il giovane presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, ha reso noto ieri dall’Arizona il suo piano volto a fermare l’ondata di procedure di esproprio delle case dovuto alle crescenti difficoltà cui vanno incontro i mutuatari per far fronte alle relative rates, in molti casi rese insostenibili dalle clausole trappola previste dai cosiddetti subprime e dai micidiali mutui ARM.

La decisione della nuova amministrazione era divenuta di estrema urgenza alla luce del fatto che, in assenza di interventi, oltre otto milioni di famiglie entro i prossimi quattro anni si sarebbero andati ad aggiungere a quante, circa quattro milioni, hanno già subito l’umiliazione della procedure di esproprio e hanno dovuto lasciare le loro abitazioni che, nella maggior parte dei casi, sono state già messe all’asta, spingendo verso il basso i prezzi delle stesse, mentre si è appreso sempre ieri che le vendite di nuove case e i permessi di costruzione sono crollati in gennaio a livelli di crescita su base annualizzata mai visti negli ultimi 50 anni.

Entrando un po’ di più nei dettagli, il piano prevede lo stanziamento di 75 miliardi di dollari volti a favorire la rinegoziazione dei mutui più a rischio di insolvenza , mentre 100 miliardi subito e altri cento successivamente andranno a Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti del mortgage nazionalizzati in fretta e furia dal trio Bush-Paulson-Bernspan nel mese di ottobre del 2008, anche se non è chiaro quanta parte di queste somme servirà a rimborsare i famigerati GSE in scadenza e quanto sarà, invece, il denaro fresco utilizzabile per erogare nuovi mutui.

Come ho ricordato più volte nel Diario della crisi finanziaria, la nuova amministrazione sta mettendo in pratica il piano della presidentessa dell’ente federale che si occupa del problema abitativo e che prevedeva appunto di prendere il toro per le corna, eliminando le previsioni legislative che favorivano l’indisponibilità delle banche e delle finanziarie a rinegoziare i mutui, misure che se fossero state prese quando vennero proposte nel lontano mese di settembre del 2007 avrebbero consentito a oltre due milioni di americani di non perdere la loro casa, una soluzione resa impossibile da quell’Hank Paulson che non ha mai nascosto di stare pervicacemente dalla parte di Wall Street, per lui molto, ma molto più importante delle tante Main Street presenti nella totalità delle città statunitensi!

La scoperta della nuova frode bancaria da parte della Securities and Exchange Commission ha determinato la formazione di lunghe code agli sportelli della filiale di Nassau, Bahamas, della Stanford International Bank, mentre si è saputo che R. Allen Stanford non sarebbe riuscito a prendere il volo per Nassau solo perché il proprietario dell’aereo privato che voleva prendere in affitto avrebbe rifiutato la carta di credito sventolata sotto il suo naso dal miliardario texano che risulta essere cittadino delle isole note come paradiso fiscale, oltre che cittadino statunitense.

Fa riflettere il fatto che, nonostante l’annuncio di ulteriori interventi governativi per poco meno di 1.100 miliardi di dollari, i tre principali indici azionari statunitensi non sono riusciti ieri a recuperare le forti perdite registrate martedì, anche se non va sottovalutato il forte impatto psicologico derivante da episodi, come quelli di Madoff e Stanford, che minano alla base la già scarsa fiducia nutrita nei protagonisti di un mercato finanziario globale oramai trasformatosi un immenso casinò a cielo aperto che non ha nulla da invidiare alle scintillanti case da gioco di Las Vegas, del genere di quelle che hanno portato alla bancarotta il miliardario Donald Trump, un tempo noto per le vicende matrimoniali e per i suoi famosi grattacieli.

Fanno impressione i piani di ristrutturazione e di rilancio presentati dalla General Motors e dalla Chrysler appena in tempo rispetto alla scadenza loro imposto dal Governo, una sensazione che non è dettata tanto dalle cifre richieste dalle due entità tecnicamente fallite, 16,6 e 5 miliardi di dollari, rispettivamente, quanto per le annunciate chiusure di stabilimenti e per il previsto taglio, per la sola General Motors, di poco meno di 50 mila dipendenti, una parte dei quali sono lavoratori americani attualmente occupati nei quindici stabilimenti per i quali è prevista la chiusura o la cessione, un approccio chiaramente ispirato al downsizing che non credo proprio farà felice Obama.

