martedì 29 dicembre 2009

Facciamo il punto sulla tempesta perfetta


Ho impiegato alcune settimane per cercare di riflettere con più calma su quello che sta davvero accadendo nei mercati finanziari, uno sforzo non da poco dopo i devastanti ventotto mesi di tempesta perfetta che hanno provocato perdite e lutti alla flotta delle entità a diverso titolo operanti nel mercato finanziario globale.

Si è trattato in ogni caso di una pausa salutare dopo due anni di impegno quotidiano che hanno trasformato il Diario della crisi finanziaria nel giornale di bordo non autorizzato del maggiore sommovimento nei mercati finanziari mai registrato dalla crisi del 1929, anche se, e non solo il solo a pensarla a questo modo, sotto molti aspetti la magnitudo dei fenomeni che stiamo ancora vivendo è stata addirittura maggiore di quella registrata ottanta anni orsono.

Ma quello che rende difficoltoso fare il punto della situazione è rappresentato dalla domanda che pongo quasi incessantemente da oltre due anni: quale è la vera dimensione della montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata ancora in circolazione e quale è l’esatta distribuzione degli stessi tra le diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale?

Dopo la recente restituzione operata da Citigroup, si può dire che quasi tutte le maggiori banche statunitensi hanno saldato il proprio debito nei confronti dello Stato, liberandosi così dalle limitazioni sui compensi imposti dall’amministrazione Obama, ma sorte analoga non sono destinati ad avere i titoli che sono stati graziosamente sollevati dai loro bilanci e i cui relativi rischi gravano ancora sulle entità pubbliche che se ne sono fatte carico.

L’altro corno del dilemma, rappresentato dalla situazione del mercato immobiliare, non presenta maggiori punti di chiarezza, a meno di non fermarsi al rimbalzo delle vendite stimolate dagli sgravi fiscali e dai prezzi di assoluto realizzo degli immobili, una condizione quest’ultima destinata a continuare alla luce del crescente numero di procedure di foreclosure.

Ma vi è un terzo aspetto della tempesta perfetta che sta togliendo il sonno agli investitori ed è quello connesso alle pesanti tosature cui sono sottoposti i detentori di obbligazioni tradizionali emesse da entità o entrate in procedura fallimentare o in difficoltà nella restituzione, come nel caso della Dubai World, che ha chiesto una moratoria di sei mesi sulla restituzione sia degli interessi che dei bonds in scadenza.

Queste tre criticità spiegano il sostanziale arresto della crescita dei tre principali indici statunitensi dopo una corsa del 60 per cento circa dai rispettivi minimi toccati nel corso del mese di marzo, una battuta di arresto che dovrebbe preludere, almeno secondo il giudizio di uno dei più importanti gestori del mondo, il chief executive officer di PIMCO, Mohammed El-Erian, a un ribasso in tempi brevi del dieci per cento del rappresentativo Standard & Poor’s 500.

D’altra parte, una ripresa sostenuta in larga misura dall’elevatissimo deficit spending governativo e dai tassi prossimi allo zero non è destinata ad avere vita lunga e sostenibile né a produrre quei tassi di crescita che potrebbero consentire quel significativo riassorbimento del tasso di disoccupazione che potrebbe segnalare una vera inversione di tendenza.

venerdì 4 dicembre 2009

Bank of America restituisce 45 miliardi!


Per diversi giorni il mercato finanziario globale si è interrogato su quanto stava accadendo negli Emirati Arabi Uniti, in particolar modo a Dubai, la città che decise di cambiare il proprio volto e di diventare un polo di attrazione per turisti e investitori, un’operazione in parte riuscita ma a costi altissimi e ora una delle principali società utilizzate per realizzare l’impresa, la Dubai World, chiede ai detentori di suoi bonds per 60 miliardi di dollari di avere pazienza per riavere i propri “terzi e capitale”.

A breve inizieranno gli incontri per definire tempi e modalità dei futuri rimborsi, ma è evidente che i bondholders continuano a essere i soggetti maggiormente colpiti dalle conseguenze della tempesta perfetta, come ben hanno già sperimentato i detentori di titoli Chrysler e General Motors e quelli di altre società che hanno avviato rinegoziazioni del debito improntate, nella maggior parte dei casi, a pesanti, se non pesantissime decurtazioni del dovuto.

La pubblicazione del dato dell’Institute for Supply Management relativo al settore dei servizi nel mese di novembre ha turbato non poco gli operatori e gli investitori a causa dell’inatteso calo dell’indice passato da 50,6 a 48,7, ben al di sotto delle attese degli analisti che prevedevano un rialzo a 51,5, una flessione importante perché, come è noto, l’indice indica espansione solo a livelli superiori a 50.

Anche per le vendite al dettaglio delle catene a carattere nazionale, il mese di novembre 2009 non sarà tra quelli da ricordare, in quanto si è registrato un decremento delle vendite dello 0,3 per cento, un dato che sarebbe stato ancora più pesante se non fosse iniziata, con il ponte del giorno del ringraziamento, il periodo noto come Christmas Spending.

Tra le notizie positive vi è il forte calo delle nuove richieste settimanali di sussidi di disoccupazione, portatesi a 457 mila dopo essere state per tanti mesi al di sopra delle 500 mila, e la decisione di Bank of America di restituire i 45 miliardi di dollari ricevuti a suo tempo nell’ambito del programma TARP.

La decisione di Bank of America, tuttavia, sembra solo finalizzata a liberarsi dei vincoli alla compensation imposti dal rappresentante di Obama e che stanno rendendo difficile se non impossibile la ricerca del successore di Ken Lewis, il Chief Executive Officer dimissionario che lascerà a fine anno la guida della banca.

Al di là dei veri motivi alla base della decisione di BofA, è comunque certo che con questa mossa a sorpresa cresce l’isolamento di Citigroup che sembra nell’impossibilità di restituire i 45 miliardi di dollari ricevuti dal TARP ed è ancora posseduta dallo Stato per oltre un terzo del suo capitale azionario.

martedì 24 novembre 2009

Un banchiere prenderà il posto di Geithner?


Non vorrei che dietro l’odierno rally della borsa statunitense più che la soddisfazione per il balzo in avanti delle vendite di case vi sia l’indiscrezione del New York Post sulla possibilità che il numero uno di J.P. Morgan-Chase, Jamie Dimon, possa subentrare all’attuale ministro del Tesoro, Timothy Geithner, un’ipotesi che considero sciagurata e che spero davvero si riveli al più presto del tutto infondata.

E’ vero che l’ipotesi appare un po’ stiracchiata, ma l’esperienza recente dell’ex (?) investment banker sulla poltrona più alta del dicastero del Tesoro a stelle e strisce, Hank Paulson, nonché quella più remota nel tempo del suo ex collega in Goldman, Robert Rubin, fa temere che non sia affatto impossibile che Obama punti su un banchiere di lungo corso per rimpiazzare il civil servant Geithner che, in effetti, è da lungo tempo sotto tiro.

I lettori del Diario della crisi finanziaria conoscono bene la mia valutazione dei trenta mesi di gestione di Paulson al Tesoro, una prestazione al di sotto di ogni sospetto e che non cercava neppure di nascondere il pesante conflitto di interessi gravante sul ministro che aveva, insieme a Bernspan beninteso, potere di vita o di morte sulla banca di provenienza e sulle sue più o meno dirette rivali, per non parlare della serie infinita di piani per uscire dalla crisi trionfalmente annunciati e, quasi sempre, repentinamente falliti.

Ma il capitolo più oscuro della saga di Paulson resta indubbiamente la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, una decisione che portò il mercato finanziario globale quasi oltre l’orlo del baratro, un’eventualità sciagurata che venne impedita soltanto a costo di decisioni eccezionali assunte dal G20 nell’ottobre del 2008 e che videro gettate sul piatto, tra impegni e spese realmente sostenute, decine e decine di migliaia di miliardi di dollari, in larghissima parte a rischio se non proprio a carico dei contribuenti.

Nel caso di Paulson, non si trattava nemmeno dell’eterno dilemma tra scelte in favore di Wall Street o di Main Street, in quanto era evidente a tutti l’approccio assolutamente bancocentrico dell’allora ministro del Tesoro, un approccio che contribuì a spedire General Motors e Chrysler dritte dritte nel girone infernale delle procedure fallimentari dalle quali entrambe sono uscite a spese dei loro bondhoders.

A onore di Dimon, va tuttavia detto che la banca da lui gestita è certamente quella che ha retto meglio alle intemperie della tempesta perfetta, forse anche perché era quella meno caratterizzata dagli elevatissimi rapporti di leverage che affliggevano le sue più dirette concorrenti, ma questo non è sufficiente a preferire un banchiere a un ex presidente della Fed di New York tempratosi per quasi due decenni proprio al ministero del Tesoro.

Il balzo in avanti delle vendite di case negli Stati Uniti d’America in ottobre, una crescita del 10,1 per cento rispetto al mese di settembre, trae invece origine da quelli che dovevano essere gli ultimi fuochi degli incentivi fiscali che dovevano scadere alla fine di novembre, ma che sono stati estesi fino alla fine di aprile dell’anno prossimo, bonus fiscali che sono stati estesi anche a quanti acquistano una casa non per la prima volta, purché possano dimostrare di essere in possesso dell’abitazione precedente da almeno cinque anni, anche se in questo caso il bonus si riduce da 8.000 a 6,500 dollari.

sabato 21 novembre 2009

Trichet tira il freno?


E’ oramai il terzo giorno consecutivo che il mercato azionario statunitense registra ribassi, ma stavolta la causa non è tanto interna quanto proveniente dall’altro lato dell’Oceano Atlantico, più in particolare in quel di Francoforte, da dove il germanizzato Jean Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, ha detto che è giunto il momento di ritirare il supporto eccezionale alle banche europee.

Buona parte del recente rally delle borse era dovuto alle ripetute promesse dei ministri dell’economia del G20 sul mantenimento delle misure eccezionali varate nell’ottobre del 2008, quando, dopo il fallimento di Lehman Brothers e la seconda ondata di nazionalizzazioni e salvataggi, sembrava davvero che si dovesse registrare il default sistemico del mercato finanziario globale.

Come ricorderanno i lettori del Diario della crisi finanziaria, la tempesta perfetta ebbe inizio proprio in Europa il 9 agosto del 2007 con il blocco totale della liquidità sul mercato interbancario e il primo mega intervento da parte della BCE, ma è evidente che Trichet è convinto che oramai le banche possano fare da sole.

L’intervento di Trichet deve avere gelato i partecipanti al Congresso dell’associazione bancaria europea, molti dei quali avranno iniziato subito a fare i conti di quanto costerà alle rispettive banche il venir meno del sostegno generoso della BCE, anche se è sicuro che i rubinetti non verranno chiusi bruscamente, basterebbe pensare che una delle misure annunciate sempre oggi dall’istituto di Francoforte, quella che prevede il doppio rating per i titoli che possono essere forniti dalle banche come collaterali riguarderà solo i titoli emessi dal 1° marzo dell’anno prossimo.

Il presidente della BCE ha usato anche toni duri nei confronti del comportamento delle banche, ma questa non è una novità, né sembra che i presenti se la siano presa più di tanto per i riferimenti ai bonus e al restringimento dell’offerta di credito all’economia.

A proposito di bonus, è molto interessante quanto sta avvenendo in casa della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, dove, stando a un informatissimo servizio del Wall Street Journal, sarebbe in corso una rivolta dei grandi azionisti contro la attribuzione di qualcosa come venti miliardi di dollari di premi ai dipendenti, un multiplo degli utili distribuiti sotto forma di dividendi agli azionisti, una distribuzione della ricchezza prodotta che appare iniqua ai possessori di pacchetti azionari rilevanti di Goldman.

Molto piccato, il portavoce di Goldman, Lucas van Praag, ha replicato che le critiche sui bonus sono fuori luogo, in quanto, a suo dire, gli azionisti vogliono che la compensation sia tale mantenere i talenti interni e da essere attrattiva per i talenti che aspirano a entrare in Goldman, una precondizione indispensabile per garantire i profitti futuri.

