lunedì 29 febbraio 2016

Una bolla semi sgonfia: il settore immobiliare italiano


L'ondata iniziale della tempesta perfetta originò dal brusco calo del settore immobiliare a stelle e strisce, dopo un'ascesa che sembrava realmente non avere fine e che originò due fenomeni diversi ma in qualche modo paralleli: l'esplosione del ricorso ai mutui subprime (quelli per i quali i procacciatori venivano a trovarti fino a casa), mutui che le banche avevano acquistato da finanziarie e che poi avevano impacchettato in titoli tossici garantiti dalle compiacenti società di rating con l'attribuzione della tripla A e il non meno rilevante fenomeno dei rifinanziamenti di mutui in essere, mutui che raramente venivano accesi per motivi di ristrutturazione dell'immobile ma, favoriti dalla costante ascesa dei prezzi, per ragioni di tutt'altro tipo quali, in particolare, spese a carattere voluttuario.

Come andò a finire è largamente risaputo, in quanto il crollo dei prezzi gettò in strada milioni di persone e intere zone degli Stati Uniti d'America divennero lande deserte, la più famosa delle quali è Newark una cittadina non molto distante da New York nella quale banche e finanziarie pagavano gli homeless per presidiare le case dopo che da molte di esse era stato asportato tutto l'asportabile, ma zone similari si trovavano in Florida, in Nevada, in California e via discorrendo.

Il fenomeno del crollo dei prezzi e dell'impossibilità dei proprietari a pagare i mutui dilagò a vista d'occhio in Gran Bretagna, in Spagna e in numero di paesi che è impossibile qui citare tutti e si portò dietro il dissesto di banche importanti che vennero poi assorbite da altre o furono salvate da interventi statali decisi nel 2009 da un G20 di capi di Stato e di Governo letteralmente atterriti dagli assalti alle banche che avvennero in particolare nel Regno Unito.

La storia italiana presenta caratteristiche molto diverse e affonda le sue radici in quanto avvenne al momento del cambio tra la lira e l'euro nei primissimi anni del nuovo millennio. Allora ero appena uscito dalla sala cambi di un'importante banca italiana e sapevo per esperienza personale i rischi connessi alla parità ufficiale stabilita nella primavera del 1998, un periodo molto difficile per la valuta italiana letteralmente massacrata sotto il governo Berlusconi e il successivo governo Dini, con il risultato che il cambio fu molto sottovalutato e sia i lavoratori autonomi che i proprietari di case adottarono nelle loro richieste un cambio molto più forte, in alcuni casi pari a mille lire per un euro.

Il mercato assorbì tranquillamente questa pretesa e si registrarono non pochi casi di appartamenti del valore di 300 milioni messi in vendita a 300 mila euro. Tutto questo finché lo scoppio della bolla immobiliare mondiale, la recessione e quant'altro innescarono un crollo dei prezzi che perdura anche oggi, nonostante la recente esplosione delle concessioni di mutuo e l'impennata delle compravendite, due fenomeni che, nel 2015, si sono accompagnati con un'ulteriore, anche se un po' più moderata, flessione dei prezzi delle case, un fenomeno che, a mio avviso, è destinato a perdurare almeno fino a che i venditori non terranno conto dei prezzi di carico più che dei livelli alquanto irrealistico toccati dal mercato quando le quotazioni erano al top.

venerdì 26 febbraio 2016

Un G20 alle prese con una crisi di nervi!


Mi fanno un po' di tenerezza i 20 ministri dell'economia o delle finanze dei venti paesi più industrializzati del pianeta costretti per due giorni a stare in quel di Shanghai, ognuno con i suoi dossier e con le sue preoccupazioni più o meno legate alle tre questioni che caratterizzano la nuova fase della tempesta perfetta: la Cina con la sa gigantesca bolla creditizia e il suo rallentamento dell'economia; la bolla già scoppiata del petrolio e delle altre materie prime energetiche e, the last but not the least, l'emergenza delle banche che non sono ancora riuscite a smaltire l'altissima montagna dei derivati più o meno tossici.

Ricordo con una certa nostalgia i vertici in seduta pressoché perenne del biennio 2008-2009, con i capi di Stato e di Governo giù ad imprecare sulle diavolerie escogitate dagli apprendisti stregoni delle allora Investment banks e delle banche più o meno globali disseminate in tutto il mondo, così come ricordo con simpatia la fatica di Sisifo caduta sulle spalle dell'allora Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, un uomo con un passato al Ministero del Tesoro, allora si chiamava così, ed ex capo per l'Europa della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

Con il rispetto dovuto ad ognuno di loro, devo tuttavia dire che non avrebbero cavato un ragno dal buco se non fossero entrate in partita le banche centrali, Federal Reserve in testa, per inondare letteralmente i mercati di liquidità e dare tempo alle banche di cercare di smaltire l'enorme mole di titoli tossici in loro possesso, discorso che vale quasi esclusivamente per le banche che hanno avuto accesso alle capaci discariche allestite presso le varie sedi della banca centrale americana.

Il problema è che quei bravi ragazzi delle fabbriche prodotto non hanno smesso di fare il loro ben remunerato mestiere e hanno continuato a sfornare titoli sempre più complessi e rischiosi e, questa volta, il primato non va alle ex Investment Banks statunitensi o alle banche globali a stesse e strisce alquanto scottate da quanto era accaduto con la prima fase della tempesta perfetta, ma bensì alle banche Globali poste al di qua e al di là della Manica, banche talmente potenti da far risultare nelle apposite normative europee i non performing loans, meglio conosciute come sofferenze, più pericolose della montagna di derivati e titoli tossici più o meno tossici che hanno nelle loro molto capaci pance.

Se non c'è una soluzione gestibile per questo problema, aggravato dalla declinazione cinese di cui ho parlato in precedenti articoli, figuriamoci cosa potranno fare contro la crisi delle esportazioni, segnatamente quelle cinesi ma anche quelle europee non ci scherzano, o sul fronte bollente del petrolio dove è evidente la difficoltà di trovare un'intesa con l'Iran che pretende giustamente di tornare ai livelli pre sanzioni e altri paesi che sono costretti a produrre il più possibile accontentandosi dei risicati margini di guadagno tutt'ora esistenti.

giovedì 25 febbraio 2016

Chi sta comprando i Bund tedeschi e perché?


Mi rivolgo in particolare ai lettori del Diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com) che hanno avuto la pazienza di leggere la puntata  dedicata al modo in cui va letto lo spread, in particolare quello tra BTP e Bund a dieci anni, per sottolineare che sta accadendo un fenomeno inedito, in quanto ieri mattina c'erano operatori disposti a comprare il decennale tedesco nonostante lo stesso garantisse uno yield, o rendimento interno, nell'area dello 0,15 per cento, con punte sino allo 0,13 per cento a metà seduta.

Non ignoro che in altri punti della curva dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, ovviamente posti al di sotto come durata dei decennali, i rendimenti sono addirittura negativi, ma vedere un decennale che offre questi livelli fa davvero impressione e induce a interrogarsi sui motivi di questi acquisti e sull'identikit degli acquirenti.

E' evidente che una situazione del genere è spiegabile solo alla luce di una fase di grande incertezza sulle prospettive delle entità quotate, in particolare appartenenti al settore bancario, o sui rischi, veri o presunti, derivanti dall'investimento in altri titoli del debito sovrano, in particolare di quelli emessi da paesi dell'area meridionale dell'Unione europea, una miscela di motivazioni che spinge a vedere il decennale tedesco, e ovviamente anche a diverse scadenze, come una sorta di bene rifugio garantito dalla solidità del Paese e dal massimo rating garantito allo stesso dalle potenti agenzie di rating, le stesse che continuavano a garantire la massima affidabilità di Lehman Brothers a pochi giorni dal suo clamoroso default.

Per quanto riguarda l'identikit degli acquirenti, è presto detto in quanto esistono una serie di soggetti nel mondo, fondi pensione, compagnie di assicurazione e alcuni tipi di fondi sovrani che sono costretti a impiegare una parte dei loro ingenti investimenti in titoli rappresentativi del debito pubblico di paesi che forniscano le massime garanzie in termini di solidità e di affidabilità, condizioni queste ovviamente e come dicevamo sopra garantite nero su bianco da Moody's, Standard&Poor's o Fitch's. Non mancano, ovviamente, anche singoli investitori, segnatamente risparmiatori tedeschi, e questi scelgono il Bund in alternativa all'oro o altri investimenti sicuri.

Il bello è che sono mesi che il decennale italiano si muove in un'area compresa tra 140 e 160 basis point di rendimento e questo era vero anche quando il Bund era tre 60 e 70 basis point, quindi non siamo in presenza di significativa variazioni nel prezzo e quindi nel rendimento dei nostri titoli, ma di fronte a un rally senza precedenti dei titoli rappresentativi del debito pubblico tedesco.

mercoledì 24 febbraio 2016

La lezione di Lehman Brothers


Sono giorni e settimane che sento parlare di un mito che si è infranto sugli alti marosi della tempesta perfetta nel settembre del 2008, quando il governo degli Stati Uniti d'America e il presidente della Federal Reserve, Benjamin Bernanke in arte Bernspan, decisero che Lehman Brothers, la diretta concorrente di Goldman Sachs, poteva fallire, pur essendo too big to fail.

Non fu un sussulto di ideologia liberista, perché nelle stesse ore venne decisa dalle stesse persone la salvezza per la molto più inguaiata AIG, un colosso delle assicurazioni che ne aveva davvero fatte di cotte e di crude ma che risultava essenziale per le banche e le altre compagnie di assicurazioni e, in più di un caso, per Stati sovrani.

Vi è un vero e proprio fiorire di analisi sulle sorti non tanto magnifiche e progressive delle banche globali europee, Deutsche Bank in testa, e tutti si interrogano sul livello raggiunto dai Credit Default Swaps riferiti alla banca basata a Francoforte, livelli che sono oramai prossimi a quel 620 toccato da Lehman a poche ore dal default, ma pur rendendo noto questo nessuno ha il coraggio di tirare le conseguenze, tanto drammatici sarebbero gli effetti sul sistema bancario non solo europeo ma mondiale.

Ma proprio ieri uno di  questi analisti ha reso noto che il governo della Germania ha tra le sue mani, non si sa da quanto tempo, un dossier intitolato proprio alla banca di Francoforte, un dossier seguito dal ministro delle finanze Schauble e dai suoi più stretti collaboratori e non è un caso che il potente ministro, quando l'azione veleggiava sui 13 euro, ha rilasciato quattro dichiarazioni in cinque giorni, difendendo con toni ancora più accorati dei vertici aziendali la solidità di Detsche Bank, in un caso usando letteralmente le stesse parole del Chief Executive Officer della banca.

Non voglio essere malizioso, ma la stessa estemporanea proposta di un ministro dell'economia europeo, avanzata proprio dalla Germania e dai suoi più stretti alleati, e l'accelerazione sull'implementazione dell'unione bancaria europea non sembrano essere del tutto casuali!

Come ben sanno i lettori della prima fase del Diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com), i miei punti di riferimento nel tenere il diario di bordo nella tempesta perfetta sono il non mai troppo compianto John Maynard Keynes e George Soros, ma non dimentico Giulio Andreotti quando diceva che a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia!

martedì 23 febbraio 2016

L'ombra della Cina sulla tempesta perfetta (2)


I pochi lettori di questa nuova fase del blog sulla più grave crisi finanziaria dalla fine del secondo conflitto mondiale avranno notato che alcuni degli argomenti toccati in queste settimane richiedono più di una puntata del diario della crisi finanziaria, anche se voglio rassicurarli sul fatto che non si tratta di una sorta di accanimento terapeutico, quanto del fatto che si tratta spesso di vicende alquanto oscure e che squarci di luce appaiono qui e là in tempi non prevedibili da chi tiene faticosamente il giornale di bordo della tempesta perfetta.

Uno di questi casi è certamente rappresentato da quella Cina che continua orgogliosamente a chiamarsi Repubblica Popolare Cinese anche se sono anni che è entrata non solo nel sistema capitalistico ma ha anche una forte propensione alla creazione di bolle speculative, delle quali quella del credito è soltanto la più appariscente, una bolla gigantesca che è strettamente collegata a quella dell'ormai vasto mercato azionario cinese, un mercato che rischia di avere assonanze con quello imperiale britannico dell'800 con le ormai famose, se non famigerate azioni che rappresentavano fantomatiche miniere sparse un po' ovunque nel mondo!