Continuo a ritenere che gli Stati Uniti d’America stiano facendo davvero tutto il possibile per porre delle dighe più o meno solide di fronte ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, anche alla luce del fatto che hanno impegnato poco meno di diecimila miliardi di dollari a tale scopo, seppure sono certamente fondate le critiche mosse all’efficacia della prima parte di questa montagna di soldi che è stata già spesa, in particolare di quelle migliaia di miliardi di cui hanno beneficiato le prime sei grandi banche sopravvissute, senza che da parte delle stesse vi fossero impegni esigibili in merito alla non secondaria questione del mantenimento di un adeguato flusso di finanziamenti alle famiglie e alle imprese.

Mentre restiamo in trepida attesa rispetto alle caratteristiche innovative promesse dai componenti del Dream Team obamiano, quello che è certo e che in Europa regna nel frattempo un vero e proprio stato confusionale che sembra pervicacemente impedire ai leaders politici e ai banchieri centrali di individuare uno straccio di piano comune per impedire il collasso delle grandi banche europee e la chiusura a catena degli stabilimenti industriali, mentre stendo un pietoso velo di silenzio sulla performance delle autorità giapponesi, di quelle russe e cinesi, per non parlare poi dei paesi emergenti europei e di quelli asiatici per i quali non esiste alcuna rete di protezione.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

mercoledì 18 febbraio 2009

Caro Obama, non credo proprio che sia "l'inizio della fine" della tempesta perfetta!


Con la penna nella mano sinistra e il voluminoso testo della legge da 787 miliardi di dollari che attendeva soltanto la sua firma, il giovane presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, ha sentito l’irrefrenabile bisogno, quasi l’urgenza, di pronunciare una frase che, almeno nella sua mente, doveva suonare come una sveglia per le centinaia di milioni di donne de di uomini che sono stretti da oltre un anno e mezzo tra sentimenti quali lo stupore, la paura, la rabbia per il repentino e drammatico infrangersi del sogno americano, quello fatto da elementi quali la casa individuale di abitazione, la libertà di movimento nel grande paese da costa a costa, l’uso disinvolto dell’automobile e quello davvero dissennato del proprio reddito, caratterizzato da una propensione al consumo quasi invariabilmente superiore all’unità.

“E’ l’inizio della fine della crisi”, così ha detto Obama, pur sapendo benissimo che queste parole potrebbero fatalmente rivolgerglisi contro almeno quanto le frasi pronunciate da Hedgar Hoover di fronte alla trasformazione di una pur grave finanziaria in quel lunghissimo e triste periodo delle non lunghissima vita degli States che prese a pieno titolo il nome di Grande Depressione, un’era cupa e maledetta che solo la gigantesca spesa pubblica legata al secondo conflitto mondiale avrebbe poi fatto, si sperava per sempre, finire nel dimenticatoio della storia, una tragedia sociale solo in parte mitigata dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt, un predecessore che, assieme ad Abramo Lincoln, rappresenta davvero una stella polare per il giovane avvocato di Chicago che si trova ad affrontare un compito che farebbe tremare i polsi a chiunque e che, come lui stesso ricorda, gli sta togliendo da qualche tempo il sonno!

Mentre ferve un dibattito tra gli economisti, i commentatori e gli analisti sull’efficacia di misure quali la restituzione fiscale pressoché indiscriminata prevista dal piano, un tentativo, peraltro, già fatto dal suo predecessore senza grandi risultati, un intervento a pioggia che porta poco sollievo a chi ha perso la casa, il lavoro, o, come spesso accade entrambi, nella stessa misura prevista per chi non ha nessuno di questi problemi e dedicherà queste risorse aggiuntive a spese spesso superflue, mentre le parti che riguardano l’economia reale sono disperse in mille rivoli pretesi, in modo del tutto bypartisan, dai voraci eletti dal Popolo al Congresso che sono stati attenti, pur non sforando il tetto di 800 miliardi di dollari preteso dai repubblicani, alle esigenze del proprio collegio o della lobby cui fanno riferimento per le loro sempre maggiori spese elettorali.

Come amava ripetere Bill Clinton nel corso del duro scontro elettorale che lo oppose a George H. Bush, quel volpone quasi omonimo di quel suo figlio che è riuscito a stare alla Casa Bianca il doppio di lui, “It’s economy, stupid!”, con la piccola ma significativa variante che oggi è proprio il caso di dire “It’s finance, stupid!”, già, perché il problema, come vado ripetendo invano dal 4 settembre del 2007, nessuna terapia potrà, di per sé, essere efficace, se non parte da una piena consapevolezza delle vere cause della tempesta perfetta, il che costituisce un buon passo in avanti per l’individuazione dei rimedi!

