mercoledì 31 agosto 2016

Le armi scariche delle banche centrali


Ho parlato ieri delle difficile scelte che si trovano ad affrontare Janet Yellen e i suoi compagni della Federal Reserve che, trovandosi alle prese con un'economia in crescita, anche se non a ritmi travolgenti, un'inflazione che non decide a tornare a quel 2 per cento che è ormai il miraggio delle banche centrali poste al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico, un tasso di disoccupazione più che dimezzato rispetto agli anni più duri della tempesta perfetta, un mercato immobiliare che vede prezzi in salita e vendite a livelli pre crisi, si trovano, dicevo, a dover decidere la tempistica di una politica monetaria che è in realtà one way e, cioè, che non può che procedere con quella che Guido Carli chiamava la corda del boia, il rialzo dei tassi per raffreddare un economia che è, in particolare nella sua parte finanziaria, in una situazione di riscaldamento, anche se aggiungevo che, per motivi di opportunità politica, il secondo rialzo dei tassi non dovrebbe venire effettuato prima delle elezioni presidenziali.

In situazioni ben peggiori di quella dei loro colleghi statunitensi la stanno vivendo i presidenti o Governatori della Banca Centrale Europea, della Bank of England e della Bank of Japan, mentre il numero uno della banca centrale cinese deve solo decidere quando ratificare lo stato di fallimento di parte del sistema bancario cinese, oberato di crediti che definire deteriorati è soltanto un bell'eufemismo (ricordo che alla ripresa delle pubblicazioni del Diario della crisi finanziaria mettevo i problemi finanziari della Cina tra le tre maggiori criticità della terza ondata della tempesta perfetta), e la ragione della maggiore criticità della posizione delle tre banche centrali più importanti dopo la Fed sta nel fatto che che hanno utilizzato tutte le munizioni dell'arsenale di cui dispone normalmente una banca centrale quando vuole far ripartire un'economia in deflazione.

Per quanto riguarda l'arma dei tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento dei rispettivi sistemi bancari, siamo ormai allo zero, se non in qualche caso ai tassi negativi, mentre il solo numero uno della BoE si è tenuto un margine dello 0,25 per cento prima di giungere anche lui a fine corsa; pensate che ho visto il cartello di una banca dell'Italia del Nord che avverte i clienti interessati ad un mutuo che lo stesso costerà al cliente comunque lo spread e cioè che lo stesso non sarà decurtato dal tasso negativo attualmente esistente sull'Euribor a un mese o su quello a tre mesi, il che, come si direbbe a Roma, è una bella sola.

Poi c'è il Quantitative Easing nelle sue diverse forme, uno strumento ormai utilizzato su larga scala da tutti i banchieri centrali citati, ma anche uno strumento che, a detta dei più, non sta portando i frutti sperati, anche perché, tranne qualche variante recente si rivolge esclusivamente alle banche, banche che hanno tanti di quei problemi con il parco crediti esistenti da impiegare questi fondi o nell'acquisto di titoli di Stato dei rispettivi paesi o nel parcheggio di parte dei fondi presso la stessa Banca Centrale Europea!

martedì 30 agosto 2016

Balletto di cifre sull'aumento Monte dei Paschi


Nel primo consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi di Siena tenutosi dopo una di fatto inesistente pausa estiva, l'amministratore delegato Fabrizio Viola ha estratto a sorpresa, relativa in realtà, il suo coniglio dal cappello, annunciando che la richiesta al mercato per il previsto aumento di capitale potrebbe scendere da cinque a tre miliardi, convertendo in azioni i bond subordinati per un totale di tre miliardi, una proposta che rischia di sollevare un polverone mediatico e anche abbastanza immotivato superiore a quello suscitato dalle vicende di Banca Etruria e delle altre tre banche liquidate nel novembre dello scorso anno e per le quali sono in corso le procedure per l'indennizzo dei clienti retail che erano stati indotti, spesso con l'inganno, a sottoscrivere titoli di analoga natura che erano poi finiti sotto la scure del bail in decretato dal Governo con due mesi di anticipo rispetto all'entrata in vigore della legge che recepiva anche in Italia la nuova normativa europea sui dissesti bancari e l'accollo, entro l'otto per cento del totale dell'attivo, ad azionisti, possessori di titoli subordinati e correntisti per la quota eccedente i 100 mila euro.

Con questa mossa, ieri non deliberata dal consiglio di amministrazione che si è limitato a prendere atto dell'esposizione dell'amministratore delegato, il rafforzamento del Tier 1 della banca senese sarebbe addirittura superiore a quello previsto nel caso di aumento di capitale da 5 miliardi di euro, in quanto ai tre miliardi di aumento di capitale si sommerebbero i tre miliardi derivanti da quello che da prestito subordinato si trasformerebbe in prestito convertendo, anzi di fatto convertito,  passando quindi dal più ampio ma meno significativo ai fini della vigilanza europea presso la BCE Tier 2 a Tier 1 appunto.

Il piccolo problema è rappresentato dal fatto che il Governo aveva categoricamente escluso che la clientela retail, in possesso di due miliardi di euro investiti in questi bond, venisse colpita da questa trasformazione da titoli rappresentativi del debito della banca a capitale di rischio (ipotesi smentita dalle voci che vorrebbero la conversione, su base volontaria, limitata ai soli investitori istituzionali) o, addirittura, che gli stessi titoli venissero azzerati dalla procedura di bail in ove a tanto si fosse arrivati, motivo per il quale si era avviata una lunghissima, e non conclusa, trattativa in quel di Bruxelles volta a stabilire che eventuali misure del Governo a sostegno di una banca in difficoltà, almeno in questa fase, non venissero considerati aiuti di Stato.

Che la situazione si stia facendo sempre più critica e ingarbugliata è dimostrato dal fatto che il presidente della banca, Tononi, l'uomo che è accreditato di stare seguendo l'intera partita della banca senese direttamente con Super Mario, al secolo Mario Draghi presidente della BCE, è stato costretto a smentire insistenti voci di stampa che davano in uscita Fabrizio Viola, con corredo di voci e indiscrezioni sui possibili sostituti dello stesso.

Non so come andrà finire questa vicenda, ma credo fermamente che di tutto c'è bisogno in questa delicatissima fase tranne che di un incertezza sulle quantità richieste agli investitori, così come vedrei rischiosissima, ove fallisse la richiesta su base volontaria di conversione dei bond posseduti dagli istituzionali, l'ipotesi di coinvolgere i clienti al dettaglio del Monte dei Paschi nell'operazione di conversione dei bond in loro possesso in azioni della banca!

lunedì 29 agosto 2016

La situazione assurda del prezzo del petrolio


Per chi ha letto la puntata del Diario della crisi finanziaria che parla di cosa è davvero Goldman Sachs questa di oggi è un po' inutile, in quanto in quel testo che mette insieme quattro puntate dedicate al potente ma ancor più preveggente colosso della finanza strutturata vi sono tutti gli elementi per capire perché, nonostante il vero e proprio crollo della domanda di petrolio evidenziata dal calo del 10 per cento circa registrato di recente in Italia, il prezzo del greggio, dopo una breve puntata al di sotto della soglia psicologica dei 40 dollari, si sia riportato rapidamente in vista della soglia altrettanto psicologica dei 50 dollari (parlo del WTI naturalmente, perché il Brent è ormai prossimo a quella soglia).

E' divertente che, ogni volta che assistiamo a movimenti repentini del genere, gli analisti un po' improvvisati, quelli competenti e con le mani in pasta ovviamente tacciono, si precipitano a parlare di vertici a due o a tre in corso per stabilizzare la produzione al fine di riavvicinare la domanda e l'offerta, ma è altrettanto evidente come a questi vertici non seguano mai decisioni o ancor meglio azioni decise e non è solo l'Iran che sta mandando gli impianti a tutta caldara, ma un po' tutti i produttori stanno accelerando l'estrazione, per non parlare di quel Venezuela ridotto oramai letteralmente alla fame pur disponendo di riserve di grandissimo rilievo.

Cosa sta allora accadendo? Sta accadendo che il prezzo dei future sul petrolio è nelle mani delle banche più o meno globali, entità spesso di grandi o grandissime dimensioni ma che si accodano pedissequamente a quello che fanno i loro esperti e superpagati colleghi di Goldman Sachs che decidono quando, spesso al di là delle decisioni dei ministri del petrolio arabi od occidentali, il prezzo deve andare verso l'alto o verso il basso e il bello è che, essendo i primi ad imprimere la direzione, guadagnano in entrambi i casi!

Di fronte a uno scenario di questo tipo, tollerato e ampiamente accettato dai Governi di tutto il mondo, non posso non pensare a quando, alla borsa merci di Chicago, Raul Gardini, soprannominato in patria il pirata, fu crocifisso dall'organismo che vigila su quella borsa per avere comprato tutti i contratti futuri sulla soia e fu costretto a venderli realizzando una grande perdita e subendo un colpo che forse ha influito sulla sua tragica fine.

Nulla di tutto questo accade a Goldman e al sue sorelle che continuano imperturbate a influire sui prezzi del greggio e delle altre materie prime, per non parlare dei metalli preziosi, influendo così anche sulle condizioni di vita degli ignari abitanti del nostro pianeta.

venerdì 26 agosto 2016

Di cosa si è davvero parlato a Ventotene?


Da quando, nell'agosto del 2007, si bloccò completamente la liquidità nel mercato interbancario europeo, ho seguito con la dovuta attenzione i numerosissimi vertici internazionali che allora avevano cadenza settimanale, tra incontri formali e informali, incluso il famosissimo intervento a porte chiuse in cui Mario Draghi, allora Governatore della Banca d'Italia e capo dell'organismo ristretto incaricato di riscrivere le regole del gioco in quello che l'allora presidente francese, Nicholas Sarkozy, ebbe a definire un casinò a cielo aperto, ebbe con i massimi esponenti del mondo bancario operante negli Stati Uniti d'America, un incontro del quale ovviamente non trapelò nulla se non le testimonianza di quanti ebbero modo di vedere i volti dei banchieri più potenti del mondo all'uscita dall'albergo in cui si era svolto l'incontro, facce che testimoniavano di quanto era stata dura la reprimenda che Super Mario aveva rivolto loro.