Ebbene, nell'un tempo Celesete impero, è stato arrestato il capo dell'ufficio statale di statistiche, quello famoso per essere stato sbugiardato sul dato del prodotto lordo interno cinese da un connazionale riparato negli Stati Uniti d'America, ed è di oggi la notizia che il capo dell'organismo di vigilanza sulle borse cinesi, l'equivalente della nostra Consob, è stato giubilato, per sua fortuna a piede libero, ed è stato sostituito dal presidente dell'Agricultural Bank, una persona che dire che è in conflitto di interessi equivale a fargli un complimento.

Ma la notizia più importante la fornisce l'Economist in un lungo servizio sui rischi che sta correndo l'economia cinese in questo momento e quello più rilevante è rappresentato dal debito complessivo che è pari al 282 per cento del prodotto interno lordo cinese, una cifra che è data dal debito sovrano che supera di poco il cinquanta per cento del PIL, mentre quello che è riferibile a famiglie e società è pari al 232 per cento del PIL. 

Sono cifre da far tremare i polsi e che, secondo l'autorevole settimanale economico inglese, potrebbero portare ad una stretta creditizia che porterebbe la prima locomotiva del mondo dritto dritto alla recessione, con contagio pressoché immediato alle economie degli altri paesi industrializzati!

lunedì 22 febbraio 2016

Cosa accadrà al Monte dei Paschi di Siena?


Mi sono occupato per diverse puntate della nuova ondata della tempesta perfetta, cercando, spero con successo, di indicarne le cause profonde, così come ho ficcato il naso nei guai degli altri, indicando i rischi cui vanno incontro gli azionisti, gli obbligazionisti e i depositanti per la parte superiore ai 100 mila euro per deposito (al proposito, riporto le stime di un eventuale bail in a carico dei soggetti summenzionati che sarebbero pari a 130 miliardi di euro per Deutsche Bank e a 165 miliardi per i loro omologhi in BNP Paribus, solo per citare le due maggiori banche globali del continente europeo); è ora quindi di volgere il naso verso i guai di casa nostra e occuparmi di quel grosso problema insoluto rappresentato dalla banca Monte dei Paschi di Siena, un gruppo che vede indagati in diversi gradi di giudizio ex top manager, inclusi presidente e direttore generale e esponenti di primo piano di Deutsche Bank e di Nomura che li avrebbero aiutati a confondere le acque via opportuni derivati dai nomi alquanto fantasiosi.

Oggi, il gruppo bancario senese è guidato da una persona che nell'ambiente gode di una solida reputazione e avente fama di integrità, Fabrizio Viola, un manager che non ebbe timori a schierarsi contro il sistema consociativo esistente in Banca Popolare di Milano e che, come è ovvio, ne uscì con le ossa rotte, ma che trovò posti al vertice in diverse banche senza dover inviare il curriculum e che poi fu chiamato come numero uno operativo in quel di Siena in assenza di concorrenti spaventati dal buco nero, e non solo dal punto di vista contabile in cui era sprofondata la banca, tirandosi dietro l'omonima Fondazione i cui vertici del tempo ancora si mangiano le mani per non aver venduto le quote per tempo.

Su Mps, come ben sanno i lettori più assidui del diario della crisi finanziaria, credo di avere a quel tempo detto tutto, compreso il nome del gruppo bancario europeo che avrebbe avuto tutto l'interesse e la convenienza a portare il gruppo bancario senese a nozze, nonostante o forse proprio per i guai combinati dai vecchi dirigenti con l'iperpagata e sfortunata operazione di acquisizione di Antonveneta, una banca che il vecchio Botin, patron del Santander, comprò e vendette in un notte guadagnando dai 2 ai 3 miliardi.

In quelle puntate di qualche anno fa, indicavo in BNP Paribus il candidato alle nozze e, anni dopo, quando tutto o quasi è cambiato nel settore creditizio italiano ed europeo continuo a vederla come la soluzione più logica, anche se mi consento da solo di formulare un sommesso consiglio a Laurent Bonaffé, CEO del gruppo transalpino, ed è quello di tenersi stretto Fabrizio Viola anche, e forse soprattutto, se non ha fama di essere un signorsì.

venerdì 19 febbraio 2016

il Re è nudo: Renzi versus Deutsche Bank


Come il bambino innocente che non seppe trattenersi di fronte al Re, ingannato da due astuti sarti, dal gridare che era nudo, così ieri Matteo Renzi, nell'aula austera del Senato della Repubblica, ha gridato che Deutsche Bank e altre banche globali europee, segnatamente tedesche, francesi e britanniche, hanno in pancia, ha detto letteralmente così, una montagna di derivati e titoli tossici e che, di fronte a questa situazione che mette a rischio l'intero sistema finanziario europeo, area euro e non solo, l'Italia avrebbe posto il veto alla proposta di mettere un tetto del 25 per cento del patrimonio al possesso di una banca di titoli pubblici del paese di appartenenza.

Quasi non volevo credere ai miei occhi e alle mie orecchie sentendo pronunciare dal presidente del consiglio di uno dei paesi più importanti dell'Unione europea argomentazioni proprie di noi blogger finanziari impegnati in un'opera spesso ingrata di controinformazione su banche globali che, come Deutsche o Bnp Paribas, dispongono di un attivo tradizionale pari a circa la metà del prodotto interno lordo dei paesi in cui hanno sede, ma che posseggono per di più una montagna di prodotti derivati che, sommandole, è pari a decine di volte il prodotto interno lordo dell'Unione europea.

In questi anni ho scritto diverse volte del caso Deutsche Bank, incluse le due puntate del diario della crisi finanziaria (diariodellacrisi.blogspot.com) pubblicate in questi giorni e devo dire che non è problema di qualità dei Chief Executive Officer di turno, dei quali l'attuale CEO di Deutsche è forse il più bravo, ma dell'impossibilità per gli stessi di porre rimedio alle diavolerie inventate dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle investment bank delle banche più o meno globali e che richiedono degli specialisti pagati a peso d'oro per spacchettare questi prodotti che spesso non erano chiari neanche ai loro inventori.

Ma questi ragazzi più o meno ingegnosi sono dei veri e propri apprendisti di quelli impegnati nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, anche perché l'entità cui loro prestano la loro ben remunerata opera è usa a determinare i trend su cui scommette sui mercati delle materie prime energetiche, i metalli preziosi, i cambi e i mercati azionari e obbligazionari, sentenze dei tribunali avverse permettendo, e il valore nozionale di queste attività di Goldman rappresentano un multiplo del prodotto lordo dell'intero orbe terraqueo.

Negli Stati Uniti, la questione si è non risolta ma almeno fortemente ridimensionata grazie al riacquisto da parte della Federal Reserve di parte della montagna di titoli più o meno tossici, cosa che la BCE si rifiuta di fare, accettandoli al più come collaterali!

giovedì 18 febbraio 2016

Come si legge lo spread


Se si consulta una pagina di un sito finanziario, si può leggere che lo spread o differenziale tra un titolo del debito pubblico e un altro non è altro che la differenza tra il rendimento interno dell'uno e quello dell'altro, il che significa che il suo valore è dato dai movimenti di prezzo dei due titoli e viene letto come la differenza che il mercato dà ai debiti pubblici sovrani dei due Stati presi in considerazione.

Per noi, lo spread che fa da stella polare è il differenziale tra il rendimento del BTP decennale ad una certa scadenza e il rendimento del Bund tedesco avente scadenza omologa ed è un valore che può subire variazioni per vari motivi e, cioè, sia perché scende il prezzo e quindi sale il rendimento di uno dei due titoli o perché scende il prezzo e quindi il rendimento dell'altro titolo o perché avvengono variazioni nella stessa direzione dei due titoli ma con intensità diversa, o perché, ed è quello che sta avvenendo ora, che un titolo scenda in termini di rendimento e l'altro salga.

Fino al 2011, il termine spread riferito al differenziale Btp-Bund era pressoché sconosciuto ai più e il valore dello stesso si aggirava sui 100 punti base che equivalgono all'un per cento, un valore tutto sommato modesto tenuto conto delle differenze strutturali esistenti tra l'Italia e la Germania, quando, nell'estate di quell'anno, il differenziale tra i titoli italiani, spagnoli e grechi rispetto al Bund tedesco cominciarono a volare, per giungere per il nostro Paese alla cifra record di 575 punti base e favorirono l'ascesa al governo del prof. Mario Monti che avviò quella fase di riforme, anche dolorose, che sono state poi proseguite dai governi di Enrico Letta e di Matteo Renzi.

Dopo aver sfiorato l'area dei 90 punti base e aver illuso i più, lo spread ha ripreso bruscamente a salire, toccando anche punte del 60 per cento superiori ai minimi recentemente raggiunti e questo in assenza di significativi rialzi dello yield to maturity, il rendimento interno appunto, dei decennali italiani ma di una vera propria fuga verso la qualità dei titoli di stato tedeschi rappresentati, a torto o a ragione, come beni rifugio di fronte ai nuovi marosi della tempesta perfetta.

Mi scuso per la spiegazione un po' tecnica, ma in televisione e sui giornali si è usi dare il valore sintetico dello spread senza analizzare le determinanti degli scostamenti quotidiani e siccome questo valore è visto come un indice sintetico dell'affidabilità dell'Italia credo sia opportuno questo rapido approfondimento.

mercoledì 17 febbraio 2016

Una bolla già scoppiata: il petrolio


L'incontro al vertice tra il ministro dell'energia russo e i suoi omologhi venezuelano e saudita svoltosi ieri è stata la classica montagna che ha partorito un topolino, in quanto i tre uomini più potenti del petrolio, escludo volutamente gli Stati Uniti d'America che seguono logiche tutte loro, si sono trovati d'accordo nel congelare la produzione di petrolio dei rispettivi paesi al livello raggiunto l'11 gennaio ma non nell'individuare un target effettivo di taglio della produzione di greggio che, qualsiasi ne fosse stata l'entità avrebbe potuto influenzare le quotazioni dell'oro nero in maniera significativa.

D'altra parte, tutte le manovre dal lato dell'offerta, le cosiddette supply side, non hanno effetti di medio e lungo termine se non ci sono variazioni significative dal lato della domanda e questo, nella presente fase congiunturale a livello globale è quanto meno poco probabile, anche perché non si sono notati fenomeni di accaparramenti agli attuali livelli minimi dei prezzi, anche perché, se vi fossero stati avrebbero prodotto, come spiega qualsiasi manuale di macroeconomia, effetti ben visibili sui prezzi.

C'era poi un grande assente al meeting dei tre plenipotenziari, quella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, vera regina del mercato dei derivati sul petrolio e sulle altre materie prime energetiche che deve buona parte delle sue fortune a come gestì l'ascesa del prezzo del greggio fino al massimo storico di 147 dollari al barile per poi farne altrettanti girando per tempo le sue posizioni in questo turbolento mercato!

Come indico nel titolo, quella del petrolio e del gas è una bolla speculativa già scoppiata e che, almeno al momento, non ha prodotto l'effetto che i produttori dell'OPEC e non solo si attendevano: quello di determinare lo stop della produzione dello shell oil statunitense che ha dei prezzi di produzione molto più alti di quelli dei concorrenti e che, tuttavia, grazie a incisivi miglioramenti tecnologici, ha subito solo perdite marginali e continua a rappresentare una fonte di offerta, in particolare per la domanda interna a stelle e strisce.

Se fossi ancora un previsore di una trading room, vedrei una strada one way al rialzo per le materie prime energetiche, ma il livello di concorrenzialità esistente in questo immenso mercato mi fa ritenere che difficilmente si giungerà a quegli accordi di cartello a livello planetario che soli potrebbero produrre significative impennate nei prezzi.

martedì 16 febbraio 2016

Quando scoppia una bolla speculativa....


Per chi come me ha tenuto il libro di bordo della tempesta perfetta dal settembre 2007 in poi, lo scoppio di una o più bolle speculative non dice nulla di nuovo, anche perché i comportamenti degli operatori e degli analisti sono pressoché identici a prescindere da quale sia l'epicentro della crisi e da quanto siano alti i marosi della tempesta perfetta.

Ai tempi del molto evitabile fallimento di Lehman e dell'incredibile salvataggio del colosso assicurativo statunitense AIG, non riuscivo quasi a credere ai miei occhi di fronte ai comportamenti del duo Paulson-Bernspan e alle tragiche conseguenze del capolavoro che furono in grado di realizzare finalizzato ad eliminare l'unica vera concorrente di Goldman Sachs.

Ma tornando allo scoppio delle tre bolle speculative che stanno iniziando a sgonfiarsi quasi contemporaneamente, mi ha colpito molto quanto ha detto in una trasmissione televisiva il numero uno di un'entità finanziaria il quale spiegava che i problemi con i quali ci si stava confrontando in questo primo squarcio del 2016 erano presenti in modo pressoché identico nel 2015, anno in cui, come tutti ricorderanno, le borse di tutto il mondo, non esclusa certo la piazza milanese pivot a livello europeo, macinavano record su record, facendo pensare ai più che la tempesta perfetta ce l'avevamo ormai alle spalle.

Quello che sta accadendo, in buona sostanza e al netto di eccessi speculativi che non mancano, è un ritorno verso valori più normali e più in linea con i fondamentali delle aziende ed è un tragitto che è tutt'altro che terminato con buona pace degli investitori che hanno comprato i titoli a caro prezzo nei mesi passati.

Come tutti oramai sanno, una delle componenti dei principali listini europei ad avere pagato il prezzo più alto al doloroso processo di aggiustamento in corso è quello bancario, con una media di correzione nel corso delle ultime sei settimane pari al 50 per cento e in qualche caso anche di più, un drastico ridimensionamento a cui non è estranea l'entrata in vigore del bail in un provvedimento che prevede che gli azionisti, gli obbligazionisti subordinati e i depositanti per la parte eccedente i centomila euro partecipino alle perdite della banca in dissesto.

Il Governatore della Banca d'Italia, il Governo e anche i partiti di opposizione hanno proposto di applicare il provvedimento con gradualità, ma Super Mario ha spiegato ieri al Parlamento europeo che non se ne parla proprio!

lunedì 15 febbraio 2016

I guai degli altri: Deutsche Bank (2)


Non era possibile esaurire l'analisi delle turbolenze che circondano il colosso creditizio Deutsche Bank, una delle poche banche globali del continente europeo già nei guai ai tempi della prima fase della tempesta perfetta quando era guidata dall'ineffabile Herr Ackermann, in una sola puntata del Diario della crisi finanziaria e oggi quindi torniamo sull'argomento anche perché sono finalmente apparsi sulla stampa specializzata dei numeri più precisi sullo stato dell'arte in questa banca che ha sede nella stessa città tedesca in cui  ha sede la Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi.

D'altra parte, che la situazione sia davvero preoccupante lo dimostrano le mosse di John Cryan, CEO di Deutsche da appena sei mesi, che, dopo aver rassicurato che la banca ha i soldi per pagare gli interessi sui bond subordinati (sic), ha anche promesso che ne riacquisterà con un'operazione di buyback per poco meno di 5 miliardi di euro, una mossa quest'ultima che ha consentito venerdì al titolo di guadagnare un 15 per cento pur restando a meno della metà di quanto quotava pochi mesi orsono.

Ma la cifra che davvero è impressionante è stata resa nota dal quotidiano la repubblica che, in un articolo a firma di Maurizio Ricci, rende noto che l''esposizione lorda sui derivati è pari a qualcosa meno di 60 mila miliardi di euro un multiplo dell'attivo tradizionale della banca e superiore all'intero prodotto lordo dei paesi dell'Unione europea, ma Cryan rassicura dicendo che Deutsche ha una "piscina" di liquidità pari a 215 miliardi di euro e alcuni analisti rassicurano vieppiù, affermando, come è peraltro ovvio, che si tratta di una cifra lorda e che l'esposizione netta è nell'ordine di cifre molto più basse e gestibili.

Peccato che la memoria storica ci porti immediatamente a quelle torride giornate del settembre 2008 quando il ministro del Tesoro a stelle e strisce dell'epoca e in precedenza numero uno di Goldman Sachs, Hank Paulson, e il suo sodale Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, fecero fallire Lehman Brothers, che pure aveva una considerevole "piscina" di liquidità, ma che, al momento opportuno si vide negare da altre banche, in particolare JP Morgan Chase (che per questo è stata condannata) la disponibilità dei propri soldi. 

Ma il problema vero di Deutsche è il cosiddetto rischio di controparte, perché è solo se le controparti dei contratti sono solide, e liquide, che il passaggio dal lordo al netto della montagna dei derivati in pancia al colosso tedesco è possibile!

domenica 14 febbraio 2016

Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi (versione per stampa)



Nel fine settimana ripubblico quelle che ritengo le puntate più interessanti del blog, come ho fatto ieri con quella riguardante la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs e oggi la versione per la stampa delle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi un leader politico in declino ma che ha condizionato più nel male che nel bene la politica e l'economia del nostro paese creando le premesse della più grande recessione del dopoguerra e molti dei dei guasti del sistema bancario e finanziario.

Uno dei libri più belli e più animati da una grande passione civile che mi sia capitato di leggere è certamente The Economic Consequences of the Peace scritto da John Maynard Keynes nel 1919, all’indomani del suo polemico abbandono dei lavori della Conferenza di Pace di Versailles che poneva fine a quella mattanza di massa che era stato il primo conflitto mondiale, un testo da lui scritto per protestare contro le assurde pretese degli alleati nei confronti della Germania sconfitta, pretese che contrastavano nettamente con gli impegni previsti nell’atto di resa e che crearono le condizioni più adatte all’avvento del nazionalsocialismo dopo il disastro iperinflattivo che aveva caratterizzato la Repubblica di Weimar.

Pur avendolo eletto a mio punto di riferimento principale per orientarmi tra gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, confesso che credo che nessun economista sia stato tirato tanto spesso in ballo attribuendogli, nella maggior parte dei casi, idee che lo stesso Keynes avrebbe giudicato quanto meno alquanto sballate e, soprattutto e cosa per lui molto più importante, molto poco basate sulla logica formale, uno strumento di cui era talmente dotato da far dire a Bertrand Russell che era molto impegnativo discutere con lui.

Nell’accingermi a scrivere una serie di puntate del Diario della crisi finanziaria espressamente dedicate alle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, avrò come riferimento proprio quella passione civile che caratterizzò il mai troppo compianto economista inglese, non solo nella redazione dell’opera citata di sopra, ma anche nel secondo libro dedicato al trattato di pace, in Can George Lloyd Do It? e in numerosi articoli e discorsi raccolti nelle Collected Writings of John Maynard Keynes, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che l’argomento che ho scelto difficilmente susciterà le reazioni provocate da opere che intervenivano su scelte di portata storica e che divisero profondamente l’opinione pubblica mondiale.

Come è a tutti noto, dopo un passato imprenditoriale di sicuro successo, seppur caratterizzato da alcune ombre legate agli esordi, Silvio Berlusconi decise di impegnarsi in prima persona nell’agone politico in una fase in cui i partiti storici della cosiddetta prima repubblica andavano letteralmente in frantumi sotto l’onda di sdegno popolare suscitato dalle inchieste del pool di Mani Pulite, un fenomeno di rigetto che travolse i cinque partiti di maggioranza, incrinò l’immagine dell’allora Partito Comunista Italiano, mentre lasciò più o meno intatta la forza dell’allora Movimento Sociale Italiano e della Lega Nord.

Utilizzando in modo molto abile gli strumenti della comunicazione televisiva, anche ma non solo a partire dalle tre reti di cui disponeva e dispone, la forza della rete dei venditori degli spazi pubblicitari di Mediaste, slogan semplici ma efficaci e un jingle molto accattivante, conquistò nel 1994 la sua prima vittoria elettorale e diede vita a un governo che durò soltanto pochi mesi, rifacendosi poi nelle elezioni del 2001 e in quelle del 2008, entrambe vinte con largo margine, mentre venne sconfitto da Romano Prodi sia nel 1996 che nel 2006.

Come afferma tra le righe l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, al di là di un modo molto naif di intendere la politica, caratteristica peraltro molto più apparente che reale, il politico Berlusconi proviene da uno schieramento di sicura e provata fede atlantica, di indiscusso anticomunismo, uno schieramento caratterizzato dal proliferare di organizzazioni più o meno segrete come gladio, la loggia massonica Colosseum e la successiva loggia Propaganda 2, della quale Berlusconi fece parte al pari di numerosi esponenti del partito da lui fondato quando sembrava ineluttabile la vittoria delle sinistre.

Lo scontro tra questo schieramento atlantico e il molto composito fronte che potremmo, in estrema sintesi e con qualche forzatura, definire europeista dura oramai da sessanta anni e ha condizionato in misura fortissima lo sviluppo dell’economia italiana, soprattutto per quanto riguarda la finanza, la grande impresa privata e le cosiddette partecipazioni statali, mentre scarso, se non nullo, interesse veniva dedicato alle imprese di medie, piccole e piccolissime dimensioni che costituiscono il carattere distintivo dell’economia del nostro paese, forse l’unico al mondo ad avere un esercito di milioni di imprenditori su una popolazione che non arriva a sessanta milioni di abitanti, per non parlare di quello sterminato numero di partite IVA che sono più assimilabili agli imprenditori che ai lavoratori dipendenti.

Sommati assieme, imprenditori e lavoratori autonomi presentano dimensioni non troppo lontane da quella rappresentata dai lavoratori dipendenti, una caratteristica forse unica tra i paesi europei, ma che assume caratteristiche ancora più particolari ove si tenga conto del fatto che molti lavoratori dipendenti svolgono, in modo palese o meno, attività di carattere imprenditoriale o autonomo sia in agricoltura che in altri settori dell’attività produttiva, una circostanza che spiega l’estrema labilità dei confini tra le classi sociali in Italia e che crea una base sociale molto più ampia di quanto emerge dai dati ufficiali per il messaggio politico berlusconiano, un messaggio molto in sintonia con il sentire comune di questo esercito di imprenditori un po’ “fai da te”.

Mi scuso per la lunga premessa, ma credo proprio che questa stratificazione sociale molto poco ‘europea’ della società italiana costituisca una delle ragioni meno esplorate del successo della solo apparentemente semplicistica formula berlusconiana che vede uno Stato poco o punto invadente, soprattutto sul piano di quelle pretese fiscali che fanno venire l’orticaria la popolo delle partite IVA e a quei piccoli imprenditori che non possono permettersi costosi fiscalisti, quali, a solo titolo di esempio, il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti.

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Ma la sola analisi della particolare stratificazione sociale che caratterizza l’Italia spiegherebbe solo in parte la radicale mutazione dell’orientamento politico ideologica della maggioranza degli italiani, ove non venisse opportunamente integrata da un’analisi della collocazione geografica del fenomeno stesso, che, come è oramai largamente noto, è incentrato nelle regioni del Nord, con particolare riferimento a quelle del Nord Est e a una parte importante della Lombardia, ma attecchisce sempre di più in Emilia Romagna e in parti non marginali di quelle che un tempo erano considerate le regioni ‘rosse’, caratterizzate da un modello sociale ed economico altrettanto anomalo rispetto al modello prevalente europeo, seppur con la presenza di elementi solidaristici e culturali molto più forti di quelli presenti del Nord inteso in senso stretto.

Si può ironizzare quanto si vuole sugli aspetti folcloristici e chiaramente demagogici di quel movimento a suo tempo ideato dal politologo Gianfranco Miglio e guidato da un personaggio assolutamente originale quale è Umberto Bossi, ma sarebbe molto errato non comprendere che quello stesso movimento ha letteralmente scardinato in larga parte delle regioni settentrionali, partendo dagli interessi materiali di larga parte della popolazione, gli schemi classici destra-centro-sinistra che, a cavallo del cambio di millennio, erano ancora pienamente operanti nel resto del Belpaese, anche se è altrettanto vero che è solo dopo l’alleanza strategica con Berlusconi, quella del 2001 non quella del 1994, che vede la sua nascita quel partito del Nord che inizia a essere l’asse portante dello schieramento di centro-destra al punto di costringere la componente di destra, pena la certa marginalizzazione, ad aderire al progetto del partito unico che, non del tutto a caso, consente alla Lega non solo di non aderire, ma anche di mantenere piena libertà di movimento, più o meno corsaro, anche quando, con la schiacciante vittoria delle elezioni del 2008, si formerà il nuovo governo.

Paradossalmente, l’unico esponente del centro-sinistra che ha capito sino in fondo la mutazione genetica che stava avvenendo non solo nel Nord, ma anche in una parte significativa delle regioni del Centro, è stato proprio Romano Prodi, l’unico peraltro, ad avere sconfitto due volte Berlusconi, anche se la seconda di strettissima misura, ma che, per ragioni che qui sarebbe troppo lungo spiegare, non è riuscito a intercettare le ragioni profonde di quel cambiamento, avendo prima la missione dell’ingresso nell’euro e poi dovendo accettare, come elemento di garanzia, la presenza quale ministro dell’Economia, di un burocrate a 24 carati quale era e resta Tommaso Padoa-Schioppa, circostanze che per due volte lo hanno trasformato in un novello San Sebastiano, trafitto più dalle frecce scagliate dagli amici che dall’incessante fuoco alzo zero dei nemici.