Mentre si allarga il coro di quanti sostengono che la crisi finanziaria che stiamo vivendo non è che il prodotto dei tre concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, deregolamentazione selvaggia e globalizzazione, il problema continua a risiedere nel fatto che, invece di affidare a un gruppo di persone dotate della necessaria saggezza, esperienza e buon senso, di riscrivere le regole del gioco, si continua ad affidare questo compito a quegli stessi organismi che hanno consentito che si creassero, nel giro di ventidue anni, le basi della tragedia attuale, un compito peraltro suddiviso tra un numero di organizzazioni sopranazionali, comitati, organismi preposti alla standardizzazione delle regole contabili, per finire con quel Financial Stability Forum che ha poco da offendersi quando viene assimilato dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, “ai topi posti a guardi del formaggio”.

Se sono queste le premesse per una Bretton Woods II, allora stiamo davvero freschi! Il che non sarebbe poi del tutto un guaio alla luce del fatto che la Storia ha confermato come gran parte delle motivazioni in base alle quali John Maynard Keynes si oppose violentemente al progetto statunitense che poi, ovviamente prevalse tra i boschi del New Hampshire, erano valide al punto che ventisette anni più tardi venne meno, per decisione unilaterale dell’allora presidente Nixon, quella convertibilità del dollaro in oro al cambio irrealistico di 35 dollari per oncia che del nuovo ordine economico e monetario internazionale ivi stabilito rappresentava il pilastro fondamentale.

Se oggi tutti o quasi concordano sul fatto che il problema fondamentale è quello di ristabilire il necessario clima di fiducia da parte dei risparmiatori/investitori nel sistema finanziario globale, la notizia della scoperta, da parte di una risvegliata Securities and Exchange Commission (anche perché non più presieduta da Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox) dell’ennesima frode finanziaria da parte del miliardario texano R. Allen Stanford che, tramite la sua omonima banca, ha piazzato titoli per 8 miliardi di dollari che erano andati letteralmente a ruba a causa dei rendimenti altissimi che promettevano e che, secondo la stessa Sec, erano basati su ipotesi talmente irrealistiche e infondate da sollevare gli acquirenti da qualsiasi responsabilità, configurandosi invece gli estremi della truffa.

E’ alla luce dei dubbi sulle terapie seguite dai governi e dalle banche centrali, nonché da piacevolezze come la scoperta dell’ennesima truffa in danno dei risparmiatori e degli investitori che non vi è davvero da meravigliarsi se anche la giornata di ieri si è trasformata nell’ennesimo bagno di sangue sui mercati di tutto il mondo, iniziata male in Asia, per poi finire molto, ma molto peggio in Europa e negli Stati Uniti d’America, per poi replicare di nuovo stamane, anche se in quello che in gergo si definisce un esito misto, in Asia.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

martedì 17 febbraio 2009

Indossate i giubbotti di salvataggio!


Voglio spezzare una lancia in favore del povero ministro delle finanze giapponese costretto alle dimissioni per essere apparso alquanto ubriaco nel corso di una conferenza stampa svoltasi in conclusione dell’inutili G7 dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali, un incontro nel quale, almeno stando alle ricostruzioni ufficiali non si era parlato di cambi, né di quelle politiche più o meno protezionistiche messe in campo un po’ da tutti i governi, ma da tutti negate con vigore, né dell’agenda in vista del G20/G21 previsto per il 2 aprile prossimo in quel di Londra.

Ebbene, cosa avreste fatto voi se vi foste sobbarcati il lungo viaggio aereo da Tokyo a Roma, alla vigilia del tonfo del PIL giapponese a ritmi di poco inferiori al 13 per cento su base annua, soltanto per conoscere da vicino il nuovo ministro del Tesoro a stelle e strisce, Timothy Getihner, o per ascoltare le barzellette di Tremonti o restare incantato dall’algida e un po’ severa bellezza di Christine Lagarde, forse avreste come lui alzato un po’ il gomito, chiedendovi per quale diavolo motivo vi trovavate là invece di trascorrere il fine settimana con la famiglia!