Come dicevo, di vertici ne ho seguiti davvero tanti, cercando di decifrare dai comunicati ufficiali quale era lo stato dell'arte delle decisioni prese o meno per disinnescare la mina vagante dei titoli strutturati della finanza creativa escogitati dagli apprendisti stregoni delle potentissime  divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, operazione che, come ricordavo in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, è in qualche modo riuscita, anche se dopo un vero e proprio bagno di sangue, negli Stati Uniti d'America, mentre in Europa siamo ancora a carissimo amico.

Come tutti sanno, lunedì scorso si è svolto a Ventotene un incontro al vertice tra il premier italiano, Matteo Renzi, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, Francoise Hollande, un vertice che sancisce l'esistenza di un triumvirato tra i tre paesi più grandi dell'Unione europea dopo la vittoria al referendum della posizione che sanciva l'uscita della Gran Bretagna dalla UE dopo una travagliata e pluridecennale permanenza di quella grande nazione nel consesso europeo, una permanenza segnata da una tale quantità di ricorso alla clausola di opting out da rendere la sua adesione più simile ad un trattato bilaterale che ad un'adesione piena e convinta ai valori che animano l'Europa unita.

Quella della quasi definitiva formalizzazione di queste consultazioni a tre è forse l'unica vera notizia emersa dal vertice, in quanto le dichiarazione dei tre leader europei sono state più o meno una ripetizione di cose già dette in risposta alla richiesta italiana di andare oltre il Piano Juncker sugli investimenti e la riaffermazione della piena sovranità della Commissione dallo stesso  presieduta sulla valutazione delle richieste di flessibilità più o meno rilevanti avanzate dagli Stati membri, Italia ovviamente inclusa.

Abituato a leggere tra le righe delle dichiarazioni di politici e banchieri, devo dire che la realtà dell'incontro a porte chiuse e dei contatti che lo hanno precedute appare diversa, in quanto su un punto c'è certamente un accordo ed è rappresentato dalla questione delle banche, sulle quali il relativamente facilmente gestibile problema dei Non Performing Loans delle banche italiane sta servendo come grimaldello per ottenere un via libera della Commissione europea per ottenere la possibilità di gestire il problema dei rischi collegati alla montagna di derivati e titoli più o meno tossici in pancia alle banche tedesche e francesi, ma, si sa, una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso.

Così come la riaffermazione che sulla flessibilità sui conti pubblici italiani sarà la Commissione a decidere non esclude che Francia e Germania non si adopereranno perché le richieste dell'ormai importante partner italiano non vengano, in tutto o in parte esaudite, per non parlare dell'avvicinamento delle posizioni dei tre paesi sul cruciale capitolo della gestione dei flussi migratori.

giovedì 25 agosto 2016

Unicredit si aggrappa a Pekao


Dopo aver testato per diverse sedute livelli molto prossimi ai recenti minimi storici legati in buona parte ai timori di un maxi aumento di capitale per soddisfare le richieste della vigilanza bancaria europea presso la BCE che chiede che la banca milanese porti il Tier 1 dal poco più del 10 per cento attuale all'alquanto proibitivo 12,25 per cento, Unicredit è rimbalzata martedì in borsa sulle voci di una prossima vendita del 40 per cento di Banca Pekao che è valutato intorno ai 3,5 miliardi di euro, mentre non è escluso che si arrivi anche all'alienazione totale di Finecobank, la banca prevalentemente online che dovrebbe portare ulteriori risorse, due mosse che, se andranno in porto, potrebbero limitare l'aumento di capitale a 5 miliardi di euro.

Faccio parte della non folta schiera di quanti hanno visto con un certo sospetto la nomina del nuovo Chief Executive Officer francese di Unicredit, un banchiere molto versato nel campo della finanza ma con trascorsi non sempre chiari nel mondo del Corporate & Investment Banking, come quando si trovò nella posizione di capo del trader infedele Kerviel che arrecò danni miliardari alla sua banca francese, ma devo ammettere che, rispetto ai templi biblici del precedente CEO, De Mustier appare un razzo e sono molto curioso di vedere come si articolerà il nuovo piano industriale atteso entro la fine dell'anno.

E' chiaro che Unicredit non uscirà dalla sua crisi solo vendendo i pezzi dell'argenteria, saldi nei quali ricompresi Bank Austria, mentre ancora nulla si sa della sorte di HVB (quarta banca tedesca), ma quello che è certo è che, alla fine di un percorso di dimissioni che non sarà né facile né breve, la banca di piazzetta Gae Aulenti sarà una banca molto, ma molto meno internazionale, anche se questo non sarà necessariamente un male.

Quello che ancora non è ufficialmente sul tavolo è il taglio delle sedi e del personale che però tutti, a partire dalle organizzazioni sindacali di categoria, danno per inevitabile e del quale si aspettano solo i dettagli.


mercoledì 24 agosto 2016

Ora UBI può davvero comprare MPS


Non so dove stia trascorrendo le sue vacanze Viktor Messiah, Chief Executive Officer del quinto gruppo creditizio italiano, UBI, quel gruppo che è riuscito sotto la sua guida a schivare tutte le insidie presenti nelle diverse fasi del processo di ristrutturazione del sistema creditizio italiano, quelle insidie che hanno inferto colpi gravissimi alle altre quattro componenti del quintetto di testa della graduatoria delle banche italiane e che vede la presenza di colossi dai piedi di argilla come Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi e Banco Popolare (fra poco fuso con quella Banca Popolare di Milano che un magistrato che condusse una lunga indagine su un gruppo di persone che a suo avviso dominava la banca milanese in anni passati, un gruppo di persone che lui ebbe a definire la Cupola), banche che spesso quelle insidie le hanno trasformate in atti di gestione dai costi spesso miliardari e che le rendono difficilmente ristrutturabili se non, almeno in alcuni settori di attività, ripartendo da zero e affidandosi alle migliori best practice esistenti a livello mondiale.

Dicevo che non so dove e se si stia riposando il numero uno operativo di UBI ma certo gli è pervenuta la circolare interpretativa dell'Associazione Bancaria Italiana, una circolare redatta in questi giorni e che fornisce l'interpretazione pressoché autentica di quell'articolo della legge di stabilità 2016 che prevede la deducibilità dagli imponibili IRAP e IRES delle somme destinate agii schemi di salvataggio delle banche in difficoltà nell'ambito del fondo di tutela dei depositi e, quindi, anche degli interventi che una banca fa per risolvere i guai di un'altra, purché assimilati agli stessi e ora si capisce perché, dopo innumerevoli rifiuti di Messiah a parlare della possibilità che il suo gruppo acquisisse MPS, lo stesso Messiah ha iniziato qualche settimana fa a dire che quello che è importante in un'acquisizione è che la stessa sia finalizzata a creare valore per entrambe le parti in causa ed è certo che se le somme spese vanno in doppia deduzione fiscale una mano alla creazione di valore viene.

Ma quella della eventuale deducibilità fiscale non è per chi sta studiando il dossier della banca senese che una ciliegina su una torta a più strati che si compone del lavoro pluriennale di Fabrizio Viola nel sistemare i guai del passato e per cui sta avendo anche delle noie giudiziarie, del piano di radicale abbattimento delle sofferenze lorde e nette, un'operazione che lascerebbe in piedi solo il pacchetto da 20 miliardi di crediti deteriorati (crediti che non sono ancora sofferenze e forse non lo diverranno mai) e, the last but not the least, un aumento di capitale che, spesate le operazioni di pulizia,  aumenterebbe di un paio di miliardi il già forte patrimonio di MPS (9,5 miliardi di euro), insomma ce ne è di sostanza per valutare un'acquisizione che avverrebbe per il classico piatto di lenticchie e con i ringraziamenti dell'intera collettività nazionale!

martedì 23 agosto 2016

Una vera redistribuzione della ricchezza per uscire dalla crisi


La terza fase della tempesta perfetta in corso sui mercati, in particolare modo su quelli europei, ha imposto delle perdite anche ai più ricchi, in quanto il forte calo dei corsi azionari delle loro aziende ha determinato flessioni dei loro portafogli, come evidenziano le più recenti statistiche di Forbes che segnalano cali nell'ordine del 15 per cento in media, ma parliamo, almeno con riferimento ai paperoni italiani, di cifre miliardarie e che in molti casi sono diversificate sui mercati azionari mondiali per cui c'è sempre la speranza che le perdite subite da una parte si possano in contemporanea o in un prossimo futuro recuperarle da un'altra.

Ho letto proprio in questi giorni un'analisi del modello svedese, un paese che segue abbastanza pedissequamente il modello keynesiano di sviluppo e che parte da un principio molto caro all'economista Davide Ricardo e che postula che, al di là del livello della ricchezza personale, è difficile che si possano fare più di tre pasti al giorno, un paese sostanzialmente immune alla crisi e che adotta un sistema di redistribuzione della ricchezza, in gran parte tramite il suo sistema tributario e alle norme sulla successione, che lo rendono un paese autenticamente socialista, al di là del fatto che governino i socialdemocratici o forze di centrodestra, un paese dove la povertà indotta dalla non facile congiuntura internazionale colpisce una percentuale minima della popolazione, così come marginale è la percentuale dei senza lavoro e che ha fatto fino in fondo la sua parte nell'accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo mentre agisce in modo deciso nei confronti di quanti vorrebbero partecipare al suo sistema avanzato di welfare per motivi esclusivamente economici.

Ovviamente, la Svezia non è immune al fenomeno dei movimenti populisti, antieuropei e spesso razzisti e xenofobi, ma sostanzialmente, almeno fino ad ora, un solida maggioranza dei cittadini di quel paese crede ancora alle ricette dei partiti di centrosinistra e di centrodestra che continuano ad alternarsi al governo.

Questo lungo preambolo è utile per venire alle cose di casa nostra, in quanto mai come in questi ultimi quindici anni la distribuzione della ricchezza e conseguentemente dei redditi ha raggiunto livelli di iniquità di gran lunga superiori a quelli registrati nelle precedenti fasi della vita economica a partire dal secondo dopoguerra, una situazione che non solo fa crescere in modo sempre più evidente le fasce di povertà ed emarginazione, ma rappresenta anche un freno endemico alla crescita economica a causa della diversa propensione al consumo delle classi più abbienti rispetto a quella pari quasi a cento delle classi più bisognose, una situazione che si è accentuata grazie alle rendite di posizione determinatesi con l'introduzione mal governata e mal gestita dell'euro, come ben hanno capito i pensionati con assegni da un milione di lire quando si sono trovati a percepire assegni da 516 euro, parlo dei pensionati non perché i lavoratori dipendenti non si siano trovati di fronte ad uno shock simile ma, almeno sulla carta, avevano l'arma della contrattazione salariale che poteva ridurre, almeno in parte, il gap che si era venuto determinando in un breve volgere di mesi.

