martedì 31 gennaio 2017

La BCE chiede piani sugli NPL's alle banche italiane entro febbraio


Il crollo del titolo di Unicredit di ieri in borsa (-5,5 per cento) ha due ragioni che poi sono la stessa, in quanto il gruppo creditizio globale italiano ha presentato il prospetto per l'aumento di capitale e, insieme, la perdita di esercizio per il 2016 pari a 12 miliardi di euro e interamente dovuta alla maxi operazione di pulizia del bilancio dai Non Performing Loans per svariate decine di miliardi di euro nominali che ha portato ad una perdita nel quarto trimestre per 11,8 miliardi, ma la seconda ragione è data dalla richiesta perentoria della Vigilanza BCE a tutte le banche italiane vigilate di presentare entro febbraio piani per il rientro da un livello di NPL's che la Nouy e i suoi colleghi giudicano evidentemente ancora eccessivi nonostante le numerose operazioni di alleggerimento effettuate in questi ultimi tempi (da quando è operativa la Vigilanza BCE e precisamente dal mese di giugno del 2014, momento in cui si sono fatti difficili e molto agitati i sonni di presidenti e amministratori delegati delle quindici banche vigilate direttamente dall'organismo costituito presso la BCE, fra poco ridotte a tredici per opera delle fusioni avvenute o allo studio: Banco Popolare-Banca Popolare di Milano in Banco BPM e, a breve, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca in Banca delle Venezie).

Il fatto che la missiva della Nouy sia stata indirizzata anche a banche come la Banca Popolare dell'Emilia Romagna o a Banca UBI, che presentano volumi di NPL's ben lontani, sia in valori assoluti che in termini relativi, da quelli del Monte dei Paschi, pre operazione di azzeramento effettuata in sede di aumento di capitale ora garantito dallo Stato, o di Unicredit, e analoga richiesta è stata presentata anche all'iper patrimonializzata Banca Intesa e alle altre banche sorvegliate, segno che la Nouy sta pensando ad una soluzione finale che, in un certo lasso di tempo, dovrebbe portare il livello delle sofferenze lorde, se non proprio quello dei crediti incagliati - gli NPL's appunto - al livello della media degli altri diciotto paesi dell'Eurozona, sistema Italia, ovviamente e accuratamente, escluso.

Se qualcuno nutrisse dei dubbi in tal senso, basterebbe la lettura di una delle rare interviste concesse dal mastino dei conti delle banche dell'area dell'euro, quelle ovviamente di maggiori dimensioni, Daniele Nouy appunto a Sonia Mastrobuoni de La Repubblica, un'intervista lunghissima nella quale dice tutto quello che lei e i suoi colleghi faranno non nei prossimi anni ma nei prossimi mesi e la missiva ultimativa rivolta alle quattordici banche italiane ne è un esempio altamente esplicativo.

Ho pubblicato sul mio profilo Facebook la versione integrale dell'intervista, ma tornerò a breve sull'argomento, in particolare sul diverso trattamento riservato a Deutsche Bank e all'intero sistema bancario tedesco rispetto a quello adottato sin dall'inizio alle banche italiane e ricordo che solo Unicredit e Bnaca carine hanno ammesso di aver ricevuto la letterina spedita direttamente dal venticinquesimo piano del grattacielo di Francoforte che ospita la sede centrale della Banca Centrale Europea.

lunedì 30 gennaio 2017

Le conseguenze economiche di Donald Trump


Quando ho come tutti ascoltato le boutade di Donald Trump nel corso della lunghissima e alquanto sanguinosa campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, ho pensato che buona parte di quelle affermazioni si sarebbero dissolte quando, come purtroppo avevo previsto qualche mese prima dell'epilogo, il nostro sarebbe approdato alla Casa Bianca e si sarebbe dovuto misurare con gli effetti delle misure da lui propugnate a voce alta nei comizi, situazioni in cui andava alla grande a differenza di quanto è avvenuto nei tre confronti diretti che hanno visto, seppur di diversa misura prevalere Billary Clinton, cosa che era avvenuta anche nei confronti con gli altri candidati repubblicani alla nomination.

Vorrei tentare di spiegare il motivo principale che ha determinato la vittoria in tre stati chiave, tradizionalmente democratici e iper sindacalizzati, ma che, a causa della globalizzazione, hanno visto chiudere numerosi stabilimenti con la conseguente perdita di posti di lavoro ben retribuiti sostituiti, nel corso dell'era Obama, da posti precari e mal retribuiti, un duro colpo alla classe media che si è assottigliata in favore del lumpenproletariat arrabbiato con Washington e tutto quello che gli grava attorno e che vedeva in Billay (unione dei due nomi di Bill e Hillary) una delle protagoniste della deregolamentazione, della finanziarizzazione e della delocalizzazione di parte di quell'industria automobilistica americana che ha visto nei bassi salari messicani una scorciatoia per uscire da una crisi che avevano evitato soltanto grazie ai forti aiuti statali dell'era Obama, una crisi per uscire dalla quale non bastavano le forti concessioni fatte dall'onnipotente sindacato del settore, concessioni che non consentivano comunque alle tre Big dell'auto a restare competitive nel mercato statunitense e in quello globale.

Fatta questa premessa, devo dire che mi ero sbagliato sulla moderazione insita nella carica, perché Donald è sembrato sin da subito la cerimonia di inaugurazione del quadriennio alla Casa Bianca come un toro davanti al quale qualcuno dei suoi collaboratori sventola un drappo rosso, ragione per la quale ha immediatamente emanato un decreto presidenziale per l'edificazione del muro con il Messico con annesse ritorsioni nei confronti delle merci di quel paese che verosimilmente verranno gravate di un 20 per cento di dazi, cosa che colpirà più di tutte le migliaia di aziende statunitensi insediatesi in quel grande e popoloso paese che, ad una amplissima presenza di regolari affianca irregolari stimati in undici milioni di persone e per le quali ultime si prepara una dura stagione di rimpatri (anche questa presenza, come quella di tutti gli irregolari, è vista come il fumo negli occhi dalla aristocrazia operai a stelle e strisce e dal sottoproletariato di quel grande e potente paese).

Ma di decreti Donald ne ha scritti tanti e tanti ne ha nella sua inesauribile penna e riguardano i diritti civili, il sostegno all'industria petrolifera e delle altre materie prime energetiche, l'uscita dal non ancora avviato TTIP, la prossima impugnazione del NAFTA, del libero scambio con i paesi dell'Asia e dei trattati con l'Unione europea (anche in questi casi è previsto un effetto boomerang pazzesco per le imprese americane stabilitisi in queste aree del mondo) e per tutti si parla di una misura di dazio del 20 per cento, misura che, se approvata, verrà praticata contro le merci USA dai paesi colpiti, per non parlare delle ritorsioni sul piano finanziario con i 2.500 miliardi di dollari in TBonds posseduti dai soli Cina e Giappone.

Dal punto di vista macroeconomico, la politica economica di Trump prevede gravi fiscali concentrati sulle imprese e una politica di lavori pubblici che unite insieme porteranno un forte incremento sia del deficit federale che del debito su cui già incombono le possibili ritorsioni di Cina e Giappone di cui parlavo di sopra, mentre non è chiaro quello che accadrà nell'area mediorientale, con particolare riferimento all'Arabia Saudita e ai paesi del Golfo.

Tornerò su questo argomento in seguito ma segnalo la precedente puntata sulla prossima abolizione della Dodd-Franck Act per gli effetti devastanti sulla stabilità e la sicurezza del sistema finanziario a stelle e strisce e di quello globale! 

venerdì 27 gennaio 2017

Gli USA e la terza ondata della Tempesta Perfetta


Solo l'insediamento in mondovisione del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d'America, Donald Trump, e i primi atti della sua amministrazione che fanno capire che quelle pronunciate in campagna elettorale non erano assolutamente promesse da marinaio hanno consentito all'indice Dow Jones Industrial, dopo una melina durata settimane in cui l'indice non schiattava e non moriva, di superare quella soglia psicologica e record storico dei 20 mila punti e le cronache dicono che in questo balzo un ruolo determinante lo hanno avuto quelle banche a stelle e strisce, ma anche le banche globali con sede in altri paesi che negli USA operano e alla grande, forti della promessa di Donald di eliminare quella normativa vincolistica (il Dudd-franck Act) fortemente voluta da Barack Obama e che era stata ideata per evitare un ripetersi del disastro della finanza più o meno strutturata messa clamorosamente in luce, a partire dall'agosto del 2007, dalla prima e rovinosa ondata della Tempesta Perfetta.

Pur essendo imperfetto e non andando alla radice del problema, il provvedimento citato imponeva un tetto sull'utilizzo dei depositi alle ex Investment Banks per operare nella finanza, anche perché nessuno sa quanto e se sia stato abolito l'andazzo di impacchettare parti dell'attivo, in particolare mutui residenziali e non, prestiti, carte di credito revolving e prestiti personali, proprio quelle voci che giocarono, a partire dal mutui subprime, un ruolo fondamentale nelle vicende che portarono tra il 2007 e il 2010 le banche di investimento statunitensi, e quelle commerciali, sull'orlo del fallimento, dal quale vennero salvate solo grazie alla trasformazione delle sedi regionali del sistema della Riserva Federale in ampie discariche dei titoli della finanza strutturata, un giochetto che costò migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti e che negli ultimi anni ha recuperato un centinaio di miliardi attraverso multe pagate da banche a stelle e strisce, società di rating e banche globali operanti negli USA.

Ai più distratti tra i miei lettori, vorrei ricordare come funzionava il meccanismo che ha portato al collasso e quasi alla bancarotta il sistema finanziario statunitense durante la prima fase della Tempesta Perfetta, un meccanismo che vedeva delle società finanziarie mettere insieme forsennatamente titolo rappresentativi di pacchetti di mutui spesso spazzatura e altre attività e, ottenuta la Tripla A dalle compiacenti e multate società di rating (Moody's ha accettato di pagare poco meno di un miliardo di dollari, mentre per Standard and Poor's si è ancora in attesa dell'accordo), titoli che venivano venduti alle banche con una clausola che avrebbe previsto il riacquisto da parte delle finanziarie in presenza di una percentuale di default bassissima, riacquisto che non riavente perché in una sola settimana chiesero la protezione tutte o quasi queste finanziarie, lasciando il cerino (parliamo di migliaia se non di decine di migliaia di miliardi di dollari) nelle mani di banche che erano a quel punto tecnicamente fallite!

E' questo quello che venne definito il casinò a cielo aperto della finanza e questa definizione la pastori l'allora presidente della Repubblica francese, Nicholas Sarkozy, di fronte ad una abbacchiatissima, Angela Merkel, ma non è la sede questa per parlare dei comportamenti dei leader mondiali e dei banchieri centrali dell'epoca, se non per dire che è in questa fase che Mario Draghi conquistò sul campo i galloni di Presidente della Banca Centrale Europea.

giovedì 26 gennaio 2017

Why Virginia Raggi is unfit to lead Rome


Ho scritto questa puntata del Diario della crisi finanziaria il 6 settembre dello scorso anno e ora che ci si avvicina al processo per falso ideologico e abuso di ufficio della sindaca, in uno con il suo ex braccio destro e sinistro Raffaele Marra le cose che scrivevo si stanno chiarendo ancora di più e, quindi, ripropongo ai lettori quelle considerazioni scritte a caldo.