D’altra parte, nessuno ha osato chiedere le dimissioni del molto bellicoso presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, quando a Mosca, non si sa se per uno scherzo orchestrato dagli ospiti russi, diede di sé uno spettacolo non molto diverso da quello offerto dal ministro nipponico, anche se è vero che è un po’ difficile mettere alla porta un capo di Stato eletto a grande maggioranza dai suoi concittadini, compresi molti socialisti che non avevano proprio nessuna voglia di votare per la non proprio simpaticissima Segolene Royal.

Sono almeno venti mesi che racconto con dovizia di particolari la vita dei banchieri, dei finanzieri, dei governanti e dei banchieri centrali di tutto il mondo, tutti ad affannarsi senza avere la possibilità di trascorrere le meritate vacanze, i dorati week end, a subire i connessi litigi matrimoniali, ma, soprattutto, a cercare affannosamente di trovare una qualche via di uscita dalla più grave crisi finanziaria mai registrata nella storia dell’umanità, qualcosa, insomma, che non augurereste al vostro peggior nemico e che rappresenta in fondo l’unica consolazione dei tanti che sono stati messi alla porta dagli azionisti infuriati, oltre, ovviamente, a quei favolosi paracadute d’oro che Obama ha minacciato di eliminare.

Salvati per l’ennesima volta in corner dall’ennesima festività, questa volta dedicata al padre della patria George Washington, i tre principali indici azionari di Wall Street sono rimasti sui livelli di perdita tutto sommata modesti segnati nell’ultimo giorno della scorsa ottava, mentre i listini asiatici e quelli europei non hanno potuto non fare i conti con la debacle dell’economia giapponese e con i forti timori per la tenuta delle banche europee, con particolare riferimento a quella Lloyd Bank che si è dovuta accollare un'altra banca che si sta presentando come una vera e propria sentina di sofferenze legate al meltdown immobiliare britannico che se la batte con quello statunitense in quanto a perdita di valore delle abitazioni legata alla vera e propria ondata di insolvenze dei mutuatari in difficoltà a tenere dietro alle rate di muti altrettanto trappola di quelli a stelle e strisce.

Mentre Gordon Brown non sa che altro fare con le principali banche del suo paese, non avendo peraltro visto grandi risultati dopo aver speso sterline a carrettate, la povera Frau Merkel si sta macerando intorno alla decisione di espropriare, sì proprio espropriare, quel che resta di quella Hypo Real Estate nella quale ha già profuso tra liquidi e garanzie oltre cento miliardi di euro, ma, quasi tutto ciò non bastasse, Don Emilio Botin ha chiesto all’ente di controllo sulla borsa spagnola il premesso di congelare i riscatti a valanga da un suo fondo da 2,7 miliardi di euro, incorrendo così nella seconda scivolata sul paino dell’immagine in pochi mesi, prima a causa del malefico Bernard L. Madoff e ora per colpa di quegli stessi dirigenti che deve avere ben strigliato domenica pomeriggio per la loro dabbenaggine!

Per quanto riguarda la situazione del mercato creditizio francese, si apprende che sono in corso i primi contatti tra il governo belga e BNP Paribas dopo il pronunciamento dell’assemblea straordinaria degli azionisti di Fortis che si sono pronunciati, sia pure a strettissima maggioranza, contro la soluzione di smembramento della banca decisa a ottobre 2008 in sede di intervento dei tre governi del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, governi che, almeno a quanto pare, non sembrano avere alcuna intenzione di fare marcia indietro rispetto alle decisioni a suo tempo assunte.

L’addensarsi di nubi sempre più scure su quel fronte orientale formato dai paesi della Nuova Europa e da realtà quali quelle dell’ucraina ed altre ex repubbliche socialiste sovietiche aggiunge preoccupazione a preoccupazione per le tante banche europee di grandi dimensioni che sullo sviluppo dei paesi un tempo appartenenti al Patto di Varsavia avevano scommesso come si suol dire terzi e capitale e che ora vedono con terrore l’ipotesi sempre più concreta di uno sgretolamento del castello di carte eretto in fretta e furia dopo la caduta del muro di Berlino, una situazione che vede coinvolte tutte le principali banche che si erano date una dimensione continentale, per non parlare di quelle ancor più globali che stanno facendo i conti con i guai presenti negli altri continenti.