La mini redistribuzione del reddito attuata attraverso i provvedimenti del Governo Renzi, pur procurando un certo sollievo ai dieci milioni circa di percettori degli 80 euro mensili in più in busta paga, avviene a carico delle casse dello Stato, mentre sarebbero necessarie maggiori imposte sui grandi patrimoni immobiliari e sulle grandi ricchezze accompagnati da significativi sgravi fiscali sulle classi di reddito basse e medie, una manovra da cui verrebbe quella spinta ai consumi che realmente sarebbe in grado di imprimere un impulso alla crescita dell'anemico prodotto interno italiano e il tutto dovrebbe accompagnarsi ad una commissione di inchiesta parlamentare su quello che è avvenuto nel processo di transizione tra la lira e l'euro nei settori del commercio, del lavoro autonomo e delle libere professioni!


lunedì 22 agosto 2016

Gli USA non si fidano più di Deutsche Bank


La notizia è di quelle da far tremare i polsi: le autorità federali statunitensi hanno fatto ricorso a un tribunale perché intimi al colosso creditizio tedesco Deutsche Bank di nominare una figura indipendente in possesso dei requisiti professionali adatti per fare una valutazione obiettiva dei derivati montati dagli apprendisti stregoni delle due diverse Corporate & Investment Banking preposte alle attività finanziarie della banca, la nuova figura prevista dovrebbe districarsi tra derivati e titoli tossici per un ammontare di 52 mila miliardi di euro in termini di nozionale, un'esposizione immensa che però ovviamente si riduce di molto quando si eliminino le operazioni di segno opposto, ma che resta immensa quando si consideri il cosiddetto rischio di controparte.

Ho sentito un cauto commento in diretta su un canale televisivo specializzato in notizie economiche e finanziarie, ma l'interpellato non ha avuto esitazioni sugli effetti sistemici che potrebbero derivare da questa notizia, soprattutto se il giudice federale arrivasse a pronunciare un verdetto in linea con la richiesta delle autorità federali cosa che è in realtà molto probabile, ma che ha anche sostenuto che, in caso di nomina ed esito del lavoro sfavorevole rispetto alle attuali e molto rassicuranti rappresentazioni fornite dalla banca basata in Francoforte, sarebbe necessario ricorrere ad un maxi aumento di capitale di dimensioni superiori al fabbisogno di nuovo capitale previsto nel medio termine per le banche italiane!

Ovviamente, è stata ricordata la garanzia statale tedesca accordata alla banca globale, ma, ove l'importo previsto dovesse essere dell'importo ipotetico di cui parlavo di sopra, è evidente che andrebbe individuata una soluzione europea della quale non potrebbero essere escluse le banche degli altri paesi dell'eurozona, una circostanza che chiarisce anche i continui riferimenti del premier italiano, Matteo Renzi, alle difficoltà vere o presunte del colosso creditizio tedesco in materia di derivati, così come spiega la posizione conciliante della Merkel e del suo normalmente arcigno ministro delle Finanze rispetto alla richiesta italiana di non considerare aiuti di Stato eventuali partecipazioni pubbliche ad aumenti di capitale delle banche italiane in difficoltà.

Le banche come è noto vivono non solo di requisiti patrimoniali e di liquidità, ma possono operare anche e direi soprattutto sulla base della reputazione di cui godono nei paesi in cui operano; così non vorrei essere nei panni del Chief Executive Officer britannico che deve decidere se anticipare le mosse statunitensi proponendo sua ponte questa autorità indipendente aspettare che sia il tribunale di un altro paese a intimarglielo.

sabato 20 agosto 2016

Ma cos'è davvero Goldman Sachs? (versione per stampa)


Ripropongo la serie di puntate dedicate a Goldman Sachs pubblicate nel luglio di alcuni anni orsono anche perché quello che sta accadendo nel mercato del petrolio rende ancora attuali quei ragionamenti.

Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria ho dedicato ampio spazio all’analisi dei risultati relativi al secondo trimestre della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, così come ho cercato in numerose altre puntate di offrire ai miei lettori qualche informazione su questa entità che è davvero difficile inquadrare sia nel contesto delle oramai ex Investment Banks, sia nell’ampio e variegato panorama creditizio più o meno globale, anche perché, anche dopo la forzata trasformazione in holding bancaria soggetta alla vigilanza della Federal Reserve avvenuta nell’autunno dell’anno scorso, tutto si può dire meno che Goldman abbia cercato di mutare pelle trasformandosi, come qualcuno aveva molto ingenuamente previsto, di diventare un’entità più ‘normale’.

Come ho ripetutamente sottolineato, la maggior parte dei ricavi e degli utili di Goldman provengono dall’attività di posizionamento su quasi tutto quanto viene trattato sui mercati regolamentati, un’operatività che spazia dai prezzi futuri delle materie prime energetiche e non, le derrate alimentari, i tassi di interesse, le valute convertibili, gli indici azionari o le singole azioni, attività che, peraltro, svolge in quasi perfetta solitudine da quando sono scomparse dalla scena Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, la prima e la terza assorbite, rispettivamente, da J.P. Morgan Chase per un classico piatto di lenticchie, e da Bank of America, che, come è stato ampiamente e documentalmente dimostrato nelle aule del Congresso americano, è stata praticamente costretta da Bernspan e Paulson a pagare un prezzo stratosferico per un’entità tecnicamente più che fallita e a cui non è stato neppure consentito di fare nemmeno uno straccio di due diligence.

Per quanto riguarda, invece, la scomparsa dalla scena della banca un tempo appartenente ai fratelli Lehman, il discorso sarebbe troppo lungo per essere affrontato in questa sede e mi vedo costretto a rinviare i lettori alle numerose puntate specificamente dedicate ai retroscena di quel funesto avvenimento dopo il quale nulla più è stato come prima, un avvenimento che non è mai stato spiegato in modo comprensibile e razionale dall’ex (?) investment banker Hank Paulson, numero uno indiscusso di Goldman sino a quando ritenne, a metà del 2006, opportuno assumere l’incarico di ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America e che, in tale veste, non si oppose in alcun modo allo ‘strangolamento’ della banca guidata da Dick Fuld a opera delle maggiori banche a stelle e strisce che le negarono l’accesso ai propri depositi presso di loro e ne determinarono quel fallimento che minacciò seriamente, nel successivo mese di ottobre del 2008, di determinare un default sistemico a livello planetario dei diversi soggetti protagonisti del mercato finanziario, un rischio talmente concreto da indurre i paesi del G20 ad assumere con inedita prontezza e determinazione misure realmente senza precedenti.

Non voglio assolutamente con questo dire che Goldman Sachs sia rimasta l’unica entità a operare nel cosiddetto mercato delle scommesse, ma certamente che non deve più guardarsi le spalle da tre delle quattro concorrenti aventi l’expertise e lo standing per rendere meno certo l’esito delle sue mosse, una circostanza che è ulteriormente rafforzata dal fatto che Morgan Stanley, l’unica delle ex Big Five statunitensi sopravvissuta insieme a Goldman, sembra oramai muoversi esclusivamente sulla scia della sua maggiore concorrente, che, a sua volta, non sembra preoccuparsi troppo dell’operatività delle banche universali a vocazione più o meno globale, troppo occupate a pulire i propri bilanci e troppo timorose delle reazioni dei propri non più docili azionisti per lanciarsi in scommesse più o meno azzardate!

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Se davvero la principale fonte di guadagni dei senior e junior partners di Goldman Sachs proviene dall’attività consistente nello scommettere sugli andamenti futuri di prezzi,indici, tassi e valute, è molto importante capire quanto le stesse abbiano le caratteristiche delle self fulfilling prophecies, cioè delle cosiddette profezie auto realizzantesi, che, a loro volta, sono rese possibili dalla forma che assume il mercato in cui si opera, dalla quantità e dal livello di informazioni di cui si dispone, dall’esperienza e preparazione delle persone direttamente impegnate, dalla qualità e dalla affidabilità del sistema informativo e operativo, nonché, the last but not the least dalle dimensioni e dal comportamento degli altri operatori.

Non è un mistero per nessuno che Goldman possiede, e alla grande, delle quattro condizioni esposte di sopra, così come correlativamente gode di una tale fama da indurre i competitors, che rappresentano la quinta condizione, ad assumere, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento cooperativo e non di contrasto, una fattispecie comportamentale particolarmente visibile nel mercato delle materie prime energetiche, con particolare riferimento a quello dove si determinano i prezzi presenti e futuri del greggio.

Dopo essere stata negata se non addirittura irrisa per decenni dai paesi produttori, dalle compagnie petrolifere e dai maggiori esperti del settore, la tesi che vede una larga prevalenza della componente speculativa nella determinazione del prezzo del petrolio è ora accettata e sostenuta proprio da coloro che così ostinatamente negavano che il prezzo fosse determinato da qualcosa di diverso dalla domanda e dalla offerta di questa importante materia prima, domanda e offerta a loro volta strettamente connesse alle diverse fasi del ciclo economico, anche se sulla base di un tasso di elasticità significativamente ridottosi a causa delle modificazioni strutturali intervenute nelle economie dei paesi maggiormente industrializzati negli oltre tre decenni trascorsi dal primo shock petrolifero.

Ma quanto è avvenuto tra il dicembre del 2007 e il luglio del 2008, quando, in piena tempesta perfetta e mentre il prodotto interno lordo statunitense iniziava a dare sempre più evidenti segnali di frenata, il prezzo del greggio infranse rapidamente tutti i record per poi portarsi al massimo storico di 147 dollari al barile, ha definitivamente chiarito come bastasse che tutti credessero possibile l’obiettivo dei 200 dollari entro la fine di quell’anno sostenuta dagli analisti di Goldman e rafforzata dalle previsioni miste ai desideri del numero uno della russa Gazprom per abbattere come birilli posti in fila i vari livelli un tempo giudicati inviolabili, una nuova corsa all’oro che vide in scia alle banche più o meno globali una massa sterminati di investitori più o meno istituzionali, tra i quali si distinsero anche molti fondi pensione, come il famoso Calpers, con la differenza che Goldman e le sue dirette concorrenti girarono per tempo le proprie posizioni, mentre la maggior parte degli altri investitori restarono intrappolati nella successiva discesa verticale dei prezzi del greggio innescata dalla reazione dei paesi produttori, Arabia Saudita in testa.