Gli azionisti ribelli obietterebbero che, pur tenendo conto delle ferree, almeno in terra statunitense, regole della meritocrazia, 775 mila dollari a testa, una media che prende in considerazione anche gli addetti a mansioni esecutive, sembrano un po’ troppi anche per gli addetti alla banca più potente del pianeta!

venerdì 20 novembre 2009

Milioni di case a rischio negli USA! (2)


Per il secondo giorno consecutivo, i mercati azionari, ma in particolare quello statunitense, stanno vivendo momenti poco felici, influenzati dalla non soluzione dei due nodi principali messi in luce dalla tempesta perfetta: il meltdown del settore immobiliare e il sempre più elevato tasso di disoccupazione.

In uno scenario del genere, è sufficiente che il numero delle richieste di sussidi settimanali di disoccupazione continui ostinatamente a mantenersi al di sopra delle 500 mila domande (505 mila per la precisione) per convincere operatori e investitori del fatto che l’economia a stelle e strisce sta ancora perdendo posti di lavoro, una convinzione che mal si concilia con l’idea di una ripresa forte già in atto.

Pur essendo calato a 5,6 milioni il numero di persone che ricevono i sussidi statali per le canoniche 26 settimane, va considerato che, nel frattempo, sono cresciute di 120 mila unità, giungendo a 4,2 milioni, le persone che ricevono i sussidi decisi dal congresso per 73 settimane, benefici che sono stati recentemente estesi da un minimo di 13 a un massimo di 20 settimane, il che porta il totale delle persone che ricevono un sussidio a poco meno di 10 milioni.

Avevo fornito nella puntata di martedì del Diario della crisi finanziaria i dati sui ritardi dei pagamenti nei mutui forniti dalla TransUnion, ma un quadro molto più preoccupante lo ha fornito oggi la Morgane Bankers Association che stima al 14 per cento il numero dei mutuatari in ritardo con i pagamenti delle rate, un dato che, secondo il rapporto, potrebbe rivelarsi micidiale per l’accenno di ripresa nelle vendite dovuto ai bonus fiscali decisi a livello federale, sgravi terminati a settembre ma che riprenderanno a partire dal mese di aprile del 2010 per transazioni da perfezionare entro la fine del mese di giugno.

Secondo i dati a disposizione dell’associazione, sono circa quattro milioni i mutuatari che sono già sottoposti alla procedura di foreclosure o in ritardo da almeno tre mesi nei pagamenti, numeri che confermano le previsioni formulate da uno dei vice di Geithner in una preoccupatissima deposizione al Congresso, nella quale affermava a chiare lettere che milioni di americani avrebbero perso la propria abitazione nei prossimi due anni.

I dati della Mortgage Bankers Association illustrano inoltre un fenomeno davvero preoccupante, in quanto ad andare in default non sono più i sottoscrittori di mutui subprime, passati dal 35 per cento del terzo trimestre 2008 al 16 per cento attuale sul totale dei mututari in ritardo nei pagamento o in foreclosure, ma bensì coloro che hanno sottoscritto mutui a tasso fisso e con un buon score creditizio, passati dal 21 al 33 per cento, ma è parimenti preoccupante il balzo al 18 per cento del totale di quanti hanno almeno una rata insoluta anche i mutui assistiti da garanzia della Federal Housing Administration.

In perfetta analogia con i dati forniti dalla TransUnion, anche quelli della Mortgage Bankers Association segnalano che la parte del leone la fanno i soliti quattro Stati, la Florida, la California, il Nevada e l’Arizona, che totalizzano il 44 per cento delle nuove procedure di foreclosure, con la Florida che da sola ne rappresenta il 13 per cento e il Nevada che contribuisce per il 9 per cento del totale.

mercoledì 18 novembre 2009

Milioni di case a rischio negli USA!


Sentivo ieri alla radio il resoconto abbastanza drammatico della crisi immobiliare a stelle e strisce, un dramma che il testimone descriveva in termini alquanto crudi con una serie di numeri: mezzo milione di abitazioni già espropriate dalle banche e due milioni in procinto di esserlo nel prossimo futuro, numeri che non rendono fino in fondo l’idea di interi quartieri non più abitati se non da una fitta selva di cartelli con la scritta vendesi.

Lo stesso interlocutore, un italiano che vive da alcuni anni negli Stati Uniti d’America, ha raccontato di un escamotage utilizzato dalle banche nelle zone divenute improvvisamente deserte e che consiste nell’offrire una parte delle abitazioni a un dollaro, purché l’acquirente si impegni ad abitarle, nella speranza che un panorama meno lunare del quartiere induca i potenziali acquirenti a decidere di comprare un abitazione.

Noto con piacere che diversi economisti e non pochi analisti si dichiarano convinti che senza una soluzione del problema delle foreclosure e di quello altrettanto drammatico della disoccupazione non sarà possibile uscire dall’attuale crisi e vedere l’avvio di una ripresa vera e sostenibile nel tempo.

Purtroppo, i numeri rappresentano una ben altra situazione ed è di oggi la notizia che la percentuale di mutuatari in ritardo nel pagamento delle rate da sessanta o più giorni si è portata, nel terzo trimestre, al 6,25 per cento, mentre era, seppure di poco, inferiore al 4 per cento nello stesso periodo dell’anno scorso, il che vuol dire che siamo di fronte a una percentuale di mutuata morosi multipla di quella che avrebbe costretto le finanziarie a riacquistare dalle banche i mutui spesso venduti poche ore dopo essere stati stipulati.

Per chi vuole vedere il lato pieno del bicchiere, si può notare che il tasso di crescita dei morosi nei confronti di quanti erano in tale condizione nel secondo trimestre è calato al 7,4 per cento, mentre era stato dell’11,3 per cento nel confronto tra il secondo trimestre e il primo e del 14 per cento tra il primo trimestre di quest’anno e l’ultimo del 2008, un segnale certamente incoraggiante, ma che non consente eccessi di ottimismo, anche alla luce delle drammatiche cifre rese note nei mesi scorsi da un vice ministro del Tesoro.

Nella triste graduatoria resa nota dalla TransUnion, un agenzia che dispone di un data base con 27 milioni di posizioni, primeggia il Nevada, con un tasso di delinquencies mortgage del 14,4 per cento (era del 7,7 nel terzo trimestre del 2008, seguito dalla Florida con il 13,3 per cento (7,8 per cento l’anno scorso), l’Arizona con il 10,4 per cento (5,5 per cento) e la California con il 10,2 (5,8 per cento).

In questo quadro desolante, una vera e propria isola felice è rappresentata dal North Dakota, uno Stato nel quale solo l’1,7 per cento dei mutuatari risultano essere in ritardo con i pagamenti, una percentuale che era solo dell’1,4 per cento nel terzo trimestre del 2008.

Se si rivelasse vera la previsione fatta nel rapporto che indica nel 7 per cento i mutuatari in ritardo nei pagamenti nel quarto trimestre dell’anno in corso, questo vorrebbe dire che, con riferimento al parziale seppure importante campione monitorato da TransUnion, poco meno di due milioni di abitazioni sarebbero a rischio di esproprio!

martedì 17 novembre 2009

La nuova General Motors perde ancora!


E’ proprio vero che in una tempesta perfetta ci si abitua a tutto, anche al fatto che la più grande casa automobilistica americana divenga posseduta al 61 per cento dallo Stato, che entri in una procedura fallimentare gravata da poco meno di 100 miliardi di dollari di debiti e ne emerga con soli 16 miliardi, di cui 6,7 nei confronti dello Stato, che perda 1,2 miliardi nel terzo trimestre, affermando però che le cose vanno meglio.

Ho dedicato più di una puntata del Diario della crisi finanziaria a quelli che in questa storia della General Motors davvero non stanno meglio e sono i possessori dei titoli di debito della casa automobilistica, quelli che hanno dovuto accettare un forzoso e dannoso cambio dei propri titoli in azioni, rinunciando, come si suol dire, al certo per l’incerto, fermo restando un fortissimo taglio del dovuto.

Gli ex bondholders e ora azionisti potranno riconsolarsi con l’aumento del fatturato della General Motors, in buona parte legato al generoso programma di rottamazione varato dall’azionista di maggioranza, che ha portato i ricavi dai 22 miliardi del secondo trimestre ai 26 del terzo, poco importa che quelli del secondo trimestre fossero del 50 per cento inferiori a quelli dello stesso periodo dell’anno precedente.

Il mercato nel frattempo festeggia con buoni rialzi degli indici e un discreto incremento del prezzo del petrolio (al di sopra dei 77 dollari al barile) il forte rialzo delle vendite al dettaglio in ottobre, una variazione dell’1,4 per cento in gran parte legata alle vendite di auto, al netto delle quali la variazione resta positiva ma solo dello 0,2 per cento, mentre gli analisti si attendevano un rialzo dello 0,,4 per cento.

Volendo fare un po’ le pulci al dato, si potrebbe dire che il rialzo di ottobre fa seguito a una flessione rivista al 2,3 per cento da una lettura iniziale di -1,4 per cento, il che starebbe a dire che le vendite al dettaglio complessive restano ancora inferiore a quelle registrate nel mese di agosto, il che vale in particolare per le vendite di auto che sono cresciute in ottobre del 7,4 per cento circa dopo essere calate del doppio in settembre.

Al modesto rialzo delle vendite al dettaglio ex auto fanno da contorno cali dello 0,8 per cento delle vendite di mobili e dello 0,6 per cento per apparecchiature elettroniche, mentre è pari allo zero l’incremento delle vendite presso i distributori di benzina, una situazione che non sorprende più di tanto gli analisti che sarebbero invece stupiti di vedere un’effervescenza dei consumi in presenza di tassi di disoccupazione così elevati e dell’attuale restrizione dei criteri per la concessione del credito al consumo.

D’altra parte, la stessa crescita del 3,5 per cento del prodotto interno lordo statunitense è in larga misura spiegata da una crescita dei consumi del 3,4 per cento che si è concentrata in larghissima prevalenza su case e automobili a causa dei programmi di incentivazione governativi, uno dei quali, quello per l’automobile, definitivamente cessato, mentre l’altro, quello per le case, ripartirà la primavera prossima, una situazione che non fa prevedere nulla di buono per i tre trimestri prossimi venturi.

venerdì 13 novembre 2009

In calo le vendite di Wal-Mart!


Come ripeto da tempo, la questione centrale dell’attuale fase continua a essere quello dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, e quello a esso strettamente collegato dei consumi, due questioni delle quali sembrano essersi accorti oggi anche gli investitori che, dopo aver fatto conseguire ai tre principali indici statunitensi i massimi dell’anno, sembrano essere divenuti esitanti.

Il permanere delle richieste settimanali dei sussidi di disoccupazione al di sopra della soglia delle 500 mila richieste e il calo delle vendite dei negozi americani del gigante degli sconti Wal-Mart nel terzo trimestre hanno chiarito che l’uscita dalla crisi sarà molto lenta, mentre l’orizzonte è tutt’altro che scevro di incognite.

Sembra strano che queste due notizie abbiano sortito più effetto dell’allarme lanciato da due presidenti regionali della Fed che avevano avvertito che bisogna abituarsi all’idea di avere tassi elevati di disoccupazione per molti anni e che questo, ovviamente, inciderà sui consumi e renderà più debole la ripresa.

A onta del calo delle vendite nei negozi americani aperti da più di un anno, Wal-Mart ha registrato una crescita dei profitti del 3 per cento e un incremento delle vendite a livello mondiale da 98,3 a 99,4 miliardi di dollari, mentre gli analisti puntavano su un volume totale delle vendite di 99,9 miliardi di dollari, ma quello che ha davvero spaventato gli investitori è che è previsto un calo delle vendite dei negozi americani anche nel quarto trimestre, normalmente il trimestre nel quale le vendite di questa come delle altre catene americane sono più elevate a causa del Christmas Spending e delle politiche molto aggressive di offerte.

Per avere un’idea dell’importanza di Wal-Mart, basti pensare che l’anno scorso ha totalizzato vendite per 400 miliardi di dollari, al punto che è considerato dagli analisti un efficace barometro della spesa dei consumatori americani, così il fatto che le vendite nel terzo trimestre siano scese dello 0,3 per cento ha destato ancor più preoccupazione del fatto che il tasso di disoccupazione sia giunto in ottobre al 10,2 per cento.

Nonostante un calo del 2,5 per cento, il prezzo del petrolio continua a mantenersi nell’area dei 77 dollari al barile, un livello che è da molti considerato come una vera e propria minaccia per le speranze di ripresa, anche se difficilmente gli scommettitori molleranno la presa da questo segmento di attività che sta garantendo enormi livelli di profitti.

Parlando in marigne ai lavori dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC), il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, ha provato a ripetere il mantra ripetuto per decenni da tutti i suoi predecessori e cioè che gli Stati Uniti d’America si adoperano e si adopereranno per un dollaro forte, un’affermazione che stride alquanto con il deficit federale che per lo scorso hanno fiscale è stato di 1,400 miliardi di dollari e che non dovrebbe essere di molto inferiore a tale livello anche per l’anno fiscale appena iniziato, il bello è che tra quelli che lo stavano ad ascoltare vi erano i maggiori detentori stranieri di dollari e di titoli di stato denominati in tale valuta, persone costrette, per evidenti ragioni, a credere alla veridicità di quanto affermato da Geithner.

mercoledì 11 novembre 2009

La Fed lancia l'allarme sulla disoccupazione!


Mentre ancora non si è spenta l’eco del superamento della soglia psicologica del 10 per cento del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti d’America, la Federal Reserve fa sapere che la ripresa è così fiacca che bisognerà abituarsi a tassi di disoccupazione elevati per diversi anni, una prospettiva che non consolerà molto i circa 16 milioni di americani che ufficialmente disoccupati e che sono attivamente alla ricerca di un lavoro.

L’allarme è stato lanciato, in due discorsi separati, dai presidenti delle Federal Reserve di Atlanta, Tennis Lochart, e di quella San Francisco, Janet Yallen, che hanno avvertito che la disoccupazione crescente può incidere sui consumi e rendere più debole la ripresa, un’ipotesi tutt’altro che peregrina, anche alla luce del fatto che i consumi pesano per il 70 per cento dell’attività economica complessiva.

Si è trattato del primo pronunciamento di due alti esponenti della Fed dopo il superamento della soglia del 10 per cento del tasso di disoccupazione, un evento che si è ripetuto solo due volte dalla fine della seconda guerra mondiale, e non ha mancato di avere un certo impatto sui mercati, in particolare sul Dow Jones che aveva appena toccato i massimi del 2009, rispedendo indietro decisamente il prezzo del petrolio verso i 78 dollari al barile, mentre si era portato al di sopra degli 80 dollari all’avvio delle contrattazioni.

La pubblicazione dei dati sulle vendite di case nel terzo trimestre da parte del National Association of Realtors chiarisce uno dei motivi dell’escalation di case vendute nel periodo e che è rappresentato dall’ulteriore calo dei prezzi, un calo che ha riguardato l’ottanta per cento delle aree metropolitane considerate e che è in larga misura spiegato dal fatto che poco meno di un terzo delle vendite ha riguardato case oggetto di procedure di vendita legate o al non pagamento delle rate del mutuo o altre ragioni di difficoltà finanziarie dei proprietari.

Secondo questa rilevazione, il prezzo mediano a livello nazionale si colloca a 177.900 dollari, un livello inferiore dell’11 per cento a quello dello stesso periodo dell’anno precedente, anche se va detto che, accanto a cali considerevoli registrati in alcune località della Florida o a Las Vegas, si registrano anche incrementi a due cifre dei prezzi in alcune località del Maryland o dell’Iowa, mentre, anche grazie al beneficio fiscale, le vendite di case hanno fatto segnare incrementi a due cifre in 28 Stati.

Come per i sussidi di disoccupazione, anche per il bonus fiscale da 8.000 dollari per l’acquisto della prima casa scaduto alla fine del mese di settembre è stata prevista una nuova finestra che riguarda chi sottoscriverà un preliminare nel mese di aprile del 2010 e chiuderà l’operazione di acquisto entro la fine del mese di giugno dello stesso anno, mentre è stato previsto un beneficio fiscale pari a 6.500 dollari per chi possiede una casa da almeno cinque anni.

Come si vede, le due principali criticità dell’economia a stelle e strisce, la disoccupazione e il mercato immobiliare continuano a rimanere sotto pressione, a livelli di allarme la prima, mentre per la seconda delle due l’azione del governo risulta essere più incisiva e anche il piano di rinegoziazione dei mutui registra finalmente in due Stati percentuali del 20 per cento degli aventi diritto.

martedì 10 novembre 2009

La disoccupazione USA a due cifre non sembra spaventare i mercati!


Ciò che si attendeva da molti mesi si è infine verificato e così, pur avendo il Non Farm Payrolls evidenziato una perdita netta in ottobre di ‘soli’ 190 mila occupati, il tasso di disoccupazione ufficiale relativo allo stesso mese ha superato la soglia psicologica del 10 per cento, portandosi al 10,2 per cento, il che significa che qualcosa di meno di 16 milioni di americani sono alla ricerca di un lavoro, un numero che quasi si raddoppia tendendo conto delle trasformazioni di rapporti da full time a part time e dei cosiddetti scoraggiati.

Nei più di due anni di vita del Diario della crisi finanziaria, ho più volte sottolineato l’importanza dei dati sull’occupazione, dati cui è riservata grande attenzione nei periodi normali, ma che assumono un’importanza cruciale quando, dopo ventisette mesi esatti di tempesta perfetta, si sta cercando di capire se sia davvero partita la ripresa e, soprattutto, se la stessa abbia la forza sufficiente a riassorbire gradualmente la massa di disoccupati che si è creata a partire dal dicembre del 2007.

Al di là dei convincimenti degli ottimisti a ogni costo, i dati sull’occupazione statunitense sono quelli che sono, ma anche le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione continuano a mantenersi al di sopra delle 500 mila richieste, sussidi che sono divenuti oramai pluriennali, senza contare l’ulteriore estensione temporale dei benefici approvata dal Congresso e appena firmata dal presidente Obama, né le cose migliorano se si volge lo sguardo ai livelli di capacità industriale utilizzata o ad altri indicatori che permettono di capire quale sia il reale stato di salute dell’economia reale.

Di tutto ciò sembrano perfettamente consapevoli i ministri dell’economia del G20 che, riuniti in una località scozzese, hanno appena ribadito che non cesseranno gli aiuti straordinari all’economia, una notizia che ha immediatamente rispedito il dollaro a quota 1,50 nei confronti dell’euro, ma ha soprattutto convinto quanti stanno facendo carry trading tra il dollaro a tassi di interesse prossimi allo zero e investimenti a alto rischio che il loro gioco potrà continuare ancora per lungo tempo, il che fa dire a Nouriel Roubini, alias Dr. Doom, che quella attuale “è la madre di tutti i carry trading”, un’affermazione che indica i rischi enormi impliciti in questo gioco.

Per un Warren Buffett che decide di prendere il controllo totale di una importante compagnia ferroviaria, vi sono un’infinità di soggetti che continuano a ritenere che sia meglio fare scommesse sulle commodities, sulle azioni, sulle valute e su un po’ tutto quanto viene scambiato sui mercati regolamentati, tutte entità che non sembrano essere in alcun modo preoccupate delle bellicose intenzioni dei governi e delle banche centrali che, almeno a parole, vorrebbero spuntare le unghie dei protagonisti del mercato finanziario globale.

Uno che di questo gioco se ne intende, il Chairman e Chief Executive Officer della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, Larry Blankfein, è incorso in un curioso incidente nel corso di un’intervista televisiva, affermando che in questa difficile fase Goldman sta facendo “il lavoro di Dio”, un’uscita che avrebbe provocato l’internamento in una più o meno confortevole casa di cura di chiunque altro, ma non di uno come Larry, che è pur sempre l’erede di quell’Hank Paulson del quale si sono perse le tracce da quando ha lasciato l’incarico di ministro del Tesoro!

venerdì 6 novembre 2009

Il Leone di Omaha diventa ferroviere!


Mi scuso con i lettori per aver saltato le puntate di mercoledì e giovedì, ma cercherò di fare un breve riassunto di quanto è accaduto con riferimento al calo del jobless claims, sempre al di sopra delle 500 mila richieste, ma ai minimi dal marzo di quest’anno, e alla decisione di Warren Buffett di prendere il controllo totale di una importante compagnia ferroviaria, una scelta che ricorda molto gli anni ruggenti di inizio del secolo scorso in cui magnati come John Pierpoint Morgan amavano giocare con i trenini in formato naturale.

Pur possedendo una compagnia di assicurazione ed essendo presente nel capitale di banche di primo rango, è nota la predilezione del leone di Omaha per le imprese manifatturiere e di servizi, ma mai si era spinto sino a diventare, alla soglia degli ottanta anni, il capo di azienda di una compagnia ferroviaria, un’impresa molto più impegnativa del sedere nel consiglio di amministrazione della Coca Cola e della altre società nelle quali è presente attraverso al Berkshire, un ricco portafoglio che già includeva il 22 per cento della compagnia ferroviaria integralmente acquisita nei giorni scorsi.

L’acquisto del residuo 78 per cento della Burlington Northern Santa Fe per 26,3 miliardi di dollari, in contanti e mediante scambio di azioni ad un prezzo che supera di oltre il 30 per cento la quotazione della compagnia nella seduta di lunedì scorso, rappresenta certamente un atto di fiducia nelle possibilità di recupero dell’economia americana, anche perché i treni merci difficilmente sarebbero profittevoli in assenza di un incremento delle merci trasportate, un rischio calcolato alla luce del fatto che lo stesso Buffett dichiara con sufficiente grado di onestà di non sapere quando vi sarà la vera ripresa.

E’ curioso che il mercato non abbia festeggiato la scommessa di Buffett, ma si sia dato alla pazza gioia ieri sull’onda dei dati sull’occupazione, sarebbe meglio dire la disoccupazione e sulle vendite al dettaglio, ma si tratta di stranezze cui ci ha abituato la tempesta perfetta nei suoi poco meno di ventisette mesi di vita.

La notizia di oggi è rappresentata dagli 1,8 miliardi di sterline (3 miliardi circa di dollari) della Royal Bank of Scotland, la grande banca britannica controllata dallo Stato, un profondo rosso che viene in parte bilanciato dall’incremento del 5 per cento dei finanziamenti concessi alla clientela, ma che non può far dimenticare le ingenti somme profuse negli ultimi due anni dal governo di Sua Maestà.

Vengo spesso rimproverato di non occuparmi da tempo delle vicende bancarie europee e in particolare di quelle italiane, ma credo che vi sia poco da aggiungere a quanto detto nei mesi scorsi, in quanto, al di là dei finanziamenti profusi con decisione dai governi di Gran Bretagna, Germania, Francia, Olanda e Belgio, continua a permanere un fitto velo sulle reali condizioni di salute dei colossi bancari europei, una situazione che non consente un’analisi corretta e puntuale della situazione sia a livello di singola banca che di sistema.

L’unica novità riguarda la moderazione dei toni del per la terza volta ministro italiano dell’economia nei confronti delle banche in generale e di quelle italiane in particolare, un addolcimento forse in parte dovuto alla cena patrocinata da Guzzetti e che ha visto allo stesso tavolo Tremonti e il Gotha del sistema bancario italiano.

martedì 3 novembre 2009

CIT Group fa ricorso al Chapter 11!


Il vero e proprio balzo in avanti delle vendite di case esistenti in settembre, una crescita del 6,1 per cento rispetto al mese precedente, e il miglioramento dell’indice manifatturiero ISM in ottobre hanno invertito il trend borsistico negativo della scorsa settimana, consentendo ai tre principali indici azionari statunitensi di riprendere fiato, seppure i rialzi delle prime ore di contrattazione si siano successivamente trasformati in perdite, per poi recuperare in chiusura con rialzi inferiori al punto percentuale.

Mentre il dato sulle case continua a essere influenzato dal credito fiscale che scadeva proprio alla fine del mese di settembre, il sondaggio sul settore manifatturiero presenta indicazioni molto positive, in particolare per quanto riguarda l’indicatore relativo all’occupazione, tornato finalmente sopra quel livello di 50 che divide la recessione dall’espansione.

Anche il risultato del terzo trimestre della Ford è in buona misura legato agli incentivi temporanei per l’auto, incentivi adesso terminati ma che hanno fatto volare le vendite e portato i profitti della Ford a poco meno di un miliardo di dollari, anche se la casa automobilistica ha fatto sapere che solo nel 2011 potrà avere un profitto a livello dell’intero anno, cosa che non accade dal 2005.

Nonostante i due dati positivi, il mercato risente del cattivo andamento del settore finanziario e dal ricorso al Chapter 11 della legge fallimentare da parte di CIT Group, un evento lungamente annunciato e che è infine avvenuto, mettendo in ambasce migliaia di dettaglianti che dipendevano dai finanziamenti di CIT.

Gravata da 10 miliardi di dollari di debiti, CIT molto difficilmente sarà in grado di continuare la sua attività di banca delle catene di negozi e dei singoli dettaglianti, così come sarà alquanto difficile che possa riemergere entro la fine dell’anno dalla procedura fallimentare come è stato invece previsto nel comunicato emesso dalla società.

In un sistema finanziario interconnesso come quello statunitense, la decisione di CIT di ricorrere alla protezione nei confronti dei creditori offerta dalla legge fallimentare non potrà non avere conseguenze sulle altre banche, come del resto accadde nell’agosto del 2007 quando decine di società finanziarie specializzate nel mortgage fecero contemporaneamente ricorso allo stesso capitolo della legge fallimentare, una mossa che impedì alle grandi banche di esercitare l’opzione che consentiva loro di restituire a queste società i mutui a suo tempo acquistati.

Ma l’incognita maggiore riguarda il comportamento dei clienti che potrebbero decidere di spostare presso altre banche il proprio conto, come una parte di loro ha fatto nei mesi scorsi, una eventualità che impedirebbe a CIT di riemergere dalla procedura fallimentare, ad onta del fatto di avere raggiunto accordi con i creditori per la ristrutturazione del debito.

Come si vede, la ripresa dell’economia rischia di essere fragile e a rischio se continueranno le incertezze sulle sorti delle banche e delle altre entità protagoniste del sistema finanziario, incertezze aumentate dopo che è stato loro consentito di non valutare al mark to market i titoli più o meno tossici della finanza strutturata, così come difficilmente la crescita potrà essere sostenibile in presenza degli attuali livelli di razionamento del credito.

domenica 1 novembre 2009

Una settimana nera per Wall Street!


Cosa ci poteva essere di meglio della notizia che nel terzo trimestre dell’anno di grazia 2009 l’economia americana era cresciuta nienetepopodimeno che del 3,5 per cento e che questa crescita era stata guidata dall’acquisto a spron battuto di automobili e case, ma, a quanto pare, gli investitori non sono stati di questo parere e i tre principali indici di Wall Street hanno chiuso la settimana con perdite rilevanti, movendosi in direzione diametralmente opposta a un dollaro che riguadagnava terreno nei confronti delle principali valute e mentre il petrolio si ritrovava confinato nell’area dei 66 dollari al barile.

I ventisei mesi di tempesta perfetta ci hanno abituato a queste stranezze, che poi, a ben guardare tanto strane non sono, non fosse altro che, come ho avuto modo di commentare a caldo, il dato del prodotto interno lordo a stelle e strisce nel terzo trimestre è stato fortemente influenzato da interventi governativi di sostegno che sono oramai terminati e ci si aspetta giustamente che i due settori che ne hanno beneficiato, quello dell’auto e quello immobiliare, potrebbero subire contraccolpi negativi nel trimestre in corso, se non anche in quelli successivi.

Il confronto tra la prima seduta della settimana e quella di venerdì vede il Dow Jones lasciare sul terreno il 2,6 per cento, il Nasdaq il 5,1 per cento e lo Standard & Poor’s 500 il 4 per cento, perdite pesanti, ma mai quanto quelle del Russell 2000 che ha perso, in sole cinque sedute, qualcosa di più del 6 per cento, ma è significativo che, nella sola seduta di venerdì, i tre indici abbiano perso non meno del 2,5 per cento, con lo Standard & Poor’s 500 che ha sfiorato addirittura una perdita del 3 per cento.

Così come è emblematico che le perdite maggiori siano state quelle del settore finanziario, con Citigroup e Bank of America in testa, ma forti flessioni hanno anche colpito colossi come General Electric e Ford, General Motors e Chrysler sono state graziate dalla loro assenza dal listino dovuta al ricorso alla legge fallimentare, a causa delle traversie delle rispettive controllate operanti nel settore dei finanziamenti.

Ma quello di cui gli investitori sono forse più consapevoli è l’insostenibilità del deficit federale, così come della altissima montagna del debito pubblico, temi dei quali ha diffusamente parlato in una trasmissione televisiva il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, per dire che è vero che i livelli raggiunti sono preoccupanti, ma che per il momento non ci si può fare molto, in quanto la priorità è la crescita dell’economia.

Non c’è niente di peggio per gli investitori di ogni ordine e rango che sentire il massimo esponente del dicastero del Tesoro affermare che una situazione è insostenibile ma che non dispone di alcun piano per far rientrare il deficit, né tantomeno per ridurre il debito, anche perché è ancora molto vivace il dibattito sull’utilizzo della montagna di dollari spesi prima dall’amministrazione Bush e poi da quella di Barack Obama in favore di Wall Street, mentre scarsa è stata l’attenzione alle esigenze di Main Street.

Ma il problema vero è rappresentato dal fatto che la montagna del debito pubblico statunitense non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei titoli tossici della finanza più o meno strutturata ancora presenti al di sopra e al di sotto della linea di bilancio delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario!

giovedì 29 ottobre 2009

Il PIL USA cresce spinto dagli incentivi!


Come i miei lettori più assidui avranno certamente notato, mi risulta sempre più difficile scrivere della crisi finanziaria a causa di un andamento dei mercati che sembra andare in direzione opposta alla realtà che vivono decine di milioni di cittadini americani e un numero ancor maggiore di europei, numeri di per sé enormi, ma che rischiano seriamente di aumentare, visto che non passa giorno senza che vengano annunciati interventi di riduzione del personale di questa o di quell’azienda.

Ma negli ultimi giorni sembra che questa schizofrenia tra Wall Street e Main Street stia venendo meno, come si è visto con le reazioni di fronte al vero e proprio tonfo del Consumer Confidence, un sondaggio su cinquemila cittadini statunitensi effettuato dal Conference Board dal quale è emerso che prevale tra gli intervistati un sentimento tutt’altro che positivo rispetto al futuro.mentre resta forte la paura di perdere il posto di lavoro o di non poter pagare le rate del mutuo o gli altri debiti contratti quando le cose andavano bene.

Ma il colpo più forte lo si è avuto ieri quando si è appreso che in settembre le vendite di case di nuova costruzione, dagli analisti previste in forte rialzo, sono invece crollate del 3,6 per cento, il primo dato negativo in cinque mesi che porta il dato annualizzato delle vendite di pochissimo al di sopra delle 400.000 unità (402.000, per la precisione).

E’ ancora presto per dire se questi segnali negativi provenienti dall’economia reale saranno in grado di far sgonfiare la bolla che si è creata dal marzo di quest’anno, quel rally dell’orso che ha conosciuto solo una breve fase di arresto tra metà giugno e metà luglio, ma è riuscito comunque a portare il Dow Jones al di sopra dei 10.000 punti, il Nasdaq al di sopra dei 2.000 e lo Standard & Poor’s 500 al di sopra dei 1.000 punti, soglie psicologiche che sono state o di nuovo violate verso il basso, come nel caso del Dow Jones o, come sta accadendo agli altri due indici, seriamente minacciate di esserlo.

L’annuncio odierno di una crescita del 3,5 per cento del prodotto interno lordo statunitense, una crescita guidata dagli acquisti di case e automobili, a tassi annualizzati superiori al 20 per cento, ha ovviamente ridato fiato al mercato azionario statunitense che mercoledì aveva vissuto una giornata nera, con flessioni del Nasdaq del 2,65 per cento, mentre il rappresentativo Standard & Poor’s 500 aveva lasciato sul terreno poco meno del 2 per cento.

La crescita del PIL a stelle e strisce fa seguito a quattro trimestri negativi consecutivi, il che rappresenta un record che non si registrava dal 1947, anche se va detto che il dato positivo non è soltanto stato spinto dagli incentivi alla rottamazione delle auto e da quelli relativi all’acquisto della prima casa, ma anche da una forte crescita delle spese governative, che sono aumentate del 7,9 per cento dopo essere cresciute dell’11,2 per cento nel secondo trimestre, tassi di crescita inferiori a quelli relativi agli acquisti di case e di auto, ma quasi otto volte superiori a quelli degli investimenti fatti dagli imprenditori che si fermano a un misero 1,1 per cento.

Il problema è rappresentato dal fatto che, esauriti i programmi di incentivazione, bisognerà vedere quale sarà la propensione al consumo nei tre mesi residui dell’anno (due in realtà, visto che siamo alla fine di ottobre) e il dato commentato sopra sulle vendite di case di nuova costruzione non depone bene.

mercoledì 28 ottobre 2009

I consumatori non si fidano!


I continui tentativi di convincere i cittadini statunitensi che il peggio è oramai dietro le spalle non sembrano avere molto successo, come è ben dimostrato dalla flessione a sorpresa di ieri del Consumer Confidence che in ottobre è scivolato a 47,7, perdendo quasi sei punti rispetto al dato di settembre, una flessione in gran parte legata alle preoccupazioni degli intervistati sulla stabilità del proprio posto di lavoro.

Va anche detto che solo con livelli del Consumer Confidence superiori a 90 si può parlare di un buon andamento dell’economia, ma l’abbandono dei livelli superiori a 50 toccati in precedenza rappresenta certamente una doccia fredda per gli ottimisti a oltranza che possono sperare ora solo in un dato positivo del prodotto interno lordo statunitense, dato che verrà comunicato nel corso di questa settimana.

La reazione dei mercati è stata negativa e gli indici statunitensi, al netto di un frazionale rialzo del Dow Jones, hanno segnato flessioni significative, confermando quel movimento altalenante riscontrabile dall’ultima seduta della settimana scorsa, segnale dell’incertezza degli investitori rispetto alla tanto attesa ripresa che tarda a manifestarsi in modo chiaro.

Ma anche oggi le cose non sembrano mettersi bene, con i futures sui tre indici in negativo e la notizia che GMAC Financial Services, il braccio finanziario della General Motors, starebbe chiedendo un terzo intervento di sostegno al Tesoro statunitense che ha già versato 12,5 miliardi di dollari alla società e ne è diventato azionista al 35 per cento.

La profonda crisi di GMAC rappresenta una conferma indiretta della attuale situazione del credito al consumo negli Stati Uniti d’America, un comparto di attività finanziarie un tempo floridissimo e che consentiva alle entità appositamente create da imprese industriali e banche di contribuire significativamente ai profitti delle rispettive case madri, in qualche caso, come in quello della emanazione finanziaria della General Electric, per importi che rappresentavano anche il 50 per cento del totale.

Oggi sono attesi i dati relativi alle case di nuova costruzione nel mese di settembre e quelli sugli ordini di ben durevoli, entrambi previsti in rialzo, i secondi, il dato è stato diffuso mentre sto scrivendo, sono cresciuti dell’uno per cento, dopo essere calati del 2,6 per cento nel mese di agosto, mentre per le case dovrebbe continuare l’effetto positivo legato al bonus fiscale che scadeva proprio in quel mese.

Un buon indicatore del clima di incertezza imperante sui mercati è rappresentato dal prezzo del petrolio che si è portato anche al di sotto dei 79 dollari al barile, dopo aver galoppato per diverse sedute portandosi decisamente al di sopra della soglia degli 80 dollari, ma non trovando supporto né nei dati economici susseguitisi nel frattempo, né nelle posizioni ufficiali dell’OPEC che sembra non gradire troppo questi movimenti eccessivamente anticipatori.

Nel frattempo, avanza al Senato la riforma degli organismi regolatori del mercato finanziario voluta da Obama, una riforma non del tutto gradita dalla Federal Reserve e dalle diverse entità protagoniste del mercato finanziario, che hanno avviato attività lobbistiche destinate a ritardare l’iter e a ottenere modifiche.

lunedì 26 ottobre 2009

ING si divide in due!


Dopo lo scivolone di venerdì a Wall Street, i mercati cercano una direzione tenendosi, seppur di poco, sopra la parità, anche perché vi è molta attesa per la prima lettura del prodotto interno lordo statunitense nel terzo trimestre, un dato anticipato come significativamente positivo e che, ove le attese venissero confermate, rappresenterebbe davvero una svolta nella più lunga crisi finanziaria dal secondo dopoguerra mondiale.

L’andamento positivo odierno dei tre indici, che nel caso del Dow Jones indica valori diametralmente opposti a quelli registrati venerdì, è la chiara indicazione del clima di grande incertezza vissuto dagli investitori individuali che ancora non riescono a vedere una tendenza chiara, ma segnali spesso di segno opposto sui quali è alquanto difficile operare scelte non di piccolo cabotaggio.

Mentre ancora non era stato metabolizzato il dato sulla crescita della Corea del Sud, è giunta la notizia della divisione in due del colosso bancario assicurativo olandese ING, salvato in due riprese dal governo olandese nel momento peggiore della tempesta perfetta, due interventi che hanno suscitato le ire della Commissione europea, che ha valutato il secondo come aiuto di stato e ha comminato una multa da 1,4 miliardi di euro che verrà pagata prima che dell’avvio dell’operazione di scissione.

Al servizio dell’operazione verranno emesse azioni per 7,5 miliardi di euro (11,3 miliardi di dollari circa) che serviranno per restituire allo Stato olandese le somme ricevute in occasione del salvataggio della compagnia, una decisione che avrà ovviamente l’effetto di ridurre il valore delle azioni esistenti e che ha provocato un sensibile calo delle quotazioni.

Oltre alla netta divisione del ramo bancario da quello assicurativo, è stata annunciata anche l’alienazione della divisione che si occupa dell’asset management, nonché, nel 2013, verrà ceduta la banca via internet operante negli Stati Uniti.

La drastica riduzione dei costi realizzata anche attraverso l’eliminazione di oltre diecimila posizioni lavorative ha consentito a ING di presentare un utile di 750 milioni di euro nel terzo trimestre, 250 dei quali facenti capo all’attività bancaria, mentre 500 sono ascrivibili a quella assicurativa che resta il core business di ING.

In attesa di indicazioni più chiare sull’andamento dell’economia statunitense, il dollaro continua a mantenersi a 1,50 contro l’euro, mentre il petrolio da tre sedute non riesce ad allontanarsi dagli 80 dollari al barile, anche perché è giunto un primo segnale dalla parte araba dell’OPEC che ha costretto l’organizzazione a rendere noto che, in presenza di ulteriori, forti rialzi dei prezzi, provvederà ad aumentare la produzione.

Più interessanti sono le indicazioni provenienti dai Treasury Bonds che, nella scadenza decennale, stanno registrando una vera e propria impennata dei rendimenti sul mercato secondario che starebbe a indicare vendite massicce che hanno acceso immediatamente sospetti sui grandi detentori stranieri che starebbero operando alleggerimenti delle posizioni, operazioni che normalmente vengono accuratamente frazionate e diluite nel tempo, ma che non sempre riescono a passare del tutto inosservate.

venerdì 23 ottobre 2009

Lo zar Feinberg cala la scure sui compensi!


Dopo aver lavorato a lungo in silenzio, Ken Feinberg, l’esponente del Tesoro statunitense incaricato di porre dei limiti ai compensi dei top manager delle entità che hanno ricevuto fondi pubblici dal TARP, ha iniziato a rendere note le sue decisioni che, almeno al momento, riguardano 175 posizioni di vertice di Bank of America, Citigroup, AIG, General Motors, Chrysler e le sue divisioni finanziarie delle due case automobilistiche.

La maggior parte delle posizioni vedrà ridotto della metà il compenso, che generalmente non supererà i 500 mila dollari, mentre è previsto un compenso di 10 milioni di dollari per un alto dirigente di Bank of America, ma Feinberg ha fatto sapere che ora esaminerà altre 525 posizioni, anche al fine di evitare che i compensi complessivi di persone che sono collocate a livelli più bassi siano di gran lunga più elevate di quelle dei loro superiori.

Feinberg ha anche previsto che nessuno dei dirigenti di prima linea di AIG riceverà più di 200 mila dollari, una cifra certamente dignitosa, ma che negli anni passati veniva considerata al più la paga di un trader di secondo o terzo livello.

Anche se a molti queste decisioni potranno apparire esclusivamente finalizzate a calmare l’opinione pubblica dopo gli scandali dei bonus corrisposti da AIG e Merrill Lynch mentre le rispettive aziende erano state oggetto di pesantissimi interventi di salvataggio, credo invece che si tratti di un intervento necessario per evitare quella folle rincorsa tra risultati drogati e compensi che è stata una delle cause della tempesta perfetta.

D’altra parte, si fa presto a parlare di azzardo morale quando non vengono disinnescate le cause che spingono a comportamenti rischiosi per la banca o la compagnia di assicurazione, ma estremamente gratificanti per i beneficiari dei ricchi premi e cotillions che, nel più classico dei giochi win win, verranno corrisposti in ogni caso, un problema che è stato posto all’attenzione del recente vertice del G20 di Pittsburgh da un documento che prevede di collegare le retribuzioni variabili dei top manager a risultati di medio periodo.

Qualcuno si è forse stupito delle dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia sul rischio di dare per conclusa anticipatamente la crisi finanziaria, così come la sua reprimenda sul moral hazard, ma è indubbio che, nella sua posizione di presidente del Financial Stability Board, Draghi si sia un po’ stufato di vedere che, nemmeno un anno dopo che il sistema finanziario globale si è trovato sull’orlo del collasso, sia ripreso l’andazzo di prima, con le banche che non concedono prestiti ma si dilettano a scommettere su tutto quello che viene trattato sui mercati regolamentati, dalle commodities alle valute, dalle azioni alle obbligazioni e chi più ne ha ne metta.

Come ha ben rilevato il Fondo Monetario Internazionale, le migliorate performance delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e di quello globale rischiano di mandare in cavalleria i propositi riformatori più volte espressi dai leaders politici e dai banchieri centrali, un’eventualità che Draghi non sembra affatto guardare con favore, anche perché, avendo operato ai vertici della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, sa perfettamente che nessuno è in grado di controllare esattamente quello che fanno gli uomini e le donne impegnati nelle sale operative.

giovedì 22 ottobre 2009

Gli utili delle banche spingono il mercato!


Come previsto da molti, Bernspan incluso, il tasso di disoccupazione sta crescendo in molti Stati, ventitrè per la precisione, e in alcuni di questi ha toccato in settembre anche punte del 15 per cento, anche se va detto che in altri diciannove si è registrato un calo della percentuale che indica il numero dei disoccupati sul totale delle forze di lavoro, una flessione che ha riguardato anche un’intera regione, quella del Midwest.

Questi dati stanno a indicare che gli sforzi della amministrazione Obama iniziano a dare i loro primi risultati, in particolare nelle realtà geografiche nelle quali anche le autorità locali stanno facendo la loro, ma non vi è dubbio che siamo ancora lontani dal punto di svolta.

Dopo tre trimestri consecutivi in rosso, Morgan Stanley, una delle due sole grandi investment bank statunitensi a essere rimasta in vita e autonoma, ha finalmente conseguito un utile nel terzo trimestre, anche se di entità non eccezionale visto che è stato di 498 milioni di dollari, un risultato non comparabile con quello del terzo trimestre del 2008 che aveva visto un utile di 7,7 miliardi di dollari dovuti però a un calo eccezionale del valore del debito della banca.

L’entità dell’utile di Morgan Stanley stride fortemente con le somme accantonate per il pagamento dei bonus, incrementate di 5 miliardi di dollari che portano il bottino per l’anno in corso a oltre 10 miliardi, il che vuol dire che sono state accantonati oltre cinque miliardi anche nei due trimestri precedenti che pure si erano chiusi in rosso.

Anche se sta cercando di accreditare un’immagine legata a una gestione più conservativa, anche Morgan Stanley ha sviluppato al massimo la profittevole quanto rischiosa attività di trading, mentre sta procedendo l’integrazione con le attività di Smith Barney, l’entità di cui ha acquisito, per 2,7 miliardi di dollari, il controllo da Citigroup che mantiene tuttavia una quota minoritaria nella joint venture.

Ben più consistenti i risultati di Wells Fargo, che ha chiuso il terzo trimestre con un utile di 2,6 miliardi di dollari, ma, in linea con altre grandi banche statunitensi, ha dovuto far fronte a massicce perdite su crediti sia relative alla banca che all’acquisita Wachovia Bank, perdite che ammontano nel trimestre a 5 miliardi di dollari.

Con Wells Fargo si completa il quadro dei risultati per il terzo trimestre delle banche a stelle e strisce di grandi dimensioni, un quadro che, con la rilevante eccezione di Bank of America, ha visto profitti di varia entità e dimensione accompagnarsi a messe a perdita di prestiti e finanziamenti in crescita rispetto ai trimestri precedenti e ancora lontani, come è stato confermato nella conference call di oggi, dall’aver raggiunto il loro picco, che viene generalmente previsto per l’anno prossimo, in perfetta analogia con le previsioni relative al tasso di disoccupazione, in un rincorrersi davvero inestricabile di cause ed effetti.

Fermandosi alla metà piena della bottiglia, gli investitori hanno spinto tutti e tre gli indici statunitensi al rialzo, in una giornata che ha visto il dollaro superare di un balzo la quota di 1,50 contro dollaro e il petrolio portarsi anche sopra il livello di 81 dollari al barile, mentre l’oro viene scambiato a 1.060 dollari.

mercoledì 21 ottobre 2009

I banchieri centrali fanno la voce grossa!


Il calo a sorpresa nel mese di settembre dell’indice che misura i prezzi alla produzione ha gelato gli entusiasmi di Wall Street, mandando tutti e tre gli indici in flessione in apertura, anche perché è chiaro che difficilmente si potrà parlare di una ripresa reale e sostenibile senza che vi sia un allontanamento dei prezzi al consumo e di quelli alla produzione dalle attuali flessioni anno su anno, anche se le stesse sono in un ordine di grandezza meno vistoso di quello segnalato nel luglio di quest’anno..

Gli ottimisti possono comunque appigliarsi alla lieve variazione positiva delle costruzioni di nuove case, cresciute dello 0,5 per cento in settembre, anche se meno di quanto avessero previsto gli analisti, mentre si registra una flessione molto più netta dei permessi di costruzione, calati dell’1,2 per cento, la più alta contrazione in cinque mesi.

D’altra parte, era prevedibile che, con la fine degli incentivi fiscali per l’acquisto della prima casa, vi sarebbe stato un contraccolpo negativo, anche se sono in corso iniziative parlamentari per portare gli sgravi sino al 30 giugno dell’anno prossimo, ma il problema sta nel fatto che chi poteva permettersi l’acquisto lo ha verosimilmente già fatto.

Non si è ancora spenta l’eco delle dichiarazioni di Bernspan sulla necessità di tirare il freno nelle spese del governo federale, un appello giunto dopo l’ufficializzazione di un deficit per l’anno fiscale che si è appena concluso cifrabile in 1.420 miliardi di dollari, poco meno del triplo di quello registrato l’anno fiscale precedente e che non fa escludere che, in assenza di un redde rationem governativo, il sistema della riserva federale possa decidere di inasprire la politica monetaria, il che rappresenterebbe un colpo prematuro alla ripresa, anche se si tratta ovviamente di un’ipotesi del tutto teorica e che ha davvero poche possibilità di realizzarsi.

Molto più concreta è, invece la diagnosi che sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico ha fatto il consigliere della Banca Centrale Europea, Lorenzo Bini Smaghi, che ha previsto un ulteriore inasprimento del credit crunch e la necessità che le banche europee procedano al più presto a una significativa ricapitalizzazione, dichiarazioni che fanno pensare che in quel di Francoforte si stia pensando seriamente di portare il livello minimo del TIER 1 alla soglia dell’8 per cento, un livello che metterebbe in seria difficoltà le banche di molti paesi membri, certamente quelle italiane che, in molti e importanti casi, sono ben lontane da un simile valore.

Il ritorno ad accenti severi da parte dei banchieri centrali non va comunque preso sotto gamba, anche perché era chiaro da tempo che la politica lassista e in certi casi sostitutiva svolta dalle stesse non poteva durare all’infinito, così come non è ipotizzabile che continui all’infinito l’alimentazione delle operazioni di trading delle banche globali attraverso prestiti a tassi bassissimi se non prossimi allo zero.

E’ comunque chiaro che un cambiamento di rotta da parte di Bernspan e Trichet non è cosa che possa accadere in tempi rapidi, ma, come si suol dire, uomo avvisato mezzo salvato e sono certo che molti campanelli d’allarme stanno suonando nelle sale dei consigli di amministrazione delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario globale, così come stanno andando a pieno regime i sistemi deputati a valutare l’impatto di una variazione dei tassi sui loro conti già non troppo brillanti.

martedì 20 ottobre 2009

Carl Icahn si offre di salvare CIT!


L’annuncio di un deficit statunitense per l’anno fiscale che si è chiuso al 30 settembre pari a 1.420 miliardi di dollari ha indotto Bernspan a fare la voce grossa e a dichiarare in una conferenza che è necessario al più presto riportare i conti dell’America a livelli di rosso meno intensi e più in linea con quelli dell’anno fiscale precedente che si erano chiusi con un deficit di ‘appena’ 459 miliardi di dollari, un auspicio che difficilmente, come lo stesso numero uno della Fed ben sa, potrà trovare riscontro nei difficilissimi mesi a venire.

Molto difficilmente, infatti, sarà possibile chiudere in fretta i cordoni della borsa con il tasso di disoccupazione ufficiale prossimo al 10 per cento e con la necessità di spingere in qualsiasi modo il riavvio dell’attività produttiva, anche perché, nel frattempo, la capacità utilizzata continua a mantenersi su livelli molto, ma molto bassi.

Ma in un mondo che oramai appare dominato dal G2 composto da Stati Uniti e Cina, il numero uno del sistema della riserva federale, non ha dimenticato di lanciare un monito ai governanti cinesi, ma anche ai governanti di altri paesi asiatici in surplus negli scambi commerciali, affinché stimolino i consumi dei loro concittadini, un passaggio indispensabile per contrastare la contrazione del commercio mondiale.

Ma perché da questi nuovi comportamenti dei consumatori asiatici possa venire uno stimolo all’economia americana è necessario che prosegua quella politica del dollaro debole che ha ricevuto la sua benedizione nell’incontro tra le due grandi potenze che si è svolto in apertura del summit del G20, una politica che è destinata a ricadere alquanto fatalmente sulle spalle dell’Europa e del Giappone, via rivalutazione forzata dell’euro e dello yen e conseguente riduzione degli avanzi commerciali .

Dopo la pausa di venerdì, i mercati azionari sono tornati a salire sulla scia di buoni risultati aziendali, ma soprattutto sull’onda della convinzione che il peggio della tempesta perfetta sia oramai alle spalle, anche se i risultati delle banche a stelle e strisce nel terzo trimestre stiano lì a dimostrare che non vi è alcun rallentamento nei default di individui e imprese, ben espressi dagli accantonamenti e le messe a perdita presenti in tutti i bilanci sinora presentati, fatta eccezione della sola Goldman Sachs.

Il finanziere Carl Icahn ha proposto al CIT Group un prestito di 6 miliardi di dollari che dovrebbe consentire alla banca specializzata nei finanziamenti alle strutture commerciali di non dover dipendere dall’accettazione del piano di conversione di bond in azioni da parte dei bondholders, ma ritratta di un’offerta condita da pesanti accuse all’attuale management di CIT per aver operato una disparità di trattamento tra grandi e piccoli creditori e di aver fornito una rappresentazione al ribasso della società.

Il trucco nell’offerta di Icahn, un personaggio che non ha proprio la fama di un santo, sta nel prevedere uno scambio alla pari tra il debito esistente e il suo finanziamento, un’opzione che non consente quella riduzione del debito che è fondamentale per la sopravvivenza di CIT e che era prevista nel piano presentato dagli attuali vertici, un piano che prevede una riduzione del peso del debito per 5,7 miliardi di dollari e che, non a caso, il finanziere ha chiesto ai bondholders di respingere.

sabato 17 ottobre 2009

BofA e General Electric deprimono i mercati!


Quello che è riuscito a J.P. Morgan Chase, ma ancor di più a Goldman Sachs e sicuramente sarà così anche per Morgan Stanley, cioè di più che compensare le perdite legate alle svalutazioni e messe a perdita su finanziamenti di ogni ordine e specie con i sovrabbondanti proventi dell’investment banking, non si è verificato né in Citigroup, né tanto meno in Bank of America, che ha annunciato oggi un rosso nel terzo trimestre di un miliardo di dollari tondo in larga parte legato all’alluvione di messe a perdita relative all’attività tradizionale, che hanno pesato per 9,6 miliardi di dollari, mentre erano poco più di quattro nello stesso trimestre dell’anno scorso.

Quello che sta accadendo a livello delle banche globali, al di là delle specificità che sto cercando di analizzare caso per caso, permette di capire in quali guai si trovino le banche statunitensi di medie e piccole dimensioni che non possono permettersi di partecipare al gioco delle scommesse e che si ritrovano a fare i conti con il progressivo peggioramento della qualità dell’attivo e credo proprio che, alla fine della fiera, il conto dei decessi bancari nel corso del 2009 sarà molto più pesante di quello che risultava la settimana scorsa, quando ha chiuso i battenti la centesima banca dall’inizio dell’anno.

Ma tornando a Bank of America, va detto che le acquisizioni più o meno forzose effettuate nel corso della prima parte della tempesta perfetta hanno prodotto risultati molto diversi, in quanto le attività di quella che un tempo era Countrywide hanno contribuito pesantemente al rosso, mentre dalla divisione che accoglie quel che resta di Merrill Lynch sono venuti profitti per 2,2 miliardi di dollari, anche se ne occorreranno di trimestri per recuperare i circa 27 miliardi persi dalla ex investment bank nel quarto trimestre del 2008.

Il vivace dibattito in corso su quale delle lettere dell’alfabeto potrà meglio rappresentare la recessione iniziata alla fine del 2007 rischia di infrangersi sulla dura realtà del perdurante stato comatoso dell’attività bancaria, anche perché molti degli effetti prodotti dalla attualmente profittevole attività di Corporate & Investment Banking stanno aggravando la situazione di quella clientela che viene meno all’impegno di onorare le scadenze di pagamento, innescando una sorta di circolo vizioso che non può non preoccupare l’amministrazione Obama e il Congresso, non fosse altro che per la semplicissima ragione che sta accadendo esattamente l’opposto di quello che era stato vigorosamente promesso sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, promesse che vertevano sul fatto che non sarebbe stato più consentito alle donne e agli uomini della finanza di continuare a fare quelle stesse cose che ci hanno portati dritti dritti allo scoppio della tempesta perfetta!

Qualche insegnamento dovrebbe venire poi dalla seconda notizia del giorno, che è rappresentata dal crollo dei profitti della General Electric, passati dai 4,3 miliardi di dollari del terzo trimestre 2008 ai 2,4 miliardi conseguiti quest’anno, un quasi dimezzamento determinato dal quasi azzeramento degli utili del suo braccio finanziario, GE Capital, un’entità che prima della crisi finanziaria contribuiva per quasi metà ai profitti del gigante industriale, ma quel che è peggio è che le prospettive di buona parte degli investimenti di GE Capital sono davvero pessime, in particolare quelle legate agli investimenti diretti in centri commerciali o in mutui fatti a chi ha realizzato mall, shopping center o altre forme di insediamento commerciale, iniziative che finiscono per coinvolgere General Electric in quella che minaccia di essere una sciagura molto superiore a quella dell’immobiliare residenziale.

venerdì 16 ottobre 2009

Il trading spinge l'utile delle banche USA!


Dopo i risultati di J.P. Morgan Chase, sono giunti anche quelli di Goldman Sachs e di Citigroup, risultati in apparenza positivi, ma che, come nel caso della banca dei nipotini di J.P Morgan e di Rockefeller, richiedono qualche approfondimento per riuscire a comprendere quale è la relazione tra il non positivo stato dell’economia e i profitti delle banche.

Non stupisce il risultato della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, che ha chiuso il terzo trimestre con un utile da 3,03 miliardi di dollari che è circa il triplo di quello conseguito nello stesso trimestre del 2008, ma si pone nettamente al di sotto delle attese degli analisti che prevedevano un utile da 4 miliardi in gran parte generato dai successi della banca nel settore che le è più congeniale e che è rappresentato dalle ‘scommesse’ su tutto quanto è trattato nei mercati regolamentati.

Come è noto, questo tipo di gioco ha visto un netto calo dei partecipanti di grandi dimensioni, che dovrebbero essere non più di cinque banche globali dopo la riduzione delle maggiori Investment Banks statunitensi da cinque a due e la recente decisione di Citigroup di cedere, anche per pressioni governative, la sua divisione attiva nel trading sul petrolio a una compagnia petrolifera per un piatto di lenticchie.

E’ evidente che la presenza di un numero così ridotto di grandi operatori non rende più trasparente un mercato, come quello dei derivati, che già di per sé trasparente non lo è mai stato molto, così come non è un caso che il petrolio venga trattato a valori che sono ben lungi dal rappresentare l’equilibrio tra domanda e offerta.

Così come non è un caso se proprio oggi sia passata in una commissione del Congresso statunitense una prima proposta di regolamentazione del mercato dei derivati, anche perché è del tutto evidente che ulteriori rialzi del prezzo del petrolio rischierebbero seriamente di gelare quelli che, al momento, continuano a essere poco più che indizi di ripresa.

Dopo una lunga serie di trimestri in rosso, Citigroup è riuscita a tornare a un utile di poco più di 100 milioni di dollari, un risultato che si trasforma in una perdita superiore ai 3 miliardi di dollari tenendo conto di quanto dovuto alle preferred shares e della recente operazione sul capitale che ha portato il Governo statunitense a possedere il 34 per cento delle azioni del colosso bancario, una partecipazione ingombrante e della quale il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, vuole liberarsi al più presto.

Ma i problemi di Citigroup come di tutte le maggiori banche statunitensi sono legati alla continua emorragia legata alle perdite sui crediti vantati nei confronti della clientela e che sono state pari nel terzo trimestre a 8 miliardi di dollari, in frazionale miglioramento dagli 8,4 miliardi segnalati nel secondo trimestre e che ha costretto il Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, ad ammettere che le cose non sono destinate a migliorare nel prossimo futuro.

Non vi è dubbio che questa stridente dicotomia tra le attività di Corporate & Investment Banking e quelle legate all’attività bancaria tradizionale sono destinate a fare accelerare i progetti dei governi e delle banche centrali in materia di regolamentazione dei mercati finanziari, anche perché nessuno ha voglia di assistere alla creazione di una nuova bolla speculativa!

giovedì 15 ottobre 2009

Il Dow Jone recupera quota diecimila!


Dopo aver occhieggiato per diverse sedute alla soglia dei 10 mila punti, oggi il Dow Jones è riuscito a superarla sull’onda degli utili oltre le previsioni di J.P. Morgan Chase e di Intel, anche se il bilancio del terzo trimestre della banca ha presentato accantonamenti e messe a perdita pressoché doppie di quelle registrate nel trimestre precedente.

L’utile di J.P. Morgan Chase è stato pari a 3,59 miliardi di dollari, un risultato ‘spinto’ dalla performance della divisione di Corporate & Investment Banking che ha sfiorato i 2 miliardi di dollari (1,92, per la precisione), un miliardo in più di quanto aveva guadagnato nel trimestre precedente, a ulteriore conferma che le grandi banche stanno sviluppando al massimo le operazioni di trading.

Come dicevo sopra, le cose vanno molto meno bene nelle attività tradizionali, dove, complice l’acquisizione di Washington Mutual, sono stati necessari accantonamenti per 4 miliardi di dollari circa nel settore dei mutui, mentre quelli per i default sulle carte di credito si sono posizionati poco al di sotto dei 5 miliardi di dollari, ma quello che più conta è che le previsioni per i trimestri futuri non sono affatto rosee.

Non appare, infatti, tranquillizzante che la percentuale di default nel comparto delle carte di credito comunicata dalla banca con riferimento al terzo trimestre si è portata al 10,3 per cento, una percentuale che dovrebbe essere pari al 10,5 per cento nel quarto trimestre, valori ancora largamente al di sotto da quel 14 per cento medio di insoluti sulle carte di credito previsto dal Fondo Monetario Internazionale.