A poche ore dall’apertura delle contrattazioni a Wall Street, anche oggi i mercati asiatici ed europei sono sotto una vera e propria pioggia torrenziale di vendite, una situazione che sta portando le quotazioni delle azioni di molte entità finanziarie a testare i minimi o a inoltrarsi su terreni del tutto sconosciuti e che mi costringe a ripetere, come è accaduto più volte in passato, l’invito ad allacciare le cinture di sicurezza, o, come sarebbe più corretto, in presenza degli alti marosi della tempesta perfetta, a indossare i giubbotti di salvataggio!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

Il crollo del PIL giapponese fa riflettere sulle prospettive della tempesta perfetta!


Senza neanche il forte alibi di uno shock petrolifero quale quello del 1973, l’economia giapponese ha segnalato nell’ultimo trimestre dell’orribile 2008 una flessione anno su anno che ha sfiorato il 13 per cento, mentre la variazione rispetto al trimestre precedente è stata di oltre il 3 per cento, una notizia che, peraltro, non è giunta sola in quanto il potente ministero dell’industria giapponese è stato costretto a rettificare in peggio il già catastrofico dato relativo alla produzione industriale in dicembre da una flessione di poco più del 9 per cento a una di pochissimo meno del 10 per cento, un crollo in gran parte legato alle difficoltà dei settori maggiormente legati all’export, a causa della forza dello yen che da quasi un anno si è rafforzato nei confronti del dollaro di poco meno del 50 per cento, ma che, seppure in misura meno accentuata, si è molto apprezzato anche nei confronti dell’euro e della sterlina.

In più di una puntata del Diario della crisi finanziaria ho sottolineato come il rischio più forte cui va incontro l’economia statunitense non è tanto quello di ripercorrere la tristissima vicenda della Grande Depressione degli anni Trenta e primi anni Quaranta, quanto piuttosto quella di emulare la lunghissima stagnazione giapponese che ha fatto seguito allo scoppio della gigantesca bolla immobiliare nel 1989, un evento più o meno coevo allo scoppio della bolla a azionaria e al disastro mai sanato delle sofferenze più o meno nascoste delle grandi banche giapponesi.

Troppe sono le somiglianze tra le caratteristiche della finanza statunitense e globale all’avvio delle tempesta perfetta e lo scoppio delle tre bolle giapponesi, così come troppi sono gli errori-fotocopia commessi dalle autorità monetaria del paese del Sol levante e quelli ascrivibili al micidiale trio Bush-Paulson-Bernspan tra l’estate del 2007 e l’autunno del 2008 per non pensare che, ameno di un colpo di coda che non si intravede all’orizzonte, non si entri in quello scenario da case study della trappola della liquidità di keynesiana memoria che la lunga stagnazione giapponese ha rappresentato per gli studenti dei corsi post laurea statunitensi, subissati di ricostruzioni alle quali seguiva immancabilmente, con grande compiacimento del docente di turno e ammirazione degli studenti presenti, la frase fatidica che sottolineava come “da noi tutto questo non potrà assolutamente accadere”.

Va detto, a onor del vero, che gli errori commessi dalla classe politica e imprenditoriale giapponese sono stati, peraltro, di gran lunga inferiori a quel mix di passività e agire scomposto che hanno caratterizzato l’azione del precedente presidente degli Stati Uniti d’America, dell’ex (?) investment bunker strappato alla “sua” Goldman Sachs e di quel mite studioso di crisi finanziarie all’Università di Princeton catapultato alla guida del sistema della riserva federale e che volle a tutti i costi emulare il cattivo Maestro Alan Greenspan, al punto da meritarsi il nomignolo con il quale lo bersaglio da ben venti mesi!

Apprendo dalla lettura dei giornali di oggi che, come dichiarato apertamente dai partecipanti, i ministri delle finanze e i banchieri centrali dei sette paesi maggiormente industrializzati riuniti nel fine settimana in Via Veneto, Roma, Italia, hanno deciso molto signorilmente di discutere di valute solo in linea generale, una scelta che ha evitato il rovesciarsi di tavoli e il lancio di sedie, ma che lascia il mondo senza una risposta sul gradimento o meno dello squagliamento senza precedenti della valuta britannica o di quel rafforzamento epocale dello yen che sta producendo gli effetti di cui sopra, così come non è stato affrontato apertamente il tema della bad bank o, come si inizia a dire, del suo contrario, ovvero di una good bank nella quale fare confluire le passività delle banche più inguaiate, per poi farle affondare con board of directors e top executives legati ai loro posti, né è sembrato conveniente che i convenuti mettessero le carte sul tavolo in relazione alle politiche all’insegna del beggar my neighbours che sembra stiano imperando al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico e da parte dei rivieraschi uniti contro l’Oriente più o meno estremo.