Ma quello che è accaduto tra la seconda metà del mese di marzo e la prima metà di quello di giugno dell’anno in corso, è stato davvero ancora più clamoroso, in quanto il quasi raddoppio del prezzo del greggio è intervenuto quando erano già noti i crolli dei PIL nel primo trimestre sia la di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e mentre si assisteva alla bruschissima frenata della crescita di Cina, India e dintorni, ma quel movimento al rialzo del prezzo del greggio era davvero indispensabile perché si potesse realizzare quella altrettanto incredibile corsa dell’orso sui mercati azionari!

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Per avere un’idea vaga dei profitti derivanti dalle scommesse effettuate sui rialzi dei listini azionari verificatisi tra la metà di marzo e la metà di giugno dell’anno in corso, basta dare una scorsa ai grafici delle principali entità creditizie basate negli Stati Uniti d’America, a proposito dei quali mi limito a citare il passaggio dai 97 centesimi ai poco meno di 4 dollari nel caso di Citigroup o la poco meno che sestuplicazione dell’azione di Bank of America dal minimo di 2,50 ai qualcosa di più di 14 dollari, rialzi che traevano forza proprio dal segnale anticipatore della ripresa proveniente dal mercato delle materie prime energetiche, quello stesso segnale che ha fatto straparlare dei cosiddetti germogli verdi.

Comprendo pienamente l’imbarazzo dell’addetto stampa del nuovo inquilino della Casa Bianca di fronte alle domande sui successi di Goldman Sachs rivoltegli nel giorno in cui sono stati pubblicati i risultati del secondo trimestre, così come quello che avrebbe provato Obama se le stesse domanda gli fossero state fatte personalmente, in quanto buona parte di quei successi sono stati ottenuti esattamente con i metodi da lui, nonché dai suoi omologhi di Francia e Germania, fortemente censurati e da lui stesso indicati come una, se non la principale, delle cause che ci hanno condotti dritti, dritti nel meltdown finanziario ed economico attuale.

Il presidente dell’organismo incaricato di vigilare sugli strumenti derivati utilizzati per determinare i prezzi attuali e futuri delle derrate agricole ha appena dati il via a una serie di audizioni per capire se è il caso di estendere quei meccanismi di controllo che inchiodarono lo scomparso Raul Gardini per la sua operatività sulla soia anche ai futures e agli altri strumenti relativi al petrolio e alle altre materie prime energetiche, un ciclo di audizioni che durerà almeno due mesi e al termine del quale forse avremo la possibilità di capire se la nuova amministrazione intende realmente spuntare le unghie alla speculazione, un’eventualità nella quale ripongo ben poche speranze, ma che credo sarà molto legata al livello di pressione proveniente dall’opinione pubblica.

Non vi è dubbio che Goldman disponga di tutte le condizioni che rendono possibile operare con successo nel mercato delle scommesse, condizioni che ho sommariamente indicato nella puntata precedente, in quanto non solo dispone dei migliori specialisti e della migliore strumentazione disponibili, ma è anche dotata di sistemi, procedure e informazioni, tutti elementi sui quali vigilano i due Chief Operating Officer dei quali si è molto opportunamente dotata, ma è altrettanto certo che, oltre a queste condizioni indispensabili, Goldman Sachs dispone di un fattore di successo aggiuntivo che coincide nella rete di relazioni di alto e altissimo livello che le viene universalmente riconosciuto, una rete di relazioni forse unica al mondo e che viene coltivata con la massima attenzione e cura.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno il fatto che un grande numero di persone che si sono formate e sono cresciute professionalmente in Goldman abbiano successivamente ricoperto importanti incarichi sia nel settore pubblico che in quello privato, così come è altrettanto noto che numerosi esponenti di primo piano della politica a stelle e strisce o di quella operante nei cinque continenti siano poi stati arruolati, senza i cento colloqui riservati ai normali candidati all’assunzione, a livelli più o meno elevati della banca, alcuni con contratti prevedenti l’impegno a tempo pieno, mentre ad altri sono stati riservati più o meno dorati contratti di consulenza, un sistema che ha reso quelle di Goldman Sachs delle porte girevoli dalle quali una parte dei potenti del pianeta entra e esce abitualmente e che rende elevatissima la qualità delle informazioni.

* * *

La vasta e fittissima rete di relazioni intessuta negli ultimi decenni da Goldman Sachs nei cinque continenti ha raggiunto negli ultimi tempi dimensioni inedite e tali da consentirle, forse unico caso tra le pur potentissime multinazionali della finanza e dell’industria, una capacità di influenza tale da non rendere del tutto ipotetica o fantasiosa l’idea che sia finita per essere una sorta di luogo di compensazione di interessi tra di loro apparentemente contraddittori, così come si presta a essere un’istituzione molto più efficace e rapida nel suo agire di consessi quali la commissione trilaterale o il gruppo Bildberg che, al confronto, finiscono per assomigliare di più a raduni di ex alunni di scuole prestigiose ed esclusive che a quella sorta di governo planetario cui vorrebbero più o meno dichiaratamente assomigliare.

Per fare qualche piccolo esempio della capacità che la banca statunitense ha di condizionare o, quanto meno, di influenzare le scelte dei governi e delle autorità monetarie in patria e altrove nel mondo, mi soffermerò brevemente sul caso italiano, sulla rete di riferimento di Goldman negli USA nei poco meno di due anni trascorsi dall’avvio della tempesta perfetta e nella davvero emblematica vicenda del salvataggio della AIG, chiarendo sin d’ora che si tratta solo di squarci, a volte casuali, di un velo molto fitto che avvolge l’operatività complessiva della banca.

Per quanto riguarda l’Italia, non è un mistero l’attribuzione di una consulenza prima a Romano Prodi e poi a Gianni Letta, in entrambi i casi quando i due erano liberi da impegni di Governo, mentre ancora più emblematica è la parentesi svolta da Mario Draghi al vertice della presenza di Goldman in Europa e nel comitato esecutivo globale della banca, una parentesi che si è collocata tra la fine del suo impegno decennale come Direttore Generale del ministero del Tesoro con delega sulle privatizzazioni e che si è conclusa con la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia e alla successiva assunzione della guida di quel Financial Stability Forum, poi allargatosi e trasformatosi in Financial Stability Group, cui è stata affidata dal G8 e dal G20 la riscrittura delle regole da applicare alla finanza globale, ma è altrettanto nota la presenza diretta o in via consulenziale di uomini Goldman sia nei governi presieduti da Prodi che in quelli guidati da Berlusconi.

Per dare un’idea della presenza di Goldman nell’amministrazione USA, anche in questo caso senza differenza alcuna tra amministrazioni democratiche e repubblicane, non basterebbe un libro, per cui mi limiterò a citare il caso degli ex ministri del Tesoro Robert Rubin e Hank Paulson (nonché di tre dei quattro vice di quest’ultimo), dell’ex presidente del New York Stock Exchange e poi esecutore testamentario di Merrill Lynch, John Thain, così come non si contano gli ex uomini di vertice di Goldman passati a guidare le principali banche e compagnie di assicurazione statunitensi o alla guida delle presenze statunitensi di banche e compagnie di assicurazioni basate altrove.

Mentre nulla si sa di come trascorra le sue giornate il ‘soldato’ Paulson dopo la fine del suo intensissimo impegno al vertice del dicastero del Tesoro, molto si discute sulla sua decisione di porre al vertice della di fatto nazionalizzata AIG Edward Liddy, un uomo che ha percorso quasi tutti i gradini della scala gerarchica in Goldman Sachs e che da poco si godeva una meritata pensione dopo aver guidato una compagnia di assicurazione e che non ha potuto esimersi dall’accettare la richiesta pressante di Hank in cambio di uno stipendio da un dollaro l’anno, ma che già sta meditando l’uscita dopo aver garantito in poche settimane il rimborso pressoché integrale in favore delle banche statunitensi e straniere, Goldman ovviamente in testa, che hanno ricevuto buona parte dei 180 miliardi di dollari ricevuti da quel TARP fortemente voluto dallo stesso Paulson.

venerdì 19 agosto 2016

Le due bolle speculative a stelle e strisce


In queste ultime sedute i tre principali indici azionari americani stanno rompendo tutte le resistenze e macinando un record storico dopo l'altro, con Il Dow Jones Industrial che, rotto il livello dei 18.500 punti, occhieggia alla soglia più che psicologica dei 19.000 punti e il Nasdaq e lo Standard &Poor's 500, proprio quello contro cui sta o stava scommettendo il principe degli speculatori, al secolo George Soros (spero per lui che si stia rifacendo con la scommessa sempre più riuscita contro la sterlina inglese ormai a livelli di liquefazione), che infrangono anche loro i precedenti massimi storici un giorno sì e l'altro pure.

Oltre che a quanto accadde nelle prime fasi della tempesta perfetta, quando il Dow Jones toccò un massimo storico a pochi mesi dall'inizio del blocco della liquidità per poi scendere rovinosamente nei mesi e negli anni successivi, tutto questo rinvia al grande crollo del Nasdaq del 2001, quando, dopo aver superato di un balzo la soglia dei 5 mila punti, l'indice tecnologico si portò a quasi la metà di quel valore, costringendo Alan Greenspan, a quei tempi presidente della Federal Reserve, a inondare il mercato di liquidità per evitare una serie di fallimenti a catena!

Nel frattempo, ho sentito una notizia che non ho avuto modo di verificare appieno e che dice che il livello dei prezzi delle case negli Stati Uniti d'America sta risalendo molto sensibilmente puntando a riportarsi ai livelli precedenti a quel 2007 che diede l'avvio ad un vero e proprio meltdown dell'immobiliare USA, un tracollo che non risparmiò nessuna area del paese e che determinò il fenomeno delle foreclosure di massa con le conseguenti vendite all'asta a prezzi di assoluto realizzo, nonché l'emersione di intere località deserte di abitanti, come ad esempio Newark località non molto distante da New York e fino a poco tempo prima abitata da pendolari proprio con la grande mela, perché gli stessi erano stati cacciati dagli ufficiali giudiziari inviati dalle banche inferocite per la valanga di mutui, spesso subprime, non pagati.

