venerdì 31 dicembre 2010

Il quarto anno della tempesta perfetta!

skip to main | skip to sidebar

Questa è l’ultima puntata dell’anno del Diario della crisi finanziaria, ed è anche l’ultima del quarto anno di tempesta perfetta, fenomeno che i più fanno risalire al 9 agosto del 2007, quando si verificò il congelamento dei mercati interbancari posti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico e le banche centrali, BCE in testa, furono costrette a inondare liquidità nei mercati per importi di gran lunga superiori a quelli immessi all’indomani dell’11 settembre 2001.

Certo, rispetto al primo anno, quando fallirono banche e finanziarie, le cose sembrano essere molto meno dure, ma questo riguarda solo Wall Street e dintorni e non le decine di milioni di persone che hanno perso il lavoro all over the world e i milioni di persone che hanno perso la casa, spesso, purtroppo, trovandosi in entrambe le situazioni.

La crisi sociale va anzi accentuandosi e gli ultimi dati sulle procedure di esproprio parlano chiaro e dicono, secondo il capo analista di Moody’s, che 1.800.000 famiglie hanno subito le procedure che portano all’esproprio al termine del 2010, mentre saranno 2.100.000 nell’anno che sta per cominciare.

Ma crisi sociale e crisi finanziaria sono inscindibilmente connesse e solo con un cambiamento di atteggiamento delle banche nei confronti dei loro debitori si potrà trovare un nuovo punto di equilibrio, ma di tutto questo avremo tanto tempo per parlare nell’anno che verrà e, temo, anche in quelli successivi.

Tanti auguri a tutti!


giovedì 30 dicembre 2010

Gli analisti non ne indovinano più una!

skip to main | skip to sidebar

Gli analisti a stelle e strisce sembra proprio non ne azzecchino più una, almento stando agli ultimi dati importanti dal Non Farm Payrolls ai dati relativi ai prezzi delle case, dai dati sull’inflazione a quello sulla fiducia dei consumatori, prevista quest’ultima a 56, ma rivelatasi martedì scorso a 52,5 in dicembre contro il 54,3 di novembre.

Eppure le ragioni alla base di questo forte ribasso del Consumer Confidence erano più che prevedibili, e sono tutti legati al continuo deterioramento del mercato del lavoro, tanto è vero che la risposta sul lavoro difficile da trovare ha raggiunto il livello di 46,8 dal 46,3 di novembre, mentre quella che indica la piena occupazione è scivolata a 3,9 in dicembre da 4,6 registrato nel mese di novembre.

Nel frattempo, i prezzi delle case sono calati per il quarto mese consecutivo in ottobre, come segnala denominate lo Standard & Poor’s/Case Schiller composite index, l’indagine che prende in esame le 20 aree metropolitane e che mette in evidenza come il prezzo medio sia calato dell’1 per cento rispetto a quello segnalato in settembre, mentre il calo sullo stesso mese dell’anno precedente è dello 0,8 per cento ed è la prima flessione anno su anno segnalata dall’indice dall’inizio dell’anno in corso.

In numerose puntate del Diario della crisi finanziaria avevo segnalato che la fine dell’incentivo fiscale di 8 mila dollari per gli acquirenti della prima casa avrebbe condizionato negativamente i mesi successivi ed è quanto si sta puntualmente verificando, per non parlare dell’effetto depressivo sui prezzi derivante dalle vendite all’asta delle case espropriate dalle banche, un triste fenomeno che riguarderà nel 2010 oltre un milione di famiglie americane.

mercoledì 29 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali decide di colpire l'Italia?

skip to main | skip to sidebar

Ripubblico il mio articolo apparso il 28 dicembre su l'Altro quotidiano.
*
La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.


martedì 28 dicembre 2010

Piccole banche USA falliscono!

skip to main | skip to sidebar

La gazzetta ufficiale della tempesta perfetta, il Wall Street Journal, ha dato la notizia che poco meno di cento banche statunitensi destinatarie degli aiuti del TARP, il programma da 700 miliardi di dollari che ha evitato il fallimento di banche, compagnie di assicurazione e case automobilistiche, sarebbero sull’orlo del default.

Per avere un’idea del problema basti pensare che il fallimento di sette banche destinatarie di aiuti è già costato 2,7 miliardi di dollari al TARP ed è facile capire cosa accadrebbe se la stessa sorte accadesse a tutte o larga parte delle banche a rischio, banche che, complessivamente, hanno ricevuto 4,2 miliardi dal programma di aiuti.

Da due anni non passa week end nel quale non vengano chiuse banche di piccole e medie dimensioni e quest’anno il fenomeno ha raggiunto dimensioni preoccupanti riguardando oltre 100 banche, il numero più alto dalla crisi delle casse di risparmio a stelle e strisce dei primi anni Novanta.

Ma guardando oltre il caso delle 98 banche citate dal Wall Street Journal, fonti ufficiali parlano di 814 banche sulle 7.760 totali esistenti negli USA in difficoltà e non in grado di rispettare i ratio previsti, anche se va detto che la precedente crisi bancaria vide il numero delle banche passare da 14 mila a poco più di 7 mila.

L’accelerazione della chiusura di banche lascia intuire che il 2011 sarà l’anno della verità, l’anno, cioè, nel quale l’onda lunga della tempesta perfetta porterà il suo carico di insolvenze di famiglie e imprese sui bilanci delle banche di piccole e medie dimensioni disseminate sul vasto territorio degli States ed è allora che ne vedremo delle belle!

lunedì 27 dicembre 2010

Nuovo rialzo dei tassi cinesi!

skip to main | skip to sidebar

Mentre al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico i tassi ufficiali di interesse rimangono ai minimi storici, pressoché zero quelli statunitensi e all’uno per cento quelli dell’area dell’euro, nella repubblica Popolare Cinese si è registrato nel corso del fine settimana l’ennesimo aumento che porta i tassi a un anno al 5,81 per cento, mentre i depositi di pari scadenza hanno visto elevare la loro remunerazione al 2,75 per cento, una mossa volta a raffreddare l’inflazione che sta colpendo i meno abbienti al punto che sono costretti a spendere in media il 50 per cento delle loro entrate per acquistare generi di prima necessità.

Anche sul fronte dei prezzi al consumo il divario tra l’Occidente sviluppato e la Cina di sta infatti ampliando, con prezzi sotto controllo in Europa e negli Stati Uniti e al di sopra del 5 per cento nel gigante asiatico.

Se la manovra del governo di Pechino avrà successo, assisteremo ad un considerevole rallentamento della crescita cinese che è uno dei pochi alibi a un prezzo del petrolio incredibilmente al di sopra dei 90 dollari, 40 dollari al di sopra del prezzo considerato ragionevole dal prestigioso centro di ricerca sul petrolio presieduto dallo sceicco Yamani, l’uomo che per un ventennio è stato presidente dell’OPEC, un periodo non di poco conto in quanto ha visto il secondo dei due micidiali shock petroliferi che hanno messo in ginocchio i paesi importatori.

Non troverei inopportuna un’indagine federale negli Stati Uniti d’America sul ruolo del club delle nove banche globali e di altri speculatori di professione, compagnie petrolifere incluse, sul mercato dei derivati sul petrolio, anche perché credo che ne emergerebbero delle belle, ma so che tale richiesta difficilmente potrà essere esaudita alla luce del divario di forze esistente tra governi da un lato e speculatori dall’altro.

Nel frattempo, il mercato dei cambi resta quieto con l’euro scambiato nell’area dei 1,31 dollari e il dollaro scambiato nell’area degli 82 yen, mentre l’oro continua nel suo ripiegamento al di sotto della soglia psicologica dei 1.400 dollari per oncia.

venerdì 24 dicembre 2010

Il Portogallo è il prossimo? (2)

skip to main | skip to sidebar

A due soli giorni di distanza dalla decisione di Moody’s di mettere sotto revisione il rating del debito a lungo e di quello a breve del Portogallo, anche la agenzia Fitch's ha deciso di muoversi, degradando il debito portoghese da AA- ad A+ e, via outlook negativo, minacciando ulteriori degradazioni nel prossimo futuro.

La cosa che più colpisce è che il comportamento delle due agenzie di rating provoca più o meno immediatamente un rialzo dei rendimenti sul debito che provoca poi proprio quell’onerosità del debito (e difficoltà a comprare compratori dei titoli stessi) che sono viste come elementi problematici dagli occhiuti revisori.

Come scrivevo nella puntata dell’altro ieri, questo modo di procedere delle due agenzie di rating potrebbe rappresentare una sorta di via libera al club delle nove banche globali per muovere all’assalto dei titoli pubblici portoghesi, operando in modo da allargare a dismisura i relativi differenziali con gli omologhi titoli tedeschi, ma rappresenta anche un ulteriore segnale di allarme per i titoli spagnoli e per quelli italiani.

Non credo che vi sarà una pausa per le feste natalizie nell’assalto ai bond portoghesi, spagnoli e italiani, così come credo che non saranno esenti da questa campagna ribassista anche i titoli di Irlanda e Grecia che pure sono stati “salvate” la prima poche settimane fa e la seconda nel maggio dell’anno scorso.

Se le cose andranno come previsto, il governo Socrates sarà costretto a chiedere l’aiuto del fondo di salvataggio, dell’Unione europea e del Fondo Monetario Internazionale, interventi che saranno il segnale di via libera per l’attacco agli obiettivi più grossi rappresentati da Spagna e Italia e non necessariamente nell’ordine indicato!

giovedì 23 dicembre 2010

L'America dei buoni pasto!

skip to main | skip to sidebar

Secondo dati diffusi dal governo degli Stati Uniti d’America, il numero dei cittadini che ricevono i buoni pasti destinati ai più poveri è cresciuto del 16 per cento rispetto allo scorso anno, il che significa che attualmente ricevono questi sussidi in natura 43 milioni circa di persone e cioè il 14 per cento della popolazione della più potente nazione al mondo.

Molti Stati stanno rivedendo al rialzo la linea di povertà per dare modo a un numero maggiore di famiglie di ricevere questa forma di sussidi, il cui importo è stato aumentato nel 2010 del 13,6 per cento, un aumento che equivale a ulteriori 20-24 dollari al mese per persona presente nel nucleo familiare.

Ovviamente, si tratta di buoni che vengono integralmente spesi dai percettori, il che, oltre a considerazioni di carattere umanitario, spiega l’interesse dell’amministrazione per questa forma di aiuto che da, nel suo piccolo, una concreta spinta ai consumi e alla crescita del prodotto interno lordo.

A guidare la triste graduatoria della quota della popolazione che sopravvive grazie ai buoni pasto è Washington D.C. nella quale il 21,5 per cento degli abitanti vivono di carità pubblica, per non contare quanti vivono di sussidi di disoccupazione.

Nel recente accordo tra Obama e i leader repubblicani e democratici è entrata l’estensione per ulteriori 13 settimane dei sussidi di disoccupazione ma non la proroga del programma per l’elargizione dei buoni pasto, cui il presidente tiene molto e cercherà di far approvare un apposito disegno di legge entro la fine dell’anno, forte anche della maggioranza democratica in entrambi i rami del Congresso che svanirà a gennaio all’insediamento delle nuove camere.

mercoledì 22 dicembre 2010

Il Portogallo è il prossimo?

skip to main | skip to sidebar

Con singolare tempismo, l’agenzia di rating Moody’s, reduce dal downgrade di quattro banche e una compagnia di assicurazione irlandesi, ha messo sotto revisione il rating del debito a lungo e di quello a breve del Portogallo, muovendosi come se fosse già certo il ricorso al fondo di salvataggio dei paesi dell’area dell’euro.

Dalla messa in stato di revisione al downgrade vero e proprio possono passare anche tre mesi, ma non credo che nessuno all’interno dell’agenzia si attenda che si arrivi dino a marzo per il taglio che potrebbe anche essere di tre tacche da A1 per il debito a lungo e da Prime –1 per quello a breve termine.

La decisione di Moody’s potrebbe rappresentare una sorta di via libera al club delle nove banche globali per muovere all’assalto dei titoli pubblici portoghesi, operando in modo da allargare a dismisura i relativi differenziali con gli omologhi titoli tedeschi, ma rappresenta anche un ulteriore segnale di allarme per i titoli spagnoli e per quelli italiani.

Come amava dire Soros ai tempi dell’assalto alla sterlina e alla lira nel lontano 1992, quello dell’Italia era l’obiettivo grosso del suo attacco fortunato e che gli permise di guadagnare un miliardo di dollari scommettendo sulla svalutazione delle due valute e sulla loro uscita dal Sistema Monetario Europeo.

Nel frattempo, resto in attesa dei proclami del governo portoghese sulla non necessità dei finanziamenti del fondo di salvataggio, né tanto meno di quelli dell’Unione europea e del Fondo Monetario Internazionale, replicando il copione già messo in scena dalla Grecia nel maggio scorso e replicato più di recente dall’Irlanda!


martedì 21 dicembre 2010

Moody's spara sulla croce rossa!

skip to main | skip to sidebar

Come era largamente scontato, il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, ha firmato il provvedimento di legge che estende di due anni i tagli fiscali decisi a suo tempo da George W Bush, tagli che vengono mantenuti anche per quel due per cento della popolazione statunitense che è in condizioni di grande agio economico, legge accettata da Obama per i concomitanti provvedimenti in favore dei senza lavoro, in materia di sgravi fiscali per i figli e per quelli in favore degli studenti universitari.

Dopo un iniziale rialzo, i tre principali indici statunitensi hanno ripiegato, fedeli all’adagio che dice compra sull’indiscrezione vendi sulla notizia, hanno ripiegato, seppur di poco rispetto ai valori della chiusura di venerdì, mentre, nel frattempo, l’euro sta testando verso il basso la soglia posta a 1,30 dollari.