Se tutto ciò corrisponde al vero e non è il risultato di sapienti cortine fumogene, viene da chiedersi di che diavolo mai abbiano discusso per due giorni persone che nelle rispettive patrie hanno certamente un bel da fare, piuttosto che scambiarsi educatamente osservazioni sul tempo alquanto rigido nella Capitale d’Italia, un’eventualità che a me appare talmente inverosimile che ne lascio volentieri la paternità ai cronisti più o meno embedded ufficialmente accreditati dalle competenti autorità per seguire simili eventi.

Credo proprio che le cose non siano andate così, anche perché voglio sperare che, rigorosamente a porte chiuse, si sia cercato di riempire il lunghissimo intervallo di tempo intercorrente tra l’inconcludente meeting del G20/21 dell’ottobre scorso a Washington e quello previsto per il 2 aprile in quel di Londra, luogo quest’ultimo nel quale si deciderà finalmente il da farsi, o almeno si deciderà di fare un agile gruppo di lavoro costituito da persone di buon senso e qualche esperienza che avochi a sé la responsabilità di decidere il da farsi, visto che la miriade di organismi che sinora se ne sono occupati hanno prodotto il vuoto più o meno torricelliano.

Mi dispiace che il povero Paolo Biasi, colui che fè lo gran rifiuto rispetto alla sottoscrizione di strani titoli emessi da Unicredit Group per la bella cifra di 500 milioni di euro, stia iniziando a subire, via stampa compiacente nei confronti dei poteri più o meno forti, le prime ritorsioni, non tanto e non solo nella sua veste di presidente di quell’ente Cariverona che ha arrotondato al 6 e spiccioli per cento la sua quota nella banca di Piazza Cordusio, quanto in quella, invero più privata, di imprenditore alle prese con gli effetti della crisi finanziaria e industriale in corso, veleni e polemiche dalle quali spero proprio per lui che non segua qualche richiesta di rientro del fido o, da parte di qualche creditore impressionabile, un’istanza di fallimento corredata più che da fatture inevase da ritagli presi da La Repubblica, giornale di proprietà di Carlo De Benedetti!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .

lunedì 16 febbraio 2009

Ma qual'è il male oscuro di Unicredit Group?


Pur avendo inibito la possibilità di esprimere commenti sul blog, ricevo spesso e-mail contenenti richieste di chiarimenti o suggerimenti da parte di lettori che ottengono il mio recapito dai vari siti che pubblicano le puntate del Diario della crisi finanziaria, in particolare dal sito dei giornalisti free lance che, insieme a quello della UILCA e a Rosso di Sera, le pubblicano sin dall’avvio di questa avventura editoriale che ha preso il suo avvio il 4 settembre del 2007, meno di un mese dopo lo scoppio della tempesta perfetta.

Nei limiti delle mie possibilità, ho cercato di rispondere a tutti, evitando soltanto le richieste relative a consigli sul modo migliore per investire il loro denaro, anche perché non posso, né tanto meno voglio esprimere su prodotti finanziari che non siano quelli tradizionali e sempre nei limiti di garanzia previsti dai rispettivi ordinamenti, ma devo confessare che nessuno dei miei lettori abbia sentito il bisogno di chiedersi e chiedermi per quale motivo l’azione di uno dei due principali gruppi bancari, Unicredit Group, abbia perso l’83 per cento del suo valore massimo toccato più o meno in concomitanza con la fulminea acquisizione su base amichevole di Capitalia, a sua volta un gruppo bancario di dimensioni notevoli e che aveva aggregato un certo numero di banche italiane.

A prescindere dalle mie opinioni personali su queste fusioni a freddo sostanzialmente decise a seguito di contatti telefonici tra i vertici, una fattispecie che, almeno in Italia, aveva visto pochi mesi prima il precedente dell’acquisizione del San Paolo-Imi (un gruppo che aveva aggregato, attorno al San Paolo di Torino, non solo l’Imi, ma anche il Banco di Napoli, Cardine e numerose altre banche di varia dimensione) e pochi mesi dop la nascita di Unicredit Group, quella altra fusione che aveva dato luogo a UBI Banca, tutte operazioni avvenute in quella che anni orsono ebbi a definire la terza fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano, una fase nata in gran parte come reazione all’espugnazione di due banche italiane da parte di due gruppi bancari basati nell’Unione europea e per mettere alla porta altrettanti importanti azionisti stranieri presenti nell’uno o nell’altro gruppo che andava a fondersi, se non in tutti e due.