Si tratta di una situazione di forte tensione sui prezzi delle case che non è ancora diffusa a livello nazionale, ma che si sta presentando nelle aree a forte tensione abitativa, così come non risulta che vi siano state campagne aggressive sui mutui come si verificò negli anni precedenti la prima ondata della tempesta perfetta, quando persone del tutto lontane dall'idea dell'acquisto di una casa, anche perché consapevoli del fatto di non avere i requisiti reddituali per sostenere la spesa di un mutuo venivano sollecitate a procedere un'acquisto incentivate da condizioni sul mutuo (condizioni che in generale duravano in realtà solo per il primo quinquennio) tali da rendere la rata del mutuo poco diversa dal prezzo dell'affitto dello stesso immobile.

Da allora di strada gli USA ne hanno fatto tanta, al punto di dimenticare gli sfracelli dei tre indici azionari successivi alla prima ondata della tempesta perfetta e la catastrofe del mattone, e possiamo dire che sono stati anni di ripresa vera, ben riflessa sia dai successi dell'azionario che dalla lenta ripresa dei prezzi delle case, sia di quelle individuali che degli appartamenti nei condomini, determinando la situazione di mini boom economico di cui il presidente Barack Obama va così orgoglioso, ma e in tutte le storie c'è sempre un ma, si iniziano ad avvertire sinistri scricchiolii in questa storia di successo.

giovedì 18 agosto 2016

il Nobel Stiglitz propone l'euro a due velocità


Ho vissuto la fase cruciale del negoziato sulle parità "fisse e irrevocabili" tra le valute candidate a far parte della valuta unica europea nel maggio del 1998 mentre ero l'economista della sala cambi di un'importante banca italiana che disponeva di analoghe struttura a presidio di tutti i fusi orari e ricordo bene le discussioni tra gli operatori e le riunioni mattutine nelle quali si discuteva delle possibilità di successo della nuova valuta nel confronto con il dollaro statunitense, lo yen giapponese e la sterlina inglese, così come ricordo la notte in cui le stesse parità furono fissate perché dopo un'intervista al Tg 3 che aveva seguito il nostro lavoro notturno in diretta lasciai per sempre quell'attività per diventare il responsabile dell'ufficio studi di un sindacato nazionale del settore finanziario.

Ho ricordato i miei trascorsi solo per chiarire che quella delle basi fondamentali del percorso che ha portato all'introduzione dell'euro le ho vissute in prima persona e le ho vissute con la morte nel cuore perché ero perfettamente consapevole che se ci fossero stati due anni in più per la fissazione delle parità il processo travolgente di recupero della lira in corso dopo gli sfracelli avvenuti sotto il primo governo Berlusconi e quello di Lamberto Dini, la nostra valuta sarebbe entrata con un rapporto di cambio ben più favorevole, certamente più basso di quelle 1936,27 lire per euro fissate nel maggio del 1998.

Ma il problema, come si suol dire in questi casi, era politico più che economico, in quanto il governo Prodi non solo fece di tutto per partecipare sin da subito alla costruzione della moneta unica, ma, nelle fasi più convulse del negoziato puntò sull'ultima svalutazione della lira puntando su un cambio anche oltre le 2 mila lire, mentre tedeschi e olandesi vedevano la nostra valuta intorno a 1.900 e dalla mediazione nacque il valore che ho appena ricordato e, al colpo di mazza del banditore di Walras, tutti i prezzi furono convertiti, nel 2001 ma di fatto tre anni prima, e, insieme il più grande processo di redistribuzione del reddito mai verificatasi nel nostro Paese mai dal secondo dopoguerra.

Il bello è che è stato un processo pressoché istantaneo e non a caso ho citato Walras e la sua rappresentazione del processo istantaneo di formazione dei prezzi, perché nella totale latitanza del governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006, intere categorie che avevano nelle loro mani il potere di fissare i prezzi fecero carne di porco e quello che è accaduto allora ai prezzi delle case è noto ai più, basti dire che dopo anni di calo dei prezzi il valore di un immobile è mediamente ancora, e di molto, più alto del suo valore in lire. Insomma, il combinato disposto di questi movimenti ha determinato per la popolazione che vive a reddito fisso un impoverimento che è stato calcolato intorno al 30 per cento, al netto ovviamente dei risparmi sugli interessi dei mutui legato alla moneta unica.

Sono molte le cose che mancano all'euro, ma la prima di tutte è l'assenza di un Governo vero dell'Unione, unito all'applicazione della regola dell'opting out da parte di numerosi paesi membri, Regno Unito in testa e che ora ha lasciato addirittura l'Unione, anche se in realtà non lo farà verosimilmente prima del 2020, così come sono forti le differenze tra le diverse aree dell'Unione ed è da qui che parte la proposta del Nobel per l'Economia, Joseph Stiglitz, che è quella di prevedere un euro per l'Europa del Nord ed un altro, ovviamente più debole, per i paesi dell'area mediterranea, ma è un rimedio peggiore del male perché non tiene conto che inizierebbe quasi automaticamente un processo di disgregazione che porterebbe danni incalcolabili.

Non è un mistero che numerosi esponenti dell'accademia americana sono stati sin dall'inizio contrari all'introduzione dell'euro che, negli anni, ha iniziato a rappresentare un'alternativa nelle riserve ufficiali al dollaro, così come l'Europa incalza gli Stati Uniti nel prodotto interno lordo, ma non penso che gli economisti europei avrebbero mai proposto di prevedere diversi dollari che tenessero conto delle grandi disparità esistenti tra gli stati americani.

mercoledì 17 agosto 2016

I guai della Brexit per i britannici


Come ho scritto in una puntata del Diario della crisi finanziaria di qualche tempo fa, sono stato nel cuore dell'Inghilterra post industriale pochi giorni dopo la vittoria del leave all'Unione europea, una vittoria non di larghissima misura ma anche un po' inaspettata e in buona parte spiegata dall'incredibile astensionismo dei giovani (hanno votato il 36 per cento degli aventi diritto di questa classe di età) che tutti i sondaggi di tipo stratificato per età davano per il remain con buona percentuale di distacco, ma questa ormai è storia e ne parlo solo per ricordare che mi è capitato allora di vedere numerosi edifici sui quali era riportata la bandiera della UE e una scritta che ricordava che erano stati realizzati grazie a finanziamenti provenienti da Bruxelles.

Ebbene, pochi giorni fa uno dei neo ministri della premier May si è premurato di rassicurare i sudditi di Sua Maestà britannica, che non si è mai espressa sul quesito ma che ha compiuto una serie di piccoli gesti che hanno convinto tutti che non fosse proprio una euro entusiasta, che lo Stato avrebbe garantito i finanziamenti un tempo provenienti da Bruxelles fino al 2020 e che gli stessi sono pari a 4,5 miliardi di sterline l'anno, una cifra che, visti i continui bracci di ferro britannici sui contributi al budget comunitario, superano, come affermato da molti nel corso della accesa campagna referendaria, quanto versato ogni anno a Bruxelles, così come è evidente che il Tesoro britannico non potrà fabbricare questa cifra, pari a poco meno di venti miliardi di sterline nel periodo considerato, e la stessa dovrà provenire da tagli alle spese o da aumenti delle imposte, esattamente quello che, prima del voto, aveva affermato il precedente responsabile dell'economia nel gabinetto di David Cameron,  Osborne, un ministro che parlava di un buco da coprire di 30 miliardi di sterline includendo anche altri e pesanti effetti sull'economia derivanti da quella che allora era solo un'ipotetica scelta degli elettori  britannici.

Non voglio infierire sulle bugie raccontate in campagna elettorale da Nigel Farage, Boris Jhonson e compagnia cantante, bugie smentite poi all'indomani del voto da loro stessi, con siparietti con giornalisti esterrefatti per l'impudenza di questi politici, uno dei quali si è dimesso, mentre l'altro è ministro degli Esteri della May e attualmente primo ministro facente funzioni per l'assenza per ferie della May e lo sarà anche in prospettiva ogni volta che la premier sarà assente, ma quello che è certo è che la marea montante del populismo, spesso condito da balle in economia e da razzismo in politica, non abita solo nel Continente europeo, ma è forte e tanto anche nelle isole britanniche, ma quello che è certo è che il conto di queste bugie e di queste vere e proprie manipolazioni dell'opinione pubblica lo pagheranno di tasca propria i contribuenti britannici e tutti i percettori di un sistema di welfare che già presenta un deficit previdenziale ammontante ad una cifra stratosferica, il tutto al netto di un referendum già annunciato dalla Scozia e di analoghe mosse che potrebbero riguardare l'Irlanda del Nord e il Galles con effetti altrettanto devastanti sul bilancio nazionale.

D'altra parte, il Governatore della Bank of England ha già annunciato che il prodotto interno lordo nel 2017 si porterà allo zero virgola qualcosa da una velocità di crescita al primo semestre del 2016 del 2,2 per cento, una flessione che peserà e non poco sul bilancio, così come il prezzo del petrolio che non riesce nemmeno a rivedere la soglia dei 50 dollari al barile farà inesorabilmente la sua parte su quella che negli scorsi decenni è stata, insieme alla finanza, la vera risorsa nazionale. Gli economisti utilizzano spesso una misura grossolana ma efficace per misurare il potere reale di acquisto nei diversi paesi ed è rappresentata dal prezzo del Big Mac ma nel Regno Unito questo indicatore è sostituito dal prezzo della pinta di birra e questo è già schizzato fino alle 3 sterline dalle 2 di pochi anni fa, ma il problema è che il tracollo della sterlina minaccia ulteriori rincari per la birra di importazione ed è così che l'associazione di categoria dei proprietari di pub ci informa che ogni settimana chiudono 11 esercizi di questo tipo con i britannici sempre più costretti a comprare la birra al supermercato e bersela in solitudine a casa e dire che erano stati proprio i pub i luoghi dove è maturata la vittoria del leave!

martedì 16 agosto 2016

Perché le banche USA sono fuori pericolo e quelle europee no?


Nei primi due-tre anni della tempesta perfetta, quella che nel sottotitolo del Diario della crisi finanziaria definisco la più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra, mi sono occupato prevalentemente della crisi delle banche statunitensi letteralmente sommerse da quei titoli della finanza strutturata, a partire dall'impacchettamento dei mutui subprime in pacchetti realizzati dagli apprendisti stregoni delle sezioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, e che godevano in larga misura del racing della tripla A, una montagna dalle dimensioni impressionanti che sembrava dovesse sommergere tutto ma che alla fine ha fatto soltanto una vittima illustre, la Lehman Brothers, più alcune di istituti di piccole e medie dimensioni, ma, grazie alle scelte del capo della Federal Reserve, Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, che ha utilizzato l'enorme volume di liquidità creato con le varie edizioni del Quantitative Easing per drenare migliaia e migliaia di miliardi di dollari di questi titoli più o meno tossici dalle banche operanti negli USA (banche europee globali incluse), trasformando le sedi della Fed, in particolare quella di New York, in enormi discariche a cielo aperto di questi titoli che sono di fatto scomparsi dalla circolazione.

I più attenti tra i miei lettori si chiederanno: ma se l'azione della Fed ha salvato le banche americane perché non ha fatto altrettanto per Deutsche Bank, BNP Paribas, Société Generale, UBS You and I, Credit Suisse, Lloyd Bank, Il problema aggiuntivo dell'area europeaRoyal Bank of Scotland e via cantando? La risposta, almeno apparentemente, è semplice e dipende dal fatto che, oltre ai derivati e ai titoli più o meno tossici conferiti alle capaci discariche della Fed, gli apprendisti stregoni delle CIB di queste banche, nel caso di Deutsche di CIB ne esistono addirittura due, hanno continuato a sfornare i prodotti più disparati, accumulandone, complessivamente, per centinaia e centinaia di migliaia di miliardi di euro di nozionale, una situazione che le apre a a rischi operativi (che, sempre collettivamente, non superano di molto i cento miliardi di euro), ma, e questo e più grave e di gran lunga più difficilmente quantificabile, a rischi di controparte che, tradotto in soldoni, è il rischio che una controparte di un contratto finisca a gambe all'aria.

Ma il problema aggiuntivo dell'area europea, la Svizzera richiederebbe un discorso a parte, è che, stretti dai vincoli stretti dei parametri di deficit e debito previsti dal trattato di Maastricht, i governi dei grandi paesi dell'area hanno sì fatto interventi rilevanti volti al rafforzamento patrimoniale delle banche dei rispettivi paesi, interventi fatti solo in modo marginale dall'Italia con i Tremonti e i Monti Bonds, ma non hanno potuto evitare che la spirale recessiva mandasse in default numerose aziende debitrici delle stesse banche, determinando un ammontare di Non Performing Loans pari a un trilione di miliardi di euro, dei quali più di un terzo facenti capo alle sole banche operanti in Italia, un macigno che gli stress test hanno evidenziato, pur mandando al di sotto della linea di valutazione il solo Monte dei Paschi di Siena.

La vera differenza, tuttavia, sta nella politica economica e, soprattutto, quella monetaria attuate al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico, in quanto, dopo le scelte molto opinabili della triade Bush-Bernspan-Paulson (ex numero uno di Goldman Sachs prestato alla politica come ministro del Tesoro pochi mesi prima dello scoppio della tempesta perfetta), è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti d'America Barack Obama e, come per magia, Bernspan ha iniziato a tirare fuori dal cappello quelle trovate che hanno reso una vera e propria catastrofe una grande opportunità, ovviamente infischiando dei vincoli di bilancio e dei parametri che restano un ossessione tutta europea, anche perché i due erano ben consapevoli che o si riusciva a raddrizzare la nave o si andava tutti a fondo e che a ripagare i debiti ci avrebbero pensato i posteri, cosa che, peraltro, non accadrà perché la ricetta ha funzionato e ora ci si trova con un'economia in soddisfacente crescita, un tasso di disoccupazione quasi ai minimi storici e le banche quasi del tutto in piena salute!

sabato 13 agosto 2016

Fuga di capitali e sciopero degli investimenti alla base della frenata del PIL


Il Governo italiano, per bocca del suo ministro dell'Economia, ha dichiarato venerdì di non essere rimasto sorpreso della crescita zero su base congiunturale del prodotto interno lordo nel secondo trimestre di quest'anno di disgrazia 2016, un dato secondo Piercarlo Padoan atteso e questo appare veritiero sulla base dei dati parziali che si sono susseguiti nei mesi scorsi e che indicavano un rallentamento della crescita dopo i dati incoraggianti del primo quarto dell'anno, dati che vedevano segnali negativi dalla produzione industriale e dagli ordinativi, nonché un rallentamento dell'export che è determinato da un lato dalla debole domanda mondiale, Cina in primis, ma che è anche il risultato della pervicace volontà della Commissione europea che continua a non sanzionare la Germania per il non rispetto, da sei anni almeno, della norma europea che prevede che un paese membro non possa superare per più di tre anni consecutivi il limite del 6 per cento dell'avanzo commerciale in rapporto del PIL e, grazie anche grazie a questa tolleranza, l'avanzo si è portato lo scorso anno all'8 per cento del PIL.

Ma tutto questo, ovviamente, non giustifica l'arresto della crescita in Italia dopo anni di decrescita e dopo qualche trimestre con segno più, seppure sempre a livello di zero virgola, perché il problema è che scontiamo un dato strutturale che risiede non tanto nella scarsa propensione al consumo degli italiani, peraltro ormai stremati da un'operazione mal gestita di cambio dell'euro a un rapporto di cambio estremamente debole e dall'assoluto non controllo dei prezzi successivo al cambio di valuta, ma piuttosto da un comportamento in verità decennale di una vasta parte della nostra classe imprenditoriale che ha portato le proprie aziende in bancarotta per i crediti con le banche, con il fisco e con l'INPS e i propri capitali all'estero, una fuga peraltro premiata dai vari provvedimenti di sanatoria, su base anonima, approvati dai Governi di ogni colore in cambio di percentuali irrisorie applicate per la regolarizzazione, spesso tombale, di quello che era è resta un reato penale, incentivando così chi non lo aveva fatto ad imitare tale comportamento che, a differenza degli altri grandi paesi membri dell'Unione europea, viene visto dalla maggioranza degli italiani, così come accade per l'evasione fiscale e contributiva, un peccato veniale se non un comportamento addirittura virtuoso.

Nelle numerose puntate che hanno composto il breve saggio intitolato le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi ho illustrato con dovizia di dati questi comportamenti incoraggiati e blanditi dai numerosi suoi governi, ma il problema è che un paese che ha circa quattro milioni di imprenditori e lavoratori autonomi, più del doppio di Germania e Francia messi assieme, ha difficoltà, ammesso che ve ne sia la volontà di contrastarli e solo da pochissimi anni sembra che ci sia resi conto della gravità sistemica della questione.

Farò un caso concreto per dimostrare quanto questi comportamenti possano essere deleteri e il caso del Nord Est in generale e del Veneto in particolare credo davvero che siano esemplari con le numerosissime aziende di piccole e medie dimensioni spuntate come funghi tra le villette abitate dai proprietari e che grazie alle continue svalutazioni della lira hanno invaso i mercati con i loro prodotti grazie anche ai generosi prestiti delle banche della regione, un miracolo che, con l'introduzione dell'euro, è entrato in crisi e che ha mandato a gambe all'aria numerose banche dell'area salvate a suon di miliardi dal Fondo Atlante e dall'istituto centrale delle BCC, il tutto mentre le aziende chiudevano una dopo l'altro e i profitti dei decenni d'oro stavano tranquillamente in Svizzera, in Lussemburgo, alle Cayman e negli altri paradisi fiscali!

venerdì 12 agosto 2016

Le bolle speculative scoppiate e quelle che scoppieranno


Quando sono riprese le pubblicazioni del Diario della crisi finanziaria nel febbraio di questo anno di disgrazia 2016, ho segnalato alcune criticità collegate alla terza ondata della tempesta perfetta ed erano, in estrema sintesi la Cina e il suo mercato azionario, in particolare quello di Shanghai, il comparto delle banche a livello globale, ma in particolare di quelle italiane, ma anche il rischio di bolla speculativa sui mercati azionari a stelle e strisce che ormai macinano un record storico dopo l'altro, per non parlare di quel prezzo del petrolio che ha infatti visto nelle settimane successive alla prima puntata dimezzarsi il valore che ha poi cercato nei mesi successivi un recupero fino a oltre 52 dollari per poi risprofondare a 40 dollari al barile; ovviamente tutte queste criticità sono strettamente connesse tra di loro e hanno tutte a che fare con la recessione e la deflazione che colpiscono in particolare l'Europa, ma che da qui si diffondono poi all over the world e che non sono efficacemente contrastate dalle politiche espansive di tutte le banche centrali ed un livello dei tassi di interesse ufficiali che oscillano ovunque di poco intorno allo zero.

Quasi tutte queste criticità sono esplose e se del petrolio ho già detto quello che è accaduto al comparto bancario è senza precedenti con le banche italiane che già avevano perso molto nel 2015 hanno visto le quotazioni azionarie calare di un cinquanta per cento in media ma con punte di molto superiori per Monte dei Paschi di Siena, passato da oltre 2 euro a 25 centesimi, o il titolo di Unicredit passato da 7 euro a poco più di 2, per non parlare delle due banche venete salvate dal Fondo Atlante le cui azioni da un valore di emissione di diverse decine di euro sono finite per valere 10 centesimi, ma dimezzamenti e più del valore hanno colpito anche banche globali come Deutsche Bank o BNP Paribas, ma andamenti più o meno analoghi sono stati registrati da altre banche globali tedesche, francesi e inglesi.

Ma quello che è scoppiato è scoppiato e serve a poco piangere sul latte versato, anche se nessuno può escludere che qualcosa non possa ancora accadere, mentre il problema è rappresentato da quelle realtà citate all'inizio che non sono ancora esplose: la Cina e il suo mercato azionario, ma ancor di più quello bancario che secondo alcuni osservatori è già tecnicamente fallito, e l'azionario americano contro cui sta scommettendo da mesi uno speculatore di razza come George Soros che, a quanto pare, ha scommesso con successo contro la sterlina in occasione della Brexit che è una bella wild card di cui ho già parlato a lungo.

Alcuni amici mi hanno detto che quando leggono la puntata del Diario della crisi finanziaria al mattino gli va un po' di traverso la colazione, ma il problema è che, in una tempesta perfetta che dura con fasi alterne da nove anni, fare investimenti di rischio è poco consigliabile anche se capisco che le alternative sicure sono a rendimenti bassissimi se non negativi!

giovedì 11 agosto 2016

Quando le sofferenze bancarie nascono tali


Di questo argomento mi sono occupato almeno due volte all'inizio della mia carriera giornalistica, la prima fu su Reporter un quotidiano erede diretto di Lotta Continua e che ha avuto vita molto breve e la seconda dalle colonne del settimanale Capitale Sud appartenente al gruppo Milano Finanza, ma in entrambe le occasioni cercai di dimostrare che una sofferenza raramente è un credito andato a male, trattandosi, invece, nella maggior parte dei casi, di un affidamento che veniva fatto per un'ampia serie di ragioni, tranne, purtroppo che sulla base di valutazioni tecniche e oggettive a partire da quello che, nel gergo tecnico viene definito il merito creditizio del richiedente il prestito.

Badate bene che, allora, la massa dei crediti oggi definiti Non Performing Loans non arrivava, per l'intero sistema bancario italiano, a 100 miliardi di euro, mentre oggi si colloca allegramente a 360 miliardi, ma le cause le avevo già delineate in una ricerca pubblicata su un numero monografico di Sviluppo, rivista dell'ormai defunta Carical ed è ancora un mistero per me che con quello che avevo scritto me l'avessero anche pubblicata.

Ma devo dire che quello che è emerso con riferimento all'operato di Veneto Banca, della Banca Popolare di Vicenza, di Antonveneta (anche se la maggior parte delle magagne di quest'ultima sono emerse solo dopo, ma tanto tempo dopo l'acquisizione della stessa da parte del Monte dei Paschi di Siena), mentre poco so di quanto riguarda la Popolare di Verona, oggi Banco Popolare e domani, se tutto va bene,fuso con la Banca Popolare di Milano, anche se la richiesta di pulizia delle sofferenze avanzata dalla vigilanza BCE e il conseguente aumento di capitale da un miliardo di euro mi fanno pensare che, in tutto o in parte, un analogo sistema funzionasse anche da quelle parti, mentre tralascio per carità di patria quella altra dozzina di istituti di credito di più piccole dimensioni operanti nel Veneto, ebbene dicevo che il modo di erogare il credito in quella regione hasuperato di gran lunga la mia fantasia di economista prestato al giornalismo economico.

Quello che in altre parti d'Italia era un fenomeno di grande rilevanza ma sostanzialmente bilanciato da una sana gestione del credito, in Veneto era invece diventato un sistema che si allargava anche  ai piccoli soci delle maggiori banche ai quali, come è emerso dalle indagini giudiziarie, si erogavano finanziamenti a fronte dell'acquisto di azioni od obbligazioni subordinate, un andazzo che spiega in parte anche perché non ci sia stata una rivolta popolare quando le azioni sono crollate da 62 euro in un caso e 42 euro nell'altro alla stessa infima soglia di 10 centesimi!

Un fenomeno comune a quasi tutte le banche italiane è quello dell'elevata incidenza percentuale e l'assoluta consistenza in termini assoluti dei prestiti andati in malora in favore dei costruttori che pesano per 40 miliardi circa sui 200 miliardi di sofferenze lorde e che arrivano a pesare per quasi la metà delle sofferenze di alcune banche e se qualcuno pensa che, trattandosi di costruttori, le garanzie reali siano commisurate all'entità dei prestiti ricevuti e mai restituite avrebbe sorprese molto, ma molto amare.

mercoledì 10 agosto 2016

Le banche italiane alla battaglia di autunno


Ai più sarà sfuggita una frase dal sen fuggita di Viktor Messiah, Chief Executive Officer di Ubi Banca, uno dei più forti conglomerati bancari italiani, spintonato da tutte le parti perché si faccia carico dell'alquanto disastrato Monte dei Paschi di Siena, offerta che ha ripetutamente declinato in modi a volte anche bruschi, mentre, dopo la doppia approvazione della vigilanza BCE del piano di Fabrizio Viola che prevede l'azzeramento delle sofferenze e un aumento di capitale da cinque miliardi cinque, Messiah ha messo il silenziatore al refrain: stiamo bene così, per dire che, insomma, se si tratta di una fusione che accresce valore alle due convitate a nozze allora si potrebbe anche fare, il che è davvero il massimo che si può strappare a un tipo come lui.

D'altro canto, le cronache di ieri dicevano che il clima si sta rasserenando anche sul fronte della nascita di Atlante 2, quel fondo nato dalla costola di Penati, dominus del Fondo Atlante, e che è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale nell'opera di smaltimento delle sofferenze di MPS e che vedeva latitare fino a poco tempo fa i sottoscrittori, il tutto grazie all'opera di convincimento del ministro dell'Economia, Piercarlo Padoan, e della potente Cassa Depositi e Prestiti che è in realtà il suo braccio armato.

Ma, venendo all'argomento di questa puntata del Diario della crisi finanziaria, è evidente a tutti che, spinti dalle attenzioni a volte pressanti della vigilanza bancaria europea presso la BCE, i vertici delle banche italiane stanno rivedendo in tutta fretta i loro piani industriali, a partire dalle due entità coinvolte nella più grossa fusione della storia bancaria recente, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, che hanno retto alla prova dell'aumento di capitale da un miliardo del Banco e stanno lavorando pancia a terra allo smaltimento delle sofferenze, anche se lo stress test di novembre prossimo riguarderà ancora soltanto il Banco Popolare, in quanto la fusione sarà pienamente operativa solo dal primo gennaio 2017.

Ma quello che manca in questa fusione, e più in generale nel complesso e variegato mondo delle banche italiane, è l'applicazione del modello Deutsche Bank, un modello che taglia alla radice uno dei problemi alla base della debolezza delle banche nella terza ondata della tempesta perfetta e che è rappresentato dalla pletorici della rete distributiva, leggi filiali e agenzie, e il correlativo organico delle stesse, con qualche sforbiciata anche all'organico delle sedi centrali, all'attività di Corporate & Investment Banking e alle presenze all'estero. Insomma, Hic Rodi, hic salta!


martedì 9 agosto 2016

Il credito in Veneto finisce in manette


Che la vicenda del buco nero del credito italiano, il Veneto, sarebbe prima o poi finita in tribunale era chiaro a tutti, in primo luogo ai diretti interessati, cioè ai presidenti e amministratori delegati delle due entità poi salvate dal Fondo Atlante, alcuni dei quali hanno messo in atto una serie di mosse che li hanno resi poco più che nullatenenti in modo da sfuggire alle richieste di risarcimento provenienti dalla folla di risparmiatori che hanno acquistato le azioni a 62 o a 42 euro e si ritrovano ora con in mano titoli del valore di 10 centesimi.

Ma l'arresto di Vincenzo Consoli, già amministratore delegato di Veneto Banca, apre uno squarcio su una rete di favori volti a mettere al riparo lui stesso e la banca da intromissioni poco gradite su un sistema ipercollaudato che distribuiva finanziamenti a imprenditori amici che si sapeva già non li avrebbero mai restituiti, una somma di comportamenti che ha creato il buco miliardario che ha reso tecnicamente fallita Veneto Banca.

Ma ancora più originale è l'iter della vicenda che ha portato Consoli agli arresti domiciliari, in quanto i risultati dell'ispezione della Banca d'Italia che chiarisce un quadro impressionante della gestione della banca è del 2013 e in pari data trasmesso alla procura di Roma che celermente lo trasmettono alla procura di Treviso dove l'istruttoria dorme fino all'ispezione a sorpresa della Guardia di Finanza dai cui risultati si giunge all'allontanamento di Consoli che, però, continua a influenzare la banca attraverso suoi uomini nel consiglio di amministrazione che poi sono gli stessi, spesso grandi debitori della banca stessa, che guideranno l'assalto vittorioso contro la nuova gestione che verrà spodestata in una lunga e infuocata assemblea che vedrà messa in minoranza la nuova gestione e che approvareà quell'aumento di capitale da un miliardo di euro che nessuno degli imprenditori-debitori sottoscriverà aprendo così le porte all'intervento del Fondo Atlante che gestirà in totale autonomia Veneto Banca e compirà finalmente quegli atti necessari a recuperare quella montagna di crediti inesigibili costruiti in gran parte proprio sotto la gestione del banchiere ora agli arresti domiciliari.

E' evidente che questo è solo l'inizio di una fase di inchieste giudiziarie che verranno facilitate dal fatto che ora le due banche venete sono nelle mani di un Fondo che ha tutto l'interesse a che si accerti la verità non essendo legato a quella rete di interessi e complicità che ha avvelenato quella regione d'Italia.



lunedì 8 agosto 2016

Visco racconta la verità sul Monte dei Paschi


Il normalmente silenzioso Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha fornito venerdì in un paio di interviste la sua verità sulle vicende che hanno portato al quasi dissesto il Monte dei Paschi di Siena, puntando l'indice sulle scelte dissennate fatte dal duo Mussari-Vigni, rispettivamente presidente e direttore generale che, tra l'altro, decisero l'acquisto in una notte di Banca Antonveneta dal Banco Santander di Emilio Botin per un corrispettivo non lontano dall'intero patrimonio della banca senese e che cercarono di occultare le perdite correlative con due derivati denominati Alexandria e Santorini a loro volta forieri di ulteriori perdite, nonché guai giudiziari per i due banchieri.

Ebbene, cosa dice di nuovo Visco? Afferma che, venute alla ribalta la questione dei due derivati (per i quali sono indagate anche le banche che li hanno montati), Mussari e il numero uno operativo di MPS hanno deciso di ricorrere alla cosiddetta platea dei gonzi, emettendo obbligazioni subordinate per diversi miliardi di euro, obbligazioni che, come è scritto nel prospetto informativo che la banca si è premurata di far firmare ai sottoscrittori e che, in caso di default o di applicazione del bail in, seguono la sorte delle azioni, così come non è un mistero che è proprio sulla sorte di questa categoria di obbligazioni che si sta ragionando tra Governo, Commissione europea e vertici del Monte dei Paschi di Siena, in quanto è quasi certo che non verranno toccati gli obbligazionisti appartenenti alla categoria retail, mentre è ancora incerta la sorte dell'ingente quota di obbligazioni in mano agli investitori istituzionali.

Fatta la storia di quello che è avvenuto in quel di Siena fino alla fine della gestione Mussari, sotto processo insieme a Vinci e altri per quelle vicende, il Governatore affronta di petto il piano proposto da Fabrizio Viola, amministratore delegato di MPS, che, come ho scritto in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, ha rilanciato rispetto alle richieste della vigilanza bancaria europea, proponendo un azzeramento immediato delle sofferenze lorde e nette e lanciando un aumento di capitale da 5 miliardi di euro, un piano sostiene Visco che rappresenta una rivoluzione copernicana rispetto alle scelte della passata gestione, perché le perdite derivanti dalla cessione di sofferenze vengono coperte da un aumento di capitale e non da emissione di carta dalla sorte incerta e dal combinato disposto delle due mosse ne verrà fuori una banca ancora più solida e più patrimonializzata.