Vi è comunque molta attesa per i bilanci delle altre grandi banche a stelle e strisce, anche perché, a differenza di Morgan Stanley e Goldman Sachs, Citigroup, Bank of America e Wells Fargo dovrebbero risentire molto dell’ondata di default che sta colpendo il settore del mortgage e quello delle diverse forme che assume il credito al consumo, anche se tutte si sono certamente dilettate nelle attività di trading.

Proprio a questo proposito si infittisce l’azione del Congresso e delle diverse Authorities per porre limiti al far west in corso nel mercato dei derivati sul petrolio e le altre materie prime, un attivismo che punta a sottomettere le attività della specie alle regole che già vigono per le contrattazioni future sulle derrate alimentari, anche se le pressioni lobbistiche delle banche potrebbero ritardare o modificare questo corso delle cose.

Nel frattempo, il petrolio ha raggiunto i massimi dell’anno spingendosi nell’area dei 75 dollari al barile, mentre il dollaro ha superato la soglia degli 1,49 contro l’euro, confermando una tendenza al ribasso della quale mi sono occupato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria e che appare destinata a durare anche nel futuro prossimo venturo nonostante l’attivismo delle banche centrali e dei paesi maggiormente ‘lunghi’ di dollari sia sotto forma di depositi che di titoli di stato statunitensi.

Le prossime settimane saranno cruciali per capire se siamo davvero davanti a una svolta dopo ventisette mesi di tempesta perfetta o se siamo ancora di fronte all’onda lunga del rally dell’orso iniziato a marzo di quest’anno!

mercoledì 14 ottobre 2009

BofA inizia a vuotare il sacco!

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Sembra stia per concludersi il lungo braccio di ferro che ha visto impegnate Bank of America da un lato e la Securities and Exchange Commission e il Congresso dall’altro, una svolta che non ha ancora il crisma dell’ufficialità, ma che dovrebbe concretizzarsi nel primo invio di documenti riservati sulla discussa acquisizione della tecnicamente fallita Merrill Lynch, una scelta non del tutto spontanea che è già costata entrambe le cariche al povero Lewis, l’un tempo potentissimo Chairman e Chief Executive Officer di BofA.

A quel che è dato sapere, si tratterebbe per ora di materiale non cruciale per capire cosa è accaduto in quelle convulse trattative, ma è evidente che una volta ceduto sul principio della riservatezza, sarà molto difficile per BofA negare i documenti più interessanti che le verranno chiesti, in particolare quelli sui poco meno di 6 miliardi di dollari di bonus ricevuti dai manager di Merrill Lynch nello stesso trimestre in cui la ex banca di investimenti annunciava una perdita di dimensioni colossali.

Come è già avvenuto nel caso della vendita, sarebbe meglio dire svendita, della gallina d’oro nel trading dei futures sul petrolio da parte di Citigroup, anche in questo caso si vede lo zampino del ministro del Tesoro, Timothy Geithner, uno che non ama troppo apparire, ma che tira spesso le fila anche delle iniziative delle altre Authorities.

Mentre sono in stand by le più volte annunciate riforme delle principali regole del gioco vigenti nel mercato finanziario statunitense e in quello globale, è in corso una ridefinizione dei rapporti di forza tra i governi e le banche globali.

Su un altro versante, la Corte Suprema dovrebbe presto decidere sulla legittimità o meno della condanna ricevuta da uno dei top manager della Enron, Jeff Skilling, l’ex CEO che sta scontando una pena di 24 anni per reati commessi quando era alla guida della società fallita.

Giunti a un passo dalla soglia dei 10 mila punti del Dow Jones, riaffiora un clima di incertezza sul mercato azionario statunitense, mentre il dollaro continua a scivolare nei confronti dell’euro e il petrolio si spinge nell’area dei 74 dollari al barile sulle previsioni di aumento della domanda formulate dall’OPEC, anche se, sempre oggi, è stato diffuso un rapporto che rivela che è dal 2005 due anni prima dello scoppio della tempesta perfetta che è in corso la flessione della domanda dei paesi maggiormente sviluppati.

La pubblicazione dei risultati nel terzo trimestre della Johnson & Johnson conferma le difficoltà dal lato della domanda, con una flessione delle vendite del 5 per cento che non viene controbilanciata dal fatto che è riuscita lo stesso ad aumentare i profitti, che comunque sono cresciuti soltanto dell’uno per cento.

Anche in Europa riaffiorano i dubbi sulla ripresa, anche per il calo a sorpresa di un importante indice tedesco, ma soprattutto perché si inizia a capire che il rafforzamento dell’euro è destinato a continuare e questo certamente inciderà, e non poco, sulle esportazioni del vecchio continente, che già stentano con i livelli di cambio attuali, ma che certamente sarebbero messe ancora più duramente alla prova se si tornasse a quei livelli di 1,60 dollari per un euro già toccati nella prima fase della tempesta perfetta.

lunedì 12 ottobre 2009

L'inesorabile declino del biglietto verde! (2)


Il numero di oggi di Affari & Finanza del quotidiano la Repubblica dedica le prime quattro pagine alla crisi prossima ventura del dollaro, un argomento sul quale ho scritto una puntata del Diario della crisi finanziaria apparsa lo scorso 9 settembre che anticipava buona parte dei ragionamenti espressi nei servizi citati e della quale pubblico oggi ampi stralci, anche se, ovviamente, i valori di riferimento sono nel frattempo cambiati.

La novità è l’indiscrezione del quotidiano britannico Indipendent su incontro tra i rappresentanti di Brasile, Cina, India e Russia con i più importanti paesi esportatori di petrolio e la Francia, notizia per ora smentita soltanto dall’Arabia Saudita e il Kuwait, un incontro nel quale si sarebbe discusso della individuazione di un paniere di valute che soppianterebbe in prospettiva il dollaro quale principale mezzo di pagamento e riserva valutaria, anche se, ovviamente, bisognerà vedere quale sarà la vera posizione della Cina che tuttp può volere meno che un crollo verticale della valuta statunitense.

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Era davvero tanto tempo che il dollaro non scivolava nei confronti dell’euro come è accaduto ieri, una flessione che ha reso necessari 1,45 dollari per ottenere un euro e che ha consentito all’oro di passare la barriera dei 1.000 dollari e al petrolio di riportarsi al di sopra dei 70 dollari al barile, tutte variazioni che è difficile non collegare alla recente dichiarazione dei ministri economici e dei banchieri centrali del G20 sulla assoluta inopportunità di invertire la rotta rispetto ai piani di stimolo delle economie dei rispettivi paesi, così come sembra molto di là da venire la politica dei tassi ai minimi storici e le maxi iniezioni di liquidità in favore del sistema bancario.

E’ del tutto evidente l’implicazione di tale decisione, che certamente verrà avallata dal prossimo summit dei capi di Stato e di governo del G20 che si svolgerà negli USA, sul valore esterno della valuta statunitense, un valore che non potrà non essere fortemente influenzato da un deficit pubblico per l’anno fiscale in corso pari o superiore ai 2 mila miliardi di dollari e da un debito pubblico che rischia di superare, in un breve volgere di tempo, lo stesso prodotto interno lordo a stelle e strisce, una spirale micidiale che non potrà non influenzare pesantemente anche il 2010 e il 2011, cosa della quale non possono non tenere conto i detentori esteri di dollari e di titoli denominati in tale valuta che continua a fare la parte del leone nelle riserve valutarie mondiali.
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Certo, siamo ancora lontani dai minimi toccati nella prima fase della tempesta perfetta, quando il per un euro occorrevano 160 dollari e bastavano appena 85 yen per ottenere un dollaro, ma la strada di un declino ulteriore della valuta statunitense appare chiaramente segnata e non è chiaro per quanto tempo continuerà quel sostegno internazionale da parte dei paesi che hanno tutto da perdere da un avvitamento del biglietto verde.

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Come è evidente, davvero poco è cambiato rispetto a più di un mese fa, ma quello che vi è di diverso è che il biglietto verde, sia sotto forma di depositi che di titoli di stato, sembra bruciare sempre più tra le mani dei paesi che ne detengono ingenti quantità e che non vogliono assolutamente rimanere con il cerino acceso in mano!

sabato 10 ottobre 2009

Citigroup costretta a vendere Phibro!


Nel giorno in cui Barack Obama è stato insignito del Nobel per la pace, i mercati stanno vivendo una seconda giornata positiva consecutiva, anche se sia ieri che oggi i guadagni sono tutto sommato modesti, anche perché non vi sono state notizie che confermino l’inizio della ripresa, anzi, quella relativa al deficit commerciale in agosto, ridottosi del 3,5 per cento rispetto al mese precedente, farebbe pensare piuttosto a perduranti difficoltà dal lato della domanda.

D’altra parte, nei giorni scorsi è giunta l’ennesima conferma della riduzione dello stock del consumer credit, calato stavolta di 12 miliardi di dollari, una riduzione che conferma il netto mutamento delle abitudini dei consumatori, ma anche i criteri più restrittivi adottati dalle banche, nonché fenomeni di vero e proprio razionamento del credito.

Gli unici mercati a non fare festa oggi sono quelli del petrolio e dell’oro, complice anche un rafforzamento del dollaro, ma sia l’oro nero che quello giallo si mantengono a livelli molto elevati, in particolare il secondo che viene scambiato a poco meno di 1.050 dollari, anche questo un segnale del clima di incertezza che vivono gli investitori, in particolare quelli più abbienti che hanno visto i loro patrimoni pesantemente colpiti in questi due ultimi anni.

L’approssimarsi della soglia psicologica dei 10 mila punti del Dow Jones rappresenta un test importante del rally iniziato subito dopo che gli indici statunitensi avevano sperimentato livelli davvero infimi, ma quello che è certo è che gli ulteriori progressi necessiteranno di notizie che dimostrino che la lettera che rappresenta questo ciclo è la V e non la U, un’ipotesi rispetto alla quale continuo a nutrire seri dubbi.

Il governo statunitense avrà anche deciso di liberarsi al più presto della sua quota in Citigroup, qualcosa di più di un terzo delle azioni del colosso creditizio statunitense, ma non ha certamente rinunciato a influenzarne le scelte, come si è visto oggi con l’annuncio della vendita di Phibro, la sua divisione specializzata nel trading sul mercato del petrolio e di altre materie prime e una vera e propria gallina dalle uova d’oro anche durante la tempesta perfetta, come è ben dimostrato dall’alquanto insensato rally che portò le quotazioni a toccare i 147 dollari nel luglio del 2008, ma ha guadagnato anche quando una brusca virata li ha portati a 34 dollari pochi mesi dopo.

L’acquirente è una compagnia petrolifera, la Occidental Petroleum Corporation, e ha sicuramente fatto un ottimo affare, in quanto i 250 milioni di dollari pagati rappresentano meno degli utili di un anno di Phibro, 371 milioni di dollari in media negli ultimi cinque anni, ma il problema è che la divisione era diventata una vera e propria patata bollente nei rapporti con l’amministrazione Obama e non solo perché uno dei suoi trader riceve 100 milioni di dollari l’anno, ma perché è abbastanza imbarazzante per il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, impegnato, insieme alle Securities and Exchange Commission e ad altri regolatori, a regolamentare il mercato dei derivati in generale, ma quelli sul petrolio in particolare, essere il primo azionista di una banca che di questo mercato è uno dei primi attori, ovviamente alle spalle della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

Come i più attenti tra i lettori del Diario della crisi finanziaria avranno certamente notato, le puntate sono allineate al giorno di pubblicazione, mentre per lungo tempo il riferimento era agli avvenimenti del giorno precedente, una scelta che implica che raramente vi saranno puntate di sabato, come da tempo non ve ne sono di domenica.

venerdì 9 ottobre 2009

Un terzo trimestre d'oro per Goldman Sachs?


Se qualcuno aveva pensato che la mossa a sorpresa di ieri della banca centrale australiana potesse essere il preludio di decisioni analoghe da parte delle altre banche centrali, oggi è rimasto certamente deluso, in quanto sia la Banca Centrale Europea che la Bank of England non solo hanno lasciato i tassi invariati, ma hanno anche fatto chiaramente capire che non intendono rialzarli ancora per qualche tempo.

Nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla riunione del Board della BCE, Jean Claude Trichet si è unito al coro di quanti ritengono che il peggio sia passato, ma evidentemente questo giudizio non basta per stringere nuovamente quella che Guido Carli soleva chiamare la corda del boia.

Dopo una giornata di incertezza legata all’assenza di indicazioni, il mercato azionario statunitense è oggi di nuovo in territorio positivo per l’utile a sorpresa messo a segno da Alcoa e il sensibile calo delle richieste settimanali di sussidi di disoccupazione, che comunque permangono abbondantemente al di sopra della soglia delle 500 mila unità.

Ma il dato che più ha colpito gli investitori è quello relativo alle vendite delle catene di negozi che, dopo tredici mesi di continue flessione, ha messo a segno un rialzo, seppure di un modesto 0,1 per cento, un dato peraltro largamente influenzato dalla tardiva apertura delle scuole che aveva penalizzato il mese di agosto, mentre non sono poche le catene che ancora segnalano flessioni comprese tra l’1 e il 2 per cento.

Come è alquanto evidente, si continua a navigare un po’ a vista e l’andamento delle prime giornate di contrattazione di ottobre ne è l’eloquente dimostrazione, con quattro sedute negative, due positive, quella di ieri contrastata, un andamento che dimostra quanto sia ancora forte il clima di incertezza per quelle criticità che ho evidenziato nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria.

Sull’intonazione positiva dei listini a stelle e strisce hanno influito anche le previsioni positive degli analisti sulle due ex investment bank ancora autonome e in piena operatività, previsioni che vedono Morgan Stanley interrompere la serie di tre trimestri consecutivi in rosso, anche se con un utile tutt’altro che rilevante, mentre la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs dovrebbe addirittura raddoppiare il già lusinghiero utile dello scorso trimestre, anche se, a differenza di quello che un tempo si diceva per la Ford, non è detto che quello che va bene per Goldman vada bene anche per gli Stati Uniti d’America!

Se le previsioni degli analisti verranno rispettate, le risorse già accantonate per i bonus dei Goldman Boys dovrebbero portarsi a 16 miliardi di dollari, mentre è previsto che superino abbondantemente i 20 miliardi grazie a quanto verrà sottratto all’utile lordo del quarto trimestre, cifre che hanno già acceso un vivace dibattito sull’opportunità di prevedere salari variabili di quest’entità per una banca che non ha solo ricevuto, e di recente restituito, dieci miliardi di dollari dal TARP, ma è stata anche la maggiore beneficiaria del salvataggio di American International Group, la compagnia di assicurazione particolarmente esposta nei Credit Default Swaps e che, non del tutto a caso, non ha fatto la stessa fine di quella Lehman Brothers che di Goldman è sempre stata una delle più agguerrite concorrenti.

giovedì 8 ottobre 2009

La Fed lancia l'allarme sui mutui commerciali!


Credevo proprio di averle viste tutte in questi ventisei mesi di tempesta perfetta, ma oggi ho avuto una dose supplementare di sorpresa apprendendo che un oscuro analista di una Fed regionale, quella di Atlanta per la precisione, ha provato a stimare l’effetto del ritardo con il quale le banche a stelle e strisce fanno emergere le proprie perdite, un’analisi dalla quale emerge che nel comparto dei mutui commerciali si anniderebbe una vera e propria bomba che non è ancora emersa per la particolare natura di buona parte di questi mutui, non a caso definiti intersest-only loans, per la semplice ragione che il debitore, per un periodo determinato, ripaga gli interessi e non la somma ricevuta.

Sorvolando a piedi pari sulle tecnicalità che hanno consentito il non inserimento a bilancio delle perdite relative ai titoli tossici che hanno come sottostante questa categoria di mutui, è interessante che K.C. Konway, tale è il nome dell’analista, ha stimato che le perdite delle banche sui mutui commerciali dovrebbero esplodere letteralmente l’anno prossimo, una previsione da brivido alla luce delle dimensioni di questa parte del mercato del mortgage statunitense, valutabile in poco meno di 7 mila miliardi di dollari.

Non fornisco volutamente la percentuale di default indicata da Konway in quanto ho letto solo il lancio dell’Associated Press e non il rapporto completo, ragione per la quale mi auguro vivamente che quel dato sia frutto di una svista del redattore, ma non è da oggi che circolano stime inquietanti sulle perdite prossime venture legate ai commercial mortgage.

Ho accennato nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria al rapporto della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs che incita ad acquistare azioni delle maggiori banche statunitensi, un buy signal che sorvola a piè pari sulla questione delle difficoltà che le stesse stanno incontrando nel farsi restituire i soldi prestati ai titolari di carte di credito o ai destinatari delle varie forme di credito al consumo, alle imprese di ogni ordine e grado, a coloro che hanno contratto un mutuo residenziale o commerciale e via discorrendo.

Ma, come sto ripetendo da quando è iniziata quest’avventura editoriale, il problema dei crediti problematici non rappresenta che una parte delle preoccupazioni dei banchieri, in quanto su questo già di per sé ingente ammontare è avvenuta una sorta di moltiplicazione dei pani e dei pesci che ha prodotto quella ancora ben poco scalfita montagna di titoli più o meno tossici presente nei bilanci delle principali entità protagoniste del mercato finanziario.

Che le cose non siano semplici lo dimostra la candida dichiarazione di John Thain, un Goldman Boy passato prima alla presidenza del New York Stock Exchange e poi alla guida di Merrill Lynch poco prima dell’acquisizione da parte di Bank of America, che ha ammesso di non avere compreso sino in fondo i rischi cui era esposta l’ex investment bank.

So bene che è difficile credere che un banchiere del suo calibro non abbia avuto la percezione del baratro sul quale oscillava la banca da lui guidata già da qualche mese, eppure credo che quello che è accaduto a Thain sia avvenuto anche a Chairman e Chief Executive Officer di altri colossi creditizi, per la semplice ragione che era davvero difficile anche per le persone al vertice di queste banche universali avere un’idea esatta di quello che stavano combinando gli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle divisioni di Corporate & Investment Banking, temo, anzi, che non la sapessero esattamente neanche questi ultimi!.

martedì 6 ottobre 2009

L'Australia rialza i tassi di interesse!


L’andamento positivo dei mercati azionari è stato favorito, sia ieri che oggi, dal dato superiore alle attese dell’ISM relativo al settore dei servizi in settembre e da un report di Goldman Sachs che suggerisce di acquistare azioni delle grandi banche statunitensi, un’indicazione che ha spinto ieri in deciso rialzo l’intero indice finanziario.

Non credo che nessuno dei lettori del Diario della crisi finanziaria conosca il nome del Governatore della banca centrale australiana, eppure Glenn Stevens rischia di passare alla storia della tempesta perfetta per essere stato il primo banchiere centrale a credere talmente nella ripresa da osare un rialzo dei tassi di interesse, che è esattamente quello che ha fatto oggi portando il tasso ufficiale più in alto di un quarto di punto percentuale, dal 3 al 3,25 per cento.

Non so se Bernspan, Trichet o King, rispettivamente a capo della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e della Bank of England, abbiano in animo di seguire l’esempio del loro collega australiano, anche se credo proprio che continueranno a lasciare i tassi ai livelli minimi cui attualmente si trovano almeno sino alla fine dell’anno in corso.

Devono pensarla così anche gli investitori, perché gli indici europei non sembrano essere stati influenzati dalla notizia di questo primo rialzo dei tassi di interesse e continuano a restare in territorio positivo, in linea con l’andamento di ieri di Wall Street e delle positive chiusure delle borse asiatiche stamane.

Comunque, quello giunto dall’Australia è un segnale importante, anche se è legato a una situazione ben diversa da quella che si registra negli Stati Uniti d’America o in Europa, in particolare sul fronte dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, ferma in Australia al di sotto del 6 per cento, mentre è oramai a un passo dalla soglia psicologica del 10 per cento sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico.

Ma quello che rende davvero diversa la situazione australiana da quella statunitense ed europea è la condizione dei rispettivi mercati finanziari, in quanto le due aree economiche principali del pianeta continuano a essere gravate da una montagna di titoli più o meno tossici e da una marea crescente di crediti problematici, immobilizzazioni estremamente pesanti e che risentirebbero negativamente di un inasprimento dei tassi.

Il nodo più intricato resta quello dello smaltimento dei titoli ancora in carico alle banche e alle altre entità protagoniste del mercato finanziario, anche perché, in perfetta analogia con i ripetuti tentativi fatti dal suo predecessore Paulson, anche il programma messo in campo dal nuovo ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, rischia di produrre risultati estremamente modesti, non essendo riuscito a mobilitare nemmeno un ventesimo della somma inizialmente prevista e che era pari a mille miliardi di dollari.

Le immobilizzazioni in titoli e in crediti problematici sono in larga misura alla base del razionamento dell’offerta di credito a famiglie e imprese, un credit crunch che sta minacciando la ripresa e che mette i banchieri centrali in una condizione di non completa autonomia nella determinazione della politica monetaria.

Draghi mette sull'avviso i banchieri!


Dopo due settimane di dati non proprio entusiasmanti, oggi è stato diffuso l’Index Supply Management relativo al mese di settembre che ha lievemente battuto le attese degli analisti, portandosi a 50.9 rispetto al 50,0 previsto e alla lettura precedente che si fermava a 48,4, il che ha fornito uno spunto rialzista in apertura degli scambi a New York.

Nel frattempo, si è appreso che il Tesoro statunitense ha autorizzato altri tre fondi a partecipare al programma per acquistare titoli tossici, il Public-Private Investment Program, ma i nove fondi privati coinvolte al momento autorizzati, più i quattro in attesa di autorizzazione, e lo stesso ministero guidato da Geithner potranno mettere in campo soltanto 40 miliardi di dollari in luogo dei mille previsti.

Intervenendo ai lavori dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G7 in corso a Istanbul, Mario Draghi, nella sua doppia veste di Governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Board, ha confermato che la situazione si sta stabilizzando anche grazie alla Cina e ad altri paesi asiatici, ma che le prospettive sono quanto mai incerte e che, con ogni probabilità, la ripresa sarà lenta e fragile.

In linea con quanto affermato da altri suoi colleghi, i ritmi prevedibili della ripresa non consentiranno di assorbire la disoccupazione, che dovrebbe continuare a crescere ancora per qualche tempo, una circostanza che peserà certamente sia sul clima delle aspettative, sia sui livelli della domanda effettiva.

Pur valutando il sistema finanziario globale più forte e solido di quanto fosse nel mese di marzo, Draghi ha comunque ammesso che persistono situazioni di difficoltà dovute a pesanti immobilizzazioni nei conti di banche e di altre entità protagoniste del mercato, un riferimento che è riferibile sia ai titoli più o meno tossici della finanza strutturata che ai crediti a vario titolo problematici, immobilizzazioni che includono più o meno metà dei 3.400 miliardi di dollari di perdite che non sono state ancora contabilizzate come perdite, un ritardo che riguarda in particolare le non banche (fondi pensione, fondi di investimento, compagnie di assicurazione ed hedge funds) e le banche europee.

Con grande abilità diplomatica, il Governatore si è smarcato dalle domande dei giornalisti sulle polemiche dichiarazioni del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, nei confronti dei due maggiori gruppi creditizi italiani che hanno di recente reso nota la loro indisponibilità a utilizzare i Tremonti Bonds, dichiarando di avere più volte invitato le banche a farvi ricorso, ma che la valutazione finale sullo strumento più utile per rafforzare il capitale resta di pertinenza degli organismi decisionali delle banche stesse, mentre alla Banca d’Italia spetta il compito di valutare l’adeguatezza o meno dei fondi patrimoniali.

Ma la parte più interessante del discorso di Draghi è quella legata ai timori nutriti dalle banche sulle nuove regole che dovrebbero essere introdotte per evitare il rischio del ripetersi di situazioni come quelle che hanno determinato la tempesta perfetta, timori che ha avuto buon gioco a definire prematuri in quanto le nuove regole, pur essendo state delineate in linea di massima nei quattro documenti presentati dal FSB all’ultimo vertice del G20, sono ancora ben lungi dall’essere state approvate.