In questo contesto di operazioni aventi nullo o poco senso industriale, o il cui senso industriale lo si andava poi affannosamente cercando ex post, quella scaturita dall’intesa tra Alessandro Profumo e Cesare Geronzi, presentava in aggiunta un’ulteriore anomalia, quella di avere come obiettivo aggiuntivo più o meno confessato quello di spingere alle dimissioni, come poi accadde pressocché in tempo reale, le dimissioni del giovane amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe che Geronzi non era riuscito a defenestrare per via ordinaria, a causa delle resistenze di alcuni importanti e molto influenti soci, ma che Cesare evidentemente non sopportava al punto che accettò, se non propose, l’offerta del gruppo milanese, ottenendo in cambio di non avere ruolo alcuno nel nuovo gruppo ma di sedere sulla massima poltrona di Mediobanca, importante partecipata di ambedue i gruppi che andavano a integrarsi, prima come presidente del Consiglio di Sorveglianza, poi eliminato il sistema duale appena applicato, come presidente del Consiglio di Amministrazione, una posizione di estremo prestigio, ma che, per l’opposizione di Mario Draghi, non si è trasformata nel trampolino di lancio verso il vertice massimo delle Assicurazioni Generali, a loro volta controllate dalla stessa Mediobanca.

Sperando che ai miei lettori non sia venuto il mal di testa di fronte a tanto funambolismo riuscito e mancato, vorrei interrogarmi insieme a loro sui motivi di tanta incomprensione da parte del mercato delle mirabili e progressive sorti del primo gruppo bancario ad avere compiuto un’importante acquisizione niente di meno che in Germania, il più importante e popoloso paese membro dell’Unione europea, ma anche l’unico ad avere, sia prima che dopo questa acquisizione, un ruolo di primo piano nella cosiddetta Nuova Europa, quella composta in gran parte dai paesi un tempo appartenenti al Patto di Varsavia, cioè satelliti di quella che sino all’inizio degli anni Novanta era l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Certo, se Alessandro Profumo si fosse interrogato sui motivi per i quali l’industria e la finanza del nostro paese non sono mai riuscite a compiere scorrerie di successo al di fuori dei confini nazionali, si pensi alle clamorose sconfitte subite da persone del calibro Carlo De Benedetti e di Marco Tronchetti Provera, per non parlare di imprenditori di minore calibro ma di grandissima determinazione, forse qualche dubbio sulla validità nel medio-lungo periodo dell’acquisizione dell’importante banca tedesca e delle sue colonie gli sarebbe pure venuto, ma l’ex enfante prodige della finanza italiana non è uomo da amletici dubbi, né tantomeno uno che si fa frenare nelle sue ambizioni dall’ostacolo di una lingua ostica come quella tedesca, che, infatti, ha diligentemente studiato e, pare, anche con profitto, mentre quelli che ha fatto più fatica a trovare sono stati proprio i profitti derivanti dall’operazione!

L’ex pupillo di Lucio Rondelli mi ha incantato quando, annunciando, nell’ottobre del 2008, la mega ricapitalizzazione che tanto sta impegnando le un tempo fedeli fondazioni bancarie azioniste di Unicredit, ha affermato che forse lui e i suoi principali collaboratori non si erano resi conto della portata delle tempesta perfetta che allora compiva i suoi primi quindici mesi di vita, ma, portandomi avanti con il lavoro, prevedo che, fra qualche tempo, se sarà ancora amministratore delegato del grande gruppo creditizio (carica nella quale è stato appena confermato da tutti e ventitré i consiglieri di amministrazione), ci informerà che sempre lui e sempre i suoi collaboratori non si erano resi conto del fatto che gran parte di quei paesi nei quali Unicredit è presente sia prima che, in misura maggiore dopo, l’operazione tedesca, sarebbero diventati le principali vittime della tempesta perfetta allora ancora in corso, circostanza che farebbe dire a un uomo prudente come Giulio Andreotti che peccare è umano, perseverare è diabolico!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .