mercoledì 30 aprile 2008

Continua il meltdown immobiliare statunitense


La brutta trimestrale di Countrywide, ormai generalmente considerata accasata, a prezzi di vero saldo, con l’acquirente Bank of America, non ha turbato più di tanto i sonni dei suoi azionisti che, a meno di sorprese dalle pubbliche audizioni che la Federal Reserve sta tenendo proprio in questi giorni sull’offerta micragnosa di Bofa e sui suoi effetti sugli assetti concorrenziali del mercato del mortgage, sanno già il prezzo che le loro azioni avranno al termine del laborioso ed un po’ complesso iter autorizzativo.

L’ennesima trimestrale negativa di una delle molteplici entità del settore del credito statunitense è, peraltro, caduta mentre notizie negative provenienti da quel vero e proprio meltdown che è diventato il settore immobiliare USA venivano giù come se piovesse, con il vero e proprio balzo in avanti delle procedure di esproprio delle case che, nel primo trimestre di quest’anno, sono cresciute del 112 per cento rispetto allo stesso periodo del 2007, mentre il prezzo medio delle abitazioni è crollato di poco meno del 13 per cento su base annua, un calo record che fa seguito ad altre cinque variazioni mensili consecutive e che ha riguardato tutte le venti aree metropolitane considerate, con la solitaria e lodevole eccezione della modesta variazione positiva segnalata con riferimento a Charlotte nel North Carolina.

Pur non avendo assolutamente l’intenzione di girare il classico coltello nell’ancora più classica ferita, non posso esimermi dal segnalare che ieri è stato reso noto l’incremento delle case vuote negli Stati Uniti d’America, ormai giunte al 2,8 per cento dell’intero parco abitativo, così come mi vedo costretto a segnalare che gli analisti del settore si dichiarano convinti che siamo ancora lungi dall’avere toccato il fondo del barile.

In mezzo a tante brutte notizie, va segnalato lo sforzo convinto che i manager di Bank of America dichiarano di stare profondendo per venire incontro fattivamente ad un numero considerevole di mutuatari in difficoltà, anche se non si tratta di un gesto del tutto disinteressato, anche alla luce delle cifre esorbitanti necessarie per ottenere un esproprio e le somme decrescenti che si realizzano nelle non proprio affollate aste nelle quali le abitazioni precedentemente pignorate vengono messe all’incanto.

Mentre ci si è ormai abituati al bollettino di guerra proveniente dal sempre più caldo fronte abitativo, non si finisce di restare impressionati dal progressivo sprofondare dell’indice che misura la fiducia dei consumatori, non perché non ne abbiano sufficienti ragioni, ma perché sprofondare ai livelli più bassi degli ultimi cinque anni nel pieno di una incandescente campagna elettorale presidenziale rappresenta, di per sé, un vero e proprio record.

Mentre stanno per ridursi a poco più di sessanta i giorni lasciati alla banche per dire la verità con le buone da Draghi, Paulson & Company (anche se non è molto chiaro cosa accadrà nel caso si ostinino a non farlo), devo riconoscere che una certa impennata nei disvelamenti e nelle sempre più pressanti richieste di denaro fresco al mercato si sta invero registrando sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, segno inequivocabile che nell’ultima cena a porte chiuse riservata ai poco felici banchieri globali qualche anticipazione sul trattamento loro riservato nella seconda fase del piano i banchieri centrali ed i ministri economici del G7 devono pur avergliela detta e, almeno così suppongo, non devono essere state accompagnate da parole affettuose da parte di persone che, dopo tutto, sono spesso dei loro ex colleghi.

Quello che non cessa, invece, di stupirmi è il silenzio veramente assordante proveniente dai vertici dei fondi pensione e dei fondi di investimenti statunitensi ed europei, quelle entità che, almeno secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale diffuse alla vigilia del vertice finanziario del G7, sarebbero chiamate ad assorbire perdite finali ammontanti a poco meno di 700 miliardi di dollari, mentre le banche di ogni ordine e rango dovrebbero cavarsela con qualcosa di meno di 300 miliardi di dollari, soltanto qualche decina di dollari in più di quelli che sono già stati contabilizzati nei bilanci già presentati.

Rinnovo la mia personale soddisfazione per la scarsa diffusione di questi due tipi di investitori istituzionali nel nostro, stavolta per fortuna, arretrato Paese, popolato da risparmiatori dotati di una ragionevole dose di atavica prudenza e che continuano con ostinazione a preferire il lento ma sicuro progredire del loro trattamento di fine rapporto alle lusinghe ed alle sirene provenienti da entità finanziarie non proprio note per le loro performance, prestazioni di medio lungo periodo che definire modeste rappresenta un vero e proprio eufemismo.

Mentre ancora non sono sufficientemente noti gli effetti delle norme contabili statunitensi sui conti economici di banche e finanziarie, anche perché continua a latitare la severa Moody’s che pure aveva solennemente promesso di fare le pulci ai bilanci legalmente taroccati dalla considerazione delle perdite derivanti dalle svalutazioni operate sulla montagna di titoli della finanza strutturata presenti on and off balance sheet delle suddette entità operanti nel gigantesco mercato finanziario statunitense, l’onda dei licenziamenti di dipendenti di ogni ordine e grado inizia a passare l’Oceano, colpendo, almeno per ora, le isole britanniche e la extracomunitaria Confederazione Elvetica ed a lambire i paradisi fiscali già alle prese con i temibili servizi fiscali della Germania di una Angela Merkel che, ogni giorno che passa, sembra sempre più intenzionata ad oscurare la fama dei finora imbattuti esattori marchigiani del Papa Re.

Minori motivi di ansietà circondano, invece, il meeting di domani del Federal Market Open Committee, chiamato a porsi ancora una volta behind the market, elargendo quel quartino di punto sui Fed Funds e sul tasso ufficiale di sconto, che dovrebbero portarsi, rispettivamente, al 2 ed al 2,5 per cento, anche perché le donne e gli uomini chiamati a prendere questa decisione sembrano, con ostinazione degna di miglior causa, non volersi proprio rendere conto del fatto che l’inflazione viaggia ormai da tempo a tassi annui di crescita oscillanti intorno al 4 per cento, mentre non sembra mancare molto al momento nel quale anche la benzina, come già il gasolio, si attesterà al di sopra della soglia psicologica dei 4 dollari al gallone.

Apparentemente dimentico dei dolori e delle sofferenze procurategli dalla stesura del rapporto semifinale del Financial Stability Forum che dovrebbe vedere la ratifica dei sette grandi nel corso del previsto meeting di luglio, così come si mostra imperturbabile rispetto alla soluzione che il Governo prossimo venturo vorrà adottare sul trasferimento delle quote possedute dalle banche nella sua Banca d’Italia, Mario Draghi si sta occupando a tempo pieno degli sviluppi della sistemazione del settore creditizio italiano (vedi, al proposito, le puntate apparse sabato e domenica scorsi), operazione che si intreccia strettamente con la sua opera di accompagnamento del vivace movimento che punta ad un maggior rispetto di quegli azionisti di minoranza che, lo ripeto per i distratti, in non pochi casi rappresentano la larga maggioranza degli azionisti di non poche e certo non secondarie società per azioni.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org

martedì 29 aprile 2008

Il leone di Omaha ed il gatto delle Generali


Dopo due giorni di rimpatriata nel mercato finanziario italiano ancora alle prese con gli effetti dei vari Big One che hanno caratterizzato l’avvio della terza fase del processo di ristrutturazione del settore bancario assicurativo del Belpaese, non posso assolutamente non fare almeno un cenno a quanto di rilevante è accaduto nell’assemblea degli azionisti delle Assicurazioni Generali, una ricorrenza che, dopo decenni di sonnacchioso vivacchiare tra un’alzata di mano ed un'altra, tanto tutto veniva deciso dal vero padrone della compagnia, quell’Enrico Cuccia che, assunto per la sua intelligenza e per le nozze con una delle figlie del fondatore dell’IRI Beneduce dalla Banca Commerciale Italiana, fu molto saggiamente esiliato da Raffaele Mattioli nella merchant bank del gruppo e denominata, con scarso sforzo di fantasia, Mediobanca.

Come ho fatto di frequente, rinvio alla ricerca dell’introvabile libro del bravo Fabio Tamburini sul banchiere italiano giustamente più famoso, anche se in questo fortemente aiutato dall’aver operato in un panorama popolato da nani e da lottizzati politici, quel Un siciliano a Milano, che fece infuriare Cuccia al punto che dei volumi debitamente stampati se ne persero le tracce (tranne, forse, di quelle custodite nella fornita biblioteca della Banca d’Italia) e lo spinse, contrariamente al suo costume a scrivere una risentita ed alquanto avvelenato lettera all’autore che fu, anche per questo, costretto a cambiare editore e testata, per finire a redigere una scarna ma molto interessente colonna settimanale su Il Sole 24 Ore.

Ebbene, nonostante le paginate di articoli sulla sconfitta del giovane hedge funder Davide Serra, che ha se non altro avuto il merito di costringere un bel mucchio di settantenni ed ottantenni (assistiti da agguerriti legali e non, almeno mi auguro, da solerti infermiere) a restare incollati alle loro sedie per nove ore, fino al colpo di teatro della settima ora sulla presunta assenza di requisiti dell’eletto alla presidenza del collegio sindacale in rappresentanza di Assogestioni quale socio di minoranza in luogo del candidato proposto da Algebris, candidato passato anche grazie al decisivo voto del Fondo Pensioni dei dipendenti della nostra banca centrale, un gesto che molti hanno, non so quanto a ragion veduta, interpretato come una pugnalata alla schiena inferta dal più anziano e più importante tra gli amici del trentaseienne mandato da molti allo scoperto ed all’attacco di una compagnia che intrattiene ottimi affari con molti azionisti importanti di Algebris, come ha perfidamente sottolineato l’apparentemente vincitore dell’aspra contesa, il non più giovane ma molto combattivo Antoine Bernhaim, al momento incontrastato presidente del colosso assicurativo, un uomo che non dimentica e che non ha voluto rendere a Serra neppure l’onore delle armi.

Di una sola cosa sono certo, e vorrei che altrettanto lo fossero i miei pochi lettori, ed è che ne vedremo proprio delle belle sia nel settore bancario che in quello assicurativo operanti o basati nell’italico stivale, due settori, spesso intrecciati tra di loro (cosa che sarà ancora più vera in un futuro prossimo venturo) e che, non a caso, vorrebbero fondere le loro due associazioni di rappresentanza, ABI ed ANIA, anche al fine di creare quella che il presidente tedesco di Unicredit Group ha definito, secondo attendibili ricostruzioni del dibattito svoltosi di recente nel comitato esecutivo dell’ABI, una sorta di lobby delle lobbies, un entità che sarebbe caratterizzata, ove mai vedesse la luce, dalla somma del lack reputazionale esistente in ambedue, un’entità che troverà certo un adeguato posto al direttore generale dell’ABI che ha avuto modo di recente di sostenere che, anche in presenza di una legge sulle condizioni previste per la portabilità dei mutui, va lasciato alle banche il tempo di adattarsi alle prescrizioni della stessa, riuscendo con ciò a lasciare senza parole anche una persona di lunga esperienza quale certamente è il presidente dell’Antitrust, Catricalà.

Confesso che dedicare due puntata e un po’ ai bizantinismi del mercato finanziario italiano supera i limiti della mia capacità di sopportazione ed è per questo che annuncio con vero piacere un’altra efficace zampata del Leone di Omaha, Warren Buffett, che di intesa con un colosso dei dolciumi industriali che tanto ha fatto per rendere obesi e precocemente diabetici i bambini e gli adolescenti americani, nonché produttore di quella bomba calorica che è il Mars, ha lanciato una mega offerta di acquisto nei confronti di un’altra importante azienda del settore, operazione che, evidentemente, l’anziano uomo d’affari, noto alle cronache per la sua dieta alimentare non proprio salutistica, reputa più interessante che spingere con l’acceleratore sul suo progetto di ereditare le spoglie delle alquanto disastrate compagnie monoline statunitensi che, al pari della torre di Pisa, continuano ormai da settimane e da mesi a pencolare paurosamente senza, peraltro, mai decidersi a portare i libri in tribunale.

Nel frattempo, continua l’apparente paradosso del persistente clima di sfiducia reciproca esistente tra le banche che fanno il mercato dei tassi interbancari sulle principali valute, anche se voci di dentro iniziano a sostenere che non sono poche le Investment Banks e le banche globali che iniziano a non fidarsi più neppure di sé stesse, con il risultato che, punto base dopo punto base, siamo ormai tornati ad un passo dai massimi toccati dall’euribor nel dicembre del lontanissimo 2007, mentre i libor sulle altre valute continuano a viaggiare con spreads paurosi rispetto ai rispettivi tassi ufficiali di riferimento.

Cresce, intanto, a dismisura la popolarità del neotemplare e germanizzato presidente della Banca Centrale Europea, un uomo che ha resistito sprezzante del pericolo rappresentato dalle aperte minacce del suo conterraneo e sanguigno presidente della repubblica francese, quel Nicolas Sarkozy che ha avuto il merito di definire, forse ispirato dal clima che si respira nella millenaria India, il mercato finanziario globale come un qualcosa che è ormai fuori di testa e che sembra insofferente ai tempi biblici di riforma di quello che, ogni giorno che passa, appare sempre di più un immenso casinò a cielo aperto, un recinto dove imperturbabili dealers e brokers si scambiano scommesse che hanno portato il petrolio a 120 dollari e oltre metà degli abitanti di questo sofferente pianeta letteralmente alla fame.

A proposito di questo veramente drammatico argomento, vorrei suggerire un po’ di cautela agli importanti personaggi che stanno sostenendo l’idea di procedere al razionamento, mediante, ritengo, la distribuzione di tessere annonarie, anche perché si tratta di iniziative che vanno annunciate soltanto a tessere stampate e misure preventive volte a scoraggiare gli odiosi ma prevedibili accaparramenti.

A chi si fosse nel frattempo distratto, vorrei ricordare che non si contano più i paesi in via di sviluppo che hanno imposto forti limitazioni o totali divieti all’export di riso e di altre derrate alimentari, che non si contano le rivolte popolari che sono state alla base di tali drastiche decisioni, mentre non giunge la notizia dell’internamento in efficienti strutture psichiatriche dei leaders mondiali che hanno spinto in modo forsennato quella assurdità politica ed economica che è rappresentata dalla coltivazione di derrate alimentari all’unico scopo di ottenerne combustibili il cui prefisso bio suona veramente come offensivo per l’intelligenza delle donne e degli uomini del pianeta, che certamente ne hanno molta di più di coloro che, più o meno democraticamente, hanno ricevuto il mandato di guidarli.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/

domenica 27 aprile 2008

Correggerà Mario Draghi l'anomalia senese? (2)


L’ipotetica ricostruzione delle varie fasi che potrebbero portare alla costruzione del terzo polo bancario assicurativo italiano proposta nella puntata di ieri voleva essere solo una prima risposta alle tante sollecitazioni che ricevo dai miei lettori che seguono il Diario della crisi finanziaria sul sito della UILCA, che, oltre ad essere quello sul quale è nata questa iniziativa editoriale, è anche l’unico dal quale mi pervengono commenti che ho inibito sul blog per l’assoluta impossibilità che ho, almeno in questa fase, di fornire le risposte ai tanti quesiti che mi sono pervenuti prima che prendessi la decisioni di interrompere questo, peraltro importantissimo e meritevole della massima attenzione, flusso di ritorno rispetto ai ragionamenti che vado proponendo quotidianamente da poco meno di nove mesi.

Più di uno di questi lettori mi rimprovera, infatti, l’eccessiva attenzione a quanto sta avvenendo nel cuore del mercato finanziario globale, un famoso regista americano e autore di una fortunatissima saga avrebbe detto il cuore dell’Impero, e cioè il mercato finanziario statunitense, con, al massimo, qualche fugace puntata sul sempre più importante mercato finanziario europeo, con le sue appendici extracomunitarie (UBS e Credit Suisse) o pervicacemente sfruttanti l’opting out rispetto all’euro strappato all’Unione Europea, quali sono le entità finanziarie britanniche, operanti, peraltro, in un Paese che ha pagato un prezzo altissimo alla tempesta perfetta a causa della assura e del tutto anomala divisione della vigilanza sul mercato creditizio tra due entità, condita dall’insipienza dell’attuale governo di Sua Maestà britannica.

Vorrei rassicurare i lettori che hanno sentito il bisogno di scrivermi e quanti condividono il loro pensiero che non ho mai pensato che il Belpaese sia immune agli effetti derivanti dagli alti marosi della tempesta perfetta, anzi; così come non condivido l’assurda ed antistorica tesi che vedrebbe nella arretratezza del nostro mercato finanziario una sorta di cintura di protezione rispetto a fenomeni quali quelli derivanti dalla finanziarizzazione spinta dell’economia che ci caratterizza, seppure con qualche lag temporale, più o meno come tutti i competitors europei, statunitensi ed asiatici.

Ho non a caso usato l’anzi, in quanto ritengo che l’assenza o la lacunosità delle regole, seppure in un mercato finanziario globale di per sé alquanto deregolamentato, la sempre troppo lunga permanenza in carica di quell’improbabile Governatore che è stato Antonio Fazio, una persona più presa dalle sue rispettabilissime convinzioni religiose che dalla preoccupazione di stimolare un’azione di prevenzione di quanto stava accadendo nel mondo bancario italiano, con particolare riferimento a quei cantieri perennemente aperti che sono stati, e tuttora sono i primi due grandi gruppi creditizi, peraltro ulteriormente cresciuti dopo la fine del suo lunghissimo mandato a seguito di operazioni lampo che la dicono lunga sull’implementazione dei sistemi di controllo sui rischi finanziari e sugli altrettanto importanti rischi reputazionali.

Come ho già avuto modo di ricordare, la terza, e non ultima, fase di concentrazione del processo di ristrutturazione e, soprattutto, di concentrazione in corso nel mercato finanziario italiano è motivata in larga misura dalla reazione al tormentato successo delle due scalate straniere ad Antonveneta ed alla Banca Nazionale del Lavoro, fortemente osteggiate da un Fazio che aveva platealmente smesso i panni di arbitro per indossare la casacca di dodicesimo uomo di una squadra formata da Fiorani, Consorte, Gnutti, Caltagirone (a sua volta contornato da personaggi al limite dell’equivocità e giustamente definiti i furbetti del quartierino), nonché da esponenti di vario livello del mondo della politica che, a mio avviso, avrebbero fatto meglio ad occuparsi di altro.

L’improvviso sussulto di consapevolezza in merito all’evidenza del fatto che i soci stranieri di riferimento presenti in Banca Intesa, nel San Paolo-IMI, in Capitalia (ben due), nonché il giocare in proprio del giovane e brillante Matteo Arpe, sopravvissuto al trappolone ordito dall’anziano e pluri rinviato a giudizio banchiere Cesare Geronzi, attivamente coadiuvato nel tendere la rete da un potentissimo e fino a quel momento imbattuto avvocato d’affari, ha consentito la realizzazione delle due operazioni fulminee che solo i giornalisti embedded non hanno visto per quello che realmente erano: la messa alla porta, e senza troppi riguardi degli importanti soci stranieri sino a quel momento occupanti poco più che degli strapuntini e le inevitabili dimissioni di Arpe (ripeto il consiglio alla lettura della bellissima intervista da lui la rilasciata alla più potente giornalista economica de L’Espresso, dall’eloquente titolo Arpe diem).

Se unite l’approssimazione estrema vissuta dalle singole componenti che hanno dato vita ai due maggiori gruppi bancari italiani nel realizzare le loro rispettive corazzate operanti nel rutilante mondo della finanza, gestite da squadre di manager casalinghi spesso cresciuti in ambiti operativi diversi e posti in un colpo a capo di squadre agguerrite di dealers, traders, apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto di CIB delle più disparate banche estere, manager a cui è stato necessario spiegare quale era il ruolo di un Chief Financial Officer, di un Chief Operating Officer (ove, mi auguro vivamente, previsto), del di per sé complesso ruolo che andavano loro stessi ad assumere di Capo delle molteplicied alquanto complesse attività di Corporate & Investment Banking, ma, e in questo caso davvero soprattutto, della necessaria ed impenetrabile separatezza che doveva dividere l’attività operativa da quella dei controlli di ogni ordine e specie, al pari della totale indipendenza ed autonomia che doveva caratterizzare le funzione di Compliance, ebbene, se prendete in esame tutto questo, avrete un’idea molto pallida del disastro potenziale prossimo venturo.

Tutto questo è ulteriormente aggravato dalla guerra per banche scoppiata a seguito delle difficoltà in cui è incorso il gruppo guidato da Alessandro Profumo a seguito delle iniziative prese da una Consob subissata di denuncie e segnalazioni di numerosi clienti di Unicredit, che sostenevano, a torto o a ragione, che la banca, nel montare (e spesso rimontare più volte) le operazioni loro destinate, li avesse danneggiati, tesi analoga a quella sostenuta da una parte degli enti locali che puntavano il dito su un nutrito numero di banche italiane e straniere che avevano offerto e venduto loro prodotti che avrebbero richiesto che gli enti locali interessati disponessero di personale in grado di valutare le implicazioni presenti e future dei prodotti offerti dagli abili e preparati venditori.

Il dispositivo della Consob di questa estate, oltre a comminare pesanti sanzioni a Profumo e decine di altri manager di vario livello del gruppo, ha anche emesso un dispositivo impietoso e che ha dato la stura alle fortunate trasmissioni che Report ha dedicato all’argomento, è stato acquisito agli atti dal magistrato Francesco Greco, forse il maggiore esperto di reati finanziari della Procura di Milano (e non solo), ha spinto il giovane preparato Governatore della Banca d’Italia a sparare una raffica mirata di ispezioni (quattro, solo una, quella nei confronti della BNL, giunta a compimento e, pare, con una assoluzione condita da un giudizio comparativo che ha allarmato non poco i vertici delle restanti tre), ma ha sortito anche l’effetto di accentuare il solco che separa da tempo i due ex golden boys della finanza italiana, il già citato Profumo e Corrado Passera, due che ormai in comune hanno solo la notevole altezza ed il comune trascorso nell’alquanto decaduta McKinsey.

A differenza di ieri, in questo caso ogni riferimento a fatti o persone è puramente voluto.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/

sabato 26 aprile 2008

Correggerà Mario Draghi l'anomalia senese?


Non ho avuto modo di sentire un legale prima di proporre ai lettori una ricostruzione, basata peraltro esclusivamente su un ragionamento logico ed alcune notizie provenienti dalla cronaca economica e finanziaria, ma credo proprio che, pur trattando di società quotate, sia ancora legittimo uno sforzo di logica e di immaginazione in merito alle prospettive del processo di ristrutturazione e concentrazione in corso da quasi quindici anni nel settore creditizio italiano, un processo entrato da qualche tempo nella sua terza e non conclusiva fase.

Come è a tutti noto, esistono in questo Paese due grandi anomalie nel settore del credito, la prima riguarda il settore delle banche popolari, con particolare riferimento all’alquanto anomala governance della Banca Popolare di Milano, dominata da una componente dei soci, i dipendenti più o meno associati a sigle sindacali, e, come si usa dire in gergo giudiziario, fortemente attenzionata dal giovane ed esperto Governatore della Banca d’Italia che ha disposto un’apposita ispezione sulla banca di piazzeta Meda, peraltro raddoppiata nell’organico proprio mentre un caro amico di Draghi, Davide Croff, in movimento apparentemente coincidente con l’attuale presidente Mazzotta, supportato a sua volta da tre delle sigle sindacali presenti, e con il trentaseienne Davide Serra, numero uno dell’ormai famosa Algebris, che, ad onta della giovane età, è, a sua volta, molto amico dei sessantaduenni Draghi e Croff.

Di ben più complessa soluzione, si presenta, tuttavia, la seconda anomalia che viene a coincidere con il dominio assoluto che la Fondazione Monte dei Paschi di Siena mantiene, con il 58,5 per cento delle azioni (di cui il 10 per cento sterilizzate per decisione autonoma dell’ente), sull’omonimo gruppo, che pochi mesi orsono ha conquistato a carissimo prezzo la Banca Antonveneta, orfana, peraltro, della partecipata Interbanca la cui vendita frutterà un altro miliardo di euro tondo a quegli abili speculatori del Banco Santander, un acquisto che non risolve, tuttavia, l’ulteriore anomalia di una grande banca che continua a non avere un respiro nazionale, pur disponendo di insediamenti regionali caratterizzati da un capillare radicamento.

L’attaccamento veramente forsennato della Fondazione senese alle cose bancarie ha resistito sinora a tutti i tentativi dei governi e degli inquilini pro tempore dell’istituto di Via Nazionale volti a riportare, anche via disposizioni di legge, la quota di proprietà del gruppo bancaria a dimensioni pari ad almeno la metà di quelle attuali, ma le sponde politiche di cui dispone Rocca Salimbeni sono sempre riuscite a vanificare ogni sforzo volto a ricondurre a più miti consigli gli alquanto rissosi contradaioli della ricca ma piccola città toscana.

Nelle more dell’autorizzazione all’acquisto di Antonveneta, pervenuta poi in zona Cesarini ma mentre si attende ancora la ben più importante autorizzazione alla partecipazione pro quota della Fondazione all’aumento di capitale previsto, le fervide menti della ristrutturanda sede centrale della Banca d’Italia non hanno certo potuto sottrarsi agli input provenienti dal piano nobile dell’istituto e mirati ad ottenere l’elaborazione di scenari volti a ridimensionare l’anomalia, offrendo in cambio almeno una proposta che potesse allettare chi aveva, in tempi passati, rifiutato sdegnosamente qualsiasi ipotesi di accasamento a livello sia nazionale che internazionale.

Ma, d’intesa con una parte rilevante del mondo delle cooperative facenti capo alla Lega, il giovane avvocato Mussari, di origini calabresi ma accasato felicemente ai piani nobili della società senese, ha avuto l’ardire di mettere dichiaratamente i bastoni tra le ruote del progetto, che a quel momento appariva vincente, di Consorte, Gnutti, Fiorani e dei furbetti del quartierino, con particolare riferimento alla tentata e temporaneamente riuscita scalata da parte di Unipol della Banca Nazionale del Lavoro, una banca di respiro nazionale più volte offerta da Antonio Fazio, e su un piatto di argento, proprio allo stesso Monte dei Paschi.

Come spesso accade, le occasioni nella vita si presentano due, forse anche tre, volte, ed ecco che, complice anche una manifesta disaffezione del gruppo straniero che aveva provveduto a sistemare in extremis la frittata fatta da Consorte e soci ed aveva acquistato, senza la dovuta e forse opportuna due diligence, la banca romana con sede legale in Via Veneto, proprio a due passi dalla sede dell’ambasciata americana, al lestissimo Draghi si è presentata una possibile soluzione che, però, passava attraverso un certo numero di passaggi dall’esito tutt’altro che certo e che richiedevano, quindi, il dipiegarsi di tutta l’abilità diplomatica e di banchiere d’affari di cui il nostro è dotato al di fuori di ogni ragionevole dubbio, come ha dimostrato nella sua brillante performance di privatizzatore di larga parte dell’industria e della finanza pubbliche italiane e, poi, nella sua breve ma intensa esperienza al vertice europeo di Goldman Sachs, ma con presenza anche nel comitato esecutivo della casa madre (vedi, al proposito, la puntata di ieri).

Pur rammentando che si tratta solo di una ricostruzione logica e deduttiva, credo proprio che la soluzione individuata per dare vita al terzo polo della finanza italiana, distante ma non troppo dai primi due gruppi bancari del nostro Paese, richiedesse un necessario abboccamento con il suo omologo francese, quel Noyer molto noto in questi giorni per una gaffe che portato l’euro di un balzo oltre la soglia degli 1,60 dollari, incontro che è avvenuto un martedì di qualche settimana fa e che ha preceduto di soli tre giorni la secca e molto tardiva smentita proveniente in contemporanea dai vertici di BNP Paribas da Parigi e di quelli della BNL da Roma, una smentita che seguiva di quasi un mese il primo di una lunga serie di articoli molto dettagliati sulla intenzione nutrita dai francesi di operare un disimpegno parziale o totale dalla recente e costosa conquista effettuata da meno di due anni nel nostro paese.

Credo proprio che non sapremo mai cosa si sono detti Draghi e Noyer, ammesso che fossero da soli, nelle due ore di colloquio, almeno così narrano le cronache, che hanno avuto nello studio del governatore francese, ma sta di certo che, a partire da quel momento, tutto è cambiato ed era possibile passare alla seconda e molto più delicata fase del piano, quella che prevedeva un sondaggio dell’interesse senese a far parte di una combinazione transnazionale che avrebbe permesso al Monte dei Paschi di diventare il pivot delle attività bancarie in Italia, incardinate sul respiro nazionale della presenza BNL, mentre il socio straniero avrebbe offerto una prospettiva internazionale, nonché, con ogni probabilità, avrebbe offerto la propria expertise nell’ambito delle attività di Corporate & Investment Banking, il tutto in cambio di una notevole diluizione della quota della Fondazione nel gruppo risultante, diluizione prealtro garantita da un ferreo patto di sindacato.

L’ultimo tassello di questa ricostruzione, che, lo ripeto è solo di carattere logico e deduttivo, passerebbe per l’acquisizione, sempre da parte senese, di quella Unipol dalla quale il Monte dei Paschi si è da poco completamente distaccato, favorendo un’allocazione del gruppo bancario assicurativo nell’ambito di un grande gruppo creditizio transnazionale che potrebbe essere anche ben visto da quel comitato strategico di nove saggi che è il vero ispiratore delle scelte della Lega delle Cooperative, consentendo al contempo di voltare definitivamente pagina rispetto alle recenti disavventure che tanto sono costate al movimento sul piano reputazionale e non solo su quello.

Come si dice nei titoli di coda dei film, ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/

venerdì 25 aprile 2008

Ma cosa è veramente Goldman Sachs?


Non so proprio se l’attuale numero uno di Merrill Lynch, John Thain, prenderà il posto di Henry Paulson come responsabile dello strategico dicastero del Tesoro degli Stati Uniti d’America nel caso che Mc Cain, per il quale svolge la funzione di responsabile del comitato finanziario elettorale, anche perché ho molti dubbi che il candidato repubblicano abbia serie chance di successo, pur favorito in un modo che è ai limiti dell’incredibile dalla lotta fratricida in corso in campo democratico, con Hillary Clinton che pervicacemente si ostina a non riconoscere nella novità rappresentata da Obama l’unica possibilità per il comune partito di prevalere nella gara per le presidenziali.

Quello che è certo è che una simile eventualità porterebbe per la seconda volta al tesoro un uomo che ha avuto in precedenza le mani in pasta in una Investment Bank, ossia in una realtà che da tempo definisco una CIB delle CIB, ossia una realtà che ha, almeno al quadrato, tutti i vizi e tutte le virtù della finanziarizzazione spinta di ogni aspetto della realtà economica, un’eventualità che presenta, inoltre, un’ulteriore curiosa coincidenza, in quanto anche se non con l’anzianità di servizio e la stessa preminenza del ruolo, anche Thain, come Paulson, nasce in Goldman Sachs, come, sempre in Goldman Sachs, ha per lunghissimo tempo operato un altro ministro del Tesoro, quel Robert Rubin che Bill Clinton volle fortemente alla guida di quel dicastero e che ora si gode la sua remuneratissima sinecura presso il travagliatissimo Citigroup.

Già in una puntata precedente del Diario mi ero chiesto quello che tanti si chiedono da lunga pezza: ma cosa è in realtà questa Goldman Sachs? E’ una domanda tutt’altro che peregrina e che non trova risposta alcuna in una visita all’asetticissimo sito web ufficiale della casa di investimenti, un sito ermetico che più ermetico non si può e che riesce a non dire nulla che non sia passato al vaglio dello stuolo di avvocati partner che sono probabilmente in numero pari a quelli che si occupano, a vario titolo, dei tanti e multiformi affari multinazionali della Ditta.

Il poco che si riesce a sapere di Goldman sono certamente più gli effetti che le insondabili cause, al massimo qualche aspetto di colore come i cento colloqui cui si sottopongono le donne e gli uomini che aspirano a entrare nella Ditta, un calvario a cui sono stati sottratti solo personaggi come Mario Draghi o quanti sono stati premier o ministri dello sterminato numero di paesi ove, con marginali differenze numeriche rispetto all’ONU, Goldman opera, così come, attraverso la dorata porta girevole della sede centrale, altre donne ed altri uomini formatisi alle dure ma altrettanto dorate regole della prestigiosa casa ne escono per assurgere a dicasteri, governatorati di banche centrali, due almeno al momento, o incarichi al vertice di altre Investment Banks o banche più o meno globali.

Vorrei rassicurare il funzionario del Dipartimento di Stato americano che ha visitato con una certa assiduità il primo sito che ha ospitato il Diario della crisi finanziaria suk fatto che non sono assolutamente a conoscenza dei segreti della Ditta, a meno che non sia considerato tale il gossip riportato da alcuni quotidiani e che rivela che tra le tante prestazioni gratuite offerta dalla assistenza sanitaria garantita ai partner vi è anche la possibilità di cambiare sesso, una novità rispetto alla probabile ma assolutamente non accertata opportunità di assumere anche, ove sia necessario, una nuova e diversa identità, cosa obbligatoria, peraltro, se si ricorre all’operazione che rende possibile il citato cambiamento di sesso.

Anche i conflitti di interesse o l’insider trading, applicati ad un’entità così variegata e multiforme, nonché così mutevole, sfumano invariabilmente in un qualcosa di indistinto ed inafferrabile, quasi come il voler considerare estremi di reato le conversazioni che avvengono sul green di confortevoli campi di golf ospitati da esclusivi club, le cui costosissime rette sono giustamente detratte dalle denuncie dei redditi dei soci quali spese di rappresentanza veramente necessarie, se non indispensabili, per gli affari delle fortunate donne e gli altrettanto baciati dalla fortuna uomini che li frequentano non da imbucati o da caddies.

Capisco l’insofferenza degli abitanti dell’Olimpo del mercato finanziario globale per le inopportune vocine di quanti hanno la temerarietà di sostenere che buona parte dei protagonisti del processo di riforma delle istituzioni che hanno il compito di vigilare sui diversi soggetti che operano, spesso in modo alquanto disinvolto, sul suddetto mercato, così come sull’individuazione delle nuove regole del gioco, non godono del necessario grado di terzietà, proprio a causa della più o meno lunga militanza ai vertici delle stesse entità che dovrebbero essere vigilate o riformate, giungendo all’ardire di porre l’altrettanto inopportuno paragone che vede una riforma del diritto e/o della procedura penale affidato a qualificati esponenti della Cosa Nostra.

Pur non volendo allinearmi a queste tesi “estremistiche”, ritengo opportuno dire che trovo intollerabile lo sforzo che è stato richiesto ad Henry Paulson, Mario Draghi, Jean Paul Trichet ed ai tanti esponenti delle banche centrali o responsabili dei dicasteri economici dei paesi del G7 nel dover fingere di fare la voce grossa e la faccia feroce nei confronti dei tanti ex colleghi costretti da loro a sorbirsi le loro reprimende nel corso, almeno a quanto dicono i maligni, di una pessima cena, che aveva il solo pregio di essere a spese del contribuente, al pari delle spoglie dell’orso di Stearns graziosamente regalate dalla Federal Reserve ai nipotini di Pier Point Morgan e di Nelson Rockfeller.

E poi c’è qualcuno che si stupisce che si fa e si pensa ormai di tutto, fatta eccezione del passare dalle parole ai fatti nel tante volte proclamato mantra della ferma volontà di governi e banche centrali di punire con estrema severità il moral hazard da chiunque compiuto, mentre tutte, ma proprio tutte, le azioni di gigantesche dimensioni ma dai pressoché nulli effetti compiuti da banche centrali e governi sono state finalizzate, usando una semplificazione estrema, al salvataggio delle entità dissestate e al contrasto del libero e prevedibile agire delle forze del mercato in reazione alle vere cause della tempesta perfetta, cause che hanno proprio a che vedere con quell’azzardo morale assurto a sistema che ha caratterizzato l’agire concreto dei vertici delle Investment Banks e delle CIB delle banche più o meno globali.

Non ho mai creduto nella neutralità dei media, tanto meno quando si occupano professionalmente od occasionalmente delle vicende economiche, non fosse altro che per la semplice ragione che gli editori, fatte salve poche e lodevoli eccezioni, sono nelle mani di conglomerati economici con interessi in tutti i settori e con scarsa propensione all’autolesionismo e con ancora minore tolleranza verso gli eccessi di zelo o le pruderie deontologiche di qualche inguaribile redattore con romantiche pulsioni idealistiche, ma credo proprio che, dopo la guerra in Irak, quello che stiamo vedendo in questi mesi è il più grande processo di mistificazione della realtà, un proliferare di fumogeni che passa spesso attraverso una una rappresentazione della stessa che mette insieme reportage dettagliatissimi sugli effetti e nessuno sforzo di analisi sulle cause, un gioco degno di miglior causa ma che credo proprio che stavolta non avrà il successo sperato dai suoi registi.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org

giovedì 24 aprile 2008

Il giorno più lungo delle compagnie monoline


Dopo aver affrontato ieri le inquietudine e le vicessitudini del consumatore medio americano, è proprio difficile parlare per gli abitanti di quella grande nazione di risparmiatori, mi vedo costretto a tornare nell’empireo della grande finanza, anche perché sono sospinto verso di esso dai disastrosi dati di una delle due grandi, almeno un tempo, compagnie di assicurazione monoline, quella Ambac che ha già provato l’onta del downgrade da parte della Fitch il 18 gennaio di quest’anno e che è sotto la costante, anche se non gradita, attenzione da parte delle altre due agenzie di rating, Moody’s e Standard & Poor’s, che credo proprio saranno costrette a rompere gli indugi e a degradare sul campo la sciagurata compagnia che disse sì pochissimi anni orsono alle sirene delle Investment Banks e delle CIB delle banche più o meno globali, impegnandosi in compagnia della monoliner numero uno, MBIA, nelle garanzie delle emissioni di quei titoli della finanza strutturata che nessuno più, fatta eccezione per quegli spazzini del mercato rappresentati da Bernspan, Trichet, King e compagnia cantante.

D’altra parte non stupisce proprio nessun la perdita di 1,6 miliardi di dollari registrata da Ambac nel primo trimestre di questo anno bisesto (anno funesto?) che il 2008, un dato che si raffronta ad un primo trimestre del 2006, those were the days, my friend, nel quale la ormai decotta compagnia riusciva a chiudere i conti segnando un utile di 213 milioni di dollari, un risultato più che ragguardevole per un’entità delle sue dimensione e che assicura, insieme a MBIA, emissioni di titoli di ogni specie e natura per oltre mille miliardi di dollari.

Mentre si avverte sempre più vicino il battere delle ali del leone di Omaha, Warren Buffett, che ha assunto ormai da tempo le sembianze dell’avvoltoio e che ha, ovviamente, deciso di aspettare fino al momento in cui le agenzie di rating, leste nell’affondare la lama nel cadavere almeno come sono lente nel diagnosticare i primi sintomi di malattia dei pazienti paganti, decideranno di portare, come hanno già fatto da tempo per le consorelle di minori dimensioni di Ambac e MBIA, d’un colpo solo lo stellare rating al livello dei tanto vituperati junk bonds, sempre che, prese dalla disperazione, non accettino in estremis la proposta non del tutto disinteressata dello squalo miliardario Ross che propone loro di slittare la parte che contiene le garanzie sulla montagna di titoli della finanza strutturata, garanzie che, purtroppo, valgono ormai meno della carta sulla quale le stesse sono stampate.

Se qualcuno continua a stupirsi del fatto che mentre tutto ciò sta accadendo, ben testimoniato da una perdita dell’azione di Ambac che prima di iniziare a scrivere avevo letto essere del 38 per cento circa inferiore a quella del giorno prima ed in valori assoluti ormai al di sotto dei 4 dollari (ne valeva 96 meno di un anno fa), i tre principali listini di new York continuano ad ostinarsi a restare in territorio moderatamente positivo, vuol dire proprio che è alla sua prima visita a questo Diario della crisi finanziaria, che penso proprio sia giunto il momento di rititolare nel ben più appropriato Diario della tempesta perfetta.

Gli operatori e gli analisti operanti all’ombra del Wall, d’altro canto, continuano a capare le notizie più confortanti, quali i buoni risultati di una Boeing che sembra non essere influenzata da quel vero e proprio disastro in atto per le compagnie, come è il caso delle due che si sono appena unite per sommare, assieme, una perdita trimestrale di appena 10 miliardi di dollari, letteralmente affondate da un caro greggio che testa con sempre maggiore convinzione la soglia psicologica posta al livello di 120 dollari al barile, in una rincorsa senza fine tra la progressiva liquefazione del dollaro e i rialzi senza fine del Brent o WTI, una rincorsa senza fine che sembra dare maggior credito alle orignali tesi del preidente iraniano che, lo ricordo per chi si fosse sintonizzato solo ora, è diventato il nemico pubblico numero uno degli Stati uniti d’America più per la proposta di creare la prima borsa petrolifera con standard espressi in euro che per quella bagattella delle aspirazioni nutrite nei confronti di un progetto atomico militare che ha, almeno al momento, la stessa credibilità delle provette agitate in pieno Consiglio di Sicurezza dell’ONU dal generalissimo Colin Powell, allo scopo di ottenere l’assenso dei riottosi membri di quel nobile consesso alla guerra decretata da Bush Junior contro Saddam Hussein, consenso che come è a tutti noto non riuscì ad ottenere a dispetto della brillante rappresentazione.

Fa sempre piacere vedere quanto siano ascoltati dai mercati i severi moniti delle banche centrali, in particolare quelli sui tassi interbancari e sulle valute, in quanto i tassi non scendono di un lenticchia, anzi salgono ogni giorno che passa e sono ormai in vista dei massimi di dicembre e, comunque sempre molto al di sopra di quei tassi ufficiali che sembrano ormai rispettati meno dei divieti di sosta, mentre la poco felice uscita del Governatore della Banca di Francia sulla possibilità di rialzare i tassi di riferimento, uscita non solo poco felice ma gravida di rischi vista la poca distanza della sede della banca centrale dalla residenza del bellicosissimo presidente della repubblica francese, che, dopo aver minacciato di passare alle vie di fatto nei confronti del conterraneo presidente della BCE, non ci penserebbe due volte a disporre l’arresto di Noyer, per flagrante stupidità e manifesta incompetenza nel vigilare le tre principali banche francesi che, in un’operazione verità, stanno facendo filtrare la notizia di essere afflitte da perdite complessive legate ai titoli della finanza strutturata per la bella cifra di 28 miliardi di euro, di cui 18 solo con riferimento ala verdissima Credit Agricole.

Così va il mondo e, come sosteneva Matteo Pantaleoni, non c’è proprio modo di scendere, né di difendersi da questo consesso di decision makers a tutti i livelli che ormai da tempo sono d’accordo su una sola cosa che consiste nell’affermazione più sentita in questi mesi: non sappiamo quanto sia grave il problema, così come non sappiamo assolutamente dove siano collocate le montagne di titoli della finanza strutturata, ma, comunque, non vi è assolutamente motivo di preoccuparsi, il che, almeno alla luce delle due affermazioni precedenti sembra mancare alquanto di alcuna forma di senso logico.

In tutto ciò, prosegue, quasi all over the world, la più sanguinosa guerra per banche che si sia mai vista dalla fine del secondo conflitto mondiale, spesso combattuta a suon di dossier volti a danneggiare il nemico, dossier che spesso otengono il solo risultato di compromettere ulteriormente, ove questo sia possibile visto l’infimo livello ormai raggiunto, quel che resta della credibilità di tutti, come sempre accade quando si abbandona il gioco cooperativa per dedicarsi al to beggar my neighbour.

Dimenticavo che, grazie alla gaffe di Noyer e all’andare contro vento delle banche centrali, l’euro sta testando con sempre maggiore convinzione la soglia degli 1,60 dollari, mentre lo yen si prepara a tornare tra non molto al livello di 100 per dollaro.

Ricordo che mentre il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org

mercoledì 23 aprile 2008

I dolori del povero consumatore americano


Dopo aver volteggiato tanto a lungo tra gli empirei della finanza, curiosando a fondo nei bastimenti delle Investment Banks e nei vascelli corsari delle divisioni Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, cercando di districarsi tra le navi di varia dimensione tristemente affondate dagli alti marosi della tempesta perfetta o tenute altrettanto tristemente a galla dai salvagenti lanciati dalle indefesse banche centrali, credo proprio che sia il caso di volgere lo sguardo alla situazione non proprio felice in cui versa il cittadino medio statunitense, vera e propria macchina da consumi che sembra, ogni giorno che passa, in piena ed alquanto coatta crisi di astinenza da acquisti.

Provate voi, nel breve volgere di poco meno di nove mesi, a passare da un mondo dorato, nel quale la casa indipendente comprata allegramente, spesso a seguito delle sollecitazioni pressanti di un procacciatore di mutui abile a spiegarti che ti finanzierà il 100 per cento e più del prezzo di acquisto, che pagherai un mutuo che per i primi anni ti peserà meno dell’affitto che pagavi prima di compiere il grande passo, che alla rata successivamente crescente farà fronte il valore accresciuto dell’immobile che hai acquistato, cosa che peraltro continua ad accadere da lunghissimo tempo e così via.

Incurante delle preoccupazione della moglie/marito ansioso che vorrebbe che, come già fecero i suoi genitori, il finanziamento venisse regolato in regime di tasso fisso, con rata possibilmente costante per trenta anni o più, in modo da regolare il flusso di tesoreria dell’azienda famiglia, poco interessata/o al maggior onere del servizio del debito rispetto a quello offerto dal seducente procacciatore, pronto a spiegarti quante cose in più al mese potrai fare grazie ai risparmi mensili legati alla sua offerta.

Ebbene, quel procacciatore molto probabilmente oggi è a spasso, la finanziaria per la quale lavorava si è sottoposta alle tutele offerte dall’ancora comoda legge fallimentare statunitense, la banca che aveva acquistato il mutuo dalla finanziaria dietro garanzia di riacquisto se il delinquency rate avesse superato una certa, molto bassa, soglia, non sa più a che santo votarsi, mentre, nel frattempo, il valore della casa scende ininterrottamente da sedici o più mesi, solo ieri del 7,7 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre aumenta inesorabilmente lo stock di case esistenti invendute e, specularmene, aumenta il numero di mesi (attualmente intorno ai dieci) necessari per smaltire integralmente lo stock.

Ormai, il valore della casa è inferiore a quello che dovresti restituire alla banca in caso di alienazione dell’immobile, di rifinanziamento neanche a parlarne e, se il governo e il Congresso non si danno una mossa, stati per giungere alla fatidica data del brusco innalzamento della rata, spesso al di sopra del tuo pur rispettabile stipendio mensile, sempre che, a causa dei vorticosi processi di downsizing, tu o tua moglie, o entrambi non abbiate perso il lavoro o i titoli nei quali avevate investito quasi fossero una polizza di assicurazione non siano evaporati in poche sedute come neve al sole.

Nel frattempo, la benzina che alimenta la tua autovettura dai consumi spaventosi ha raggiunto la soglia psicologica dei 3,5 dollari al gallone, sospinta dal petrolio che si sospinge anche al di sopra dei 117 dollari al barile, mentre, se hai fatto l’errore di comprare un diesel, più o meno turbo, il prezzo alla pompa, sempre espresso in galloni, è balzato anche al di sopra dei 4 dollari, che varrano pure sempre meno euro o yen, ma sempre dollari sono e il tuo stipendio, se ancora lo hai, sempre in dollari è espresso

Hai un bel tagliare le tue carte di credito, spesso appena prima che te le tagli il solerte commesso del drugstore o del mall nel quale hai avuto l’ardire di fare uno zip zip di troppo, di sostituire l’auto con una spartana bicicletta, mezzo di locomozione che al massimo era chic ai tempi della prima o della seconda crisi petrolifera degli orridi anni Settanta, di rinunciare al ristorante, ad ogni tipo di acquisto voluttuario, mentre ti stai già adattando all’idea che le prossime vacanze le passerai nel soggiorno viaggiando tra le foto seducenti del depliant di un’agenzia di viaggi, forse anche essa destinata a chiudere in fretta e furia i battenti.

Né basta riscoprire la comodità di quei jeans che da tanto tempo avevi buttato in un cesto per sostituirli con abiti griffati pagati con la carta revolving, così come a rate avevi acquistato l’auto, il SUV o il truck fiammante, così come comode rate risolvevano il problema della scuola privata, delle vacanze e dei week end romantici, tutte azioni che, forse proprio non lo sapevi, venivano, al pari del mutuo, del finanziamento per avviare l’attività in proprio o i mille altri gesti della vita quotidiana, impacchettati insieme ad altre posizioni debitorie della stessa o di altra specie in titoli prosaicamente definiti salsiccia finiti chissà dove nel mondo, spesso servendo da base per altri titoli molto più sofisticati alla cui realizzazione avevano lavorato figure specialistiche, volgarmente definite gli apprendisti stregoni operanti nei meandri delle banche di investimento o nelle più o meno sofisticate fabbriche prodotto delle banche più o meno globali.

E’ dai primi di settembre del 2007 che mi sgolo a dire che il problema non è dato dalla relativamente recente invenzione dei mutui subprime o dei micidiali e preesistenti ARM A, non fosse altro che per il semplice motivo che un ammontare che allora non superava i 650 miliardi di dollari non è che una goccia che, pur essendo perfettamente in grado di far traboccare il classico vaso, non sarebbe certamente in grado di farlo se lo stesso vaso non fosse già colmo per multipli dei mutui, peraltro in larga parte del tutto in bonis, accesi dagli imprevidenti cittadini statunitensi che non sembravano preoccuparsi, né sembravano esserlo le entità creditizie concedenti, di godere di un rating creditizio modesto ove non nullo.

Non posso non immaginare la faccia sconsolata del potente Chief Executive Officer di Bank of America, la seconda banca commerciale statunitense, un uomo che era proprio sicuro di essere in grado di fare il surf sulle alte onde della tempesta perfetta, al punto di esibirsi nel magnanimo gesto di soccorrere e traghettare verso la salvezza la tecnicamente fallita Countrywide del pessimo Angelo Mozilo, un’entità che nel volgere di pochi decenni era diventata l’incontrastata regina del mortgage all’amatriciana, un uomo cui la vita ha veramente dato tutto e che non riesce a capacitarsi che una somma di atti individuali, amplificati all’infinito dalla catena di sant’Antonio della finanza strutturata potesse portare la sua e le altre banche ovunque basate di fronte allo spettro più temuto da un banchiere, una crisi pressoché assoluta di liquidità.

Che oggi i mercati azionari di tutto il mondo siano più o meno tutti in rosso, è di per sé di scarso significato, in quanto il vero allarme rosso continua a provenire dai mercati interbancari di tutto il mondo, quei mercati dove la sfiducia reciproca continua a regnare incontrastata, anche perché, come dicevo per i poveri mutuatari subprime, anche le ampie discariche delle banche centrali non contengono neanche un quarantesimo dello stock di titoli della finanza strutturata.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org

martedì 22 aprile 2008

Anche la Bank of England apre per le banche la sua mega discarica per i titoli della finanza strutturata


Non si può non concordare con le parole del Chief Executive Officer di Bank of America, la seconda banca commerciale statunitense che si è assunta il gravoso incarico di traghettare verso la salvezza la disastrata Countrywide, che, di fronte ai pessimi dati realtivi al primo trimestre 2008 della sua banca ha affermato che gli stessi “chiaramente non sono all’altezza delle nostre aspettative”.

Come dargli torto, alla luce di un vero e proprio crollo degli utili, calati del 77 per cento rispetto a quelli registrati nello stesso periodo del 2007 !,21 miliardi di dollari contro i 5,26 del primo trimestre dell’anno scorso), mentre anche i ricavi, a causa delle ingenti svalutazioni effettuate, calano di oltre un miliardo di dollari rispetto a quelli che avevano dato il sorriso ai top manager non più tardi di dodici mesi orsono.

Non vi è dubbio che l’attenzione degli analisti e degli operatori si sta spostando dalle Big Four alle banche commerciali, anche perché dopo la mega perdita per il secondo trimestre consecutivo registrata dal gigante Citigroup, i risultati ben poco brillanti di Wachovia Bank e di Well Fargo, non ci voleva proprio il crollo degli utili ed il forte ridimensionamento dello stessa “fatturato” di Bank of America, entrambi, peraltro, ben al di sotto delle già nere attese degli analisti che, pure, si sono ormai ben attrezzati nel giochetto di rendere sempre più nere le loro previsioni per favorire il rimbalzo delle quotazioni della banca di turno, rimbalzo che, almeno questa volta, non c’è assolutamente stato, anzi, Bofa è riuscita a portare pesantemente verso il basso non solo se stessa ma l’intero comparto finanziario che sembrava destinato, nelle ultime sedute, ad un tentativo di mini rimbalzo.

Giunti a questo punto della stagione di annunci trimestrali da parte delle Investment Banks e delle banche globali e non, mi permetto di osservare sommessamente che sarebbe il caso che le stesse dichiarassero che non hanno fatto ricorso alle previsioni dei vari FAS che prevedono la trasformazione delle perdite su titoli in rotondi ricavi, anche perché la sempre più inascoltata Moody’s ha chiaramente detto di non considerali opportuni e che netterà implacabilmente i loro effetti dai conti che vengono presentati, peccato che di tale perentorio consiglio i disperati banchieri statunitensi ed europei non sappiano proprio che farsene, per il semplice motivo che, operando in modo trasparente, i risultati delle trimestrali da brutti quali sono si traformerebbero inevitabilmente in pessimi, ballando tra l’uno e l’altro approccio differenze nell’ordine di centinaia di miliardi di dollari.

Nel frattempo, come largamente annunciato urbi et orbi nei giorni scorsi, anche la Bank of England ha aperto la sua maxi discarica destinata ad ospitare, per tempi più o meno lunghi, i titoli della finanza strutturata ospitati on e/o off balance sheet nei bilanci delle banche britanniche, titoli scambiati come se fossero buoni in cambio di fruscianti titoli del Tesoro britannico, allo scopo dichiarato di evitare nuove Northern Rock e relativa nazionalizzazione che risulterebbe poco agevole e sostenibile se ad incappare nelle eventuali difficoltà fossero giganti del calibro di Hong Kong Shanghai Banking Corp., di Royal Bank of Scotland o di Barclays, tutte distanti anni luce per assett e impegni dalla tecnicamente fallita ed allora ottava banca del paese su cui regna felicemente Elisabetta II che ha affidato il governo al sempre più desolato ed a picco nei sondaggi Gordon Brown, un uomo che ancora si maledice per aver fatto di tutto per spingere sulla porta il suo ben più fortunato predecessore Tony Blair.

L’entità dei fondi a disposizione del riciclaggio dei titoli della finanza strutturata, ove espresso nella sempre più svalutata valuta statunitense, si aggira intorno ai 100 miliardi di dollari, dato che, ovviamente, cresce di ora in ora, pur essendo la sterlina ai suoi minimi di periodo ma ancora in grado di outperformare sul dollaro, tutto questo mentre le corazzate delle banche centrali continuano a sparare bordate contro vento per cercare, alquanto inutilmente, di risollevare il biglietto verde, riuscendo, al più, anche grazie al rinnovato attivismo del neo Governatore della Bank of Japan, a determinare un relativo decoupling tra le due principali alternative alla valuta statunitense.

Mentre si discute sempre più animatamente sulla possibilità di lasciare i vari Libor al loro destino, in quanto i loro livelli sempre più elevati e caratterizzati da spread sempre più ampi rispetto ai relativi tassi di riferimento sono chiaramente troppo influenzati dagli altrettanto crescenti guai delle banche partecipanti, sia l’euribor che i libor su dollaro e sterlina proseguono nella loro lenta ma inesorabile marcia di avvicinamento agli indesiderati, sia dai debitori che dalle banche centrali, record segnati nel dicembre dell’anno scorso.

Credo proprio sia il caso di ricordare che, nonostante le gigantesche inondazioni di liquidità effettuate dalle ormai esauste sale operative della BCE, della Federal Reserve e delle altre malcapitate banche centrali, i tassi interbancari, con riferimento alle cruciali scadenze ad uno e a tre mesi, non sono mai riusciti a tornare a differenziali sui tassi di riferimento inferiori a quelli segnalati l’ormai celebre 9 di agosto del 2007, il giorno nel corso del quale la liquidità si prosciugò completamente prima del maxi intervento della BCE, per la semplice ragione che nessuna delle 46 banche operanti quali market maker sull’euribor era più disponibile a fidarsi delle sue spesso blasonate consorelle, il tutto mentre un fenomeno analogo si registrava sui mercati interbancari aventi a riferimento il dollaro e la sterlina.

Mentre il nuovo ministro italiano dell’Economia (è vero che a Giulio Tremonti manca ancora l’effettuazione del terzo giuramento nelle mani del Capo dello Stato, ma si sa bene che si tratterà di una pura formalità per l’originale e vulcanico economista, nonché vice presidente di Forza Italia, di recente trasformatasi in PDL) non perde tempo nello sparare ad alzo zero sul lavoro del Governatore della Banca d’Italia, peraltro da lui stesso voluto nel dicembre del 2005, appiccicando l’etichetta di aspirina al frutto del faticoso ed impegnativo lavoro di Draghi e della creme della creme degli esponenti delle banche centrali riuniti nel Financial Stability Forum, non mancano altre voci dissenzienti di fronte ad un approccio che presenta non solo tempi di attuazione dei provvedimenti proposti francamente troppo lunghi, ma anche l’assenza di alcuna forma di punizione di quel moral hazard che ha caratterizzato il mercato finanziario globale per un quarto di secolo almeno.

Nessuno, peraltro, sembra più prestare attenzione ai profit warning provenienti da quel Fondo Monetario Internazionale ormai in preda ad una trasformazione genetica da soporifero ente di ricerca a covo di Cassandre in lotta per mantenere posto e status sempre più minacciati da Strauss Kahn, che proprio oggi annunciano, nell’ambito delle ormai celebri previsioni di 945 miliardi di dollari di perdite, perdite per poco meno di 50 miliardi di dollari per le già ansiose e preoccupate banche europee, immagino che il Fondo parli di perdite ulteriori e che includa anche l’extracomunitaria UBS, in quanto, ad oggi, tale cifra sarebbe già stata abbondantemente superata e saremmo, quindi, di fronte a qualcosa che assomiglia al raddoppio del disastro attuale.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/

domenica 20 aprile 2008

La teoria economica dominante è stata colpita ed affondata dalla tempesta perfetta


Credo proprio che sia difficile rendersi conto di quanto siano profonde e rilevanti le mutazioni del pensiero economico attualmente in corso negli Stati Uniti d’America di fronte al fallimento di quella forma di pensiero trionfante fino a pochi mesi orsono, la convinzione, cioè profonda e vincente che vedeva la deregolamentazione come la spinta propulsiva che avrebbe favorito una crescita indefinita della ricchezza collettiva ed individuale, per raggiungere la quale era sufficiente non disturbare il manovratore, a sua volta manovrato dalle libere forze del libero mercato, di per sé tendente ad una sorta di resuscitato ottimo paretiano, ma non mancava chi sentiva la nostalgia di quel banditore di Walras al colpo del quale tutti i prezzi dei fattori automaticamente trovavano il loro equilibrio (suggestione resa in qualche modo attuale dagli sviluppi della tecnologia informatica).

Dalle macerie finanziarie, economiche e sociali derivanti dal recente scoppio contemporaneo di almeno tre bolle speculative, causa ed effetto simultanei della tempesta perfetta in atto, sta faticosamente emergendo, o, sarebbe più corretto dire, riemergendo, un approccio teorico che tiene in maggior conto il concetto di limite, sia esso fisico, di sostenibilità finanziaria o, più semplicemente sociale, e quello di regolamentazione, termine che, almeno a partire dal 1985, era visto come sinonimo assoluto di ingerenza dello stato federale, o locale, nel libero agire del mercato e di quei top manager che, nell’opinione popolare largamente manipolata dal pensiero unico dominante, ne sapevano certamente di più di quel branco di politicanti che, almeno con riferimento al Senato statunitense, godevano di un tasso di popolarità che, paradossalmente, era inversamente proporzionale alla loro longevità di carica che non ha confronti nelle camere alte dei maggiori paesi maggiormente industrializzati.

Ora che è risuonato il fischio che segnala perentoriamente che the game is over, stiamo assistendo al più rapido ripudio delle ideologia economica precedentemente in voga, un ripudio rispetto al quale quello di pietro nei confronti del Cristo appena incarcerato è caratterizzato da un lag temporale di gran lunga maggiore, anche se va reso omaggio, per una coerenza che fa premio sulla indiscutibile stupidità, a quello sparuto drappello di economisti che continuano a ritenere che ogni ingerenza dello stato, anche volta al condivisibile intento di evitare che milioni di famiglie americane siano costrette a lasciare nella casa messa all’asta i risparmi ed i sogni di una vita, è profondamente sbagliata e che la stessa produrrà più danni di quanti si verificherebbero in assenza dell’intervento stesso.

Deregolamentazione, globalizzazione e finanziarizzazione non sono, peraltro, che fenomeni strettamente interrelati tra di loro e tutti largamente informati di quella vera e propria deriva ideologica che è stata rappresentata dai trionfi, anche sul piano governativo, di quel movimento ideologico e militante noto come la Scuola di Chicago, un movimento che ha visto il radicalismo di Milton Friedman letteralmente impallidire rispetto all’integralismo dei suoi epigoni, spesso neanche dotati del strumentario tecnico e del suo spessore dottrinario, un movimento talmente vincente che da riuscire ad influenzare fortemente anche il pensiero degli economisti che si richiamavano apertamente all’approccio keynesiano o a quello che, pur essendo dichiaratamente liberale, riteneva il termine liberista al pari di una bestemmia.

L’inversione a 180° della maggior parte degli economisti statunitensi (chissà se la scarsa stabilità di impiego degli accademici statunitensi, come è noto pochissimi di loro sono insediati su una chair a vita, influisce su questo loro muoversi un po’ come un gregge) non rappresenta, peraltro, una novità, in quanto si è già verificata ogni volta che la realtà ha mandato letteralmente in frantumi le loro pompose e matematicamente ben corredate teorie, ed ecco che assistono senza battere ciglio alla vera e propria rottura delle regole del gioco e l’infrangersi sui marosi della tempesta perfetta dei sacri principi quali quello della ineluttabilità della severa punizione del moral hazard, la possibilità, anzi la necessità, che le aziende in difficoltà possano, anzi debbano, fallire, ma, soprattutto, che i massimi regolatori del mercato creditizio, le banche centrali, non smettano i panni dell’arbitro e si schierino in campo quasi fossero il 12° giocatore della squadra di calcio che sta soccombendo all’odiata avversaria, in questo caso la crisi finanziaria ed i suoi alquanto drammatici effetti.

L’epilogo della vicenda della britannica Northern Rock, quelle delle medie banche tedesche affondate dai primi marosi dell’agosto dell’anno scorso, il gigantesco salvataggio dell’orso di Stearns ad opera dei nipotini dei Morgan e dei Rockfeller, l’apertura, da ieri anche in Gran Bretagna, di quelle discariche a cielo aperto nella quale giacciono centinaia di miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata depositate a garanzia dalle banche di ogni ordine e grado, ricevendone in cambio, e per tempi sempre più lunghi, fruscianti e molto richiesti titoli di stato che le banche centrali forniscono prontamente loro, peraltro ad un tasso di interesse assolutamente irrisorio, ebbene tutto questo rappresenta la rappresentazione plastica del fatto che le regole sono, al più, paragonabili a quelle favole da raccontare ai nipotini davanti al fuovo scoppiettante nel corso delle cupe e tempestose serate di inverno.

Per non perdere del tutto la faccia, si dà incarico al più giovane tra i grandi banchieri centrali, il nostro Mario Draghi, affinché, dopo un’opportuna pausa in digiuno e solitudine sul Monte Sinai di turno, incida su pietra le nuove tavole della legge e, per non farlo sentire troppo solo, il suo ex capo in Goldman Sachs, Henry Paulson, che da ministro del Tesoro statunitense, sforna un librone di oltre 200 pagine, ampiamente annunciate e strombazzate dai media, prevedendo un percorso riformatore che impegnerà gli eletti dal popolo USA per i prossimi due o tre mandati, impedendo loro di varare poche ed efficaci misure per evitare che a pagare gli errori delle Investment Banks e delle CIB delle banche globali siano, come purtroppo sempre accade, i soliti noti che non è difficile individuare nei ceti meno abbienti e in quella classe media in via di impoverimento che, per loro fortuna, dispongono di molti più voti di quanti ne possono esprimere i 10 milioni crica di americani più ricchi.

Nelle favole, è il bambino innocente, ma anche un po’ malizioso, che svela tutto e dice ad alta voce che il re è nudo, ma, stavolta, è toccato ad un navigato economista, nuovamente, salvo sorprese, ministro dell’Economia del nostro Paese, quale è Giulio Tremonti, interpretare questo ruolo, spingendosi, nel ludibrio generale dei suoi colleghi e dei potenti del mondo (a volte, sono esattamente la stessa cosa), ad affermare che il rapporto finale del Financial Stability Forum, presieduto, appunto, da Mario Draghi, prevede una terapia inefficace, in quanto sarebbe come dare un’aspirina ad un malato grave se non allo stato terminale, il che, anche alla luce del suo scontro al calor bianco con il predecessore di Draghi, non lascia presagire nulla di buono nei rapporti prossimi venturi tra i due.

L’unica coincidenza che ho avuto con Tremonti è quella di aver collaborato per tre anni con il quotidiano il Manifesto come aveva fatto lui in precedenza, ma credo proprio che, come accade statisticamente almeno una volta nella vita, stavolta abbia perfettamente ragione lui!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press www.flipnews.org

sabato 19 aprile 2008

Citigroup brucia 49 miliardi in soli sei mesi!


Come è abitudine di questo appuntamento quotidiano, vorrei cercare di offrire una lettura leggermente diversa dello stato di salute di quella che è, in assoluto, la prima banca commerciale degli Stati Uniti d’America, quella Citigroup che, sotto la guida di David Weill prima e del suo pupillo Chuck Prince III poi, ha portato a compimento una vera e propria mutazione genetica, giungendo a sviluppare una divisione di Corporate & Investment Banking di dimensioni assolutamente comparabili a quelle medie delle Big Five tragicamente divenute di recente Big Four e ad essere presente in un numero di nazioni comparabile con quella specie di ONU del credito rappresentata dalla extracomunitaria UBS.

Cosa sia accaduto realmente in questo lasso di tempo complessivamente pluridecennale non credo sarà mai dato di saperlo con esattezza, anche perché alla luce del veloce turn over di affari e di addetti ai lavori imperante nel rutilante mondo della finanza, molte avventure finanziarie sono, per fortuna, finite in bonis, così come molte donne ed uomini di prima e seconda linea della CIB Citi sono riusciti ad andare tranquillamente in pensione o stanno vivendo altre avventure su altre navi corsare.

E’ possibile, tuttavia, dedurre quanto elevato fosse l’Everest della finanza strutturata creata dall’anziano banchiere e dal rampante avvocato d’affari, vedendo gli effetti sugli ultimi due trimestri resi noti, con il loro carico di perdite in contanti e in posti di lavoro andati, o che prossimamente andranno, in fumo, nonché di una massa gigantesca di aspirazioni individuali destinata a frantumarsi per le difficoltà ad operare tra le nuove regole, le nuove entità di vigilanza, ma, soprattutto, i paletti sempre più alti che le disastrate banche statunitensi stanno erigendo, paletti che, favoriti anche del montante credit crunch, dovrebbero portare ad una selezione feroce di quella altrettanto gigantesca domanda di credito proveniente da quei consumatori americani che, in larga misura, ancora credono che il vincolo di bilancio non riguardi loro, come, in realtà, sembra proprio e da lunga pezza non riguardare la loro grande Nazione, né all’interno, né, tanto meno, per quanto riguarda i conti con l’estero.

Ebbene, i numeri sul primo trimestre di questo pesantissimo 2008, numeri non a caso forniti dall’uomo che deve anche assumersene la responsabilità alla luce delle stringenti previsioni di quella Sorbanes-Huxley che ha provocato il rapido delisting di gran parte delle entità europee che avevano il vezzo di essere quotate anche a New York, il Chief Operating Officer Gary Critteden, peraltro marcato a vista dal nuovo e giovane CEO di Citigroup, Vikram Pandit, un Critteden di cui si può dire di tutto meno che non abbia parlato alquanto chiaramente dei numeri e delle stesse prospettive per la sua e le altre banche alle prese con l’attuale tempesta perfetta.

Applicando lo stesso criterio impietosamente applicato dai feroci analisti nei giorni scorsi alla disastrata Merrill Lynch, si può così dire che, in soli due trimestri, Citigroup ha saldato la prima rata del suo conto, sottraendo alla disponibilità degli azionisti qualcosa come 49 miliardi di dollari, 15,1 miliardi in termini di perdita (10 miliardi nel quarto e 5,1 nel terzo), 32 miliardi come svalutazioni operate a vario titolo e, nel solo primo trimestre, un’iniezione di 2 miliardi a rimpinguare quelle riserve che difficilmente daranno luogo a sopravvenienze attive per essere state sovradimensionate rispetto alle effettive necessità.

So bene che la tesi che tende a prevalere tra gli analisti ed i giornalisti maggiormente embedded alle necessità dell’industria finanziaria globale è quella che questo vero e proprio disastro, peraltro in linea con quello delle consorelle statunitensi e delle banche globali, rappresenti il segnale della fine della tempesta perfetta, ma ritengo che forse sarebbe il caso si dessero la pena di ascoltare fino in fondo le parole del CFO di Citigroup, che solo ieri affermava che, in base all’esperienza storica degli ultimi decenni, la situazione rimarrà pessima per almeno 8-10 trimestri e comunque per non meno di due anni.

Se lo dice lui che, oltre a conoscere alla perfezione quei flussi disastrosi espressi dalle due trimestrali, è perfettamente consapevole di quell’altezza della montagna degli stock di titoli della finanza strutturata on e off balance sheet (che, sia detto per inciso, ci dicono oggi quello che avverrà, alquanto ineluttabilmente, domani), credo proprio che sia il caso per tutti noi di ascoltarlo con il rispetto che merita ogni persona che soffre, ed è certo che le donne e gli uomini di Citi come delle altre entità del mercato finanziario globale stanno certamente soffrendo, né sanno quanti tra loro resteranno al loro più o meno adeguatamente remunerato posto nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Già, perché buona parte del recente rally delle azioni delle Investment Banks e delle banche globali è in larga misura legato ai feroci tagli di organico e di costi generali che viene ormai annunciato in contemporanea con i risultati di bilancio, cosa che è puntualmente accaduta ieri, quando Pandit, per mettere un po' una pezza ai disastrosi numeri, ha annunciato che il taglio dei circa 4 mila dipendenti annunciato in gennaio era stato testé portato al ben più consistente numero di 13 mila, un numero comunque da rivedere, ovviamente al rialzo, nei prossimi mesi.

Vi risparmio le attente analisi sull’inefficacia di medio lungo periodo derivanti da questi, spesso feroci ed indiscriminati, processi di downsizing, analisi riportate, peraltro, non più tardi di ieri in un accurato articolo di Jennifer Ablan (ah, se governassero le donne!) e William Kemble-Diaz dell’agenzia Reuters, anche perché so bene che per quegli elefanti imbizzarriti che sono oggi i numeri uno delle banche, spesso inconsapevoli di trovarsi in un negozio di cristalli, l’unica cosa che conta è mandare agli analisti ed alle agenzie di rating messaggi rassicuranti sulla loro capacità di gestire i conti nel breve se non nel brevissimo periodo, anche se spesso non sono così convincenti da non indurre la solita Fitch a degradare in corsa il rating di Citi, mentre le più prudenti sue consorelle hanno soltanto emesso il solito warning cui, ormai da molti mesi, raramente traggono le dovute conseguenze.

Siccome sono ormai contagiato dalla mania americana per le statistiche, vorrei sommessamente ricordare che, soltanto nell’orribile 2007, hanno perso il lavoro oltre 100 mila donne ed uomini operanti direttamente nell’industria finanziaria statunitense, mentre si è del tutto perso il conto dei posti di lavoro persi nel cosiddetto indotto (anche se, fino a che sono stati resi noti, si sapeva che il numero dei licenziamenti dell’indotto era largamente superiore a quello dei dipendenti diretti di banche e finanziarie), mentre, nel breve tempo trascorso dall’inizio dell’anno, altri 36 mila dipendenti hanno ricevuto la tradizionale letterina rosa che annuncia la perdita immediata del posto di lavoro, cui si aggiungeranno tra breve i 12.400 che hanno appreso di essere fortemente a rischio nelle tre conference call tenutesi in questa settimana da parte di Citigroup, Wachovia Bank e Merrill Lynch,

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/

venerdì 18 aprile 2008

La tempesta perfetta compie 200 giorni


Ho notato, non senza una certa apprensione, di essere alla 170^ puntata del Diario della crisi finanziaria (tra speciali e numeri editi solo sul blog dovrebbero essere 180 circa) e non si scorgono all’orizzonte segnali che inducano a ritenere che la tempesta perfetta in atto stia volgendo al termine.

Eppure, nei poco meno di 200 giorni trascorsi dal 9 agosto dell’anno scorso, è accaduto veramente di tutto e si è tentato quasi di tutto, dagli interventi di dimensioni mai viste in precedenza effettuati dalle banche centrali in favore delle banche operanti sui mercati interbancari, agli interventi “controvento” volti a contrastare, invano, la liquefazione progressiva del dollaro, alle immaginifiche e quasi sempre fallimentari invenzioni del ministro del tesoro USA, Henry Paulson, alle riforme radicali, ma ancora sulla carta, delle regole di vigilanza sulle alquanto scapestrate entità che popolano il mercato finanziario globale, insomma se è proprio fatto non tutto ma, con sforzo generoso, proprio di tutto.

Eppure, se dagli sforzi immani compiuti da banchieri centrali ormai letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi e dall’impegno altrettanto titanico dei ministri dell’economia passiamo ad osservare gli effetti, non è possibile non constatare che i tassi sul mercato interbancario statunitense, britannico o su quello dell’area euro sono appena al di sotto dei livelli minimi, soprattutto se espressi in termini di spreads rispetto ai tassi di riferimento ufficiali (il Libor a tre mesi sulla sterlina si discostava ieri di poco meno di un punto dal suo tasso di riferimento appena portato al 5 per cento dalla BoE), che l’euro quota a poco meno di 1,60 dollari e lo yen viene disperatamente tenuto appena al di sopra del livello di 100 yen per dollaro.

Le notizie che provengono, nel frattempo, dalle banche statunitensi o dall’extracomunitaria e globalissima UBS denotano segnali che sarebbero stati normalissimi nelle prime settimane della tempesta perfetta ma che sono veramente sconfortati quando manca poco allo scadere dei nove mesi dall’inizio di questo disastro, notizie nella maggior parte dei casi pessime e che non fanno distinzione alcuna tra le avventurose banche di investimento e quelle commerciali, né si scorgono situazioni più tranquille con riferimento alle entità medio piccole o a quelle saving and loans travolte poco meno di venti anni orsono da un vero e proprio terremoto che richiese un bailout nell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari e che toccò non marginalmente l’allora molto più giovane George W Bush.

Soltanto ieri, la già colpita e quasi affondata Merrill Lynch, rispettando in peggio le già fosche previsioni degli analisti, ha annunciato un rosso trimestrale di pressoché identica dimensione dell’utile segnalato nello stesso periodo dell’anno precedente (-2,14 miliardi di dollari contro +2,26 miliardi), una perdita largamente dovuta a svalutazioni complessive per 6 miliardi di dollari, risultati a fronte dei quali il nuovo CEO ed ex presidente del NYSE, John Thain (quello del bonus di ingaggio da 15 milioni di dollari) non ha saputo far di meglio che annunciare l’ennesima ondata di licenziamenti che taglierà dal libro paga altre 4 mila persone ed informare a quanti avevano voglia di ascoltare la sua triste conference call che quello appena concluso era certamente il peggior trimestre di quelli da lui vissuti nei suoi 30 anni all’ombra del wall.

Anche se, come dicevo, i risultati di Merrill hanno battuto in peggio le previsioni degli analisti, pur tuttavia gli stessi hanno rappresentato un buy signal per il mercato, forse per il semplice motivo che per tre mesi almeno non dovremmo avere nuove notizie da Thain e compagni, a meno che il Who’s the next non tocchi questa banca in luogo delle altre superstiti tre entità appartenenti a quelle che si sono tristemente ridotte a Big Four.

Se corrispondessero al vero le drammatiche previsioni sulle perdite complessive per le entità operanti nel mercato finanziario globale rese note dal Fondo monetario Internazionale alla vigilia del più importante week end di questa tempesta perfetta e poche ore prima che il giovane Mario Draghi salisse in cattedra a Washington per dirne quattro a tutti, le perdite riferite alle sole banche sarebbero a poche decine di miliardi di dollari dal risultato finale, in quanto ne sono state già rese note per 230-240 miliardi contro i 280 previsti, mentre poco si sa dei 665 miliardi che l’FMI attribuisce agli soggetti, fondi pensione e di investimento in primis, ma temo realmente che non si siano stimate correttamente le interazioni e le interrelazioni esistenti tra i diversi soggetti operanti nel mare magnum del mercato globale.

Nelle puntate precedenti, riportavo un dato già di per sé eloquente sui Credit Default Swaps, quegli strumenti derivati nati per proteggere chi vi ricorreva dal rischio di fallimento di una controparte, ma rapidamente trasformatisi nell’arma fine di mondo, un dato che risaliva a poco tempo fa e che cifrava il nozionale dei CDS in 45 mila miliardi dollari, ma ho appreso ieri che, secondo dati più recenti, siamo giunti ad un nozionale di 72 mila miliardi di dollari, con una crescita che si aggira introno al 60 per cento in un breve lasso di tempo che è, in qualche e poco piacevole modo, del tutto self explaning.

La recente vicenda incorsa in una delle provincie dell’impero del leone di Omaha, Warren Buffett, costringendo alle dimissioni su due piedi un brillante CEO, mentre altri quattro ex top manager se la stanno vedendo brutta in un’aula di tribunale per vicende allo stato poco chiare, non hanno scalfito la credibilità dell’anziano finanziere, forte come al solito dei brillanti risultati del suo conglomerato, ma mi hanno fatto riflettere sul silenzio un po’ sinistro che circonda le tanto chiacchierate compagnie monoline, alcune nel frattempo hanno visto il loro precedente stellare rating giungere al livello dei titoli spazzatura, anche perché non vorrei proprio che si trattasse della classica quiete che precede inevitabilmente la tempesta, il che, visti i tempi…

Come spesso accade, ho appena citato uno dei miei due fari contemporanei nella tempesta perfetta, che mi tocca parlare dell’altro, il mitico finanziere di origine ungherese gorge Soros, l’uomo che affondò in un colpo solo la sterlina e la lira e che, secondo i maligni, starebbe pensando di ripetere (o, come dicono i solitamente bene informati, sarebbe già in pista) il colpaccio contro la valuta di Sua Maestà britannica, favorito dall’assurdo e persistente opting out che il governo Brown continua ad utilizzare per evitare la confluenza della sterlina nel porto sicuro dell’euro, un’ostinazione degna di miglior causa che espone realmente l’un tempo pregiatissima valuta ad essere esposta a tutti i venti della speculazione.

Ebbene, il buon Soros ha tenuto nei giorni scorsi una brillante conferenza in un paese appartenete alla terra dell’euro per dire che non vede proprio la possibilità per la valuta europea di soppiantare il dollaro come valuta di riserva internazionale o come standard prevalente per gli scambi commerciali, anzi, con piglio atlantico, si è spinto anche ad escludere la possibilità di un mondo basato sulle due valute, il dollaro e l’euro appunto, chiarendo, tuttavia, che non è che non veda la possibilità tecnica e probabilistica (che ci starebbero tutte), ma che lo confiderebbe un sistema altamente instabile.

Ricordo che il Diario è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ , mentre il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/

giovedì 17 aprile 2008

Se non ci fosse Algebris, bisognerebbe proprio inventarla!


Ho esitato a lungo prima di affrontare l’intricatissimo, seppur fondamentale, nodo rappresentato dall’evoluzione dei modelli di governance nei principali attori del mercato finanziario italiano, con riferimento, in particolar modo a quanto sta accadendo di recente nelle banche e nelle compagnie di assicurazione di ogni ordine e specie, ma ritengo che, anche alla luce degli ultimi avvenimenti, sia giunto ormai il momento di rompere gli indugi.

Fanno riflettere, infatti, le recenti vicende che riguardano il rinnovo del organi collegiali della Telecom Italia e di quelli delle Assicurazioni Generali, il primo già avvenuto nella tutt’altro che tranquilla e pacifica assemblea svoltasi nei giorni scorsi sotto la presidenza del blasonatissimo Gabriele Galateri di Genola, mentre per il secondo è necessario ancora attendere l’assolutamente non prevedibile esito assembleare, in vista del quale si fa sempre più aspro lo scontro legale tra Daniele Serra, il determinato leader del fondo Algebris e l’ampia famiglia Benetton, naturale alleata di Mediobanca.

Dopo tante discussioni e tonnellate di carta sulla democrazia economica e sulla tutela dei diritti delle minoranze azionarie, che poi spesso, sommate assieme, sono larghe, se non larghissime, maggioranze, questi episodi non rappresentano che l’ultimo anello di una lunga catena di violazioni sistematiche del principio che vorrebbe garantire pari dignità agli investitori, ovviamente tenendo conto dei rispettivi pesi, che, a loro volta, dovrebbero essere correttamente correlati alla diversa entità dell’investimento effettuato e non essere il frutto di patti di sindacato, più o meno palesi, o di intese riservate e spesso segrete che avviluppano le SpA di ogni livello in una sorta di ragnatela spesso del tutto inestricabile, legami raramente noti alle Autorità di vigilanza.

L’una volta tanto netta presa di posizione della Consob guidata da Lamberto Cardia, sulla vicenda che vede opposte Algebris ed i Benetton ha il pregio di dire, finalmente, una parola chiara sulla posizione di Mediobanca quale socio di riferimento delle Generali, incontrastata leader delle polizze in Italia e gigante del settore anche a livello mondiale, circostanza che rende automaticamente non di minoranza liste, quali quella presentata dai Benetton, facenti capo a membri del patto di sindacato imperante a Piazzetta Cuccia.

Sprezzanti come spesso loro accade nei confronti dei pronunciamenti delle Authority che hanno il compito di vigilare sui tanti settori di interesse di questa famiglia che, in meno di una generazione, è passata dai telai spesso collocati al domicilio delle lavoratrici e dei lavoratori alle concessioni autostradali, ai punti di ristori altrettanto spesso operanti in regime di monopolio, alla finanza e chi più ne ha ne metta, i Benetton hanno rinunciato a fare ricorso ma si sono scordati di ritirare la lista, innescando così l’azione giudiziaria mossa dall’intraprendente finanziere italiano operante in prevalenza sulla piazza di Londra, un’azione che, auspicabilmente, dovrebbe produrre i suoi effetti in tempo per la prevista e tanto attesa assemblea della Compagnia delle Compagnie di assicurazione, almeno di quelle operanti nel nostro Paese.

Pur evitando di addentrarmi nel ginepraio rappresentato dal duale all’amatriciana, un sistema più basato sulla necessità di dare i resti ai tanti protagonisti delle fusioni decise spesso nel corso di un fine settimana, con pletorici consigli dei sorveglianza che dei modelli tedeschi e nord europei conservano solo il nome ma assolutamente non il ruolo di partecipazione congiunta di azienda e lavoratori, non posso che convenire su quanto sta dicendo, e per fortuna anche facendo, il giovane Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in materia di conflitti di interesse e di finanziamenti alle parti correlate, un’azione doverosa che solo i maligni e quanti sono in aperta malafede possono banalizzare come una sorta di Lodo Geronzi, con riferimento alle non celate aspirazioni dell’anziano banchiere, peraltro da lungo tempo amareggiato e preoccupato per ben altre vicende che per la poltrona di vice delle Generali.

Il problema dei problemi, tuttavia, è rappresentato dalla distanza, a volte abissale, esistente tra ciò che è previsto da leggi, regolamenti, codici interni e quanto altro previsto e spesso sancito nei bilanci sociali o nei codici di principi vigenti all’interno delle singole società per azioni e lo stato effettivo delle cose che vede, ad esempio, i consiglieri indipendenti esserlo spesso più di nome che di fatto, nonché caratterizzati da un cumulo di incarichi che rende arduo l’efficiente ed efficace svolgimento del loro ruolo, per non parlare delle effettive possibilità per le liste di minoranza di avere un’effettiva rappresentanza nel CdA o nel collegio sindacale, possibilità resa ancora più difficile pur negli alquanto pletorici Consigli di Sorveglianza.

E’ per questo che lo strumento principale per garantire una maggiore democrazia economica consiste nell’operare un riavvicinamento trai principi stabiliti dai cosiddetti “Testi” (leggi, regolamenti e codici interni di ogni ordine e specie) e la realtà fattuale, spesso figlia dell’ostinato tentativo dei gruppi che detengono la maggioranza negli organi collegiali di impedire in vario modo l’ingresso dei new comers, che siano rappresentati dalle associazioni dei piccoli investitori, da quelle degli azionisti dipendenti, dai fondi investimento di ogni specie e natura, da investitori proprietari di aziende operanti nello stesso od in altri settori..

L’allargamento dei diritti dei soci di minoranza e le garanzie di maggiore indipendenza dei consiglieri attualmente spesso solo denominati come tali passa proprio attraverso questa opera di ravvicinamento tra i sacri princìpi e le best practices prevalenti a livello delle altre realtà nazionali che, come noi, partecipano all’alquanto malmesso mercato finanziario globale, mentre oggi prevalgono nel Belpaese quelle che è quasi un eufemismo definire “worst practices” (peggiori pratiche), che sono, purtroppo, tuttora largamente prevalenti da noi e non solo in ambito societario.

Portandomi avanti nel lavoro, penso sia utile riflettere sull’altrettanta distanza esistente tra i Testi e la realtà effettiva per questioni di non poco momento quali il rispetto delle norme della MIFID e, più in generale, le attività generalmente denominate come Compliance che tanto hanno a che fare con quel rischio reputazionale, termine che richiese, quando venne pronunciato per la prima volta da Draghi, per molti dei banchieri presenti il ricorso frenetico al dizionario, tanto non era, e non è, al centro delle loro preoccupazioni, in quanto ad essere oggetto del pubblico ludibrio sono adusi da lunga pezza.

Credo proprio che molta maggiore preoccupazione deve caratterizzare le lavoratrici ed i lavoratori operanti nel mercato finanziario e chi li rappresenta, in quanto, alla fine della fiera, caratteristica costante delle leggi, dei regolamenti di ogni ordine e specie è la riaffermazione costante dell’ovvio principio che la responsabilità penale, a volte anche pesante, è personale e che se, quindi, le aziende pensano di mettersi a posto con le norme emanando carte di integrità o dei valori, nonché circolari spesso solo apparentemente rispettose della MIFID o di quanto altro, credo proprio che la risposta dovrà essere netta e chiara, così come ritengo che la proposta sulla moratoria delle stock options e su un ripensamento coraggioso e radicale sui sistemi incentivanti sia ormai d’obbligo, come peraltro il mio sindacato, la UILCA, propone in solitudine da tempo e, soprattutto, da tempi assolutamente non sospetti.
*
Apprendo solo ora che Davide Serra ha vinto, in quanto i Benetton hanno indotto i loro candidati al collegio sindacale a ritirarsi e che, non pago dei successi che sta ottenendo nel duro confronto con il gotha del capitalismo, spesso ancora familiare, italiano, il giovane Serra, di cui non è un mistero l'amicizia con i più anziani Mario Draghi e Davide Croff, ha deciso di valorizzare un'altra, consistente, chip, da tempo posta sulla Banca Popolare di Milano, attualmente scossa da un durissimo scontro che avviene, proprio, sulla governance e che vede un ampio fronte, che fa perno sull'attuale presidente Roberto Mazzotta, uno scontro che potrebbe portare alla fine di un anomalia che data ormai da lungo tempo e che dimostra, ogni giorno che passa, il suo carattere antistorico e paralizzante per lo stesso sviluppo della storica banca.

mercoledì 16 aprile 2008

Anche le volpi, alla fine, finiscono in pellicceria!


Dopo la perdita non prevista subita da Wachovia Bank, la quarta banca commerciale statunitense ed il contestuale mega aumento di capitale misto per 7 miliardi di dollari (mentre la perdita nel primo trimestre si cifra in 393 milioni contro un utile di 1,2 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2007), ieri è stata la volta di Washington Mutual, la più grande saving and loans, a dover rendere noto il non brillante stato dei suoi conti, con la differenza che la banca si era già premurata di chiedere in anticipo al mercato altrettanti 7 miliardi di dollari al mercato e che gli stessi appaiono più congrui con la perdita da 1,1 miliardi segnalata nel primo trimestre ed i 3,5 miliardi di perdite legate essenzialmente a nuove svalutazioni effettuate sui propri assetts.

Sembra proprio che il duro monito lanciato, via media, dal ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, alle banche nel corso dei poco momenti pubblici di un week end essenzialmente trascorso tra una riunione a porte chiuse del G7, le assemblee dell’FMI e della Banca Mondiale, nonché una cena superblindata che gli esponenti del gotha bancario mondiale, ha iniziato da subito a dare i suoi frutti, in quanto l’ex numero uno di Goldman Sachs aveva detto perentoriamente ai suoi ex colleghi di non sperare in nuovi salvataggi a carico della Fed, ma di attrezzarsi per chiedere soldi agli attuali ed a potenziali azionisti e di fare a tempi da record una efficace operazione di pulizia dei bilanci, sopra e sotto la linea, nonché di sbrigarsi a dire la verità, ma proprio tutta la verità sulle posizioni assunte direttamente o attraverso SIV e Conduits.

Restando, quindi, in attesa dei prossimi concomitanti annunci di perdite e richieste di mega aumenti di capitale, almeno alla luce del fatto che, secondo i soliti analisti ben informati, due sole banche di investimento dovrebbero rendere note nei prossimi giorni ulteriori svalutazioni per 15 miliardi di dollari circa, lascio immaginare ai miei pochi ma attenti lettori l’effetto diluizione che sta avvenendo a carico degli attuali e poco felici azionisti, con i suoi inevitabili riflessi sulla maggiore spartizione della torta degli utili, quando e ove mai gli stessi riemergeranno.

Non va sottovalutato, poi, l’effetto sui conti aziendali derivanti dal fatto che, sempre più frequentemente, quella che viene offerta a dosi industriali al mercato non è soltanto carta di rischio come le azioni ordinarie, ma obbligazioni convertibili a certo e spesso lungo tempo data e che garantiscono quei rendimenti stellari indispensabili per attrarre i fondi governativi arabi ed orientali, fondi che da tempo spuntano rendimenti su questo tipo di investimenti che sono multipli del rendimento medio effettivo sui bond offerti, ad esempio, da Citigroup, passata dal 7,75 per cento medio a punte del 14 per cento già nella mega operazione con i fondi asiatici di qualche mese fa.

Se non ci fosse San Bernspan ad offrire, mediante le sue discariche ormai stracolme di titoli spazzatura scaricati quotidianamente dalle banche di investimento e da quelle globali per controvalori multimiliardari in dollari, temporanee soluzioni dei problemi a tassi assolutamente risibili e spesso al di sotto di quelli ufficiali, i conti economici delle Big Five (anche l’orso di Stearns ha dovuto presentare nei giorni scorsi i suoi orribili conti, prima che venga perfezionata l’acquisizione a prezzi di assoluto saldo da parte di J.P. Morgan-Chase) e delle banche più o meno globali sarebbero già abbondantemente scassati.

Ma la vera novità resa nota ieri dall’iperattivo Henry Paulson è rappresentata dall’emersione di un documento frutto dell’intenso lavoro, in senso autoriformatore, effettuato da esponenti dei due maggiori hedge funds mondiali con la fattiva collaborazione dei banchieri di affari attualmente prestati alla politica e stretti collaboratori dell’esperto ministro del Tesoro USA, un documento che anticipa le linee di riforma dell’attività, ma soprattutto dei controlli e della trasparenza, cui questi soggetti, tra i più refrattari ad ogni forma di vigilanza ed al condizionamento derivante da norme troppo stringenti, sarebbero, il condizionale in questo caso è veramente d’obbligo, disponibili ad accettare, timorosi come sono che, al prossimo giro di giostra, Draghi decida finalmente di ricordarsi anche di loro, alla luce dello scandaloso ma lucrosissimo ruolo che, ad esempio, questi stessi soggetti stanno svolgendo in quel vero e proprio aggiotaggio nel settore delle materie prime, petrolio e gas in primis.

Già, perché alle anime belle che fingono di stupirsi ad ogni record segnato dal prezzo del petrolio sui vari mercati, tutti indistintamente ancora basati su standard espressi rigorosamente nelle sempre più liquefacentesi valuta statunitense, vorrei sommessamente ricordare che le scommesse che vengono fatte a dosi sempre più massiccie sono altrettanto rigorosamente one way, con pochi se non nulli rischi per gli operatori e gli stessi hedge funds, anche se vorrei altrettanto sommessamente ricordare loro che anche indebitarsi in yen investendo in altre valute è sembrato per lungo, direi lunghissimo, tempo il classico calcio di rigore agli attualmente disperati carry traders.

Agli speculatori di ogni ordine e rango che certo sorriderebbero di fronte a questo warning proveniente da chi scrive, vorrei ricordare che il potentissimo capo della Securities and Exchange Commission, il Signor “Volpe”, ha dovuto sconsolatamente ammettere di fronte agli infuriati senatori statunitensi che nessuno dei modelli a loro disposizione prevedeva, ad esempio, che una banca che aveva a disposizione decine di miliardi di dollari di titoli di stato di prima qualità da dare in garanzia potesse ricevere un secco rifiuto dalle sue consorelle ed essere costretta a chiedere l’intervento della Fed, che a sua volta le ha chiesto l’estremo sacrificio ad accettare di essere comprata da una banca, altrettanto di investimento ma molto più solida, a d un prezzo che inizialmente era di meno della metà del valore del solo edificio nel quale si svolgevano le febbrili consultazioni e verifiche nel corso di quella drammatica notte.

Ogni riferimento al forzato e very cheap (anche nella versione quintuplicata a 10 dollari per azione, visto che, solo un anno prima, l’azione ne valeva quindici volte tanto) merger tra l’orso di Stearns e la banca dei nipotini di Pierpoin Morgan e dei Rockfeller è assolutamente voluto, così come credo che, mutatis mutandis, si tratta di un avvertimento a tutti quelli che credono di essere sempre più furbi del mercato, delle autorità di vigilanza e di quelle addette alle regolazione di un mercato che sembra popolato più da operazioni over the counter, spesso fatte out of the money, che altrettanto frequentemente vengono poste rigorosamente off balance sheet.da persone che sanno tutto delle technicalities ma che, e questo risulta sempre più evidente ogni giorno che passa, non conoscono la Storia.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL del 19 c.m. è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito Free Lance International Press http://www.flipnews.org/