Insomma, il capolavoro di Berlusconi quale elemento di punta degli atlantici di provata fede e dell’applicazione pratica e capillare dell’ideologica antieuropeistica e anticentralistica di Gianfranco Miglio effettuata da Umberto Bossi è stato quello di intercettare la pancia dei lavoratori autonomi e di quei milioni di imprenditori di ogni ordine e grado esclusi dal salotto buono di Mediobanca e di quella che un tempo veniva considerata la Galassia del Nord che riuscivano ad avere come interlocutori i partiti di maggioranza e il maggiore partito di opposizione nella prima repubblica, il Partito Comunista Italiano, interlocutori che, al di là di qualche incidente di percorso, sono sempre stati proni alle esigenze del capitalismo delle grandi famiglie, pur elargendo sostanziose mance a larghi strati della popolazione italiana, attraverso il proliferare di provvedimenti assistenziali che hanno del tutto scassato i conti pubblici, contribuendo a creare quella voragine del debito pubblico che ha poi fatalmente portato a quelle politiche di rigore forse inevitabili ma che hanno favorito, nelle produzioni maggiormente produttive, l’insofferenza radicale sia di quanti ne venivano colpiti, sia di quelli che non pagavano né le sovrattasse, né le tasse, ma che temevano di essere prima o poi colpiti dal progressivo affinamento delle capacità di accertamento del fisco!

Se questa è la base sociale dell’asse strategico Berlusconi-Tremonti-Bossi, è abbastanza facile capire le linee di una politica economica che sarebbe altrimenti del tutto incomprensibile, almeno alla luce dei criteri seguiti nei maggiori paesi dell’Unione Europea, una politica economica e fiscale che ha come obiettivo principale la creazione di un blocco dei produttori e dei lavoratori autonomi in grado di sostituire il capitalismo delle grandi imprese che, non a caso, non ricevono le stesse attenzioni loro dedicate da Gordon Brown, da Nicholas Sarkozy o da Angela Merkel e che, anzi, vengono aiutate solo quel tanto che basta per non mettere in ginocchio l’estesa filiera dei loro fornitori, che in larga parte sono appartenenti della prima ora del nuovo blocco sociale.

Il banco di prova del nuovo approccio la si è avuta con l’apparentemente folle opposizione strenua al salvataggio di Alitalia da parte dell’unico pretendente in corsa, l’Air France-KLM, attraverso la costituzione di un gruppo di imprenditori non troppo conosciuti dal grande pubblico e poco attenzionati dalla stampa più o meno specialistica che hanno dato via, grazie all’impegno profuso dal Chief Executive Officer del gruppo Intesa-San Paolo, Corrado Passera, alla CAI prima e all’acquisizione di parte delle attività di Alitalia poi, per poi aprire le porte alla sconfitta Air France che, alla fine dei giochi e tra qualche anno, spenderà la stessa cifra prevista in partenza, ma che ne dovrà corrispondere la parte più rilevante non allo Stato o ai creditori della vecchia compagnia di bandiera, ma ai molto lungimiranti capitani coraggiosi che hanno avuto il merito di credere alla visione di Silvio, un capolavoro che non sarebbe riuscito neanche alle oggi tanto vituperate Investment Banks e che vede i cittadini chiamati a pagare qualcosa come 3-4 miliardi di euro pronti, almeno stando ai sondaggi, a incrementare il consenso verso l’attuale governo.

Ma le ambizioni del citato asse strategico non si fermano certo a quella ventina di imprenditori, che scommetto avranno anche ottimi ritorni all’Expo e dintorni, puntando a creare un blocco di centinaia di imprenditori di riferimento che, a loro volta, divengano il volano di altre attività di minori dimensioni, un progetto, però, che per marciare appieno ha bisogno non solo di appalti e commesse, ma anche di un sostanzioso e costante sostegno dal sistema creditizio, il che appare perlomeno difficile nell’attuale contesto di crisi finanziaria e che richiede, quindi, l’inderogabile necessità di mettere le mai e/o condizionare pesantemente le scelte almeno dei primi cinque grandi gruppi creditizi, cosa in larga parte già riuscita con riferimento al gruppo Intesa-San Paolo, in particolare dopo l’uscita del poco omogeneo, anche per motivi familiari, Pietro Modiano, ma che richiede opportuni interventi in Unicredit Group, Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare e UBI Banca, interventi che non possono solo basarsi sui finalmente approvati e molto onerosi Tremonti Bonds.

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L’approccio di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti allo strategico snodo rappresentato dal credito è stato da me illustrato in decine di puntate del Diario della crisi finanziaria, ma credo che sia necessario osservare le mosse dell’ibrido Bermonti da un’ottica leggermente diversa se si vuole comprendere il nesso tra la loro posizione sul controllo, diretto o indiretto non fa, in realtà, grande differenza, di quella parte del settore bancario italiano costituita dai primi cinque gruppi creditizi, che hanno accorpato, nell’arco di un quindicennio, centinaia di istituti di ogni dimensione.

Per quanto riguarda le fragilità e i ritardi dei primi cinque gruppi bancari italiani, rinvio alle cinque puntate del Diario della crisi finanziaria apparse nel mese di luglio del 2008, anche perché è proprio da questi ritardi e da queste fragilità che è possibile comprendere più agevolmente le ragioni della facilità con la quale Giulio Tremonti è riuscito a mettere sotto scacco i vertici di conglomerati che, messi tutti assieme, presentano un totale dell’attivo di dimensioni mostruose, ma che, sul piano dell’influenza politica sono poco più che dei nani, anche perché gran parte degli attuali esponenti di vertice sono visti, a torto o a ragione, come facenti parte di quel complesso finanziario-industriale che non solo si è pervicacemente rifiutato di riconoscere aspetti positivi e condivisibili nella filosofia economica implicita alla strategia politica incarnata da Silvio Berlusconi quale elemento di punta dello schieramento delineato nelle puntate precedenti, ma avrebbe anche costituito la sponda di quella parte dello schieramento politico avverso che è largamente influenzata dal ‘nemico’ numero uno Carlo De Benedetti!

La prima preda nella vorticosa campagna acquisti di Bermonti nel settore bancario è stata certamente rappresentata da Corrado Passera, uno dei due ex enfante prodige della finanza italiana, reo, peraltro, di aver intrecciato parte della sua esperienza professionale con lo stesso De Benedetti sino all’epoca della rottura consumatasi per ragioni che rimangono ancora del tutto oscure, che sembrava sulla via dell’uscita anche dal mega gruppo che aveva attivamente contribuito a costruire nella terza fase del processo di ristrutturazione del sistema creditizio italiano, grazie alla pressoché fulminea conquista del San Paolo-IMI, mentre nel carniere di Intesa era già finito in precedenza un pezzo di pregio quale la Banca Commerciale Italiana, orridamente smembrata e scomparsa perfino dal logo della banca acquirente (non credo sia il caso di ricordare come la Comit sia stata l’emblema storico della finanza laica e la Cariplo, elemento aggregante di Intesa, sia stata da tempo immemorabile un feudo della finanza cattolica).

L’acquisizione di Passera è avvenuta nel pieno della campagna elettorale, quando, l’entrata a gamba tesa effettuata dall’allora leader dell’opposizione, ma accreditato come sicuro vincitore delle elezioni, sulla trattativa in corso tra le nove sigle presenti in Alitalia e l’amministratore delegato dell’acquirente Air France-KLM, lo chiamò esplicitamente in causa, non provocando, come sarebbe stato doveroso da parte di un banchiere, un’esplicita smentita, bensì molto eloquenti ammiccamenti che fecero aumentare gli storici mal di testa del suo presidente, Giovanni Bazoli, amico e sostenitore di Romano Prodi, una scelta di campo che ribaltò i rapporti di forza tra l’amministratore delegato e il presidente e che, a vittoria elettorale certificata, diede luogo al conferimento allo stesso Passera del ruolo di Advisor ufficiale del Governo nella straordinaria procedura di vendita della compagnia di bandiera alla ventina di imprenditori volenterosi capitanati da un altro ex compagno di avventura di De Benedetti, quel Roberto Colaninno che, qui si è toccato il massimo della perfidia, era ed è anche padre di quel Matteo che è ministro ombra dello sviluppo economico per il partito democratico.

Lo schieramento è divenuto poi sistemico con la vittoria di Passera nei confronti del suo vice acquisito in uno con Il San Paolo-IMI, quel Pietro Modiano che, alla guida della cosiddetta Banca dei Territori, non aveva affatto demeritato e che aveva come supporter niente di meno che il presidente del consiglio di gestione, Enrico Salza, e non era certo inviso al presidente del Consiglio di Sorveglianza, il già citato Bazoli, ma che doveva in ogni modo essere defenestrato per ragioni di ordine interno ed esterno alla banca.

Travolto dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso e dalle sue stesse scelte gestionali in merito, all’acquisizione di Hipoverein con annesse province orientali, di Capitalia con i suoi cronici guai, dell’espansione autonoma nei paesi dell’Europa dell’Est, Alessandro Profumo ha cercato in ogni modo di risalire la china derivante dal chiaro non gradimento di Bermonti, sia riannodando i rapporti più che consumati con il rivale Passera, sia aprendo con sollecitudine a tutti o quasi gli input provenienti da Via XX Settembre e Palazzo Chigi, ma tutto ciò non servirà, con ogni probabilità, a salvargli la poltrona, quando e se verrà deciso che non servirà più a fare da bersaglio delle invettive tremontiane e a fare da catalizzatore delle inquietudine degli azionisti, fondazioni bancarie in primis.

Saltati, per molto improbabili ragioni familiari, gli amministratori delegati del Banco Popolare e di UBI Banca, Fabio Innocenzi e Giovanni Auletta Armenise, inchiodata dalla lettera circolare di Tremonti la un tempo poco meno che onnipotente Fondazione Monte dei Paschi di Siena alle proprie responsabilità, a Bermonti non resta che sedersi sulla classica riva del fiume per attendere il passaggio dei più o meno odiati nemici, quelli, per intendersi, che, quando non andavano alle adunate di categoria in quel di Siena per ascoltare il verbo di Massimo d’Alema, si favoleggia mandassero il certificato medico.

Ma il dettagliato e insidioso questionario contenuto nella già menzionata lettera circolare di Tremonti a ‘tutte’ le fondazioni di origine bancaria ha anche lo scopo di ammorbidirne, e di parecchio, le posizioni in merito a quello che è in realtà il vero pilastro dell’architettura prossima ventura del sistema bancario italiamo, quella Cassa Depositi e Prestiti, amministrata da poco tempo da un fedelissimo del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, che risponde al nome di Massimo Varazzani e alla cui presidenza è stato chiamato, con perfidia quasi craxiana, l’ex ministro Franco Bassanini, a suo tempo ministro di valore di diversi governi di centro-sinistra, una Cassa controllata dallo Stato e largamente partecipata dalle Fondazioni e alla quale è stato da pochissimo concesso di poter utilizzare una maggiore quota parte del risparmio postale.

L’altrettanto inviso Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha lanciato di recente un chiaro messaggio alle banche, seppur, come si usa, tra le righe e con linguaggio paludato, invitandole di fatto a non fare ricorso ai finalmente partoriti Tremonti Bonds, un passaggio essenziale per il disegno di Bermonti!

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Prima di proseguire, mi vedo costretto a rivolgere lo sguardo a quanto sta accadendo in queste ore sulle due sponde dell’Atlantico, in quanto nel week end, come era largamente prevedibile, si sono consumati alcuni avvenimenti che incideranno, e parecchio anche, sulle questioni che ho affrontato nelle tre precedenti puntate sulle conseguenze economiche di Silvio Berlusconi!

La prima è rappresentata dall’anomalo vertice dei capi di Stato e di Governo dei principali quattro paesi dell’Unione Europea, Italia, ovviamente, inclusa, a cui partecipavano anche il presidente della UE, Barroso, il premier olandese, quello spagnolo e quello della Repubblica Ceca, causa presidenza di turno semestrale, una riunione tutt’altro che effimera e nella quale è stata messa giù una molto impegnativa agenda in vista del G20/G21 previsto per il 2 aprile prossimo venturo in quel di Londra, un’agenda che prevede, tra l’altro, la lotta senza quartiere ai paradisi fiscali rei di essere base di quei 7 mila miliardi di euro che non solo sono in gran parte sottratti agli oneri fiscali previsti nei paesi di appartenenza, ma vengono anche visti, a torto o a ragione, come la hot money che imperversa, a fini altamente speculativi sul mercato finanziario globale travolto dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo.

Ma nell’agenda è previsto anche quanto sta già avvenendo negli Stati Uniti d’America, la nazionalizzazione di fatto di larga parte del sistema bancario e finanziario a stelle e strisce, un’operazione iniziata già in ottobre con Fannie Mae, Freddie Mac, Ginnie Mae e il colosso assicurativo AIG che è tornato ieri a bussare cassa, ma che da ieri sta coinvolgendo Citigroup, Bank of America, attraverso la conversione della montagna di preferred shares già acquisite in common shares, azioni ordinarie, previa immissione di altre decine e decine di miliardi di dollari direttamente sotto forma di azioni ordinarie, mentre sarebbe prevista la conversione di tutti gli interventi previsti dalla prima parte del TARP in altrettante azioni ordinarie delle entità a suo tempo beneficiate, incluse Wells Fargo, J.P. Morgan-Chase, Goldman Sachs e Morgan Stanley, sempre che le stesse non restituiscano quanto ricevuto (sic)!

E’ ora molto più comprensibile la recente esternazione di Silvio Berlusconi dopo l’incontro a Roma con il “salvatore del mondo” Gordon Brown” svoltosi in vista del vertice sopra menzionato, così come è chiaro che anche i governi dei maggiori paesi europei stanno seriamente considerando l’opzione statunitense, indubbiamente la più efficace per mettere in sicurezza i rispettivi mercati finanziari, anche se, quando tutto ciò si verificherà, stuoli di giornalisti e commentatori alquanto emebedded si sgoleranno a giurare che si tratterà soltanto di misure temporanee, peccato che nessuno di loro sarà in grado di indicare la data di conclusione dell’esperimento, anche perché è chiaro a tutti che non vi è nulla che piaccia di più ai governanti di turno come l’esercizio del potere pressoché assoluto sulla distribuzione del credito, che ovviamente sarà effettuata da persone da loro direttamente indicate o a loro certamente gradite!

Chiarito lo scenario internazionale che farà da cornice alle scelte di politica economica e ai piani di salvataggio delle entità protagoniste del mercato finanziario italiano, possiamo riprendere il filo del ragionamento esposto nelle tre puntate precedenti, ricordando che ci eravamo fermati a quanto è emerso nell’intervento del Governatore della Banca d’Italia alla riunione annuale del Forex e delle altre associazioni degli operatori impegnati nel mercato finanziario, un intervento nel quale Draghi ha evitato accuratamente di criticare il Governo per la scarsa entità dei provvedimenti, soprattutto se raffrontati alle cifre multiple messe in campo da Brown, da Sarkozy e dalla Merkel, mentre ha invitato i banchieri presenti (e i tanti stranamente assenti) a valutare molto attentamente il testo che prevede i cosiddetti Tremonti Bonds, che molti, a torto o a ragione, vedono come una sorta di cavallo di Troia di Bermonti per espugnare le alquanto traballanti mura di difesa dei primi cinque gruppi creditizi italiani.

Pur di cacciare dalla sua poltrona l’odiato Antonio Fazio, fu proprio Tremonti a indicare a Berlusconi il nome dell’allora uomo di vertice di Goldman Sachs, ma per un decennio Direttore Generale del ministero del Tesoro, Mario Draghi appunto, pur avendo perfettamente a mente il ruolo fondamentale svolto dal designato Governatore nel processo di privatizzazione di parte del sistema bancario e di aziende del calibro di Telecom, ENI ed ENEL, un ruolo che lo poneva indubitabilmente come elemento di punta del disegno europeista fortemente propugnato da Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi, Carlo De Benedetti e compagnia cantante e che rappresentò una vera e propria festa per le più importanti Investment Banks del mondo, inclusa quella potente e ancor più preveggente Goldman Sachs che molto opportunamente lo cooptò al termine della sua esperienza in Via XX Settembre, affidandogli importanti incarichi in Europa e ammettendolo al proprio comitato esecutivo mondiale!

Non voglio assolutamente entrare nel pur vivace dibattito che vede in quella fase del processo di privatizzazione un’occasione mancata per valorizzare l’esperienza delle Partecipazioni Statali, un regalo a Mediobanca e al capitalismo delle grandi famiglie, ma quello che è certo è che i medi, piccoli e piccolissimi imprenditori restarono, per così dire, a bocca assolutamente asciutta e fecero fatica a comprendere la strategia dei noccioli e nocciolini duri applicata a realtà quali la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, e le importanti utilities sopra citate, un’opposizione sorda e muta che non fu estranea alla prima grande avventura imprenditoriale di Roberto Colaninno e dei suoi compagni di avventura, primo indizio della forma economica che stava assumendo quel partito del Nord che allora era soltanto in ‘mente dei’.

Così come non mi pare il caso di ricordare la doppia presidenza dell’IRI opportunamente affidata a Romano Prodi o che, nella doppia disfida di Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, la prima avvenne, ancora ai tempi del pentapartito e quando Bettino Craxi godeva fama di grande statista, proprio su quella SME della quale il Professore si voleva a tutti i costi liberare, come, tanti anni dopo, dell’Alitalia, tutte occasioni nelle quali venne affidato a un allora giovane Berlusconi il compito di fare il guastafeste, anche se nel mezzo vi è la grande battaglia sulla proprietà della Arnoldo Mondadori Editore, una battaglia di grande e strategica importanza, anche alla luce del fatto che la Rizzoli era già saldamente controllata, via Roberto Calvi, dai padrini del tempo dell’uomo di Arcore.

Allora come oggi, Mediobanca rappresenta uno snodo troppo importante per accettare la presenza di Bollorè e dei francesi, qualcosa che ricorda molto da vicino la situazione esistente in Banca Intesa ai tempi in cui il Credit Agricole ne era l’azionista di riferimento e che fu risolta attraverso la fulmine e più volte ricordata acquisizione del San Paolo-IMI, il che apre al discorso relativo a Profumo e a Unicredit Group.

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Al di là della proliferazione dei vertici tra capi di Stato e di Governo riscontrabile dall’autunno del 2007, è certo che gli alti marosi della tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo hanno messo in evidenza quel che manca nel progetto di edificazione degli Stati Uniti d’Europa, un processo che dalla visione iniziale dei padri fondatori ha certamente compiuto significativi passi in avanti, in particolare sul piano monetario, con la progressiva adesione di ben sedici paesi su ventisette alla moneta unica, il rafforzamento del parlamento e delle istituzioni europee, ma al quale mancano passaggi significativi e fondamentali che rischiano seriamente di allontanarsi di molto nel tempo, se non di finire per non realizzarsi più, in primis la possibilità di giungere ad un Governo unico, con precise competenze almeno in materia di difesa, politica economica e rapporti con l’estero.

Mentre la crisi finanziaria ha reso molto più probabile l’adesione all’euro dei paesi che hanno sinora utilizzato la clausola dell’opting out, non vi è dubbio che l’impossibilità di giungere alla definizione di un piano di salvataggio unitario ha ridato fiato a quelle spinte mai sopite a favorire gli interessi nazionali, anche a scapito degli altri paesi membri, accresciuto la tendenza al rafforzamento e alla difesa dei cosiddetti ‘campioni nazionali’, nonché la tentazione di eliminare, spesso via aggregazioni successive, qualsiasi presenza ‘straniera’ ingombrante nel settore finanziario.

Se questa è una peculiarità francese, in parte legata a motivi storici, non vi è dubbio che nel settore creditizio italiano questa logica abbia avuto un ruolo prevalente nelle motivazioni che hanno portato all’acquisizione fulminea del San Paolo-IMI da parte di Banca Intesa e di Capitalia da parte di Unicredit, mentre non è stato risolto in Mediobanca che è, e intende rimanere, l’azionista di riferimento di quelle Assicurazioni Generali che hanno non del tutto a caso appena deciso l’incorporazione delle controllate Alleanza e Toro.

Non dispongo di alcun elemento di conoscenza in merito ai rapporti esistenti tra Giulio Tremonti e l’anziano banchiere di Marino, Cesare Geronzi, mentre è certo che quest’ultimo intrattiene rapporti cordialissimi sia con Silvio Berlusconi che con il suo braccio destro Gianni Letta, nel cui ufficio di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio si svolgono quotidianamente incontri bilaterali, riunioni e conciliaboli, una sorta di stanza di compensazione tra le strategie da tempo delineate e l’applicazione pratica delle stesse.

Ho l’impressione che Alessandro Profumo non si sia accorto di quanto accadeva in questi mesi a Palazzo Chigi e dintorni, forse confidando troppo nella difficoltà di conciliare la visione tremontiana e le dichiarate ambizioni nutrite da Geronzi, nonché sull’attiva attività di interdizione svolta dal Governatore della Banca d’Italia che, in più di un caso, ha promulgato disposizioni che sembravano rispondere più che criteri di carattere generale alla volontà di sbarrare la strada verso quegli incarichi di vertice nelle Generali cui Geronzi sembrava aspirare, una sottovalutazione dei rapporti di forza che è deflagrata in occasione della conversione ad u sul modello di governance fortemente voluta da Geronzi e ostacolata sia da Profumo che da Draghi.

Tutto è divenuto più chiaro quando un cronista che in Unicredit Group è di casa ha anticipato, sull’organo ufficiale della Confindustria, un resoconto ampio una pagina sulla possibile fusione tra Mediobanca e Unicredit Group, un vero e proprio fulmine a ciel sereno, con ovvio seguito di smentite imposte dalla CONSOB dai due gruppi interessati, ma che altrettanto ovviamente nulla dicevano sulle intenzioni degli azionisti di riferimento dei rispettivi gruppi, in particolare di quelli di parte italiana, di alcuni dei quali è più che nota l’insoddisfazione per la situazione attuale, con particolare riferimento al progressivo squagliamento dell’azione di Unicredit.

Mentre è del tutto difficile, se non impossibile, dire quale sarebbe il senso industriale di una simile aggregazione, anche se di ciò non ci si è troppo preoccupati nelle due mega aggregazioni citate di sopra, o chi guiderebbe le danze, per non parlare poi della governance prossima ventura dell’aggregato risultante, quello che è certo è il cui prodest, anche alla luce dei nomi che sono circolati per le cariche di presidente e di amministratore delegato che i più hanno visto corrispondere, rispettivamente, a quelli di Cesare Geronzi e di Alberto Nagel, mentre, in base ai numeri, la presenza di Bolloré e degli altri soci francesi di Mediobanca si sarebbe diluita in modo drastico e così la loro influenza su quella che è forse la principale ragione di esistere dell’istituto di Piazzetta Cuccia: la partecipazione nelle Generali!

Con la benedizione di Berlusconi e la guida di Geronzi, non vi è dubbio che sia la componente bancaria che quella industriale di origine italiana del patto di sindacato che governa Mediobanca esprimerebbero a larga maggioranza parere favorevole all’operazione, anche se per le banche azioniste si tratterebbe solo di realizzare un capital gain, in quanto, alla luce della recente indagine conoscitiva dell’Antitrust in materia di governance, non sarebbe loro consentito di fare parte degli organi collegiali dell’aggregato risultante, mentre l’operazione rappresenterebbe una boccata di ossigeno per le fondazioni azioniste di Unicredit che, fatta eccezione per Cariverona, non hanno colto il messaggio implicito contenuto nella lettera circolare loro inviata da Tremonti.

Sarà un caso, ma la puntata che ho dedicato a suo tempo a questa operazione è stata una delle più lette sia dall’Italia che dall’estero, così come quelle dedicate al male oscuro che affligge Unicredit da quando è divenuto Group, anche se credo che difficilmente si procederà al solo fine di allontanare Profumo e Rampl dalle loro rispettive poltrone, anche perché credo che l’obiettivo dei padrini dell’operazione sia molto più ambizioso e molto più omogeneo a quel desiderio di controllare che siano garantiti, almeno dai due principali gruppi creditizi italiani, i flussi di impieghi essenziali per quello sterminato numero di imprese che già vede in Berlusconi una sorta di novello Re Mida, mentre fornirà un concreto motivo di fede per quelle che ancora mantengono un atteggiamento agnostico.

Se l’eventuale matrimonio tra Mediobanca e Unicredit Group è una pratica direttamente gestita da Berlusconi e Letta, delle prospettive del Monte dei Paschi di Siena se ne occupa direttamente Tremonti, sia perché l’attuale proprietario è una fondazione di origine bancaria, sia perché il tempo concesso a Rocca Sansedoni per ravvedersi è, per il poco paziente ministro, oramai pressoché scaduto, con il rischio che la complessa operazione che avrebbe dovuto fare nascere il terzo polo bancario e assicurativo italiano potrebbe essere divenuta più difficile da realizzare!

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Nonostante le dimensioni nel frattempo raggiunte, non vi è dubbio alcuno che il Monte dei Paschi di Siena rappresenti l’ultimo esempio di banca molto attenta alle esigenze del territorio senese, non indifferente alle esigenze degli abitanti della Toscana, ma ancora non del tutto consapevole di quel ruolo di banca nazionale che pure ha raggiunto da lungo tempo, una contraddizione destinata a divenire stridente dopo l’onerosissima e fulminea acquisizione di Antonveneta al prezzo record di nove miliardi di euro per una banca oramai lontana dai livelli di attività e radicamento vantati solo pochi anni orsono, peraltro privata di una importante partecipata bancaria, venduta a parte dall’abile Don Emilio Botin.

Quando mi sono ripetutamente occupato della questione, l’azione del gruppo senese quotava a un multiplo di quanto vale oggi, mentre l’assorbimento del patrimonio della Fondazione nella sua maggiore partecipata continua a mantenersi intorno alla stratosferica percentuale del 90 per cento, il che renderà molto problematico rispondere alle indiscrete ma puntuali domanda contenute nella missiva ricevuta dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, una lettera circolare a tutte le fondazioni di origine bancaria che chiede risposte dettagliate su questioni quali i rischi finanziari, la redditività, l’eventuale utilizzo del fondo di stabilizzazione e via discorrendo, domande delle quali, almeno nel caso di Siena, conosce già, almeno per sommi capi, le risposte.

Come si sa, nella non troppo remota tentata scalata della Banca Nazionale del Lavoro da parte del rinomato duo Consorte-Sacchetti, con Caltagirone e furbetti del quartierino al seguito, Unipol si trovò in rotta di collisione proprio con il Monte dei Paschi di Siena e alcune importanti cooperative, il che ha poi portato a sciogliere i nodi societari che da tempo legavano le due entità, anche se, almeno limitandosi a vedere i corsi di borsa, non sta andando troppo bene neanche per Unipol Gruppo Finanziario, come da qualche tempo è stata ribattezzata la compagnia assicurativa di Via Stalingrado in quel di Bologna.

Una delle letture più interessanti della mia gioventù era intitolata Magnati e popolani nella Firenze dei Ciompi, un libro che mi fornì uno squarcio sul carattere particolare dei toscani, anche se devo dire che l’anno di studi trascorso in quella città nell’anno dell’alluvione mi fornì qualche impressione più di prima mano, per cui non trovo del tutto strana l’ostinazione dei contradaioli senesi a ritenere la banca fondata nel XV secolo un affare di loro esclusiva pertinenza, una convinzione alla quale l’impresa corsara del giovane avvocato Mussari, calabrese di nascita ma senese di adozione, ha inferto un colpo che credo proprio si rivelerà mortale, anche per la coincidenza della presenza, nell’azionariato e nel consiglio di amministrazione, di quello stesso Caltagirone che tanta parte ebbe nell’infrangere le ambizioni della Bilbao Vizcaya y Argentaria che BNL la voleva proprio tanto!

Quale potrebbe realisticamente essere la soluzione lo ho scritto tempo fa e continuo a essere convinto che il destino dei senesi e quello di Unipol torneranno a incontrarsi, anche a suggello del patto di non aggressione tra la Lega delle Cooperative e Berlusconi, ma che occorrerà per completare l’operazione la partecipazione di un importante gruppo creditizio francese che in Italia è oramai di casa, proprio attraverso quella BNL che tanti lutti addusse agli assicuratori bolognesi, conditio sine qua non perché la Fondazione di Rocca Sansedoni possa scendere, ricevute le opportune garanzie, a quel 30 per cento prescritto a suo tempo per legge da Tremonti, ma poi cancellato dal suo infido successore dopo l’agguato di Palazzo (Chigi) ordito ai danni di Giulio dalla strana coppia formata da Fini e Casini, complice l’assenza per grave malattia di Umberto Bossi che a Tremonti è legato da un patto di acciaio.

Non mi soffermo sulle caratteristiche tecniche connesse all’operazione da me soltanto, ovviamente, immaginata, se non per dire che sarebbero certamente molto più significative sul piano industriale di quelle che hanno caratterizzato ‘tutte’ le aggregazioni fatte sull’onda della paura degli azionisti stranieri e potrebbe anche rappresentare, alla luce degli ottimi rapporti tra Berlusconi e Sarkozy, una valida compensazione della diluizione potenzialmente patita da Bollorè e compagni in Mediobanca e, di riflesso, in Generali, ove né Innominati, né Don Rodrighi di turno dovessero frapporre ostacoli ai promessi sposi Mediobanca e Unicredit Group!

Da tutto questo Ambaradan ai piani alti del sistema finanziario italiano, resterebbero al momento estranee le entità che, pur presenti tra i primi cinque gruppi bancari e pienamente ammesse al listino di Piazza Affari, continuano a definirsi di credito cooperativo, un nome che fa venire l’orticaria a Berlusconi e Tremonti e che, non del tutto a caso, l’ex segretario generale di Palazzo Chigi, poi divenuto presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, della stranezza si è lungamente occupato nella recente indagine conoscitiva sulla corporate governance di banche e compagnie di assicurazione, un testo che è stato opportunamente inviato, per le determinazioni del caso, a Governo e Parlamento e che prevede che quanto previsto per le piccole e medie banche popolari, o per le singole banche di credito cooperativo (già il discorso cambia, secondo l’Antitrust, per le federazioni regionali delle stesse BCC) non può valere per colossi del calibro di UBI Banca, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano o Banca Popolare dell’Emilia Romagna (per un esame più approfondito del testo dell’Antitrust rinvio all’articolo di prossima pubblicazione da me redatto con Lamberto Santini, segretario confederale della UIL che, tra l’altro, si occupa di democrazia economica).

Pur trovandoci in pieno mare in tempesta, non vi è dubbio che le eventuali modifiche sul piano legislativo e regolamentare riguardanti le banche popolari di maggiori dimensioni verranno precedute o seguite da ulteriori processi di aggregazione che dovrebbero ridurre almeno della metà il numero delle stesse, cosa peraltro già tentata in passato dalla BPER e dalla Banca Popolare di Milano, anche se non realizzata per lo sfilamento, in extremis, di una delle due entità coinvolte, anche se il recente cambiamento dello statuto della stessa, fortemente voluto dalla Banca d’Italia e il mutamento degli equilibri interni potrebbero favorire il riavvio di questa o di altra operazione di aggregazione, anche perché, essendo quattro le entità potenzialmente coinvolte, le combinazioni possibili possono essere le più svariate, sino a quella Superpopolare di cui qualcuno ha parlato in passato, un’entità di dimensioni talmente grandi che potrebbe tranquillamente permettersi di perdere i benefici derivanti dalle norme realtive al credito cooperativo e competere ad armi pari con gli altri colossi del credito in Italia e all’estero!

Immaginando per un attimo di essere al giorno dopo della riorganizzazione in corso al vertice della classifica dei gruppi creditizi italiani, risulterebbe evidente che, senza necessariamente passare per alcuna nazionalizzazione, l’influenza del Governo sulle principali banche italiane potrebbe davvero definirsi compiuta e consentire più agevolmente la realizzazione dei progetti relativi all’economia reale.

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L’emissione dei cosiddetti Tremonti Bonds da parte delle banche interessate a ricevere gli aiuti di Stato rappresenterà, d’altra parte, un chiaro test dell’influenza raggiunta dall’Esecutivo nei confronti dei vertici dei maggiori gruppi creditizi italiani, cui è destinata una quota che si aggira intorno all’80 per cento dei 10-12 miliardi di euro previsti, un test significativo in quanto, alla fine di un lungo ed estenuante braccio di ferro, il ministro dell’Economia l’ha spuntata su ABI, Banca d’Italia e ambienti della maggioranza sensibili alle ragioni delle banche ed è riuscito a imporre una serie di condizioni che, soltanto un anno fa, le banche avrebbero sdegnosamente respinto al mittente, ma che ora si apprestano a subire, seppur non senza qualche molto silenzioso mugugno!

L’adozione di un codice etico, la moratoria per un anno dei mutui a cassintegrati e disoccupati, un deciso abbassamento dei mega bonus e delle stock options milionarie (pro capite), il controllo esercitato dai Prefetti sulla stabilità degli impieghi alle imprese, in particolare a quelle piccole e piccolissime, non sono proprio bocconi facili da ingoiare per il gotha dei banchieri italiani, gente abituata a condizionare i politici, piuttosto che esserne condizionata, se non apertamente minacciata dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia che, in più di un’occasione, ha ripetuto che, in caso di default, vi era una sola alternativa per i banchieri: andare a casa o in galera!

Certo, come ogni vincitore che si rispetti, Tremonti ha riposto sia l’arme della critica che quella delle armi, accontentandosi di avere messo in riga tutti quelli che, a torto o a ragione, ancora considera i responsabili dei danni subiti dai risparmiatori/investitori in una lunga serie di vicende dal carattere eccezionale, da Parmalat a Cirio, dai Bonds argentini a Giacomelli, ma anche alquanto tartassati dall’ordinaria gestione delle aziende di credito, in merito alla quale ha lasciato lunghe le briglia sul collo all’Antitrust che, in realtà. Da un po’ di tempo si sta dando parecchio da fare sulle vere cause della cronica assenza di concorrenza nel mercato creditizio italiano, un mercato nel quale le banche italiane e quelle foranee vanno davvero d’amore e d’accordo.

Confermandosi l’enfante terribile del giornalismo economico italiano, Oscar Giannino dal ‘suo’ Libero mercato ha lanciato una bordata non c’è male contro i maggiori gruppi bancari italiani, sottoponendoli allo stesso stress test previsto per le prime diciannove banche statunitensi e traendone la conclusione che, con la sola eccezione positiva di UBI Banca, tutte le altre si pongono di poco al di sopra del 3 per cento, ove il patrimonio venga depurato dell’avviamento, del marchio e di altre voci che non reggerebbero due minuti ove l’istituto di credito esaminato si trovasse realmente in difficoltà, una verifica che capita a fagiolo mentre si dibatte tanto sull’utilità o meno degli aiuti di Stato per le banche.

Richiamandosi esplicitamente all’esperienza in materia fatta dalla Francia, il Governo italiano punta a ottenere il massimo risultato possibile in termini di influenza e moral suasion nei confronti di quei gruppi che rappresentano tanta parte del sistema bancario italiano con il minimo esborso di mezzi, peraltro molto meglio remunerati di quanto il Tesoro corrisponda ai suoi creditori, mentre Tremonti continua ad accreditarsi come un novello Robin Hood agli occhi di quegli imprenditori di piccola taglia che già erano o rischiavano fortemente di essere le principali vittime del credit crunch in corso, il che per Bermonti rappresenta un risultato tutt’altro che irrilevante ottenuto mettendo nel piatto poco più che spiccioli rispetto allo sforzo finanziario davvero ingente sostenuto dai tre maggiori competitors europei.

Lanciata una discreta manciata di brioches al popolo degli imprenditori, Berlusconi può così dedicarsi agli affari più importanti, raggiungendo un’intesa strategica sul nucleare con l’amico ed ex avvocato di affari Nicolas Sarkozy, cornice alla sigla di un dettagliato deal tra ENEL e EDF, rimette il turbo al Ponte sullo Stretto di Messina, cerca di sedare la rissa nel pollaio milanese intorno al Big Business legato all’Expo prossimo venturo, tutte opere molto in là da venire ma che consentono al premier e ai suoi ministri di mettersi un casco bianco o giallo in testa e lanciare messaggi rassicuranti su un futuro fatto di decine e decine di miliardi di euro di opere pubbliche e di interessi molto privati.

Ma dove, almeno al terzo tentativo, Berlusconi compie il suo capolavoro è in quell’opera di intercettazione delle paure più o meno reali del suo pubblico, poco importa quanto le stesse siano amplificate da media che definire embedded e poco più di un eufemismo, un’opera nella quale il nostro non sbaglia davvero un colpo, poco importa che si tratti di immigrati, delinquenza più o meno organizzata, fannulloni, scioperanti nei servizi pubblici, con particolare attenzione ai trasporti, una lista molto lunga di obiettivi caratterizzati da un denominatore comune: una chiara maggioranza nei sondaggi preventivamente favorevole a che si faccia qualcosa, senza andare troppo per il sottile e con poca o nulla attenzione agli effetti collaterali!

In perfetta assonanza con quanto previsto nel noto manifesto di una delle organizzazioni più o meno segrete di chiara ispirazione atlantica, anche nella sua terza esperienza governativa, Silvio Berlusconi ha ben chiaro che a quella residua parte del Paese che si ostina a non diventare un lavoratore autonomo o un imprenditore nemmeno a part time è rimasto un unico baluardo e che questo è rappresentato dalle organizzazioni sindacali che, a differenza dei partiti del centro sinistra o della sinistra attualmente esclusa dal Parlamento, sono ancora caratterizzate da un forte radicamento sociale e da una significativa capacità di influenzare i propri iscritti che, includendo i pensionati, continuano a superare la soglia dei dieci milioni di donne e di uomini, un numero importante, anche se oramai, come ho scritto nella prima puntata, i lavoratori dipendenti nel loro complesso siano divenuti una minoranza.