° ° °

In oltre mille puntate del Diario della crisi finanziaria non mi sono mai occupato delle vicende dei partiti e movimenti politici italiani, anzi nei primi sei anni di vita del blog mi sono occupato pochissimo di vicende italiane ed europee, in quanto l'epicentro della tempesta perfetta era negli Stati Uniti d'America e alcune mie previsioni come quella sul fallimento di Lehman Brothers mi procurarono un pubblico statunitense che ancora oggi rappresenta oltre il 60 per cento delle persone che quotidianamente leggono il Diario, il che è molto interessante visto che lo stesso è scritto, ad eccezione di una puntata e del titolo di questa che riprende un famoso titolo con cui l'Economist  bollò l'incapacità di Silvio Berlusconi a guidare il nostro Paese, in italiano.

Dal giorno del ballottaggio delle recenti elezioni amministrative, sono stato pochissimo in Italia, ma ho seguito con grande attenzione le mosse delle due candidate a cinque stelle elette alla guida di due comuni molto importanti, Roma e Torino, due città che avevano vissuto due competizioni elettorali molto diverse tra loro, perché mentre a Roma, a parte il buon recupero di Giachetti rispetto ai disastri del PD romano, le divisioni interne alla destra sembravano spianare la strada quasi a chiunque il movimento di Grillo avesse presentato (e così puntualmente è stato, quasi come diceva un mio amico cambista, si trattasse di un calcio di rigore tirato a porta vuota), a Torino Chiara Appendino è andata a vincere contro tutti i pronostici che vedevano favorito, e in testa al primo turno, Piero Fassino, l'incumbent come dicono gli americani, nonché presidente della potente associazione dei comuni italiani, carica che peraltro ancora ricopre per motivi legati allo statuto dell'associazione.

Già nel corso della non troppo vivace campagna elettorale, mi aveva molto colpito la decisione della Raggi di non annunciare in anticipo la sua squadra di governo della città, cosa fatta dal suo principale competitor, Roberto Giachetti, che ne annunciò la composizione all'indomani del primo turno e che non lo aveva fatto ancora prima in quanto nei sondaggi non era dato neanche al ballottaggio, ma la squadra della neosindaca non  comparve neanche all'indomani del voto, mentre fu chiara da subito la struttura del cerchio magico della Raggi, una struttura non proprio interna al movimento cinque stelle ma formata da persone che almeno in un caso avevano un passato legato alle precedenti amministrazioni della Città quando la stessa, come nel caso dell'attuale vice capo di gabinetto, Marra, era guidata da Gianni Alemanno, un uomo politico di centro destra poi finito nelle indagini su Mafia Capitale.

I motivi del ritardo furono subito chiari, in quanto la neosindaca fu subito affiancata da quello che venne definito un mini direttorio composto da esponenti di primo piano dei pentastellati romani, tra cui spiccava per grinta e piglio decisionistico Giovanna Lombardi, la prima capogruppo alla Camera che verrà ricordata per l'umiliazione inferta a Pierluigi Bersani quando quest'ultimo cercava di ottenere i voti del movimento per formare un Governo dopo la non vittoria alle lezioni del febbraio 2013. Nel braccio di ferro tra un'ostinatissima Raggi e il mini direttorio a uscirne con le ossa rotte fu la Lombardi che lasciò il mini direttorio per organizzare la festa nazionale dei cinque stelle (sic), ma anche la Raggi pagò il suo prezzo  e dovette accettare un super assessore al Bilancio con delega alle partecipate, Minenna, e un capo di gabinetto, Raineri, magistrato di lungo corso che già aveva collaborato, come lo stesso Minenna, con un cerbero come il commissario Tronca, ottenendo però che il resto della squadra fosse composta dai suoi fedelissimi, dalla Muraro e da altre persone di suo gradimento.

Dei comportamenti con i quali ha spinto alle dimissioni le persone che Di Maio ed altri le avevano imposto sono state piene per giorni le cronache dei quotidiani, ma è nella sostituzione dell'assessore al bilancio, stavolta senza delega alle partecipate, che la Raggi dà il meglio di sé  rivolgendosi al suo ex datore di lavoro, l'avv. Sammarco, che, come confessa candidamente il neoassessore De Dominicis, persona sicuramente specchiata e perbene, è quello che gli ha offerto l'incarico e che lo ha convinto ad accettare, una circostanza che si intreccia con le amnesie del curriculum di Virginia sui suoi trascorsi professionali negli studi Previti prima e Sammarco poi.

Sulla vicenda di un altro assessore vicinissimo alla sindaca, Paola Muraro, e sulle astuzie da azzeccagarbugli della sindaca nel giustificare il perché non avessero reso noto che la Muraro era indagata stendo un velo pietoso se non per dire che nella visione anglosassone tali comportamenti rendono impossibile proseguire in ruoli pubblici.

mercoledì 25 gennaio 2017

Ops, ops: Intesa muove sulle Generali


Ho pensato molto se mettere un punto interrogativo al titolo, ma poi ho visto la serenità di titoli e contenuti sull'argomento da parte dei colleghi della carta stampata e degli altri media e, soprattutto, la tempestiva convocazione dei vertici di Intesa-San Paolo da parte della CONSOB, atto dovuto dopo due giorni di rally del titolo del Leone in borsa, movimenti assolutamente inusuali per il titolo della storica compagnia di assicurazioni che occupa il primo posto nella graduatoria italiana del settore, ma è superata nel ramo vita proprio dalla intensa attività di bancassicurazione della prima banca italiana che punterebbe a raggiungere quasi 800 miliardi nel comparto del risparmio gestito, mentre quello che non mi è chiaro è il motivo della convocazione da parte della stessa CONSOB dei vertici di Unicredit.

Ho descritto in più di una puntata del Diario della crisi finanziaria il "vero" assetto di vertice della banca che nasce dalla Ca de Sass, la storica Cariplo, unita all'inizio del risiko bancario a quel nucleo di banche che ereditarono le spoglie del Banco Ambrosiano, una di queste in particolare, il Banco di Brescia, guidata con mano ferma dal campione della finanza cattolica, l'avvocato Giovanni Bazoli. che di Intesa diverrà presidente e che ora ne è presidente onorario ma che, insieme a Giuseppe Guzzetti, patron della Fondazione Cariplo nonché presidente dell'ACRI, è nume tutelare della banca, oltre che secondo alfiere di quella finanza cattolica che ha prima conquistato la Banca Commerciale Italiana per poi, a differenza di quanto accadde con l'altrettanta presa, il San Paolo di Torino, non trovò spazio nel nome, né spazio nell'azionariato di comando del gruppo, come è invece accaduto per la Compagnia di San Paolo!

Ebbene, con buona pace di quel Carlo Messina cui ho visto muovere i primi passi nella Direzione finanza di un'importante banca italiana nella quale ricoprivo il ruolo di economista della sala cambi, sono questi due personaggi un po' avanti nell'età a menare le danze sulla storica compagnia di Trieste che ha come primo azionista Mediobanca e che insieme rappresentano uno dei pochi bastioni di quella finanza laica che per decenni ha visto come indiscusso regista del capitalismo delle famiglie lo scomparso Enrico Cuccia, un uomo che sino alla fine continuò a dettare legge in quella Mediobanca che il capo altrettanto indiscusso della Banca Commerciale Italiana, Raffaele Mattioli, gli consegnò pur di non averlo tra i piedi nella sua banca faticosamente risanata dopo la crisi bancaria degli anni Trenta.

Come andrà a finire è difficile da dirsi, in particolare perché gli interessi in gioco a livello europeo sono davvero enormi e qualcuno potrebbe essere tentato di contrapporre alla offerta pubblico di scambio, carta contro carta, di mettere sul piatto tanti soldi per mettere le ami su quello che forse è il pezzo più pregiato della finanza italiana. Quello che è certo è che la partita avrà tempi relativamente brevi.

martedì 24 gennaio 2017

Cala un silenzio di tomba attorno al Monte dei Paschi


Da quando il Consiglio di Vigilanza presso la Banca Centrale Europea ha inviato al ministro dell'Economia italiano, Piercarlo Padoan, una lettera, come ha notato il molto irritato nostro ministro, di cinque righe cinque nella quale si alza l'asticella dell'aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena da 5 a 8,8 miliardi e il di cui del Tesoro a 6,6 miliardi, ebbene da quel momento è calato un silenzio di tomba attorno alla banca più antica del mondo, con Marco Morelli che non parla più neanche con se stesso, terrorizzato dall'idea che trapeli qualche aspetto del piano industriale della banca senese che ha promesso a Madame Nouy, al suo prossimo socio di maggioranza assoluta Padoan e al mercato, inclusi quegli investitori istituzionali costretti a convertire in azioni a sconto le obbligazioni subordinate che possiedono per oltre due miliardi di euro.

In questo momento a pendere dalle labbra di Morelli c'è una piccola folla di ispettori della Vigilanza europea, suddivisa in un'ampia squadra presente lì da alcuni mesi e che si occupa dei conti, mentre una seconda e più qualificata è arrivata ieri e andrà via, se tutto va bene, venerdì prossimo e che ha obbiettivi meno specifici e tenterà di inviare a Francoforte notizie di prima mano sul piano di Morelli che non sembra intenzionato a scucire una sola parola, mentre qualcosa di più sta dicendo alla squadra di inviati di Padoan che, alla fine dei giochi sarà titolare di una quota azionaria, seppure a termine, del 60-70 per cento delle azioni della banca di Rocca Salimbeni e che, soprattutto è coautore di quel rafforzamento del Fondo esuberi del settore del credito che, come vedremo, giocherà un ruolo esiziale nella soluzione del rebus dei conti del Monte dei Paschi di Siena che già oggi, in base ai precedenti piani industriali, lo impegna per oltre 4 mila lavoratrici e lavoratori in uscita da ora al 2020.

Per esperienza diretta, so che un piano industriale si costruisce in due modi, il primo più democratico consiste nell'individuare delle linee guida e raccogliere le indicazioni delle principali direzioni/divisioni che compongono la sede centrale della banca, mentre il secondo, quello che, almeno secondo me, sta seguendo l'amministratore delegato e direttore generale Morelli, è quello di fare un piano industriale più snello e che si concentra su poche variabili strategiche del conto economico e dello stato patrimoniale prospettici che è poi quello che ha fatto in settembre il Chief Executive Officer di BNP Paribas, Bonafé, sottoponendo al Premier italiano e allo stesso Padoan i suoi desiderata, in particolare quel taglio di 10 mila dipendenti del Monte sui 25.600 presenti in organico a quel momento, ovviamente si trattava di 6 mila dipendenti in più rispetto ai piani già approvati e all'ultima trattativa svoltasi successivamente a quel poco fortunato e scarsamente reclamizzato abboccamento.

° ° °

Con una classica mossa anti scalata, quella definita dell'arrocco, le Generali hanno acquistato i diritti di voto del 3,1 per cento di azioni di Banca Intesa-San Paolo che si stava muovendo, in sintonia con il colosso assicurativo tedesco Allianz, per scalare il grande gruppo assicurativo italiano che capitalizza meno di un terzo della concorrente tedesca. Anche su questo capitolo ne vedremo delle belle!

lunedì 23 gennaio 2017

Il blocco tedesco all'assalto di Mario Draghi


E' di questi giorni la notizia che una sconosciuta organizzazione non governativa finlandese si è rivolta all'Ombusdman istituito presso l'Unione europea, attualmente retto da una donna irlandese, Emily O'Reilly, per muovere l'accusa di conflitto di interessi a carico del Presidente della Banca Centrale Europea, l'italiano Mario Draghi, per la sua frequentazione, due volte l'anno, dei lavori del Gruppo dei Trenta, un organismo istituito nel 1978 su input della Fondazione Rockefeller e che raccoglie banchieri ed ex banchieri centrali di tutto il mondo, economisti, finanzieri ecc., insomma uno di quegli organismi come la Trilaterale (anche essa istituita su impulso della potente famiglia Rockefeller), il Gruppo Bildberg e compagnia cantante che si riuniscono, a porte più o meno chiuse e con cadenze le più varie ma generalmente annuali, per discutere dei destini del nostro alquanto martoriato pianeta.