Portandoci dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, una nuova raffica di downgrade ha colpito quattro banche e una compagnia di assicurazione irlandesi, l’Allied Irish Bank, la Bank of Ireland, la EBS Building Society, l’Irish Nationwide Building Society e la Irish Life and Permanent, portando i loro rating a Baa1, tre tacche al di sopra dei junk bonds, variazione al ribasso dei rating pur in presenza di un giudizio positivo sugli intenti ristrutturatori formulati dal Governo irlandese in occasione dei negoziati per l’ottenimento dei finanziamenti ottenuti dal fondo di salvataggio istituito dai paesi dell’area dell’euro, dall’Unione europea e dal Fondo Monetario Internazionale.

Che la ristrutturazione stia procedendo è dimostrato dal trasferimento di 9,3 miliardi di euro di crediti dalla Allied Irish Bank alla National Assett Management Agency, una sorta di bad bank costituita con fondi pubblici, con uno sconto sul valore facciale dei crediti di poco meno del 60 per cento, ed è certo che operazioni della specie proseguiranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi finché le banche non avranno ripulito i loro bilanci, mentre è solo questione di tempo per le operazioni di fusione tra le principali banche irlandesi!

lunedì 20 dicembre 2010

La Spectre delle banche contro l'euro!

skip to main | skip to sidebar

E ora i complottisti, quelli che vedono una regia occulta dietro qualsiasi cosa rilevante avvenga nel mondo, sono serviti, un articolo del New York Times racconta con dovizia di particolari dell’esistenza di un club delle nove più importanti banche mondiali, in buona parte statunitensi, ma anche svizzere, inglesi e tedesche, che si riunirebbero in un giorno non precisato di ogni settimana per fare il punto su materie prime, azioni, obbligazioni e rapporti di cambio e per concordare azioni comuni in materia.

La notizia data dall’importante giornale statunitense viene ripresa in un editoriale dell’ex direttore di Repubblica, apparso ieri, nel quale il giornalista sostiene che dietro l’attacco al debito sovrano dei paesi deboli dell’area euro vi sarebbero non solo e non tanto i famigerati hedge funds ma le sopra citate banche guidate dalla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs (sulla quale rimando il lettore alla riedizione fatta nei giorni scorsi della puntata del Diario della crisi finanziaria del luglio scorso).

Ma, secondo Scalfari, l’obiettivo delle nove banche è ancora più ambizioso e punterebbe a creare le condizioni per dividere in due l’area dell’euro, assegnando un euro A ai paesi forti e con le finanze in ordine e un euro B ai paesi più disastrati, capitanati i primi dalla Germania e i secondi dall’Italia e dalla Spagna.

Come ho avuto più volte modo di dire dal settembre del 2007, è dalla nascita dell’euro che ambienti influenti statunitensi non nascondono il loro scetticismo, se non la loro ostilità, per questo importante tassello di una unificazione europea più completa, un processo che non sarà completato finché non verranno unificate la politica economica e quella fiscale, un’ostilità che può facilmente divenire fonte di profitti se a muoversi sono le più importanti banche del mondo e tutta la flottiglia al seguito!


venerdì 17 dicembre 2010

Meno tasse per tutti!

skip to main | skip to sidebar

Con un grande sacrificio rispetto ad una delle più importanti sue promesse elettorali, Obama ha ricevuto dal Congresso la legge che estende i tagli fiscali decisi a suo tempo da George W Bush, tagli che vengono mantenuti anche per quel due per cento della popolazione statunitense che è in condizioni di grande agio economico.

E’ vero che ha ottenuto in cambio significativi sgravi contributivi per i lavoratori dipendenti, crediti di imposta per i figli e, soprattutto, l’estensione temporale dei benefici per coloro che hanno perso il lavoro, ma è evidente che l’estensione dei tagli fiscali per i più abbienti e quelli sui capital gains e sui dividendi bruciano ai democratici che sanno benissimo che lo spirito bipartisan verrà meno non appena si insedieranno le nuove camere in gennaio, con la Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana e una minoranza più forte e agguerrita di quello stesso partito nella camera alta.

Sempre ieri, il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, ha parlato al Congresso delle ultime stime che il Congressional Budget Office’s ha formulato sul costo per i contribuenti derivanti dal TARP, il fondo da 700 miliardi di dollari istituito in piena tempesta perfetta, riducendo la stima a ‘soli’ 25 miliardi di dollari.

Ebbene, secondo Geithner, anche questa stima potrebbe essere rivista al ribasso visti i buoni risultati conseguiti nel settore bancario, assicurativo e automobilistico, le perdite potrebbero venire, invece, dagli aiuti stanziati nel settore immobiliare, ma non dovrebbero raggiungere l’entità prevista dal CBO.

giovedì 16 dicembre 2010

Un pitbull azzanna Bank of America! (2)

Inizialmente irrisa dai vertici di Bank of America, l'azione promossa dall'avvocato Kathy D. Patrick per conto di cinque investitori istituzionali, tra cui la Federal Reserve di New York, è tutt'altro che tramontata, in quanto le parti si sono date altri sessanta giorni di tempo per trovare una soluzione.
*
La materia del contendere sono titoli strutturati per originari 104 miliardi di dollari (oggi ne valgono 46 miliardi) emessi da Countrywide la mega società del mortgage acquisita nel luglio del 2008 dalla banca di Charlotte aventi come sottostante mutui immobiliari che secondo i ricorrenti non sarebbero stati gestiti in modo appropriato.
*
La notizia della prosecuzione dei colloqui volti ad evitare un sanguinoso scontro in tribunale è stata salutata da un rialzo delle quotazioni di BofA nel dopo borsa, dopo che nel normale orario di contrattazioni la banca aveva subìto perdite marginali.
*
Nel frattempo, il rallentamento delle procedure di esproprio si è tradotto in novembre in un forte calo degli espropri stessi, calati del 28 per cento rispetto ad ottobre e del 12 per cento rispetto al novembre dello scorso anno, ma questa battuta di arresto non ha impedito al numero delle case espropriate nel 2010 di raggiungere al numero di 980.000 e certamente verrà superato il milione per l'intero 2010.

mercoledì 15 dicembre 2010

Quali sono i rischi delle banche europee?

skip to main | skip to sidebar

Tre buone notizie sono giunte ieri dall’economia americana, tre segnali che, assieme al pacchetto di sgravi fiscali (in realtà un estensione del provvedimento risalente all’amministrazione Bush) da 900 miliardi di dollari in discussione al Congresso, vanno in direzione delle attese degli operatori e hanno spinto al rialzo i tre indici principali di Wall Street.

La Federal Reserve ha dichiarato che manterrà la sua politica di tassi di interesse vicino allo zero e ha confermato l'impegno al maxi acquisto di titoli del Tesoro, nel frattempo, lo yield sui Treasury Bonds a dieci anni ha raggiunto il suo massimo da maggio, portandosi a sfiorare il 3,40 per cento, un rialzo che riflette una caduta dei prezzi notevole, visto che solo all’inizio di ottobre il rendimento era al 2,39 per cento e che indica come a vendere siano forti detentori e non manca chi pensa che dietro questo sell off possa esserci la Repubblica Popolare Cinese.

Ma tensioni sono presenti anche sul mercato interbancario sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, anche se nella seduta di ieri si sono colti segnali distensivi dovuti all’azione energica sia della Federal Reserve che della Banca Centrale Europea, anche se, per quanto riguarda quest’ultima, è nota la decisione di smettere, ad aprile del prossimo anno, di inondare il mercato di liquidità.

Ma sarebbe interessante sapere quale è il reale rischio cui stanno andando incontro le banche europee che usano prendere denaro a buon mercato dalla BCE per investirlo in buona parte in titoli di Stato di varia scadenza, anche perché quello che sinora era stato un buon affare rischia di tradursi in una montagna di perdite, anche perché le banche non possono fare come il piccolo risparmiatore che, non volendo incorrere nella perdita in conto capitale, porta i titoli a scadenza, default permettendo.


martedì 14 dicembre 2010

BofA mette in vendita titoli tossici!

skip to main | skip to sidebar

Mentre è ancora alle prese con il pasticciaccio dei robo-signers e sulla richiesta di riacquisto di 49 miliardi di titoli legati a mutui, Bank of America starebbe, secondo un articolo del New York Post, mettendo in vendita titoli tossici per 1 miliardo di dollari, anche questi titoli legati a mutui portati in dote, si fa per dire, dall’acquisita e alquanto disastrata Countrywide.

I lettori più affezionati del Diario della crisi fianziaria ricorderanno quanto quell’acquisizione fu controversa e portò alle dimissioni dell’ex Chairman e Chief Executive Officer di BofA, reo agli occhi dei maggiori azionisti di aver subito le pressioni del Tesoro e della Federal Reserve senza farne parola al Board of Directors.

Quello che era certo è che Countrywide non aveva solo in pancia una larga quota dell’immenso mercato del mortgage a stelle e strisce, ma anche un’ancor maggiore quota dei titoli tossici legati all’immobiliare, rappresentando così una vera e propria bomba a orologeria per la banca costretta ad acquisirla!

Nel frattempo migliora leggermente l’indice sullo stress economico curato dall’Associated Press, passato dai 10,0 di settembre ai 9,9 di ottobre, allontanandosi così, seppur di poco dalla soglia di 11 che indica una situazione di stress.

Avendo già dedicato una puntata a questo indice, rinvio i lettori alla puntata in questione per le tecnicalità, ma mi vedo anche in questo caso costretto a fare un po’ le pulci al dato complessivo, rappresentando le tante realtà locali che sono ancora in una situazione di stress multiplo rispetto al dato nazionale.

Secondo l’indagine, la situazione di stress è calata nel 56 per cento delle 3.100 contee presenti negli Stati Uniti d’America e in 28 Stati, mentre un po’ più di un terzo delle contee peggiora la propria condizione di stressa.

A volte si tratta, come nel caso del Nevada, di flessioni di pochi decimali per un indice che si mantiene comunque al di sopra di 23, una flessione determinata da piccole variazioni nel tasso di disoccupazione, mentre peggiora ancora l’indicatore legato alle procedure di esproprio delle abitazioni.

Subito alle spalle del Nevada, la Florida (16,56) sorpassa la California (16,01), mentre al terzo posto si colloca il Michigan (15,52) e l’Arizona (14,6).

Come in settembre, anche in ottobre lo Stato con il minor livello di stress risulta essere il North Dakota (3,5), seguito da South Dakota (4,86), dal Nebraska (5,44), dal Vermont (5,69) e dal New Hampshire (6,72).

Il peggioramento del tasso di disoccupazione in novembre dovrebbe essere compensato, secondo molti economisti, dall’estensione per due anni degli sgravi fiscali decisi a suo tempo da Bush, misura attualmente in discussione al Senato.

lunedì 13 dicembre 2010

la quiete prima della tempesta perfetta!

skip to main | skip to sidebar

Dopo le onde che hanno riguardato il debito sovrano irlandese, quello portoghese e, seppure in maniera più limitata, quello spagnolo e quello italiano, stiamo assistendo ad un moto più quieto, ma non per questo meno pericoloso, che ha portato il decennale statunitense oltre la soglia psicologica del 3 per cento, mentre sembra toccare meno il bund tedesco che è comunque salito sino al 2,95 per cento.

Come molti commentatori già si chiedono, è apparentemente strano che i titoli del Tesoro statunitense vedano i loro prezzi scendere mentre è in atto una ondata di acquisti da parte della Federal Reserve, anche se è evidente che molti venditori non aspettavano altro per liberarsi di titoli che un po’ scottano per l’elevato livello del deficit e per le continue aste su tutte le scadenze temporali.

La decisione di Bernspan e compagni di acquistare titoli del Tesoro a stelle e strisce di varia durata per 600 miliardi di dollari elevabili a 900 non può contrastare la pressione dei detentori di titoli pubblici a vendere per poi riacquistare quando i rendimenti saranno tali da compensare appieno gli acquirenti.

In una situazione come questa risulta evidente l’opposizione ferma del governo della cancelliera Angela Merkel di fronte alla proposta, sostenuta con forza dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, di emettere degli eurobonds, una proposta che avrebbe aiutato i paesi maggiormente sotto attacco, ma avrebbe fatto venir meno quel potente deterrente rappresentato dal mercato e avrebbe facilitato un certo grado di lassismo fiscale.

Quella che si profila è dunque una tendenza dei rendimenti a remunerare di più un rischio default che per ora è stato evitato facendo ricorso alle risorse del fondo di salvataggio,a quelle dell’Unione europea e a quelle del Fondo Monetario Internazionale, ma è altrettanto chiaro che sarebbe ben difficile fronteggiare un attacco all’Italia o alla Spagna, soprattutto de l’attacco fosse rivolto ad entrambe, con il Portogallo per soprammercato.

Questo scenario diviene poi da brividi se si pensa che inizia a scricchiolare il fronte orientale dell’Europa, con l’Ungheria che ha visto di recente cedere la moneta e i titoli pubblici contemporaneamente, mentre poco ancora si sa della reale situazione degli altri paesi un tempo appartenenti al blocco sovietico, paesi che potrebbero rappresentare una vera e propria bomba ad orologeria per le banche dei paesi maggiormente industrializzati che in quei paesi si sono insediate e svolgono un ruolo di primo piano.

Come ho ricordato in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, la strada indicata dalla cancelliera Angela Merkel, quella cioè di far pagare anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, e state certi che questa fatto porterà i rendimenti al cielo!

giovedì 9 dicembre 2010

La speculazione all'assalto delle materie prime!

skip to main | skip to sidebar

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri i titoli tossici vengono ritenuti buoni per una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail.

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

La politica espansiva perseguita dalla Federal Reserve di Bernspan con il quantitative easing I da 1.700 miliardi di dollari e ora con il sequel denominato II, ufficialmente da 600 miliardi di dollari, ma in realtà da 1.000, assicura l’acquisto dei titoli emessi daI Tesoro degli Stati Uniti d’America ma è un meccanismo infernale di creazione di moneta, dollari che dovrebbero essere prestati dalle banche venditrici dei titoli di stato alle famiglie e alle imprese, anche se non risulta che ciò accada se non in minima parte.

Alla lunga, questo processo porterà a flessioni significative del valore del dollaro, per cui non c’è da stupirsi del fatto che le materie prime stiano andando letteralmente alle stelle, sia i metalli preziosi, oro e argento, che quelli utilizzati nei processi di lavorazione industriale, ma la loro parte la fanno anche il petrolio e il gas.

Tutto questo sta avvenendo sul mercato dei derivati, senza che nessuno proponga e ancor meno metta in atto quell’allargamento dei margini di garanzia che, ad esempio, è stato imposto per chi trattava a termine i titoli del debito irlandese, misure che saranno prese, se mai lo saranno, quando i buoi saranno belli che fuggiti dalla stalla!

lunedì 6 dicembre 2010

Un Non Farm Payrolls piccolo piccolo!

skip to main | skip to sidebar

Il dato sul Non Farm Payrolls e quello sul tasso di disoccupazione negli Stati Uniti d’America sono due indicatori molto attesi, ma il dato di novembre lo era in particolare, perché la forte crescita degli occupati in ottobre, un saldo netto di 172 mila buste paga, aveva acceso le speranze degli analisti per un ulteriore crescita di 150 mila unità e una riduzione del tasso di disoccupazione, fermo da tre mesi al 9,6 per cento.

Le attese sono state, invece, deluse e il saldo positivo per novembre è stato di uno striminzito numero di 39 mila nuovi occupati, mentre il tasso di disoccupazione è balzato al 9,8 per cento, ricominciando a fare l’occhietto alla soglia psicologica del 10 per cento che non sarà raggiunta in dicembre solo per le assunzioni temporanee legate alle vendite natalizie.

La crescita non è spalmata su tutti i settori, è concentrata su servizi ospedalieri, educazione e lavori di assistenza a tempo determinato, mentre tagli sono avvenuti nella distribuzione commerciale, nel settore manifatturiero, nelle costruzioni, nel settore finanziario e nel settore governativo, un andamento che conferma che non vi è un settore nel quale gli imprenditori hanno superato le loro resistenze rispetto ad assumere, dopo i tagli selvaggi del passato, nuovi lavoratori a tempo indeterminato.

Per chi, come me, crede che l’attuale tiepida ripresa sia in gran parte legata alla ricostituzione delle scorte, tutto ciò non è una sorpresa, anche perché la domanda per consumi si muove ancora, stando ai dati rivisti del prodotto interno lordo nel terzo trimestre, ad un ritmo dello 0,2 per cento, un ritmo di crescita assolutamente insufficiente a predisporre piani di produzione ambiziosi e in grado di varare una campagna massiccia di assunzioni.

Nel frattempo, divampa la polemica sul rinnovo della legge che aveva consentito di garantire 99 mesi di sussidi di disoccupazione aggiuntivi a quelli garantiti a livello dei singoli Stati, una legge che, come ricordavo in una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, scadeva mercoledì scorso e che non è stata rinnovata in tempo dal Congresso determinando il rischi che i 2 milioni di beneficiari si trovino senza l’assegno proprio nel periodo delle festività natalizie, mentre per gli altri milioni di percettori si tratterebbe solo di tempo prima che anche a loro vengano sottratte quelle risorse così indispensabili per la sopravvivenza.

Sulla vicenda del rinnovo degli extra sussidi è intervenuto il solitamente silente vice presidente Joe Biden che ha scongiurato il Congresso, che è attualmente a maggioranza democratica in entrambi i suoi rami, di rinnovare la legge, cosa che rischia di diventare più problematica a gennaio quando la Camera dei Rappresentanti sarà a maggiorana repubblicana e lo stesso Senato vedrà una maggioranza democratica esigua.

venerdì 3 dicembre 2010

Che dirà WikiLeaks delle banche?

skip to main | skip to sidebar

Confesso che è forte la tentazione di speculare sulla seconda ondata di notizie minacciata dal fondatore di Wikileaks, tale Assange, dopo gli oltre 250 mila dispacci intercorsi tra le ambasciate americane e il Dipartimento di Stato statunitense che tanto imbarazzo stanno creando agli Stati Uniti d’America e ai paesi colpiti dalle rivelazioni.

La seconda ondata, infatti, riguarderebbe una grande banca americana e le rivelazioni mostrerebbero il modus operandi della stessa, con risvolti di carattere penale e grave discredito della stessa, ma credo che convenga aspettare gennaio, mese nel quale è prevista la pubblicizzazione delle informazioni.

Ritengo, invece, più utile tornare all’argomento che è stato al centro delle prime puntate di questa nuova fase del Diario della crisi finanziaria e, cioè il persistente stato comatoso del settore immobiliare a stelle e strisce e dei disinvolti comportamenti delle banche nella gestione delle procedure di foreclosure, pratiche che avevano portato al blocco degli espropri da parte delle grandi banche, Bank of America in testa e alla verifica non si sa quanto scrupolosa di centinaia di miglia di pratiche.

Torno sull’argomento perché sono stati diffusi ieri i dati sul trimestre luglio-settembre da RealtyTrac, un’entità privata nota per l’accuratezza delle sue informazioni sul settore immobiliare e che, in questo caso, si trova a raccontare quello che è successo in quello che probabilmente verrà ricordato come il peggior trimestre del settore immobiliare a stelle e strisce.

Ma andiamo con ordine e vediamo come sia le vendite di case pignorate che quelle di case non soggette a procedura siano calate bruscamente sia rispetto al trimestre precedente (-25 e –29 per cento rispettivamente) che nei confronti dello stesso periodo dell’anno precedente (in entrambi casi un calo del 31 per cento), ma il commento del portavoce di RealtyTrac è che sul calo delle case espropriate da banche e finanziarie abbiano pesato le vivaci polemiche sulle procedure seguite dalle stesse.

Pur essendo al di sotto del picco del 37 per cento raggiunto nel primo trimestre del 2009, il 25 per cento delle case vendute negli Stati Uniti d’America sono ancora rappresentate dalle case espropriate da banche e finanziarie, cioè una casa su ogni quattro vendute vede una famiglia gettata sul lastrico!

Come ho scritto più volte, il problema degli espropri si concentra in modo drammatico in quattro Stati, Nevada, Arizona, California e Florida, ma è in Nevada che il 54 per cento delle case vendute sono il 54 per cento del totale, anche se questa percentuale era del 56 per cento nel secondo trimestre e addirittura del 62 per cento nel terzo trimestre dell’anno scorso.

Sul piano economico, le banche non è che facciano poi un grande affare, anche alla luce delle spese sostenute per giungere all’esproprio, in quanto il prezzo medio delle case espropriate è di 169.523 dollari, il 32 per cento in meno del prezzo medio relativo alle case non espropriate.

giovedì 2 dicembre 2010

Una pausa nella tempesta perfetta!

skip to main | skip to sidebar

Finora contagiati da quanto sta accadendo in Europa, le preoccupazioni, cioé, per la tenuta dell’euro, ieri i mercati azionari statunitensi hanno vissuto una giornata di euforia per i dati sull’occupazione nel settore privato, la crescita della spesa edilizia e la conferma della crescita del fatturato delle fabbriche cinesi, tutti indicatori che lascerebbero pensare ad una crescita globale più sostenuta di quanto si ritenesse prima.

Entrando più in dettaglio nell’esame dei dati sopra riportati, va detto che la crescita delle assunzioni nel settore privato (93 mila in novembre, con una revisione al raddoppio del dato di ottobre, passato da 43 mila a 82 mila) è senza dubbio un dato positivo, anche perché si tratta del quindicesimo rialzo consecutivo, ma va anche detto che, sempre in novembre, sono cresciute di poco meno del 30 per cento le persone coinvolte in piani di riduzione del personale, piani che riguardano oltre 48 mila individui.

Sempre in tema di occupazione, non è di poco conto il fatto che ieri scadevano i termini dell’estensione dei benefici approvata dal Congresso per due milioni di disoccupati americani e ancora non si sa se sarà possibile un’ulteriore proroga; come si ricorderà grazie all’emergenza creata dai riflessi della tempesta perfetta sull’economia reale, sono stati portati a 100 mesi circa i sussidi di disoccupazione, previsti a livello di Stati a soli 26 mesi, così come va ricordato che tali estensioni furono assolutamente bipartisan.

Il calo dell’ISM manifatturiero in novembre è stato lieve e inferiore alle previsioni, passando da 56,9 in ottobre a 56,6, anche se va considerato che sono sedici mesi consecutivi che l’indice si trova al di sopra della soglia di 50 che indica espansione.

Su questi ‘germogli di ripresa’ come ama dire Bernspan sta per abbattersi la scure del progetto di contenimento del deficit per 4 mila miliardi di dollari dal 2011 al 2020, un piano che verrà votato venerdì da un Congresso che ancora vede la maggioranza saldamente in mano ai democratici in entrambi i suoi rami, ma che non dovrebbe comunque essere osteggiato dalla minoranza repubblicana.

Intanto iniziano i primi acquisti di titoli del Tesoro a stelle e strisce da parte della Federal Reserve, acquisti probabilmente concentrati sulle scadenze brevi, in quanto il decennale è quasi crollato tornando ad occhieggiare alla soglia psicologica del 3 per cento.

Dopo un fuoco di fila di prese di posizione sia da parte di esponenti dell’Unione europea sia da parte del presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, si è un po’ allentato l’attacco ai titoli di Stato di Italia, Spagna e Portogallo, mentre l’euro ha recuperato terreno nei confronti del dollaro, riportandosi in vista della soglia di 1,32 dollari.

Per la mia memoria della battaglia delle valute del 1992, non sono così certo che il peggio sia passato, perché in genere la speculazione opera ad ondate e molla temporaneamente la presa quando governi e banche centrali fanno quadrato per poi attaccare in un secondo momento.

mercoledì 1 dicembre 2010

Gli 007 di Zapatero contro gli speculatori!

skip to main | skip to sidebar

Come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, i mercati sembrano non credere che la crisi del debito nell’eurozona sia conclusa con il salvataggio dell’Irlanda, così le borse sono scese di parecchio lunedì ed hanno continuato a scendere ieri, ma dove gli operatori si sono sbizzarriti è nel dare colpi potenti alle quotazioni dei titoli di Stato del Portogallo, della Spagna e dell’Italia, inviando i differenziali dei titoli di questi ultimi due paesi a 305 e 210 punti base di differenza rispetto al Bund.

Non so se il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, vorrà unirsi all’iniziativa del primo ministro portoghese e di quello spagnolo di istituire una figura di 007 per indagare sulle malefatte degli speculatori, ma è certo che fra poco, approvato o meno dall’Unione europea il piano di stabilità da lui presentato a Bruxelles (la riunione è prevista per il 15 dicembre, un giorno dopo il poco prevedibile voto di fiducia), l’eventuale incaricato avrà il suo bel da fare contro operatori convinti che quello dell’Italia sia l’obiettivo grosso del loro gioco e che ogni giorno di più appare, come dicono nel loro gergo, un calcio di rigore tirato a porta vuota.

Non vorrei essere facile profeta, ma tutti i tentativi di contrastare la speculazione internazionale sui cambi o sui titoli di Stato sono sempre finiti nel nulla, basti ricordare quello che successe nell’attacco portato da George Soros alla lira e alla sterlina o quelle che è accaduto durante la crisi asiatica con lo stesso Soros dichiarato persona non gradita in Malesia e in altri paesi dell’Estremo Oriente.

Non che non esistano sistemi per contrastare i giochi dei traders e delle istituzioni finanziarie delle quali gli stessi fanno parte, ma basta vedere quello che è successo nel 2008 sul petrolio e quello che sta accadendo in questi stessi giorni per capire che nessuno ha veramente voglia di tagliare le unghie a Goldman Sachs o altre banche più o meno globali che operano alla grande sulle azioni, le obbligazioni, le materie prime e via discorrendo.

Alzare i margini di garanzia come è stato fatto per i titoli di stato irlandesi è una mossa utile ma non sempre efficace, in quanto dipende da quale è l’obiettivo e la determinazione degli speculatori, può al massimo tenere fuori della partita i pesci piccoli che si aggregano ai grandi operatori per spartire le soglie della preda.

Nel frattempo, l’euro è sempre più sotto pressione nei confronti del dollaro e ieri si è portato al di sotto della soglia psicologica degli 1,30 euro restando, invece, alquanto stabile nei confronti dello yen giapponese, valuta che a sua volta risente del nuovo livello record della disoccupazione e del continuo calo del fatturato industriale.

martedì 30 novembre 2010

I mercati snobbano il piano di salvataggio!


Il salvataggio dell’Irlanda, sarebbe meglio dire delle banche irlandesi già statalizzate e di quelle in via di esserlo, rappresenta un salto di qualità rispetto alla ‘colletta’ a suo tempo organizzata dai paesi dell’Unione europea con il concorso generoso del Fondo Monetario Internazionale, in quanto il fondo di salvataggio è stato istituito soltanto dopo.

Il salto di qualità è rappresentato dalla destinazione specifica di parte delle somme previste, 35 miliardi di euro sui complessivi 85, alle banche, mentre il resto verrà utilizzato per la riduzione del deficit che attualmente viaggia intorno al 32 per cento del prodotto interno lordo, ma è anche la prima applicazione al fondo di salvataggio previsto dai sedici paesi dell’eurozona, un applicazione onerosa in quanto il tasso previsto è del 6 per cento, più del 5,25 spuntato dalla Grecia, ma sensibilmente inferiore all’attuale rendimento dei bond decennali irlandesi.

Il finanziamento è suddiviso in tre parti uguali tra il fondo di salvataggio, il bilancio dell’Unione europea e il Fondo Monetario Internazionale, ma a queste somme si aggiungeranno prestiti bilaterali concessi dalla Gran Bretagna, dalla Svezia e dalla Danimarca.

A garanzia del prestito, anche questa è una novità, verranno messe le riserve dei fondi pensione irlandesi per un ammontare di 16,5 miliardi di euro, un’altra via per colpire i cittadini, una volta come contribuenti e la seconda come futuri pensionati, ma aggiungerei anche una terza, come destinatari di un welfare che sarà drasticamente ridimensionato dal piano di tagli e aumenti delle tasse presentato in questi giorni da un Premier che può già essere definito uscente.

Gli unici a sorridere in questa specie di tragedia sono gli imprenditori che, nonostante le pressioni dei partner europei, vedono mantenuta al 12,5 per cento la corporate tax, anche se fossi in loro mi preoccuperei della domanda interna che dovrebbe risentire e non poco delle conseguenze dei tagli al welfare state!

Ma i tedeschi e i francesi non mollano la presa sulla loro proposta di rendere permanente il fondo di salvataggio, raddoppiandone le risorse rispetto ai 444 miliardi di euro attuali, prevedendo inoltre la partecipazione dei privati e la ristrutturazione dei bond delle entità pubbliche o private entrate in difficoltà.

Per ora si tratta soltanto di proposte che dovranno raccogliere il consenso degli altri quattordici paesi membri dell’Eurogruppo, ma resta certo, invece, il prolungamento di quattro anni, da sei a dieci, del prestito in favore della Grecia.

Quello che è altrettanto certo è l’effetto deflattivo che i piani di austerità avranno su Grecia e Irlanda, così come effetti depressivi eserciteranno i piani degli altri paesi che vorranno mettersi in regola con i parametri previsti dal trattato di Maastricht.

I mercati azionari europei, dopo un’iniziale salita, hanno girato decisamente in rosso, in particolare quello italiano dopo che il differenziale tra BTP e Bund si è portato a 201 punti base!

lunedì 29 novembre 2010

S&P's affonda le banche irlandesi!

skip to main | skip to sidebar

E’ difficile distrarsi rispetto a quello che sta accadendo nel Vecchio Continente, fosse anche per una sola puntata del Diario della crisi finanziaria, ed eccomi di nuovo a parlare del piano di salvataggio dell’Irlanda e dei rumors che vorrebbero fosse in corso un pressing sul governo del povero Portogallo affinché si decida anche esso a chiedere aiuto ai partners dell’eurozona e ai governi volenterosi che, pur membri dell’unione europea, non hanno accettato di abbandonare le loro monete per confluire nell’euro.

Standard & Poor’s, per non sapere né leggere né scrivere, ha degradato a raffica le banche irlandesi e le affiliate irlandesi di banche straniere, portando i loro bonds a livello dei titoli spazzatura, minacciando anche ulteriori revisioni al ribasso dei ratings se verrà abbassato ulteriormente il giudizio sul debito sovrano irlandese e, così, anche il Portogallo è avvertito.

La cosa curiosa della crisi delle banche irlandesi e di quelle portoghesi sta nel fatto che le prime vedono grossi investimenti delle banche inglesi, mentre quelle portoghesi potrebbero mettere a rischio quelle spagnole, un dato di fatto che fa pensare che possano essere coinvolti due colossi come il Santander e il Bilbao Vizcaya y Argentaria (quest’ultima, al di là del nome così lungo, è una sola banca).

Se le cose stanno così, il salvataggio dell’Irlanda è un po’ anche il salvataggio della Gran Bretagna, e si capisce così meglio la sollecitudine del Governo di Sua Maestà nel partecipare alla schiera dei salvatori, così come alla partecipazione della Svezia potrebbe non essere estraneo qualche massiccio coinvolgimento delle sue banche; d’altra parte anche questo è il bello della finanziarizzazione!

Dopo aver fatto tremare i mercati e contribuito a far affondare l’euro, la cancelliera Angela Merkel ha iniziato a vedere mezzo pieno quello stesso bicchiere che nei giorni scorsi vedeva mezzo vuoto, anche se l’effetto delle valutazioni positive non è stato neanche lontanamente paragonabile a quello delle valutazioni negative precedenti, ma, incurante delle reazioni dei mercati alle sue esternazioni, ora la signora Merkel ci tiene a far sapere che vorrebbe che le cose procedessero più speditamente e tutti lì a profetizzare una conclusione positiva nel fine settimana.

Ieri sera i ministri delle finanze della Unione europea hanno ratificato l'accordo raggiunto tra i ministri dell'eurozona concedendo 85 miliardi di euro all'Irlanda, 35 dei quali sono ad appannaggio delle maggiori banche irlandesi, a margine della riunione, Barroso, con senso dell'umorismo, ha detto che le speculazioni sul possibile attacco a Portogallo e Spagna le lascia agli speculatori.

venerdì 26 novembre 2010

Segnali contrastanti dagli States!

skip to main | skip to sidebar

Dopo tante puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate ai problemi dell’Irlanda e dell’area dell’euro, è utile tornare a porre l’attenzione sugli Stati Uniti d’America che rimangono l’area economica nella quale ha avuto inizio la tempesta perfetta.

Un articolo pubblicato su uno dei siti americani che visito maggiormente si permette di ironizzare sulle differenze tra il nuovo e il vecchio continente, dimenticando che buona parte dei problemi di cui soffre il sistema bancario irlandese e un po’ tutto quello europeo hanno origine nei prodotti più o meno tossici sparsi per il mondo dalle investment banks e dalle banche più o meno globali con sede negli States.

Nei giorni in cui ho volto la mia attenzione altrove, ci sono state notizie importanti quali la revisione verso l’alto della crescita annualizzata del prodotto interno lordo statunitense nel terzo trimestre, passata dal 2,0 al 2,5 per cento, l’aumento dei redditi e dei consumi, ma anche quella della propensione al risparmio (dal 5,6 al 5,7 per cento del reddito disponibile), il calo degli ordini di beni durevoli in ottobre (-3,3 per cento), un forte calo dei jobless claims e un fortissimo calo delle vendite di nuove case, giunte al minimo degli ultimi 47 anni.

Come si vede un bel minestrone di notizie alquanto contraddittorie tra di loro, ma che non mi inducono a cambiare opinione sulla crescita negli USA come di un fenomeno in larga misura attribuibile al ciclo delle scorte, anche perché la revisione della crescita nel terzo trimestre non ha toccato la componente consumi che allo 0,8 (cioè 0,2 moltiplicato 4) era e tale è rimasta, così come il calo a 407 mila dei jobless claims settimanali dovrà vedere conferma nelle prossime settimane prima che lo si possa giudicare una vera inversione di tendenza.

Un discorso a parte lo merita l’aumento della propensione al risparmio, un fenomeno cui assistiamo da parecchi mesi e che è clamoroso ove si pensi che prima della tempesta perfetta si aggirava intorno all’uno per cento, quasi sei volte meno dei valori toccati attualmente, un dato che va di pari passo con la risistemazione del debito delle famiglie, che vede non solo una razionalizzazione, ma anche una riduzione dei debiti.

Collegare questo fenomeno alla riduzione degli ordini di beni durevoli è quasi automatico e credo che se ne vedranno presto conseguenze marcate nella produzione di questi beni che sono di per sé costosi e che un tempo erano acquistati attraverso finanziamenti di tipo finalizzato o meno!

Così come un discorso a parte lo merita il tonfo delle vendite di case nuove, quelle esistenti sono ancora drogate dalla presenza massiccia di vendite legate agli espropri, vendite che sono seguite da quanti sanno che, se non si assisterà ad una svolta nell’edificazione di case nuove e all’apertura di nuovi cantieri, difficilmente si potrà parlare di una fine della crisi.

giovedì 25 novembre 2010

La Germania getta benzina sul fuoco!


Finora non si sono viste le file agli sportelli delle maggiori banche irlandesi come accadde nell’estate del 2007 di fronte a quelli della poi nazionalizzata Northern Rock, un po’ perché la maggior parte di esse sono state già nazionalizzate, mentre per Bank of Ireland si pensa lo sarà molto presto, di fatto o di diritto ancora non si sa, per ora si assiste alla fuga degli azionisti che vendono a rotta di collo portando verso lo zero le quotazioni che già la settimana scorso era ridotte a poche decine di centesimi di euro.

Le dichiarazioni di martedì del ministro delle finanze tedesco, Schauble, e ancor più quella della Cancelliera, Angela Merkel, hanno affondate le borse al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, ma anche quelle asiatiche di ieri mattina, una drammatizzazione propria degli esponenti politici tedeschi, seguita a stretto giro di posta dal downgrade di Standard & Poors, da AA ad A, sul debito irlandese.

Secondo il numero due del Fondo Monetario Internazionale, John Lipsky, le rinnovate turbolenze nei mercati europei del debito potrebbero contagiare l’economia reale, così come la ritrosia di fronte all’acquisto di debito sovrano potrebbe espandersi anche verso altre regioni, attraverso maggiori costi della raccolta,, una stretta (sic) del credito e un’inversione di tendenza nei flussi di capitale, per non parlare dei drammatici effetti sulle finanze pubbliche dei paesi colpiti.

Come insegnava John Maynard Keynes, quando i mercati si orientano in senso negativo, quello che conta non è il valore vero dei titoli scambiati quanto il modo di pensare degli operatori, un modo che raramente è improntato a razionalità e sangue freddo.

Il balletto in corso nel governo irlandese, con il premier che vorrebbe restare sino a che la manovra di austerità venga approvata e l’opposizione e pezzi della sua maggioranza che vorrebbero arrivare ad elezioni anticipate prima di Natale rende ancor più risibile l’analogo balletto in corso in Italia, dove, per paura dei mercati e degli organismi sopranazionali, sembra sia impossibile aprire una crisi di governo di fatto già esistente.

Se decideranno di sparare sull’Italia, gli speculatori lo faranno sia che ci sia un governo Berlusconi con una maggioranza risicata e che va sotto un giorno sì e l’altro pure, sia se ci sarà un governo istituzionale, sia che si vada al voto anticipato!

Le dichiarazioni di Lipski fanno invece pensare che sia iniziato l’allarme per il debito sovrano dei new comers dell’Unione europea, paesi sulle sorti dei quali si è steso un velo di silenzio almeno da un anno a questa parte, un default dei quali avrebbe conseguenze per le banche dei paesi europei più forti che sono presenti in forze e con investimenti di non poco conto.

Per quanto riguarda invece il confronto tra la bellicosa Corea del Nord e l’industriosa Corea del Sud, penso, a costo di essere smentito, che tutto si risolverà come sempre in un nulla di fatto, dopo l’intervento di Stati Uniti e Cina.


mercoledì 24 novembre 2010

Tintinnio di manette a Wall Street! (2)

skip to main | skip to sidebar

L’irruzione di uomini del Federal Bureau of Investigation nelle sedi di tre hedge funds ha gettato altra benzina sul fuoco della mega inchiesta sull’insider trading avviata tre anni fa dal distretto giudiziario di New York che si avvale dell’assistenza dell’ FBI e di altre agenzie governative, la tensione è aumentata quando si è appreso che, oltre a documenti, dalla sede di uno dei tre hedge funds visitati sono state portate via anche tre persone.

Che il mercato cominci a prendere sul serio questa indagine è ben dimostrato dalle perdite di oltre il 4 per cento subite lunedì a Wall Street da Goldman Sachs e di quelle attorno al 3 per cento subite da Bank of America che non è nemmeno citata dall’articolo del Wall Street Journal tra le banche indagate.

Non vi è dubbio che l’amministrazione Obama, uscita malconcia dalle elezioni di Mid Term abbia tutto l’interesse di portare sul banco degli imputati le banche e i loro clienti privilegiati e quelli istituzionali, anche per dimostrare che il Governo è schierato più dalla parte di Main Street che da quella di Wall Street.

Ma un’altra nube attorno alle grandi banche statunitense ed è rappresentata dalle implicazioni dell’accordo di Basilea III che prevede che il Core Tier 1 debba non solo essere portato dal 4 al 7 per cento, ma che prudenzialmente dovrebbe essere dell’8 per cento.

Ebbene, uno studio del Financial Times ha fatto i conti in tasca alle banche statunitensi, scoprendo che le stesse per raggiungere i requisiti patrimoniali previsti avrebbero bisogno di aumenti di capitale per un ammontare compreso tra i 100 e i 150 miliardi di dollari e che il 90 per cento di tale cifra, cioè tra i 90 e i 135 miliardi di dollari, farebbero capo alle prime sei banche a stelle e strisce, banche che si sono già viste costrette negli ultimi anni a varare massicci aumenti di capitale.

Non che per le banche poste al di qua dell’Oceano Atlantico le cose vadano meglio, anche esse infatti dovranno varare aumenti di capitale per rispettare i nuovi requisiti e per superare gli stress cui vengono sottoposte dalle rispettive autorità di vigilanza, il che rende un po’ strano l’interesse del Financial per le banche USA invece che per quelle del Vecchio Continente.

Venendo proprio alle vicende europee, risulta evidente che l’avvio dei veri negoziati per il finanziamento da concedere all’Irlanda non ha dissipato le nubi su quel paese e sull’intera area dell’euro e, per il secondo giorno consecutivo, le azioni delle banche irlandesi sono sotto tiro pur avendo delle quotazioni da prefissi telefonici!

Ma le forti perdite di ieri nei mercati azionari di tutto il mondo sono legate al rischio di un conflitto tra le due Coree e alle dichiarazioni di parte tedesca sui rischi che sta correndo in questa fase l’euro, ma di tutto questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.

Marco Sarli