Pur non rappresentando un capitolo della politica economica in senso stretto, è tuttavia evidente che quello delle relazioni con le organizzazioni sindacali rappresenta un capitolo cruciale della strategia di Berlusconi, ma che è anche il capitolo sul quale ha incontrato le maggiori difficoltà nelle sue due precedenti esperienze governative, al punto da decidersi a delegarle completamente al duo Sacconi-Brunetta, i due ministri che, assieme a Tremonti, maggiormente risentono dell’influenza di Franco Reviglio della Venaria, una circostanza rivendicata dall’ex ministro socialista delle Finanze in una sua recente apparizione televisiva andata in onda a tardissima notte.

Le prossime settimane e i prossimi mesi chiariranno se l’azione congiunta di Brunetta e Sacconi avrà successo, anche se il solco che si stava creando tra la CGIL da un lato e le altre tre Confederazioni sindacali dall’altro sembra si stia riducendo, alla luce della consapevolezza che l’obiettivo potrebbe non essere solo il ridimensionamento dell’organizzazione con sede a Corso d’Italia, quanto il Sindacato tout court, un dubbio che serpeggia sempre di più tra gli stati maggiori della CISL, della UIL e della UGL, in particolare da quando Epifani e i maggiori esponenti della sua confederazione stanno assumendo un atteggiamento più prudente.

Non so se corrisponda la vero quanto sostengono alcuni esponenti della stessa maggioranza e, cioè, che siamo di fronte al rischio concreto che si realizzi una sorta di monarchia assoluta, uno scenario che andrebbe a coincidere con una riforma costituzionale radicale e in senso presidenzialista, ma quello che è certo è che un recupero dell’unità sindacale costituirebbe una iattura per i fautori di questo disegno!

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Le considerazioni riportate nelle sette puntate precedenti costituiscono in realtà poco più che una premessa per giungere a quello che considero indubitabilmente il cuore del problema italiano, quello, cioè, rappresentato dal Moloch del debito pubblico in senso stretto, al netto del debito previdenziale e di quello non visibile ai più, perché nascosto nelle pieghe delle tante operazioni che lo hanno reso invisibile alle statistiche ufficiali, quello, per intenderci, che viene raffrontato al deficit annuale per fornirci quel valore che va raffrontato a quel limite massimo del 60 per cento previsto dal Trattato di Maastricht, piccola località olandese nella quale gli allora paesi membri dell’Unione europea gettarono le basi per la nascita della moneta unica europea, attualmente adottata da sedici dei ventisette paesi aderenti, ma che, anche grazie alla tempesta perfetta in corso da oltre un anno e mezzo, vede allungarsi la lista dei candidati all’ingresso, Gran Bretagna, Danimarca e Svezia in primis, oltre, ovviamente, a quella parte dei new comers che sta faticosamente cercando di mettersi in regola con i requisiti richiesti dalla lettera e dallo spirito del summenzionato Trattato.

Come forse ricorderanno i miei lettori, gli undici paesi che con l’Italia erano candidati nel 1998 fecero un vero e proprio atto di fede nella capacità dell’Italia, giunta stremata ma felice al raggiungimento ‘istantaneo’ del 3 per cento nel rapporto deficit/PIL nel 1997 grazie alla cura da cavallo fortemente voluta dal ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, e dall’allora premier, Romano Prodi, di mantenersi anche nel futuro entro tale valore e di ridurre progressivamente, ma decisamente, il rapporto tra debito e PIL per convergere da valori decisamente superiori al 100 per cento alla fatidica soglia del 60 per cento, anche se nessuno è stato sinora in grado di spiegare i reali motivi che spinsero i padri fondatori dell’euro a fissarla proprio a quel livello.

La chiave di volta, mi verrebbe di dire il grimaldello, che fu alla base del successo della titanica impresa di Ciampi e Prodi è rappresentata dal cosiddetto avanzo primario, che poi non è che la differenza positiva tra le entrate e le uscite di quel perimetro del settore pubblico considerato ai fini EUROSTAT, al netto degli oneri legati al debito pubblico allora considerevole in termini di rapporto percentuale con il PIL, ma che oggi ha decisamente superato, in valori assoluti, la soglia dei tremila miliardi di quelle che Berlusconi continua a chiamare le vecchie lire.

Per quanto riguarda le vicende di quel periodo, nonché la ricostruzione della famosa notte dell’euro, rinvio alle puntate del Diario della crisi nelle quali mi sono occupato di vicende che ho vissuto nella veste di economista di sala di una importante banca italiana, occupazione che lasciai in un’altra notte ripresa in diretta televisiva e dopo aver rilasciato un’intervista ad un bravo giornalista economico del TG3 poi approdato a Canale 5, quella della fissazione delle parità fisse e irrevocabili nel maggio del 1998, sia perché assumevo l’incarico di capo ufficio studi e capo ufficio stampa della UILCA, ma soprattutto perché, in un mercato Forex di fatto ridotto a tre valute, l’attività di previsore sui cambi era pressoché superflua, anche se restava centrale quella di central banks watcher al fine di prevedere i movimenti dei tassi di interesse ufficiali.

Anche sull’ingresso nell’euro e sulle scelte di politica e economica e fiscale assunte dall’allora maggioranza di centro sinistra capitanata da Prodi, lo scontro politico tra europeisti e atlantici fu al calor bianco, anche se i danni prospettici maggiori avvennero nel corso del Governo di Lamberto Dini, frutto dello sfilamento repentino della Lega dalla maggioranza, ma anche di un’opposizione sindacale ai progetti del Berlusconi I che vide milioni di lavoratori e pensionati invadere le principali piazze del Paese, ma sta di fatto che tedeschi e olandesi scommisero su di noi sino ad accettare un rapporto di cambio tra lira e marco tedesco, fondamentale per la successiva parità con l’euro, molto più elevato dei loro desiderata, concedendo alla volenterosa Italia l’ultima svalutazione della lira e ai lavoratori dipendenti e ai pensionati un pesante burden dal quale non si sono ancora ripresi, né, a mio modestissimo avviso, si riprenderanno mai!

Svaniti in brevissimo tempo gli effetti dell’ultima svalutazione, rimase per tutti noi il mito dell’avanzo primario, un qualcosa che, formichine risparmiose come siamo, ci rese anche alquanto orgogliosi, una sorta di vincolo di bilancio sistemico che però, guarda caso, si è accompagnato, negli undici anni successivi, a livelli di crescita della ricchezza nazionale realmente infimi, in parte frutto dello sciopero degli investimenti della stragrande maggioranza degli imprenditori, in particolare di quelli medi, piccoli e piccolissimi, che si ritennero eccessivamente tartassati dal Fisco e dal proliferare di quelli che Guido Carli amava definire i lacci e i laccioli dell’economia italiana, il che, detto dal teorizzatore nonché utilizzatore pratico della corda del boia in materia di tassi di interesse, per non parlare della sua esperienza come ministro del Commercio con l’estero negli anni Cinquanta, fa un po’ sorridere, anche se, come diceva Augusto Graziani, mio relatore di laurea, in fondo Carli era un keynesiano suo malgrado.

Seppur da madri e padri di famiglia italiani ci rendiamo tutti conto dell’importanza del fatto di spendere meno di quanto guadagniamo, è altrettanto evidente che risulta difficile accettare lo stesso principio nell’attività economica d’impresa, un’attività che non del tutto a caso viene definita di rischio e che richiede il ricorso al credito bancario sia per ragioni di elasticità di cassa che per il finanziamento a medio-lungo termine di quegli investimenti che non è possibile alimentare con il solo autofinanziamento derivante dalla redditività dell’azienda, così come è arduo ritenere che solo lo Stato non debba accettare di avere un debito più elevato del ‘fatturato’, cosa che accade tranquillamente con riferimento alla Fiat, all’Enel, alla Telecom Italia e all’Eni, entità che assommano debiti di varia natura fino a due volte quanto producono annualmente, sopportando più o meno agevolmente gli oneri connessi con il servizio del debito.

Certo, se si ha del debito pubblico una visione statica e una gestione alquanto passiva, la formula applicata dal duo Ciampi-Prodi o Padoa-Schioppa-Prodi è l’unica possibile, né l’esperienza del Berlusconi I e del Berlusconi II si sono molto discostate da questa sorta di maledizione del debito che avrà molto di biblico, ma ben poco di economico, anche se va detto che qualche tentativo di marcamento e di alleggerimento Tremonti l’ha pure tentata, ma. Come ha detto il suo Maestro Reviglio nell’intervista già citata, commettendo qualche errore e qualche superficialità dettata sia dall’inesperienza che dalle caratteristiche intrinseche del personaggio!

Pur sapendo i miei lettori cosa penso dei concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia, non appartengo affatto alla vasta schiera di quanti ritengono che si possa gettare allegramente via il bambino con la relativa acqua sporca, il che mi permette tranquillamente di dire che esistono tecnicalità in abbondanza per non rassegnarsi a strangolare l’economia reale e accettare supinamente la iattura di crescere a un tasso frazionale di quello potenziale o accettare che per svariate ragioni, non escluso l’istinto di sopravvivenza, un’enorme quantità di imprenditori e relativi loro collaboratori debbano in eterno restare in quella zona grigia che è l’economia sommersa o in nero.

Sulla gestione attiva del debito pubblico ho ricevuto un interessante proposta di un centro studi privato di Novara, così come negli anni ho discusso con esperti di strumenti del debito della possibilità di trovare forme innovative che non passassero per la svendita del patrimonio dello Stato, al punto di pensare che questo passaggio è il vero Hic Rodhi hic salta di chiunque voglia assicurare un futuro diverso al nostro Paese!

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E’almeno dalla fine dei ruggenti anni Ottanta, ma in particolare dal Governo Amato che prese il via in piena Tangentopoli, che qualsiasi esecutivo si sia succeduto alla guida del Paese ha, in realtà, avuto le mani legate dal peso percentuale e dal valore assoluto del debito pubblico, una questione che che è stata tuttavia gestita in modo assolutamente passivo, se si fa eccezione per qualche decisione episodica e non sempre impeccabile presa da Giulio Tremonti nella parte di quinquennio 2001-2006 che ha gestito prima della cacciata decisa da Fini e Casini, aprendo la strada al grigio periodo interinale di Domenico Siniscalco.

E’ perlomeno strano che in una fase durata poco meno di venti anni e pressoché coeva alla crescita esponenziale della finanziarizzazione a livello globale, non si sia cercato di fare nulla per trasformare il problema del debito pubblico in un’opportunità, lasciando tutto il campo a idee, purtroppo spesso realizzate, che equivalevano più o meno alla vendita o alla svendita della argenteria di famiglia, un esercizio questo che non ha assolutamente visto differenze negli esecutivi che si sono succeduti, anche se, come ho ricordato sopra, le decisioni più significative e irreversibili furono prese nei primi anni Novanta dal trio Ciampi-Amato-Draghi, mentre non vi è dubbio che sia che Berlusconi che Tremonti, in particolare nella presente esperienza governativa, sembrano gradire molto di più l’idea di una maggiore influenza dello Stato nelle utilities ancora non del tutto privatizzate, ENI ed ENEL in primis, ma anche a contare in società del tutto private quali Telecom Italia, per non parlare di quella vera e propria ansia di controllare direttamente o indirettamente i maggiori gruppi creditizi italiani di cui credo proprio di avere già scritto a sufficienza.

Che il settore delle telecomunicazioni inteso in senso lato sia oggetto di attenzioni a livello quasi ossessivo da parte di Silvio Berlusconi è cosa non solo ultranota, ma anche comprensibile alla luce degli interessi diretti che il premier ha nel settore dei media, televisivi e non, un mercato che presenta rilevanti analogie con quello creditizio, anche se in realtà in questo caso si può parlare a buon diritto più di un duopolio che di un oligopolio collusivo, anche se si tratta di un duopolio che inizia a essere minacciato dalla crescente concorrenza della Sky di Rupert Murdoch, mentre non sembra preoccupare troppo quella che sempre più spesso appare davvero come Raiset l’insidia rappresentata dalle due reti che fanno capo direttamente a Telecom Italia, sempre che Bernabé non pretenda di crescere in termini di audience più di quanto fece a suo tempo Marco Tronchetti Provera.