L'incaricata irlandese ha comunque avviato l'indagine su Draghi e alcuni alti funzionari della BCE, sollecitando una risposta scritta degli indagati, apparentemente immemore del fatto che il suo predecessore aveva già archiviato, nel 2012, un'analoga denuncia del medesimo ricorrente, il Corporate Europe Observatory, e l'archiviazione era giunta perché, come è possibile constatare leggendo l'elenco dei membri su Wikipedia, "Il Mediatore ha rilevato che gli appartenenti, i finanziamenti e gli obiettivi del Gruppo dei Trenta sono troppo diversificati perché possa esse considerato come un gruppo di interesse", giudicando l'adesione del Presidente della BCE a questo organismo compatibile con il suo ruolo.

Se l'obiettivo del CEO era quello di far saltare i nervi di Supermario già sotto attacco da parte del blocco tedesco, ispirato e guidato dal Presidente della Buba e dal ministro tedesco delle Finanze tedesco, nell'ambito della BCE, ebbene è un tentativo vano - e basta leggere la nota di replica proveniente dall'Eurotower per avere una idea della tranquillità che regna sovrana su questo fronte a Francoforte, ma anche perché, a mio modesto avviso, Draghi è abituato a reggere pressioni di intensità molto superiore e gode di una ampia maggioranza favorevole alla sua politica monetaria, una maggioranza molto trasversale, anche perché, in questa fase molto critica della vita dell'Unione, gli acquisti generosi dei rispettivi titoli di stato e la politica dei tassi a zero stanno iniziando a fa riavviare la crescita e, almeno in dicembre, si è registrato un vero e proprio balzo in avanti dell'inflazione.

sabato 21 gennaio 2017

L'amara lezione della Tempesta Perfetta (seconda parte)


Esaurita la parte che riguarda quelle che alcuni economisti hanno definito asimmetrie strutturali, in buona parte legate alla non individuazione di un sistema monetario internazionale basato su ancoraggi relativamente certi, quali regole per fare sì che sia scoraggiato sia avere un disavanzo nelle partite correnti strutturalmente in deficit, sia avere per lunghi o lunghissimi periodi una situazione opposta, il tutto ampliato da un mercato dei cambi non trasparente né governato da regole certe.

Veniamo allora al secondo aspetto, in realtà si tratta di due, che costituì, insieme al primo, il cuore della mia premessa sulle vere cause dell'insorgere della Tempesta Perfetta nella seconda metà del 2007 contenuta nel mio già citato intervento al Convegno organizzato dalla UIL, ed è rappresentato da quel profondo e a tratti violento processo di deregolamentazione che toccò profondamente quel coacervo di soggetti ed entità che, con una semplificazione molto giornalistica, definiamo mercato finanziario, sia a livello nazionale che a quello globale, un processo iniziato esattamente a metà degli anni Settanta, ma che vide il suo clou proprio dieci anni dopo quando si verificò il cosiddetto Big Bang della finanza statunitense che, grazie all'incipiente globalizzazione, si trasmise ai mercati finanziari di tutto il pianeta, anche se, per fortuna, rimasero alcuni e provvidenziali paletti nel mercato finanziario europeo.

Per onestà intellettuale, devo dire che la barriera che separava, dall'introduzione del più famoso provvedimento legislativo in materia di credito e finanza che, in un passato oramai remoto, cercò di trarre insegnamento dalla lezione del crollo di Wall Street nell'ottobre del 1929, non rappresentò una diga granitica tra le attività delle banche d'investimento e quelle delle banche commerciali negli Stati Uniti d'America, anche perché troppe furono le influenze e le pressioni sul legislatore esercitate dal potentissimo mondo della finanza che, seppur ammaccato dal grande crollo e dalla conseguente grande depressione, riuscì ad impedire che la delimitazione fosse improntata a quello, che a loro dire, sarebbe stato un approccio manicheo.

E' tuttavia certo che le possibilità di azione delle Commercial Banks dopo il Big Bank crebbero a dismisura, anche se restavano quelle "fastidiose" regole di separatezza che le costrinsero a costituire specifiche Divisioni abilitate ad operare sui mercati finanziari, le cosiddette CIB,  che avrebbero dovuto operare con un ampio margine di autonomia rispetto alla banca di cui pur facevano parte, qualcosa che ricorda un po' l'istituto del Blind Trust cui devono ricorrere coloro che si trovano a ricoprire alcune importanti cariche pubbliche per allontanare da sé ogni ombra di possibile conflitto di interessi.

Non voglio guastare la sorpresa al lettore, ma mi corre l'obbligo di dire che questa deregolamentazione, che qualcuno, e io con lui o lei, ha definito selvaggia, non ha assolutamente impedito che le due parti costitutive delle banche di ogni ordine e dimensione dialogassero fittamente tra di loro e che gli stessi fenomeni della finanziarizzazione e della cartolarizzazione di tutto il csrtolsrizzabile non si sarebbero mai verificati se gli uomini e le donne preposti alle attività di Corporate and Investment Banking non avessero avuto una conoscenza approfondita dell'attivo della banca che li ospitava.

Così come, almeno con un certo grado di approssimazione, è vero anche l'inverso, con l'importante osservazione che comunque persiste un'asimmetria informativa dovuta la fatto che, quando un pacchetto di mutui residenziali o di crediti al consumo, piuttosto che quelli legati all'acquisto dell'automobile finiva nelle mani dell'apprendista stregone di turno operante nelle grandi fabbriche prodotto delle CIB, solo lui e Dio sapevano che cosa avrebbe "montato" in un prodotto più o meno sofisticato che quasi invariabilmente avrebbe ottenuto il massimo rating possibile, quella tripla A indispensabile perché potesse essere acquistato anche dai Fondi Pensione e da tutti quegli altri soggetti che hanno nei loro statuti una limitazione similare, ma qui entriamo in un capitolo molto delicato e riguardante lo strano modus operandi delle agenzie di rating, una delle quali, Standard and Poor's ha già pagato una multa molto salata, mentre un'altra, Moody's, è in trepidante attesa che il Dipartimento della Giustizia a stelle e strisce decida l'entità della sanzione che la riguarda, ma di tutto questo mi occuperò nelle puntate successive.

Tutto questo non accadde la mattina dopo il Big Bang ed è possibile dire che ci vollero mesi, se non addirittura anni, perché la macchina fosse oliata a dovere e in grado di funzionare, anche se è certo che, nei venti anni che trascorrono dal 1985 alla fine del 2005 (già nel 2006 accaddero delle cose molto interessanti, in particolare nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs e nella molto globale banca svizzera denominata UBS, quella che nel pieno della crisi finanziaria lanciò la sfortunata campagna pubblicitaria che recitava una specie di nuovo logo che diceva UBS YOU and US), il meccanismo iniziò ad andare a tutto regime, anche grazie agli innesti nelle CIB delle grandi banche commerciali statunitensi, e non solo, di un vero e proprio esercito di persone provenienti dalle Investment Banks, quelle Big Five statunitensi che, grazie alle riforme successive allo scoppio della Tempesta Perfetta furono costrette a cambiare pelle, a fronte di molto lauti stipendi che queste persone cercarono di meritare spingendo con forza sull'acceleratore, incuranti dei rischi a cui la CIB e la banca detentrice della stessa andavano incontro.

Ma qui è necessario introdurre almeno tre nuovi elementi, cosa che farò nella prossima puntata di questa serie, mentre avverto i lettori che le puntate di questa serie verranno pubblicate, d'ora in poi, il sabato e resteranno in testa al blog fino al lunedì successivo compreso, così come colgo l'occasione per ringraziarli per il successo che questa serie sta avendo. (continua)

venerdì 20 gennaio 2017

L'amara lezione della Tempesta Perfetta (prima parte)


Ho comunicato nei giorni scorsi ai lettori del Diario della crisi finanziaria che non proseguiranno le pubblicazioni delle altre parti de "L'amara lezione della Tempesta Perfetta", in quanto le due pubblicate sul blog e le successive andranno a finire in un libro che cercherà di far comprendere quali sono i riferimenti pratici e quelli teorici che hanno ispirato sin dall'autunno del 2007 la redazione di questo libro di bordo della flotta delle varie entità finanziarie più o meno globali sommerse dagli alti marosi della Tempesta Perfetta che da allora si è manifestata sino ai giorni nostri.

E' per me un piacere ripubblicare oggi la puntata del 23 ottobre e domani quella del 29 dello stesso mese di quest'anno di disgrazia 2016. Buona lettura a tutte e a tutti!

* * *

Stiano tranquilli i miei lettori perché non ho intenzione di partire da Adamo ed Eva e dal loro paradiso perduto, anche se, a volerla cercare, un'attinenza con quanto è accaduto sui mercati finanziari in questi nove anni e quasi tre mesi, la si potrebbe pure trovare, ma io vorrei partire da quelli che erano i capisaldi della mia relazione svolta nell'ambito di una conferenza sulla crisi finanziaria e le sue ricadute sociali che ha avuto luogo al Residence Ripetta di Roma nel marzo del 2008, a presidente Barack Obama da pochissimi mesi insediato alla Casa Bianca, e mentre gli alfieri statunitensi del liberismo neoconservatore battevano rovinosamente in ritirata e lo stesso presidente della Federal Reserve Bernspan, al secolo Benjamin Bernanke, rotti i rapporti con quel mondo repubblicano che ne aveva fatto un'icona e con il potentissimo e da poco ex Segretario di Stato al Tesoro, Hank Paulson (che era giunto nel giugno 2006 a quel prestigioso ma ben poco remunerato incarico dritto dritto dalla posizione di Chairman e Chief Executive Officer della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, un uomo in missione speciale, volta a salvare la "sua" e possibilmente anche le altre banche globali dal disastro che esse stesse avevano contribuito a determinare e che aveva rinunciato per questo a prebende annuali oscillanti intorno ai 100 milioni di dollari in cambio di 200 mila dollari circa), si era trasformato di nuovo e in un battibaleno in quel keynesiano convinto che era stato  quando ancora passeggiava con i suoi studenti del corso sulle crisi finanziarie a Princeton.

Da quel 19 marzo del 2008,  sono trascorsi più o meno otto anni, gli stessi del doppio mandato di un Obama che per la sua intelligente gestione degli effetti della crisi finanziaria passerà alla Storia (e avrebbe meritato un Nobel per l'Economia molto più di quanto abbia meritato, a inizio del primo mandato, quello per la Pace), ed  erano trascorsi appena sette mesi da quel 9 agosto del 2007, giorno nel quale venne drammaticamente alla luce quella verità di cui gli addetti ai lavori parlavano da qualche tempo e, cioè, che le banche di ogni ordine e dimensione dell'intero pianeta avevano smesso di fidarsi l'una dell'altra.

Il che in soldoni, vuol dire semplicemente che avevano smesso di prestarsi denaro l'un l'altra, una situazione mai verificatasi in quella misura e con quelle modalità dalla fine del secondo conflitto mondiale e che costrinse le banche centrali dei principali paesi industrializzati a fare da filtro tra le banche da loro stesse sorvegliate, nonché a inondare letteralmente i mercati interbancari dell'intero orbe terraqueo di liquidità in dimensioni nettamente superiori a quanto era accaduto dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 e, limitatamente agli Stati Uniti d'America, di molto superiori alle iniezioni di liquidità effettuate in occasione del crollo verticale dei listini azionari a Wall Street, con particolare riferimento ai titoli tecnologici quotati in quel NASDAQ che crollò in poche sedute, nei primissimi anni Duemila, dai 5 mila punti ai 2.500 da cui era partito molti anni prima.

Nessuno conosce realmente la tempistica e le giravolte rispetto alle strategie annunciate che caratterizzano le scelte di investimento di George Soros, il multimiliardario nato in Ungheria nel 1930  in una famiglia di religione ebraica con il vero nome di Gyorgy Schwartz e giunto negli anni dell'immediato dopoguerra prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti d'America, esule volontario dal proprio Paese e poi naturalizzato americano, ma, stando alle sue più recenti dichiarazioni, la sua principale scommessa, dopo quelle vinte il 16 settembre 1992 (meglio noto come Martedì Nero) contro la lira italiana e la sterlina britannica, è quella di puntare ad un crollo dello Standard and Poor's 500, forse l'indice meno soggetto a brusche variazioni tra quelli esistenti all over the world, ed io da allora tengo d'occhio quotidianamente questo benedetto indice e vedo solo che ha smesso di crescere, ma di cadute verticali che potrebbe far guadagnare una delle mie due stelle polari nella Tempesta Perfetta (l'altra è rappresentato dal Leone di Omaha, al secolo Warren Buffett) nemmeno l'ombra, anche se aspetterei il periodo a cavallo delle elezioni presidenziali statunitensi del prossimo 8 novembre per valutare se ha visto giusto o meno!

Come dicevo sopra, sono trascorsi otto anni circa prima che rileggessi per la prima volta le quattordici pagine della mia relazione a quel convegno e questo è accaduto nei giorni scorsi, anche se, nei giorni immediatamente successivi all'intervento, avevo visto il video che credo sia ancora disponibile in rete sul sito della FLIP, realizzato da un operatore free lance della FLIP stessa che si era offerto gratuitamente di riprendere il mio intervento, mentre non fece altrettanto per gli altri e molto più famosi relatori forse per solidarietà tra free lance, e lo feci, mancando allora il volumetto stampato che uscì solo qualche tempo più tardi, per capire meglio che cosa avessi detto in un intervento durato una ventina di minuti e svolto completamente a braccio (il testo ora è presente in  "Finanziarizzazione dell'economia e crisi dei mercati: quali ricadute sociali?" edito dalla UIL e che riporta, oltre al mio, anche gli interventi del professori Luigi Spaventa, Paolo Leon ed Elsa Fornero), anche perché avevo sperimentato più volte lo stesso fenomeno quando tenevo le relazioni  settimanali sulle previsioni sui cambi e i tassi di interesse nella Divisione finanza della mia banca.

Ebbene, rileggendo il testo, ho scoperto che ero partito da una visione critica della famosissima conferenza di Bretton Woods del 1944, nella quale, dopo uno scontro epocale vinse il ministro del Tesoro USA White (le cui simpatie per la Germania nazista vennero a galla solo alcuni anni dopo e quando Keynes era ormai morto) e fu sconfitta la proposta della Clearing Union di John Maynard Keynes, un sistema, quindi che introduceva surrettiziamente un regime di cambi fissivinse cioè il sistema valutario basato sulla convertibilità in oro del dollaro a 35 dollari per oncia.

Si introdusse così un sistema che fissava, quindi, una situazione nella quale il dollaro non poteva svalutare rispetto alla parità aurea, un qualcosa di assolutamente assurdo in assenza di continui, o almeno periodici, aggiustamenti volti a modificare la suddetta parità in funzione degli avanzi o disavanzi delle bilance commerciali registrati nel tempo dagli altri paesi e che franò rovinosamente a ferragosto del 1971, quando il presidente statunitense Richard Nixon, dopo una provocatoria richiesta del presidente francese De Gaulle di ottenere l'equivalente in oro di un miliardo di dollari, dichiarò, a mercati rigorosamente chiusi, che gli Stati Uniti d'America avevano scherzato e che da quel momento in poi non avrebbero più soddisfatto le richieste delle altre nazioni di trasformare in oro le quantità di dollari statunitensi in loro possesso, decisione che aprì una fase di estrema incertezza e volatilità nel mercato dei cambi, aggravata dalle due decisioni assunte dall'OPEC nel 1973 e nel 1979 di contingentare in modo radicale la produzione di greggio adducendo a motivazione la chiusura di Israele rispetto alle richieste del popolo palestinese, una bugia davvero spudorata ma alla quale l'opinione pubblica mondiale credette ad occhi chiusi, situazione cui si diede risposta con sistemi alquanto farlocchi che giocarono un ruolo non indifferente nello scoppio della gigantesca bolla speculativa sui mercati azionari statunitensi del 1987.

Ma perché decisi di partire da una scelta risalente a sessantaquattro anni prima e per di più spazzata via dagli inevitabili avvenimenti verificatisi trentasette anni prima di quell'intervento? Perché la proposta del mio Mentore, spiritualmente parlando, John Maynard Keynes, nell'analisi della Tempesta Perfetta conteneva degli elementi (Bancor e Clearing Union) che avrebbero impedito quel sorgere dei due deficit gemelli (quello federale e quello commerciale, guarda un po' pareggiato dai costanti afflussi di capitale verso l'area del dollaro, allora ancor di pià riserva valutaria di quanto lo sia ora e ancora pressoché incontrastata valuta di scambio, né avrebbe favorito l'insorgere di quella che il compianto economista Marcello De Cecco ebbe a definire la "fabbrica del formaggio verde" (colore, almeno allora, delle banconote statunitensi) e che consentì, semplicemente stampando moneta, di finanziare la ripresa delle distrutte economie europee (a quelle dell'Est Europa ci pensava l'URSS che di problemi valutari ne aveva ancora di meno degli USA) e di campare per oltre un quarto di secolo acquistando a buffo dal resto del mondo, fino a che De Gaulle gridò che il re era nudo e il castello di carta crollò su stesso.

Ma cosa accadde dopo che quella costruzione artificiosa costruzione valutaria ebbe a franare bruscamente? Non tedierò il lettore con l'illustrazione dei diversi sistemi escogitati dagli esperti per conto dei Governi, in particolare nell'ambito dell'Unione europea, allora carente di una moneta unica che vedrà la luce solo quando, nel maggio del 1998, furono fissate le parità fisse e irrevocabili tra le valute dei dodici paesi che diedero vita ad un euro che poi divenne moneta circolante solo due anni e mezzo dopo, sistemi talmente poco credibili da consentire guadagni enormi alla speculazione internazionale quando riuscì, nella tempesta valutaria, a infrangere, il già ricordato Martedì Nero del 16 settembre 1992, costringendo la Banca d'Italia a bruciare 48 miliardi di dollari di riserve valutarie e la Bank Of England a pagare un prezzo altrettanto stratosferico, un prezzo che non evitò alle due "lire" svalutazioni istantanee di rilevantissima entità.

Per chi fosse, invece, interessato anche alle tecnicalità, suggerisco, oltre a tutto quello che si può trovare sui motori di ricerca digitando crisi valutarie o sistemi sanitari, un mio articolo sul numero 5 di Minerva bancaria del settembre-ottobre 1993 (ad un anno data dall'uscita di lira e sterlina dallo SME) dal titolo "Accordi di cambio e speculazione: spunti per un nuovo approccio", un articolo che mi salvò da una situazione terrificante e mi consentì di diventare l'economista di sala di quella parte della Direzione Finanza della mia banca che si occupava appunto di cambi, tassi di interesse e derivati, una pubblicazione che fu favorita dal fatto che caporedattore della rivista era allora un mio ex collega dell'Ufficio Studi.

Questa è solo la prima di una serie di puntate sull'approccio teorico che ho seguito nell'analizzare un fenomeno complesso e molto interrelato come era e, purtroppo, ancora è la Tempesta Perfetta, una serie di puntate che sveleranno al lettore anche il metodo da me seguito in questo sforzo di analisi e che mi ha consentito di svolgere, del tutto pro bono, un'attività di controinformazione che sembra essere stata apprezzata dalle oltre 220 mila persone che hanno visitato il blog provenendo da oltre cento Paesi, puntate che, almeno di norma, appariranno di domenica restando in piena vista anche il lunedì successivo. (Continua)

giovedì 19 gennaio 2017

Fed: la Yellen rispolvera il concetto di tasso neutrale


In un intervento pubblico, ma dove è finito il tempo in cui i banchieri centrali parlavano per atti, Janet Yellen, primo presidente donna del sistema della Riserva Federale statunitense e democratica al 100 per cento, ha rispolverato il concetto di tasso neutrale per i tassi di riferimento stabiliti dal Federal Open Market Committee, l'organismo che si riunisce con cadenza mensile presso la sede di New York della Fed e stabilisce la misura dei tassi che fanno da base per quelli a loro volta applicati dalle banche a stelle e strisce e dalle banche globali operanti negli States.

Ma cosa è questo tasso "neutrale"? Altre non è che quel tasso che non deprime l'economia, né le imprime una stretta recessiva e lo stesso dovrebbe posizionarsi, entro il 2019, al 3 per cento, a partire da una situazione, quella attuale, che vede i tassi e la politica monetaria più in generale come eccessivamente espansivi alla luce di un tasso di disoccupazione vicinissimo al livello della disoccupazione frizionale, ossia quel 4 per cento che esprime una situazione molto tesa del mercato del lavoro nella quale non vi sono praticamente più persone disposte ad occuparsi, perché si tratterebbe in buona parte di disoccupati volontari, e da un livello dell'inflazione "core" (quella al netto delle componenti volatili come petrolio e alimentari) che inizia oramai a surriscaldarsi, anche se ancora non al di sopra del livello obiettivo stabilito in quel di Washington che storicamente è fissato al 2 per cento.

Se qualcuno ritenesse che la Yellen ha indicato ieri, in contemporanea con i lavori del World Economic Forum di Davos, un percorso lineare che dallo 0,50-0,75 odierni porta al 3-3,25 del 2019 commetterebbe un errore madornale, perché nulla esclude che ad una serie di rialzi già nei dati e che potrebbero portare i tassi di riferimento al di sopra del tasso neutrale, soprattutto se il surriscaldamento dell'economia legato agli effetti della Trumpeconomics fosse eccessivo, quindi anche prossimi al livello del 4 per cento entro il 2018, potrebbe fare seguito una fase di allentamento delle condizioni monetarie che le riporterebbero appunto al livello desiderato indicato ieri dalla Yellen.

Nella sua lunga carriera di docente universitaria, di capo dei consiglieri economici di Bill Clinton e di membro del FOMC prima, vice presidente per quattro anni e poi presidente della Federal Reserve, Janet Yellen non ignora l'esistenza delle wild cards, ossia di quegli eventi imprevisti che possono indurre la Fed non solo a invertire una politica monetaria studiata a tavolino e con il supporto del responso dei modelli econometrici, ma è anzi lei stessa, nel discorso di ieri a paventare una simile eventualità di cui vede tutti i rischi e le ben scarse opportunità!


mercoledì 18 gennaio 2017

Ma il mondo rischia davvero di essere meno globale!


Quando ho scritto la puntata di ieri sul possibile e parziale tramonto della globalizzazione che, invisa ai sindacati dei paesi ricchi, ha comunque fatto uscire dalla povertà un miliardo di persone in quelli che un tempo erano chiamati paesi in via di sviluppo, non avevano ancora parlato da Davos il presidente cinese, new entry in questo prestigioso consesso, né uno dei consiglieri economici di quel Donald Trump che, a tre giorni dall'insediamento, è in caduta libera nei sondaggi, né, dalla Lancaster House, si era pronunciata Theresa Maybe, come è appellata la premier britannica per i suoi continui tentennamenti sul percorso, e soprattutto sui tempi, della Brexit e che ieri ha dettagliato in maniera chiara la posizione inglese sulle principali materie del contendere, iniziando con il chiarire che la Gran Bretagna non aspira a continuare a far parte del mercato comune europeo, ma vuole un patto tra pari, in assenza del quale il suo Paese si candida a diventare il più grande, almeno per dimensione, paradiso fiscale per aziende e possessori di capitali, un'ipotesi che Trump sta vagheggiando anche per gli Stati Uniti d'America con la flat tax per le imprese fissata ad un 15 per cento, un livello del tutto proibitivo per i maggiori paesi membri dell'Unione europea.

Accantonando, almeno per ora, i 12 punti del discorso della May che vede con estrema preoccupazione l'infoltirsi della delegazione comunitaria alle trattative sulla Brexit, composta da personaggi che sono universalmente definiti dei "mastini", torniamo a Davos dove il presidente cinese Xi Liping ha tenuto un discorso che molti osservatori hanno definito in stile Obama, un discorso tutto centrato sulla necessità di mantenere l'attuale livello di globalizzazione e paventando, seppure in sordina ma ben udite dai partecipanti occidentali, in primis da quelli statunitensi, minacce di ritorsione rispetto a chi volesse tornare ai dazi commerciali, forte del trilione di TBonds nelle mani delle banche statali cinesi.

Mi ha colpito, ma non stupito, l'elezione di Donald J Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d'America, ma mi colpisce molto di più che, in una fase che viene da tutti definita di luna di miele tra il nuovo eletto e l'opinione pubblica, il suo livello di popolarità nei sondaggi sia precipitato al 40 per cento, livello in parte giustificato dal fatto che in numerose uscite pubbliche non ha smorzato i toni da campagna elettorale e che, invece di assumere un profilo maggiormente presidenziale e spesso nello sconcerto degli stessi individui da lui designati a ricoprire posizioni chiave nel suo Governo, ha ribadito le posizioni maggiormente controverse assunte nel corso della lunghissima e infuocata campagna elettorale, tra cui quella sui dazi commerciali e sul muro con il Messico.

martedì 17 gennaio 2017

Un mondo sempre meno globale?


Fu sotto un presidente outsider degli Stati Uniti d'America, Ronald Reagan, che si gettarono le basi della globalizzazione e della deregolamentazione finanziaria, poi perfezionate da Bill Clinton con provvedimenti che passeranno alla storia ma che, in realtà, permisero alle banche di costruire i castelli di carta dei titoli più o meno tossici e ai capitali di spostarsi dove era più profittevole e conveniente, spesso con annesse produzioni al seguito e colpi sempre più duri all'aristocrazia operaia statunitense e dell'Unione europea miglioramento delle condizioni della classe operaia dell'Est Europa e di numerosi paesi asiatici, Cina e India in primis.

Oggi a Davos si apre il Forum economico mondiale che vede non del tutto a caso per la prima volta la partecipazione del presidente della Repubblica Popolare Cinese, un paese che ha beneficiato in questi decenni di investimenti diretti dall'estero enormi che ha prodotto un incremento esponenziale dell'occupazione a salari non confrontabili con quelli vigenti negli USA, in Canada, in Australia e nella parte affluente dell'Unione europea, aree che hanno visto una quasi speculare perdita di posti di lavoro ben retribuiti e ad alto tasso di sindacalizzazione e che non a caso minaccia di tuonare contro le minacce alla globalizzazione e alla delocalizzazione di cui tanto ha beneficiato il suo immenso ma ancora fragile paese.

Quello che è successo con la Tempesta Perfetta, regnanti negli USA prima Bush Jr e poi Barack Obama è stato il più grosso switch tra occupazione buona e a redditi medio alti e occupazione cattiva a redditi medio bassi, in prevalenza bassi, e con il timore diffuso di altre delocalizzazione in tutti i settori, automotive in testa, che avrebbero portato ad altre perdite di lavori buoni in cambio, se tutto va bene di posti cattivi.

Insomma, al di là delle chiacchiere, è questo che ha consentito a Donald J. Trump di battere la super favorita Hillary Rodham Clinton anche negli stati operai come Ohio, Michigan e altri, in quanto le sue parole sulla delocalizzazione, i dazi ed altro sono suonate come musica alle orecchie di dipendenti di un'industria sempre più attratta dalle arene messicane, dell'Estremo Oriente o di altre zone del pianeta e queste sono le basi del "populismo" statunitense ma anche di quello di tante zone dell'Europa, un'Europa che vede, in Francia, Germania, Olanda e Austria tanti elettori della sinistra anche estrema passare sotto le bandiere di Marine Le Pen o di di Allianz fur Deutschland o di altre formazioni similari

lunedì 16 gennaio 2017

La Vigilanza BCE "visita" il Monte dei Paschi di Siena


Dopo averlo massacrato a distanza mediante letterine che imponevano condizioni proibitive alla banca più antica del Mondo, ora la Vigilanza presso la banca Centrale Europea effettua una visita a Rocca Salimbeni, un qualcosa di inedito che non dovrebbe essere un'ispezione, ma coinvolgere esponenti più di spicco di quel Consiglio di Vigilanza che si è spaccato sulla lettera di cinque righe cinque con cui, sulla base di dati noti da mesi e, quindi, anche il 23 novembre data della missiva che prevedeva un aumento di "soli" cinque miliardi di euro, ha previsto che l'aumento di capitale necessario doveva essere di 8,8 miliardi, prevedendo in sostanza che l'apporto dello Stato doveva essere di 6,4 miliardi, inclusi i due per lo scambio delle obbligazioni subordinate in mano alla clientela retail con obbligazioni semplici e garantite dello Stato secondo lo schema previsto dal cosiddetto Gasc.

La visita degli inviati della Vigilanza BCE durerà dal 23 al 27 gennaio e si sovrappone ad un'ispezione in corso da mesi e non ancora terminata ed avrà ad oggetto i primi dati del bilancio 2016 e le linee del piano industriale lacrime e sangue che l'amministratore delegato e direttore generale di MPS, Marco Morelli, sta per sottoporre al Ministero dell'Economia che a breve sarà azionista al 70 per cento della banca senese e poi al vaglio della BCE e si tradurrà dunque in incontri molto utili per evitare nuove incomprensioni con Madame Nouy e i suoi compagni della Trimurti con sede a Francoforte.

E' evidente che il lavoro degli inviati si accavallerà con le persone inviate dal MEF che hanno un compito più politico, quello, cioè, di prevedere una visione più moderata su quello che sarà lo zoccolo duro del nuovo piano industriale con un taglio del personale e delle dipendenze che si ponga metà strada sui 4 mila circa già acquisiti e i 10 mila a suo tempo richiesti da BNP Paribas per farsi carico della banca di Rocca Salimbeni e, per quanto riguarda le dipendenze, un analogo intervento moderatore rispetto ad una visione puramente tecnica del piano.

E' evidente che gli inviati della Nouy propenderanno di più su una sforbiciata radicale dei costi, volta a raddrizzare in poco tempo i conti, in particolare quella sintesi magica che è l'utile di esercizio per il 2018-2019, così come è evidente che Padoan non può accettare soluzione draconiane, seppur mitigate da un Fondo per gli esuberi, da poco finanziato dal Governo con 600 milioni di euro e dalla possibilità di mettere le lavoratrici e i lavoratori in accompagnamento, modello Alitalia, fino a sette anni, ma si tratterà comunque di uno scontro, ovviamente del tutto sotterraneo, tra le diverse visioni che si contrappongono!


venerdì 13 gennaio 2017

Avviso ai naviganti nella Tempesta Perfetta


Non sono un analista tecnico, ma se lo fossi la configurazione del Dow Jones Industrial e dello S&P's 500 mi farebbero riflettere seriamente perché, oramai da settimane, "non schiatta e non muore" come si dice dalle mie parti e, soprattutto,  non riesce a bucare, se non a livello intraday, la fortissima barriera posta a 20 mila punti il primo, mentre il secondo vivacchia attorno ai 2.200 punti ben lontano  dal livello magico dei 2.500 punti.

D'altre parte, George Soros, una delle mie due stelle polari per orientarmi tra i più o meno alti marosi della Tempesta Perfetta (l'altra è Warren Buffett, mentre il mio maestro spirituale è senza dubbio John Maynard Keynes), ha da tempo dichiarato di essere andato corto sul più ampio degli indici azionari statunitensi e, almeno all'inizio, tutti lo prendevano per matto, mentre ora molti degli squali di seconda generazione gli si sono messi in fila, iniziando a fiutare il sangue conseguente allo scoppio di questa grande bolla speculativa, forse la più grande in questo settore e che dovrebbe richiedere interventi di urgenza da parte della Federal Reserve.

Nella mia postazione di economista di sala della direzione finanza di una grande banca italiana ne ho viste scoppiare di bolle speculative e altre le ho studiate retrospettivamente, mentre lo scoppio dello scoppio contemporaneo di più bolle speculative, la Tempesta Perfetta, l'ho analizzato da responsabile dell'ufficio studi di un sindacato del settore finanziario che mi consentì di dedicare tempo all'analisi di uno sconquasso che pure per alcuni anni non colpì le banche italiane, come sta facendo ora che siamo giunti alla terza fase.

La fase attuale dell'azionario statunitense mi ricorda molto quello sgretolamento successivo di nuovi massimi del Dow Jones a tre mesi di distanza dello scoppio della più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra mondiale o il top molto pilotato del prezzo del greggio, due situazioni che ricordano quel momento delle montagne russe dove si raggiunge il punto più alto per poi precipitare con il cuore in gola!

Ricordo solo per inciso che le altre bolle statunitensi sono l'immobiliare, il credito e la finanza nonchè il prezzo del greggio e delle altre materie prime energetiche.

giovedì 12 gennaio 2017

Oggi l'offerta vincolante di UBI per Etruria e due delle sue sorelle


Da quel mese di novembre del 2015 che ha visto la prima applicazione del micidiale meccanismo del bail in nel nostro Paese (peraltro con due mesi di anticipo rispetto all'entrata in vigore della relativa legge) a Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara sono trascorsi quattordici mesi, un lungo periodo per la vendita di banche ripulite dalla creazione delle relative bad bank in cui si è messo tutto, dalle sofferenze lorde alle sofferenze nette fino ai crediti semplicemente nella fase di incaglio.

Un periodo di tempo nel quale sono andati "a male" altri 2,3 miliardi di impieghi ai quali però provvederà il davvero provvidenziale Fondo Atlante 2, quello costituito successivamente al Fondo Atlante e che è destinato ad occuparsi principalmente di acquisire le sofferenze del Monte dei Paschi di Siena ed altre partite andate a male come quelle delle quattro sventurate banche dell'Italia centrale ed altre ancora.

Il commissario delle quattro good bank, Nicastro, dopo numerosi rinvii chiesti ed ottenuti dalla Vigilanza bancaria presso la Banca Centrale Europea, si è trovato un solo e molto determinato interlocutore, Victor Messiah, Chief Executive Officer di UBI, un gruppo bancario che ha raggruppato e messo a sistema banche di diversa natura giuridica, popolari, società per azioni e quant'altro e le ha unificate di recente in una sola azienda, eliminando i marchi, UBI, inoltre è il quinto gruppo bancario italiano alle spalle del nuovo terzo gruppo, Banco BPM, e della disastrata banca MPS.

Ma Messiah ha subito messo in chiaro il suo disinteresse per Cariferrara e ha chiesta alla Nouy e ai suoi  colleghi del Consiglio di vigilanza BCE di essere esentato dall'aumento di capitale da 600 milioni richiesto al termine dell'operazione di acquisizione praticamente a costo zero, perché la cifra richiesta è pareggiata dai crediti di imposta che le tre banche portano in dote, una trattativa che si è rivelata presto fallimentare e UBI, obtorto collo, ha dovuto annunciare l'aumento di capitale che sarà formalizzato dopo la presentazione dell'offerta vincolante di acquisto e prima dell'approvazione dell'operazione da parte della Vigilanza BCE.

Con questa acquisizione si chiude uno dei capitoli più tristi della storia bancaria del dopoguerra, una pagina che ha determinato un cambiamento dei comportamenti di obbligazionisti subordinati e depositanti, con un calo notevole della quota di obbligazioni della specie nelle mani dei piccoli investitori, ma un calo molto inferiore alle attesa della massa di depositi soggetti al bail in che, alla fine del 2015, la Banca d'Italia cifra ancora a 425 miliardi di euro!

mercoledì 11 gennaio 2017

Chi spia chi: spionaggio tra politica e finanza


Quando ho sentito che un ingegnere nucleare, gran maestro di una loggia massonica romana facente capo al Grande Oriente d'Italia, assieme alla sorella ha messo sotto controllo uno sterminato numero di apparati elettronici, computer e telefoni, tra i quali quelli di Mario Draghi, Matteo Renzi, Mario Monti e altri personaggi di prima e seconda fila del mondo politico ed economico (ma non, almeno a quanto è trapelato, Silvio Berlusconi e famiglia), la mia mente è andata ad un episodio avvenuto qualche decennio fa, quando fui invitato da una giovane diplomatica conosciuta ad una festa a prendere un caffè presso l'ambasciata di uno dei paesi più importanti dell'Unione europea.

Prima di recarmi presso la sede diplomatica, avevo visitato il sito dell'ambasciata e avevo letto che uno degli scopi di quell'istituzione era proprio quello di consultare esponenti del mondo politico, economico e sindacale in maniera da informare il proprio Governo in maniera più precisa di quanto risultava dai giornali sulla reale situazione del  nostro Paese e, per fortuna, nella mia attività di previsore su cambi e tassi di interesse, ero costretto ad un buon livello di inglese, lingua nella quale si svolse il colloquio come in tutte le conversazioni internazionali.

Non ci vollero più di cinque minuti per capire che quella chiacchierata innocente era in realtà una sorte di colloquio di selezione per passare eventualmente ad un livello successivo e giocai quella partita a modo mio, ponendo a mia volta domande sull'economia e la politica di quel nostro importante alleato e mandai volutamente a monte quel tentativo di trasformarmi da economista e analista in un eventuale fonte di quella ambasciata cosa che giudicai, al di là dell'effettiva praticabilità, del tutto intollerabile!

La spy story dei due fratelli che facevano la spola tra Londra e Roma, ben introdotti nel mondo dell'alta finanza delle due città, presenta aspetti che hanno dell'incredibile e manda in soffitta i metodi degli hedge funds, di Eisman, di George Soros o altri squali della finanza internazionale, anche se non è escluso che tra i clienti di Giulio Occhionero e della sorella Francesca Maria ci fossero nomi importanti del mondo dell'alta finanza residenti nella City londinese o nel mondo della finanza italiana e non sono esclusi clienti tra finanzieri di altri paesi importanti dell'Unione europea o degli Stati Uniti d'America.

I numeri relativi alle persone spiate sono tali che bisognerà attendere che si posi il polverone per capirci realmente qualcosa, se pure mai ciò sarà possibile in un paese che ha affossato indagini come quella sulla Loggia P2 e tante altre!

martedì 10 gennaio 2017

Il Fondo Atlante offre un rimborso agli azionisti di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca


La bocciatura da pate del Consiglio di Stato della circolare applicativa Bankitalia della legge sulle banche popolari italiane, fino a poco tempo fa società cooperative a responsabilità limitata, e per le quali era prevista la trasformazione in società per azioni, cosa avvenuta per la maggior parte di loro, ma, diceva la circolare, con la possibilità di bloccare il cosiddetto diritto di recesso, cosa che avvenne ad esempio in Banca Popolare di Vicenza e in Veneto Banca, ma non solo in queste, mandando nella disperazione gli azionisti che avevano comprato a 60 euro i titoli della prima e a 40 euro quelli della seconda e che si vedono aprire una vera e propria autostrada risarcitoria con decine di migliaia di cause dagli esiti imprevedibili.

Il Fondo Atlante, divenuto obtorto collo padrone assoluto delle due banche espressione di quel buco nero del credito che è la regione Veneto, ha deciso di tagliare la testa al toro e di proporre ai 169 mila azionisti delle due banche che intende a breve fondere e denominare Banca delle Venezie un risarcimento che sarà del 15 per cento del valore fisso a 9 euro per azione per gli azionisti della Banca Popolare di Vicenza (il che significa che sin dalla quotazione non fu esercitato il diritto di recesso per alcuno) e del 15 per cento del valore effettivo di acquisto per le azioni di Veneto Banca che dovrebbe prevedere un rimborso massimo di 6 euro per azione.

La proposta riguarda tutti gli acquirenti di azioni dal 2007 alla data di esercizio dell'aumento di capitale per le due banche ed è soggetta a un tetto di adesione non inferiore all'80 per cento della platea degli interessati e alla rinuncia a qualsiasi azione di rivalsa nei confronti della banca della quale erano soci.

Si tratta di una proposta che riguarda azionisti della più diversa specie, dagli ex dipendenti che hanno investito nei titoli della loro banca la loro liquidazione ai piccoli e medi imprenditori che le hanno acquistate credendo, a torto o a ragione questo lo stabiliranno i giudici, di avere più facilmente accesso a quei crediti che in molti casi non restituiranno mai più spingendo le sofferenze delle due banche a livelli che sarebbero giustificabili in banche con totale dell'attivo molto, ma molto superiore a quello che le caratterizzava tempo per tempo.

Sulla qualità dei precedenti amministratori basti pensare che l'ex amministratore delegato di Veneto Banca, Consoli, è stato arrestato, mentre una parte rilevante dei precedenti amministratori della Banca Popolare di Vicenza risulta indagata con in testa il presidente dalla durata ventennale, Gianni Zonin che, nel frattempo, si è reso pressoché nullatenente!

* * *

Credo proprio che dovrò adottare la lingua inglese per il Diario della crisi finanziaria perché nell'ultimo mese ho ricevuto visite da 7 mila utenti statunitensi e 1.500 circa visitatori russi che, uniti polacchi ed ucraini, pareggiano quasi i visitatori italiani (2.229), il che è davvero strano perché gli argomenti sono in larga prevalenza di interesse dei lettori italiani!


lunedì 9 gennaio 2017

Le banche centrali al gran ballo di tassi e valute


Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alle mosse effettuate e presunte del sistema della Riserva Federale statunitense, spiegando perché, dopo una partenza della fase di rialzi dei tassi nel dicembre del 2015, nulla sia accaduto per dodici mesi, sino al rialzo dello scorso dicembre e di come tutto questo sia oramai alle spalle con una serie di mosse annunciate che potrebbero anche superare le tre previste per il 2017 e le altrettante strette alla "corda del boia" annunciate per il 2018 che è anche l'anno in cui scade il mandato di Janet Yellen presidente della Fed molto invisa all'ormai prossimo e molto esuberante presidente degli Stati Uniti d'America (la Yellen ha già reso noto di non aver la minima intenzione di lasciare in anticipo la carica).

Non ho la pretesa di essere un Fed Watcher, semmai sono stato per alcuni anni un Buba Watcher, anche se sono stato tra i pochi ad affermare che nessun aumento dei tassi sarebbe avvenuto negli USA prima delle elezioni presidenziali e che l'alternativa possibile era tra dicembre e gennaio, propendendo per la prima in caso di vittoria di Donald Trump, vittoria che dall'estate ho iniziato e ritenere più probabile, come peraltro la Brexit, di quanto facessero altri osservatori e analisti, molti dei quali hanno previsto la stretta in tutti i mesi da febbraio allo stesso mese delle elezioni, cosa che avrebbe significato uno sgarbo istituzionale senza precedenti.

Ma il problema del trend rialzista della Federal Reserve sta nel fatto che difficilmente le prossime mosse replicheranno movimenti all'insù di quartini di punto, anche perché nel trend ribassista si agì, come ricorderemo i lettori di questo blog nella prima fase della Tempesta perfetta, anche perché l'orizzonte prospettico è compreso tra i 3,50 e i 3,75 punti, rendendo credibili mosse di mezzo punto se non di 75 basis point, una prospettiva da brivido contenuta nei comunicati ufficiali e nelle minute del Beige Book più recente e che dovrebbero avere effetti sui cambi molto più vistosi di quelli che si sono segnalati nelle settimane scorse.

E qui veniamo al punto: cosa faranno Draghi, il Governatore della Bank of Japan, del suo omologo della Bank of China e il povero timoniere della Bank of England che ancora deve raggiungere il pavimento dei tassi a zero? Poco o nulla nell'immediato, legati come sono a programmi stellari di Quantitative Easing a loro volta legati a tassi a zero o prossimi a tale valore e i cambi stanno scontando la previsione di ulteriori disastri nei deficit gemelli a stelle e strisce, quello commerciale e quello dello Stato federale, staremo comunque a vedere, anche perché i numeri uno delle banche centrali ci hanno abituato a repentini mutamenti di fronte che non dovrebbero però avere luogo prima dell'inizio dell'anno prossimo.

Vedo comunque a rischio, per motivi diversi tra loro, il cross EUR/USD e quello GBP/USD, mentre per quelli del dollaro con le valute asiatiche molto dipenderà dalla politica commerciale degli Stati Uniti nei confronti dei due giganti di questa area e delle eventuali ritorsioni sui TBonds di cui Cina e Giappone possiedono qualcosa di più di 2 mila miliardi di dollari!

venerdì 6 gennaio 2017

Su Trump l'ira funesta di Janet Yellen


Quando, nel 2014,  si insediò alla guida della Federal Reserve, a quattro anni dall'inizio dell'era di Barack Obama alla Casa Bianca, Janet Yellen trovò che il lavoro sporco era già stato fatto da Bernspan, al secolo Benjamin Bernanke, un democratico malgrè soi, almeno da quando i democratici erano tornati alla guida della più potente nazione del mondo, con i tassi a zero e negativi in termini reali e un Quantitative Easing da paura e che aveva fatto seguito alla più grande operazione di ripulitura, a spese del sistema della Riserva Federale, dei bilanci delle banche operanti negli USA dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata, il tutto a fronte di un'economia che oramai stava riprendendo e di un'inflazione che stava iniziando a rialzare la testa e anche il tasso di disoccupazione aveva decisamente abbandonato le due cifre per spingersi decisamente verso quel tasso sostanzialmente frizionale che ha toccato di recente con il 4,6 per cento.

Economista di professione e laureata a Yale, la Yellen è stata a capo dei consulenti economici di Bill  Clinton, ma per lunghi anni inserita nel sistema dei Governatori del sistema delle banche della Riserva Federale di cui è diventata vice presidente su nomina di Barack Obama, carica mantenuta per quattro anni prima di prendere il posto di Bernspan e divenire la prima donna alla guida della Fed, occasione nella quale fece intendere chiaramente che la festa dei tassi a zero e della liquidità sovrabbondante era definitivamente finita.

Dopo un primo mini aumento nel dicembre del 2015, quando la campagna elettorale più lunga della storia degli Stati Uniti d'America era già iniziata (ma nulla faceva presagire la facile corsa di Donald Trump alle primarie repubblicane né, tantomeno, la vittoria abbastanza decisa alle presidenziali dello scorso novembre), la Yellen e il Federal Open Market Committee da lei presieduto hanno morso il freno, per dare poi, a elezioni avvenute e Trump oramai presidente eletto, un secondo colpo di freno sempre di un quarto di punto, ma preannunciandone una sfilza e, stavolta, a cadenza quasi mensile e non più annuale.

D'altra parte, era stato proprio il candidato eletto ad accusare la Yellen per la sua inerzia volta, almeno a suo dire ma non proprio senza fondamento, a favorire il candidato democratico, Hillary Clinton, perché i tre aumenti dei tassi promessi per il 2016 avrebbero potuto fa sgonfiare le varie bolle speculative concatenate che hanno comunque il loro epicentro nel rutilante e variegato mondo della finanza più o meno strutturati e rischiato di far esplodere una nuova questione dei mutui residenziali indicizzati più grave di quella del 2007 perché i sedici milioni circa di nuovi occupati sono di qualità reddituale molto inferiori alla composizione media della forza lavoro statunitense agli albori della prima fase della Tempesta Perfetta!

Con due anni quasi pieni di mandato di fronte a sé, la Yellen può davvero portare il tasso sui Fed Funds a livelli compresi tra il 3,5 e il 3,75 per cento con conseguenze facilmente prevedibili sul dollaro nei confronti delle principali valute dell'orbe terraqueo, euro in testa e conseguenze disastrose sulla già disastrata bilancia commerciale statunitense, mentre su quella dei pagamenti molto dipenderà dalle ritorsioni di Cina, Giappone e altri Stati forti detentori di TBonds alle misure protezionistiche preannunciate dal presidente eletto un giorno sì e l'altro pure.

giovedì 5 gennaio 2017

La Germania vuole Draghi fuori dalla BCE e l'Italia fuori dall'euro?


Lo scontro sull'aumento di capitale del Monte dei Paschi all'interno del Consiglio di Vigilanza della Banca Centrale Europea è solo l'ultimo episodio di un conflitto che vede la Bundesbank e il manipolo di banche centrali dei paesi del Nord Europa all'attacco di Mario Draghi che a dicembre ha tirato dritto annunciando altri nove mesi di Quantitative Easing, seppure al ritmo ridotto di 60 miliardi di euro al mese, mentre, nello stesso mese, i prezzi al consumo in Europa hanno registrato un balzo non seguito appieno dall'Italia che ha registrato un variazione dell'indice negativo per lo 0,1 per cento, un evento che non si ripeteva dal 1959, l'anno che ha preceduto il più grande boom dell'economia italiana.

Ripubblico oggi la puntata del 7 novembre dell'anno di disgrazia 2016, sperando di fare cosa gradita ai lettori che non l'avessero letta e assicurandovi che su questo delicatissimo argomento ne vedremo delle belle!

* * *

Sono settimane, se non mesi, che sul Diario della crisi finanziaria do conto delle mosse sempre più minacciose dell'entourage di Jens Weidmann, un burocrate legato a doppio filo ad Angela Merkel e Wolfgang Schauble e da questi spedito anni orsono sulla tolda di comando della un tempo autorevole e temuta Bundesbank e, quindi, di diritto membro del Consiglio della Banca Centrale Europea, un ruolo soggetto a quella regola di rotazione cui devono sottostare tutti i Governatori delle banche centrali dei paesi dell'area euro e non mitigata neppure da una vice presidenza che di solito non si nega a nessuno, un ruolo che gli sta sempre più stretto e che lo spinge ad attaccare con tutti i mezzi, leciti e meno, l'autorevolissimo presidente della Banca Centrale Europea, un'istituzione che raccolse nelle sue mani dopo il periodo regolamentare di presidenza del francese Jean Claude Trichet, a sua volta subentrato all'ex presidente della Banca Centrale Olandese.

Tre nomine fatte in ossequio alla regola non scritta che vuole il posto di numero uno della BCE affidato all'esponente di un paese membro della area dell'euro che ne abbia anche auspicabilmente le competenze, scelta che non dovrebbe mai pescare la Germania che in quel di Francoforte ne ospita la sede in un grattacielo iper moderno, peraltro a poca distanza da quei due grattacieli gemelli contornati da grattacieli più bassi che ospitano la sede globale di quel colosso creditizio dai piedi di argilla che è la molto chiacchierata Deutsche Bank.

Non bastasse il mai contento Weidmann, ci si sono messi giovedì i cosiddetti Cinque Saggi tedeschi che hanno presentato il loro rapporto alla presenza della Cancelliera di Ferro, Angela Merkel, del sempre arcigno ministro tedesco delle finanze, Wolfgang Schauble e di Weidmann, appunto, e ha  sparato alzo zero nei confronti dell'attuale politica monetaria della BCE e del suo massimo rappresentante, reo di stare portando sul lastrico le banche tedesche di ogni ordine e grado, come se le stesse, a partire da Deutsche e Commerzbank, per scendere "pe li rami" delle un po' traballanti landesbanken e sparkassen di cui è disseminato il vasto territorio tedesco non avessero fatto il grosso del lavoro per conto loro e ben prima che Super Mario, direttamente dalle macerie di Wall Street dove aveva guidato la task force incaricata di riscrivere le regole della finanza più o meno strutturata, approdasse quasi per acclamazione all'incarico più alto dell'istituto basato a Francoforte e come se tutto quello che Draghi aveva detto qualche giorno fa di fronte ad un molto ostile Bundestag, sua prima visita dall'insediamento nel grattacielo di Francoforte avvenuto nel 2011, fosse passato come acqua sul vetro!

Ma quale è la novità che Super Mario dovrebbe annunciare a dicembre di questo anno di disgrazia 2016: non solo e non tanto il prolungamento del super Quantitative Easing dalla scadenza prevista nel marzo del 2017 al novembre dello stesso anno, a botte di 80 o forse di 60 miliardi al mese, ma che nel ripartire gli acquisti di titoli sovrani non si dovrebbe tener più conto soltanto del peso economico dei paesi dell'area euro, quanto di altri fattori che spiegherà meglio in quella sede per poi rinviare a un comunicato ufficiale che dettaglierà meglio la ratio degli interventi; detto in soldoni, la Germania potrà scordarsi quegli acquisti massicci che hanno mandato i rendimenti di un Bund sempre più introvabile in territorio negativo, e che hanno consentito, nel solo 2015, risparmi per ben 28 miliardi di euro, cosa che peraltro il mercato sta già scontando nel limare i prezzi del decennale tedesco che ora presenta, dopo diversi mesi di yield negativi, nuovamente rendimenti positivi, seppur sempre su livelli molto, ma molto modesti.

Ma il rapporto dei Saggi dice qualcosa di più e ancor più grave, almeno nel resoconto che ne fa il Bravo Maurizio Ricci de La Repubblica, ed è dato dalla tesi che l'eurozona starebbe molto meglio senza la presenza dell'Italia, un Paese che la Commissione di Bruxelles non riesce a ricondurre ad una maggiore disciplina come dimostrato (sic) dall'ultima Legge di Bilancio i cui saldi, lo ricordo ai lettori più distratti, prevedono un deficit/PIL del 2,3 per cento contro un desiderio della Commissione posto al 2,2 per cento, ma comunque ben dentro il 3 per cento stabilito dal Trattato di Maastricht, il tutto mentre Francia, Spagna, Portogallo e altri paesi membri dell'Eurozona quel limite del 3 per cento lo valicano allegramente!

mercoledì 4 gennaio 2017

Ma quanto è popolare questo Banco!


Qualcuno si è stupito del volo che ha preso nelle prime due sedute del titolo della nuova banca nata dalla fusione per incorporazione della Banca Popolare di Milano nel Banco Popolare, a sua volta nato dall'acquisizione della Banca Popolare di Novara e di altri istituti minori nella Banca Popolare di Verona, unica banca di quel buco nero del credito che è il Veneto ad essere sopravvissuta a quel meltdown che ha risucchiato diciannove banche locali e le due medio grandi Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca tra poco fuse dal loro proprietario unico Fondo Atlante nella Banca delle Venezie.

Mi scuso in anticipo con i lettori del Diario della crisi finanziaria di questa girandola di nomi, ma la prima fusione di banche italiane che nasce sotto gli auspici della Trimurti della Vigilanza europea presso la BCE è di quelle da far tremare i polsi e non solo, e non tanto, per le dimensioni dei due istituti convolati a nozze o per la loro forza relativa nella parte più dinamica dell'economia italiana (Nord Est e Nord Ovest), quanto perché pone fine, se non nell'immediato certo nei tempi medio lunghi, ad un modello di governance imperante nella Banca Popolare di Milano di fatto governata dalle sigle sindacali interne favorite come in nessuna delle grandi banche popolari da un modello quale il voto capitario che tanti guasti ha prodotto in quella banca e tanti mal di testa in Banca d'Italia e che è stato definitivamente superato dall'approvazione assembleare della fusione e della trasformazione in società per azioni.

Certo il nome della nuova aggregazione e la licenza bancaria concessa per un ulteriore anno concessa alla banca milanese, nonché la cooptazione dell'ex amministratore delegato di BPM come CEO del nuovo gruppo, farebbero pensare ad una vittoria dei milanesi sui veronesi, ma quello che conta è che la banca è saldamente nelle loro mani e questo si vedrà ancora più chiaramente nei prossimi mesi e nei prossimi anni e seguirà pedissequamente quanto è accaduto nei decenni scorsi con l'acquisizione da parte di Banca Intesa della Banca Commerciale prima e dal San Paolo di Torino, divenute tutte province della potenziatissima e capitalizzatissima Cassa di Risparmio delle Province Lombarde che, dopo una vera e propria razzia nel mondo delle casse di risparmio italiane, e non solo, prese il nome di Intesa.

Il mercato sembra sposare questa tesi e in due sole sedute il titolo di Banco BPM ha preso il volo guadagnando il 9 per cento nel primo giorno di quotazione e il 7,20 per cento ieri, valorizzandosi di qualcosa di più di un sesto in due sole giornata, complice anche il massacro preventivo avvenuto nei mesi scorsi sull'onda della speculazione e molti analisti già pregustano il ritorno nell'area dei 4 euro, in particolare se andrà a buon fine lo smaltimento di ulteriori otto miliardi di sofferenze che Fratta Pasini e Castagna hanno promesso alla Trimurti della Vigilanza della BCE che intanto festeggia il passaggio delle vigilate da 15 a 13 banche!  

martedì 3 gennaio 2017

Due o tre cose che so di Deutsche Bank


Oggi mi prendo una vacanza e ripropongo la puntata del 3 ottobre scorso sulla banca che divide con MPS le attenzioni di analisti e commentatori, avvertendo che sta succedendo una cosa alquanto singolare e, cioè, che l'immensa montagna di derivati e titoli più o meno tossici (classe 3) del colosso creditizio tedesco dai piedi di argilla si è ridotto, alquanto bruscamente, dai 62 mila miliardi di euro del 2015 ai 42 mila miliardi di oggi e pare che ciò sia avvenuto in molti casi su iniziativa delle controparti, un po' una riproposizione della fuga recente di dieci hedge funds che hanno tutti insieme chiuso i rapporti attivi passivi con Deutsche. Come che sia, una riduzione di oltre il 30 per cento di questa vera e propria bomba a orologeria posta sotto i piedi della banca globale è una notizia che ha reso felice il CEO straniero di Deutsche, anche se l'aumento del rischio di controparte non è cosa che dovrebbe favorire i suoi sonni, al di là del contratto blindato che certamente ha ottenuto prima di accettare il molto gravoso incarico!

L'altra novità è rappresentata dal fatto che è stato raggiunto un accordo con il Dipartimento di Giustizia statunitense sulla multa da 14 miliardi di dollari per i comportamenti della banca di Francoforte nella crisi dei subprime, un accordo che prevede un pagamento cash di 3,1 miliardi di dollari e un impegno pluriennale della banca a sostenere i propri clienti a partire dal 2017 per complessivi 4,2 miliardi di dollari.

* * *

Redigendo per oramai quasi un decennio il diario di bordo della molto mal messa flotta delle banche globali e, fino alla riforma delle Big Five, le cinque investment banks statunitensi poi trasformate in banche commerciali dopo i disastri che avevano combinato e per le quali sono state multate per decine di miliardi di dollari dal Dipartimento di Giustizia USA, mi sono imbattuto più volte nella Deutsche Bank, una banca globale guidata con pugno di ferro sin dal lontano 2002 da Joseph Ackermann, che poi diverrà presidente della grande compagnia di assicurazioni svizzera Zurich, carica che lascerà solo un anno dopo causa delle accuse mossegli nella lettera del Chief Financial Officer della compagnia di assicurazioni elvetica morto suicida.

Lo stesso Ackermann aveva già visto sfumare, a causa di indagini della procura di Monaco di Baviera, la possibilità di diventare Presidente di Deutsche nel 2012 e, dopo dieci anni alla guida della banca tedesca fu costretto a lasciare anche la carica di Chief Executive Officer, carica che verrà sdoppiata e vedrà la coesistenza di due CEO, uno proveniente dalle attività tradizionali di Deutsche, mentre il secondo, un uomo di finanza di origine indiana, era stato in precedenza il responsabile a livello globale delle attività di Corporate and Investment Banking, proprio quelle attività che tanta parte hanno negli odierni guai del colosso creditizio tedesco dai piedi di argilla.

La non facile coesistenza dei due CEO durerà appena tre anni anni e non sono in grado di dire se fu in quel triennio o durante il lungo regno di Ackermann che fu escogitata la brillante idea di sdoppiare la CIB, un qualcosa di molto originale e, almeno per quanto ne so, unico al mondo, ma quello che è certo è che sulla spinta dei grandi azionisti infuriati per i pessimi risultati e per il proliferare delle multe e dei processi aperti, quali quello sulla manipolazione dei tassi sul mercato interbancario europeo (che vede coinvolti cinque manager di Deutsche) che si concluderà a breve davanti ad una corte di giustizia britannica, che i due co CEO vengono bruscamente messi alla porta e, anche sulla base della difficile situazione, il Consiglio di Amministrazione chiama alla guida della banca un Papa straniero, il britannico John Cryan, un top manager dalla fama di spietato risanatore e che sa che il suo orizzonte temporale rischia di essere ancora più breve di quello dei suoi immediati predecessori,  uno stimato professionista che in breve tempo si fa un quadro completo della situazione, anche perché credo proprio che la prima cosa che avrà chiesto sia stata quella di avere dettagliati ragguagli della situazione della finanza strutturata, quella che a detta di molti rappresenta il vero buco nero della banca tedesca.

Come numero uno operativo di Deutsche, Ackermann partecipò, insieme a tutti i suoi omologhi delle banche globali, a numerosi meeting che la Federal Reserve di New York e il Tesoro USA organizzarono negli anni più caldi della prima ondata della tempesta perfetta, anche perché il problema della finanza strutturata si era sviluppato nel primo quinquennio della sua guida della banca tedesca e quindi sapeva bene di cosa si parlava in quelle riunioni lunghe e infuocate che occuparono un week end sì e l'altro pure per molto, molto tempo, ma sono certo che la riunione che più è rimasta impressa nella sua mente è quella, rigorosamente a porte chiuse, tenutasi in uno dei più grandi alberghi di New York e nella quale Mario Draghi con Hank Paulson da un lato e Bernspan dall'altro, fece un quadro impietoso della situazione e del default sistemico che aleggiava all'orizzonte, dicendo quello che banche centrali e Governi potevano ragionevolmente fare, per far fronte alla situazione, facendo capire al contempo che vi sarebbero state nuove e più stringenti regole per quel casinò a cielo aperto che era diventata la finanza più o meno strutturata ma che ci si aspettava che tutti si dessero da soli una regolata e in tempi molto brevi.

Ma cosa idearono l'ex numero uno di Goldman Sachs poi passato provvidenzialmente al vertice del Tesoro USA nel giugno del 2006  e il capo della Fed, forse grazie anche ai consigli di Mario Draghi, né più né meno che dare alla Fed il ruolo di raccoglitrice della spazzatura prodotta dalle fabbriche prodotto delle divisioni di Corporate and Investment Banking delle banche globali operanti negli USA, titoli totalmente illiquidi a cui la banca centrale americana diede un valore seppure molto contenuto, il che voleva dire che le banche che applicavano questa via d'uscita dovevano registrare una forte perdita ma che rappresentava comunque qualcosa di più del valore zero che avevano in quel momento, ma le autorità monetarie statunitensi fecero di più, passando dal mark to market al mark to value, ma qui entriamo in tecnicalità che non credo interessino chi legge.

Solo Ackermann sa se Deutsche applicò questa possibilità o no e la cosa potrebbe dipendere dalle regole che guidarono questa operazione che trasformò la Fed di New York nel più grande deposito di titoli tossici, con particolare riferimento alla sede legale della banca che chiedeva l'utilizzo di questa possibilità, o se fu applicata solo per una parte dei titoli in questione per non aggravare oltremodo il conto economico nella illusione rivelatasi poi fallace che questi stessi titoli avrebbero ripreso di valore, ma tutto questo la stabiliranno gli storici.

Ci sarebbe tanto altro da dire sull'avventura americana di Deutsche Bank, ma una puntata è una puntata, anche se ci sono due cose ancora che ci tengo a dire e la prima è che c'è una una somiglianza fortissima tra la carriera di John Cryan e quella di Fabrizio Viola, entrambi entrati in partita in Deutsche e MPS in zona Cesarini e, quindi, senza il tempo necessario per applicare le loro strategie, mentre la seconda è che venerdì scorso ho visto il Dipartimento di Giustizia USA commutare, via indiscrezioni autorizzate veicolate su quotidiani online e autorevoli agenzie di stampa specializzate, una multa da 14 miliardi di dollari comminata pochi giorni prima in una da 5,54 miliardi e questo, credetemi è un pessimo segnale sulla reale situazione della banca tedesca, nonché il primo aiuto di Stato, anche se straniero, in favore di Deutsche!

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Il ministro dell'Economia Giancarlo Padoan ha indetto per oggi un vertice, che alcuni giornali definiscono di emergenza, delle principali banche italiane (Intesa, Unicredit e UBI) cui parteciperanno il Governatore della Banca d'Italia, il Fondo Atlante, l'ABI e l'ACRI, per discutere della vendita delle quattro good bank, (di tre dovrebbe farsene carico UBI che però recalcitra perché, anche se l'acquisto, tra esborso e benefici fiscali, è pari a zero, ha già saputo dalla Vigilanza BCE che dovrà fare un aumento di capitale post fusione da 600 milioni di euro) dei problemi del sistema bancario italiano e di quello internazionale con particolare riferimento ai possibili effetti sul nostro sistema bancario derivanti da eventuali sviluppi della crisi di Deutsche Bank e di Commerzbank.

lunedì 2 gennaio 2017

Consiglio di guerra al Monte dei Paschi


Mentre tutti, o quasi, i banchieri italiani si apprestavano a festeggiare l'ultimo dell'anno, a Milano si è tenuto, in via virtuale, l'ultimo consiglio di amministrazione di quest'anno di disgrazia 2016, con presenti in sede il Chief Executive Officer, Marco Morelli, e il direttore finanziario (Chief Financial Officer, carica ricoperta dallo stesso Morelli nella sua precedente esperienza al Monte), Francesco Mele, e i consiglieri collegati in via telematica, con le dimissioni, prontamente accettate, di uno dei membri del Board.

Nella riunione, la prima dopo il repentino voltafaccia di Madame Nouy della Vigilanza pero la BCE che, con una lettera di cinque, dicasi cinque, righe ha comunicato ad un esterrefatto Piercarlo Padoan che l'aumento di capitale necessario per MPS passava da 5 a 8,8 miliardi di euro (in base agli stress test di luglio perfettamente noti in novembre quando era stato richiesto l'aumento di capitale nella precedente misura, decisione presa con il voto contrario dei due italiani presenti nel Consiglio di Vigilanza), Morelii ha tenuto coperte le carte sul piano industriale, del quale ha solo detto che sarebbe stato rivisto in "maniera incisiva", ma ha annunciato due nuove emissioni di bond, le prime da circa un anno, assistite dalla garanzia statale GACS e quindi doppiamente sicure.

Quello che Morelli non ha detto è che si starebbe studiando un forte incremento del numero delle uscite di personale e chiusura delle dipendenze alquanto ridondanti del Monte, passando dai quattromila esuberi già previsti e favoriti dall'allungamento dai cinque ai sette anni del periodo di permanenza degli esodandi nel Fondo di settore, fondo rimpinguato da 600 milioni di trasferimenti statali per 600 milioni nel triennio 2017-2019, di più non ha detto e non sarò certo io a fare numeri al posto suo!

Per le sofferenze di MPS, invece, è tutto da rifare e si parla di un veicolo prodotto in casa, aperto anche allo smaltimento dei Non Performing Loans di altre banche italiane, mentre è ancora tutto da definire il ruolo che avrà il Fondo Atlante nella partita.

Nel frattempo è nato il Banco BPM, nato dalla fusione di Banco Popolare e Banca Popolare di Milano e il Consiglio di Vigilanza europeo ha prontamente chiesto alla nuova entità di smaltire al più presto sofferenze per otto miliardi di euro, operazione favorita dall'aumento di capitale chiuso con successo dal Banco Popolare nel novembre scorso, unico aumento di capitale andato in porto dopo il doppio flop della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, acquisite dal Fondo Atlante e ora fuse a breve bella Banca delle Venezie.