Così come è un vero e proprio segreto di Pulcinella l’interesse nutrito da Berlusconi per il matrimonio del secolo, quello tra Mediaset e Telecom Italia, un interesse che rappresenta un, anche se non l’unico, motivo per la decisa azione di interdizione che Palazzo Chigi esercita sulle ambizioni della spagnola Telefonica e su quelle dell’amico-rivale Murdoch, entrambi interessati a fare il colpaccio, la prima con una possibile scalata o in Telco o sull’intera società, mentre il secondo sembra più che interessato a superare i limiti derivanti dal satellite, traslocando armi e bagagli sul filo.

Dopo la triste esperienza fatta nella sua prima vita da amministratore delegato di Telecom Italia, non vi è dubbio che Franco Bernanbè, che è solo per caso un altro ex pupillo e protetto di Franco Reviglio della Veneria, ha certamente capito che non è assolutamente il caso di mettersi in rotta di collisione con il Governo, pare anzi che sia uno dei più assidui frequentatori delle stanze che contano a Palazzo Chigi, una frequentazione che è divenuta molto più intensa nelle ultime settimane, quasi che il due volte amministratore delegato di Telecom, con esperienza in posizione analoga nientepopodimeno che all’ENI, una parentesi alla presidenza europea di Rothschild, consideri l’esecutivo il suo vero e unico azionista di riferimento, quasi fossimo ancora ai tempi della Super Stet di Agnes e Pascale!

Al di là del fatto indubitabile che Franco Bernabè sia uno dei pochi top manager italiani di assoluta qualità, certificata anche dalla sua frequentazione di un club esclusivo come il gruppo Bildberg, le ragioni della sua sudditanza dall’asse Berlusconi-Tremonti Letta sono alquanto semplici e risiedono nella struttura debitoria del gruppo che guida per la seconda volta che, dopo la scalate di Roberto Colaninno e quella di Marco Tronchetti Provera, si trova ad un rapporto tra indebitamento netto e fatturato che continua ad oscillare su valori prossimi a due, ma che è stato già spolpato di tutto lo spolpabile dai due precedenti controllanti, come con giusta veemenza osserva Beppe Grillo, ma quello che più colpisce è che oltre due terzi dei titoli del debito siano stati emessi all’estero, presentando così una situazione non troppo diversa da quella della Parmalat di Callisto Tanzi o della Cirio di Sergio Cagnotti prima dei rispettivi e clamorosi default.

Anche se è certamente vero che tale situazione non si presenti in modo diverso nelle principali grandi imprese basate in Italia, è quanto meno ovvio che a Bernabè necessiti assolutamente la qualificazione di campione nazionale e la realtiva protezione del Governo contro gli appetiti del socio Carlos Alierta e dello ‘squalo’ Murdoch, due che notoriamente sono molto attivi quando sentono il sangue fuoriuscire dalle ferite della preda di turno, ma anche due persone perfettamente in grado di cogliere il messaggio implicito nell’operazione CAI-Alitalia, un’operazione certamente assurda se osservata sul piano dell’economicità o dal punto di vista dei danneggiati creditori e contribuenti, ma che rappresenta un chiaro warning nei confronti di chi osi pensare che sia possibile ‘allargarsi’ in Italia non solo senza l’avallo politico, ma addirittura contro il volere dell’inquilino pro tempore di Palazzo Chigi.

Una delle caratteristiche principali di Silvio Berlusconi è quella di essere in grado di trasformare, a volte in modo anche brillante, qualsiasi rischio o minaccia in un’opportunità, anche perché non è affatto escluso che possa decidere di sfruttare le ambizioni dello spagnolo e dell’australiano per risolvere o perlomeno diluire fortemente l’annosa questione del conflitto di interessi che, assieme alla sua inguaribile tendenze alle gaffes più o meno pesanti, rappresenta da sempre il suo tallone d’Achille, anche se tendo a escludere che rinunci a essere socio dell’aggregato che potrebbe venire fuori da un merger tra telefonia e televisione, anche perché, al di là della quota residua, basta avere un patto di sindacato blindato per continuare a esercitare la sua influenza sul colosso che potrebbe nascere.

Pensate all’impatto che avrebbe una simile operazione che, in un solo colpo, consentirebbe a Berlusconi di affermare di avere risolto il suo conflitto, di uscire dall’angolo dell’obsolescenza della sua principale creatura imprenditoriale, di trovare un successore al povero Fedele Gonfalonieri che non ne può proprio più di continuare a essere il parafulmine del suo amico di gioventù, di avere una quota di quella che potrebbe essere un’impresa di grande successo, di monetizzare l’investimento in Mediolanum, nonché di smettere di essere il generoso editore di Massimo d’Alema e Walter Veltroni!

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Delineato lo scenario sulle tre questioni centrali della Bermonti Economics, assetto del mercato finanziario italiano, ruolo della media, piccola e piccolissima impresa e dei cosiddetti lavoratori autonomi, mercato delle telecomunicazioni in senso lato (telefono, televisioni e internet), ci si potrebbe anche fermare qui, non fosse che l’articolazione della politica economica e fiscale si interseca con questi e moltissimi altri aspetti della vita sociale ed economica del nostro Paese che non possono essere lasciati in ombra, per non parlare di quelli che nei bugiardini delle case farmaceutiche sono definiti gli effetti collaterali e le interazioni tra un aspetto e un altro dell’agire economico, come ben sanno quei benemeriti che cercano di convogliare in un modello più o meno econometrico i comportamenti più o meno razionali dei diversi attori che ogni giorno di muovono sulla scena economica italiana, europea e globale, spesso non tenendo conto del fatto che la storia economica ha già fatto bellamente giustizia dell’unica teoria, quella dell’equilibrio economico generale di walrasiana memoria, che cercava a nodo suo di descrivere un mercato nel quale tutti disponessero delle stesse informazioni, ognuno agisse in modo razionale e la stessa determinazione dei prezzi relativi venisse istantaneamente risolta dalla celebre mazza del banditore!

Già, perché ogni decisione presa dall’apparente protagonista della vita economica e sociale del Paese, il Governo pro tempore in carica, comporta effetti che sono noti solo in minima parte da coloro che assumono le stesse decisioni, peraltro spesso modificate nel corso delle estenuanti e convulse sessioni parlamentari, nonché, come è emerso indubitabilmente in più di un’occasione, modificate in modo tutt’altro che marginale, dagli estensori della versione finale del provvedimento, un iter che coinvolge poco meno di mille persone della cui preparazione in materia economica e finanziaria nutro più di qualche dubbio, anche alla luce del fatto che delle professioni rappresentate nell’esecutivo e nel legislativo quella dell’economista è certamente quella che presenta un peso del tutto marginale.

Quanto poi alla capacità del Governo di influenzare la struttura dei prezzi, anche di quelli che pesano fortemente nel paniere della famiglia italiana, poco importa se consumatrice o produttrice, basterebbe fare riferimento a quelli in qualche modo legati all’energia, tariffe elettriche e del gas, nonché prezzo dei carburanti, peraltro fissati da un ristretto numero di aziende, per capire che anche un bambino dotato di pallottoliere sarebbe in grado di esercitare un’influenza maggiore di quella che gli esecutivi di centro-destra e di centro-sinistra siano mai riusciti, o abbiano mai voluto, esercitare!

Che dire poi dei prezzi e delle condizioni applicati nel mercato finanziario e relativi a depositi, impieghi, polizze, commissioni legate alla gestione professionale del risparmio altrui, e via discorrendo, ma basterebbe un riferimento al recente provvedimento in materia di agevolazioni statali all’acquisto di un veicolo più o meno ecologico per capire che i decision makers si sono banalmente dimenticati di prevedere che, per beneficiare delle agevolazioni, le case automobilistiche venissero tassativamente chiamate a fare la loro parte.

Se vi è poi un aspetto che, per motivi strettamente temporali, è stato gestito sia da Berlusconi che da Prodi, quello dell’adesione e successiva introduzione della moneta unica europea, non credo sfugga a nessuno che ci si è semplicemente dimenticati di adottare semplici accorgimenti che avrebbe impedito a tutti coloro che hanno la facoltà di determinare i prezzi del prodotto/prestazione/servizio di fare quello che poi in larghissima parte hanno fatto e, cioè, di applicare un tasso di conversione molto diverso da quello ufficiale, il che ha consentito ai proprietari di case, ai professionisti di ogni ordine e specie, ai commercianti all’ingrosso e al dettaglio, alle imprese meno aperte al commercio internazionale di dividere per mille invece che per poco meno di duemila il prezzo in lire per ottenere il nuovo prezzo espresso in euro!

Pur avendo dedicato ben due puntate del Diario della crisi finanziaria all’argomento, mi preme qui ricordare che non vi è traccia nella storia economica italiana del secondo dopoguerra mondiale di un impoverimento istantaneo di questa proporzione a danno di tutti coloro che i prezzi sono costretti a subirli, non avendo possibilità alcuna di determinarli: i lavoratori dipendenti non impegnati in attività imprenditoriali o autonome part time o in nero e i pensionati che si trovano nella stessa condizione; poco importa, da questo punto di vista, determinare con esattezza la misura dell’impoverimento, anche se va detto che stime molto, ma molto prudenziali permettono di dire che non è stata comunque inferiore al 20-30 per cento, un livello cui si giunge solo perché alcuni prezzi sono andati in controtendenza per motivi che non è assolutamente il caso di esaminare in questa sede.

Stranamente, questa questione si intreccia molto strettamente con quella del deficit statale e dello stock del debito pubblico esaminata in precedenza, ma ancor di più con quella debolezza della componente legata ai consumi della più generale domanda effettiva che è poi legata alla tassa invisibile rappresentata dall’invarianza degli scaglioni fiscali rispetto all’inflazione e al peso complessivo del carico fiscale, sia di quello legato alle imposte dirette che alle molto inique imposte indirette e accise!

Sarei molto curioso di vedere cosa accadrebbe applicando un semplice caso di what if? ai sofisiticatissimi modelli econometrici della Banca d’Italia o degli altri centri studi economici esistenti nel nostro Paese, ipotizzando un rialzo generalizzato delle retribuzioni e delle rendite pensionistiche nella misura che ho indicato come stima di quella che potremmo considerare la tassa dell’euro, una condizione accompagnata dalla restituzione del fiscal drag relativo ai numerosi anni nei quali tale doverosa operazione non è stata effettuata, assicurando anche ai più scettici tra i miei lettori che avremmo un impatto sulla domanda effettiva realmente significativo e che, unito al piano di investimenti per infrastrutture e altre opere pubbliche già immaginato dall’esecutivo, aiuterebbe, via moltiplicatore, a determinare una crescita del prodotto lordo nel medio periodo più che proporzionale, anche tenendo conto della relativa perdita in termini di ragioni di scambio.

Sono certo che una simile idea non sfiora neppure la mente di Bermonti, né farebbe parte di un eventuale programma dei cento giorni di un vittorioso (?) schieramento avverso, il che pone inevitabilmente la necessità di affrontare l’altro corno del dilemma italico, quello della ostinata e pervicace sottrazione da parte dei contribuenti appartenenti alle categorie imprenditoriali e autonome di svariate centinaia di miliardi imponibile fiscale e contributivo, con relativo aumento delle imposte e dei contributi da loro sopportati, ma che, al netto del diverso sistema di detrazione e meccanismi elusivi leciti, continuerebbe a non essere paragonabile a quello sopportato dai soliti noti, che poi spesso tali sono solo perché il loro datore di lavoro o l’ente erogatore della pensione sono obbligati a esercitare il ruolo di sostituti di imposta, ovviamente quando non li rendono complici, più o meno consenzienti, dell’evasione fiscale e contributiva da loro allegramente e molto impunemente esercitata.

Credo di avere fornito in queste dieci puntate tutti gli elementi di cui dispongo per il momento su quella che molto prevedibilmente sarà la politica economica e fiscale di Silvio Berlusconi, ripromettendomi in un prossimo futuro di riprendere l’argomento, anche se credo proprio che non sia difficile capire dove è destinata a finire l’economia italiana non prendendo, come si suole dire, il toro per le corna a causa delle contraddizioni intrinseche al blocco sociale pervicacemente coccolato dal nostro premier e dai suoi più stretti collaboratori, uno scenario che, ahinoi, ci porta dritti, dritti verso la situazione vissuta a suo tempo dall’Argentina e che, in un futuro molto prossimo, potrebbe colpire buona parte dei new comers europei!

Mi scuso con i tanti lettori stranieri del Diario della crisi finanziaria che hanno pazientato per questi dieci giorni integralmente, o quasi, dedicati alle vicende di un paese che sarà pure sempre più marginale sulla scena economica e finanziaria globale, avrà pure gran parte di tutti i difetti che ci vengono generalmente imputati dai severi osservatori stranieri, ma che rimane, wright or wrong, my Country!