Nelle due interviste, Visco ammette poi quello che tutti sanno e cioè che oramai la vigilanza non abita più in Via Nazionale, essendo ormai passata da due anni nelle mani di Madame Daniele Nouy, domiciliata in quel di Francoforte!

venerdì 5 agosto 2016

Continueranno le montagne russe sui mercati?


Il titolo della puntata di oggi del Diario della crisi finanziaria non mi è venuto del tutto a caso, perché dalle statistiche del blog di cui dispongo ho rilevato un'anomalia, in quanto ero abituato a visite contemporanee di centinaia di visitatori statunitensi, ma è da un mese circa che lo stesso accade con visitatori russi, e in entrambi i casi le visite avvengono nello stesso momento, come se un docente stesse mostrando ai suoi alunni le puntate topiche relative alla prima fase della tempesta perfetta e ciò risulta dalle pagine visitate in quel momento e devo dire che la cosa, così come quando riguardava i visitatori en bloc a stelle e strisce mi sta inquietando non poco così come quando il blog ai tempi del fallimento molto pilotato di Lehman Brothers e le altre vicende topiche della finanza globale verificatesi al di là e al di qua dell'Oceano Atlantico, riceveva anche sei mila visite al giorno, in prevalenza dagli Stati Uniti d'America, ma anche da parte di visitatori provenienti da un centinaio di paesi, il tutto grazie alle magie del traduttore di Google.

Ma veniamo al titolo di oggi, che poi non fa che registrare quello che sta accadendo ai titoli bancari, in particolare Unicredit, MPS e Banco Popolare, per non parlare di Carige, azioni che registrano forti impennate e subito dopo tracolli stratosferici e tutto perché non si sa quali saranno, né sul piano qualitativo, né sul piano quantitativo, saranno i provvedimenti che il Governo italiano, d'intesa con la Commissione europea, adotterà, un'attesa che dura oramai da alcuni mesi e che sta rendendo le notti dei numeri uno esecutivi delle principali banche italiane alquanto insonni e talvolta popolate da incubi.

L'unico che ha rotto gli indugi e che non sta dietro ai boatos del mercato è Fabrizio Viola, amministratore del Monte dei Paschi, un banchiere combattivo che ha preso il toro per le corna, rilanciando su quelle che erano le richieste della vigilanza europea, giungendo a pianificare l'azzeramento di 27 miliardi di sofferenze lorde che poi, al netto degli accantonamenti già effettuati sono poco più di 9 e che chiederà al mercato (leggi banche internazionali impegnate nel consorzio di garanzia) cinque miliardi di euro che porteranno il patrimonio della banca senese a undici miliardi e mezzo dai nove e mezzo attuali e che la dovrebbe portare a un cet1 superiore al 15 per cento contro il poco più del 10 per cento previsti dalla normativa e il 14 per cento attuale certificato dagli ultimi stress test.


giovedì 4 agosto 2016

Il cantiere aperto del sistema bancario italiano


Archiviata la pratica degli stress test dell'EBA che per colma dell'ironia è guidata da un italiano, così come al nostro paese appartiene il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi in arte Supermario, le banche italiane, quelle promosse e quelle bocciate sono dovute passare al vaglio della borsa dove stanno combattendo, in particolare Monte dei Paschi, Unicredit e Carige, per non toccare nuovi minimi storici, come invece oggi è capitato alla loro sorella di sventura tedesca, la Deutsche Bank.

Il problema dei problemi è come al solito quello dello smaltimento accelerato di una parte significativa di quei 360 miliardi di euro di Non Performing Loans che hanno in pancia, un'impresa nella quale MPS si è già cimentata con la benedizione della vigilanza della BCE, questa a guida di una signora francese, Madame Daniel Nouy, che si è detta felice della temerarietà del CEO di MPS, Fabrizio Viola che va ad eliminare in un colpo solo tutte le sofferenze lorde e nette, mantenendo solo i crediti deteriorati che hanno speranza di recupero migliori delle incancrenite sofferenze e che non solo non approfitta dell'orizzonte temporale quasi triennale offerto dalla vigilanza, ma chiede al mercato, si fa per dire, cinque miliardi di euro quando ne bastavano solo tre, ma come non approfittare di un consorzio di collocamento e garanzia come quello che si è andato formando in questi ultimi giorni.

Non mi ripeterò con Unicredit che al mercato finirà per chiedere un'altra cifra mostruosa, chi dice 7 chi dice 9 miliardi, anche se credo che come Viola anche Mustier finirà per fare cifra tonda e di miliardi ne chiederà dieci, anche perché, al netto delle varie dismissioni che sta effettuando, deve sempre salire di due punti percentuali nel coefficiente patrimoniale ed è utile avere un cuscinetto per le richieste prossime venture di Madame Nouy!

Ma se volgiamo l'attenzione all'intero sistema bancario, torna utile ricordare quanto prevedeva uno studio di una banca straniera nel quale si sosteneva che per affrontare il problema degli NPL e fare fronte alle correlative perdite, sarebbero necessari dai 50 ai 100 miliardi di euro di ricapitalizzazione, una cifra enorme per un mercato che di azioni bancarie non vuole assolutamente sentir parlare, ma che fa il paio con un altro corno del problema: quello dell'enorme numero di dipendenze bancarie e del correlativo necessario taglio sia di alcune migliaia di filiali, sia di un numero di dipendenti bancari che va dalle 30 alle 50 mila unità.

mercoledì 3 agosto 2016

Lloyds Bank segue l'esempio di Deutsche Bank


La banca britannica nota al mondo per essere stata oggetto di un salvataggio pubblico da 20 miliardi di sterline ai tempi della prima ondata della crisi finanziaria quando gli inglesi e gli scozzesi assalivano gli sportelli di Northern Rock e di altre banche sospette di poter essere travolte da una crisi di liquidità, è uscita allo scoperto giovedì annunciando per bocca del suo Chief Executive Officer spagnolo, tale Horta, un taglio di 3 mila dipendenti e la chiusura di ben duecento filiali nell'ambito di un piano di ristrutturazione che fa esplicito riferimento alle conseguenze economiche e, soprattutto, finanziarie derivanti dalla decisione degli elettori britannici di approvare l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea.

Il drastico ridimensionamento degli organici e delle filiali di Lloyds fa seguito al taglio di 4 mila dipendenti annunciato nei mesi scorsi, due sforbiciate ravvicinate che toccano poco meno del 10 per cento dell'organico della banca che è pari a 75 mila unità, né vi sono segnali che l'operazione di ridimensionamento sia finita qui, perché le previsioni sul calo dei finanziamenti e in particolare modo dei mutui sono tutt'altro che rassicuranti ed è così prevedibile che altre banche inglesi e scozzesi si metteranno in scia per giungere a quel ridimensionamento degli organici compreso tra un 20 e un 30 per cento previsto per le banche poste sia al di qua che al di là della Manica, così come la consistenza degli sportelli dovrebbe essere ridotta in media di un terzo.

Come ricordavo qualche settimana fa, il numero dei dipendenti del settore finanziario britannico e di circa un milione di persone, uomini e donne che si dividono tra un esercito di persone addette a mansioni ripetitive e poco qualificate e un manipolo, comunque consistente, di addetti alla cosiddetta finanza, con differenze di status e di stipendi, nonché di premi, estremamente elevate. Per dare un'idea, i dipendenti di banca in Italia si aggirano sulle trecentomila unità, un numero non molto difforme dai loro colleghi tedeschi e francesi, il che porta a dire che i dipendenti del settore finanziario britannico sono grosso modo pari a quello della somma dei loro omologhi nei tre paesi più importanti dell'area dell'euro, mentre è possibile ritenere che nei quattro paesi considerati dovranno uscire da qui a pochi anni circa 200 mila dipendenti, mentre dovrebbero chiudere qualche migliaio di dipendenti.

Sono stato di recente in Inghilterra e ho volutamente scelto di arrivarci poco dopo il referendum e avevo notato un certo clima di euforia che non capivo visto che le previsioni economiche in caso di Brexit erano tutt'altro che brillanti, ma poi ho letto in questi giorni la notizia che sono state vendute in pochi mesi 31 milioni di pinte di birra in più e ho capito molto di più!

martedì 2 agosto 2016

Che stress questi test


E alla fine sono arrivate le ventidue di venerdì 29 luglio, la data e l'ora scelte dall'EBA (si doveva tenere conto della chiusura dei mercati azionari statunitensi perché molte banche globali sono quotate anche al New York Stock Exchange), l'organismo europeo chiamato a verificare la solidità patrimoniale delle banche europee aventi rilevanza sistemica, cinque per l'Italia, 51 banche in tutto tra le quali spiccano una pattuglia di banche globali con sede in Francia e Germania, ma anche le due italiane al vertice della graduatoria del nostro paese, Unicredit e Intesa-San Paolo, in quanto a dimensione e presenza all'estero non scherzano.

Ormai tutti sanno come è finita e che in pratica 50 banche hanno superato il test di solidità patrimoniale non solo, e questo era scontato, nello scenario inerziale, ma anche nel cosiddetto scenario avverso che prevede il verificarsi di condizioni di mercato estremamente difficoltose ed è in questo, superata molto brillantemente la verifica a bocce ferme, che il Monte dei Paschi è caduto rovinosamente, passando da un Cet1 di oltre il 14 per cento ad uno che presentava valori negativi, per la precisione di -2,2 per cento, anche se il dato rovinoso era preceduto, come ho già scritto nei giorni passati, dal comunicato della vigilanza europea che accoglieva il piano del Monte dei Paschi sulla cessione totale delle sofferenze (27 le lorde e 9,6 le nette) e l'aumento di capitale da 5 miliardi di euro, aumento garantito da un pool di banche internazionali e che vede la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs con un importante ruolo di appoggio.

Va notato che quasi tutte le banche presentano, nello scenario avverso, un forte contrazione del coefficiente patrimoniale, mentre Intesa-San Paolo presenta la minore differenza tra i due valori, confermando così la solidità che le viene riconosciuta; va anche detto che il Monte dei Paschi avrebbe superato ampiamente lo stress test se fossero già stati realizzati i due capisaldi del piano approvato dalla BCE e cioè l'aumento di capitale e la pulizia di bilancio così massiccia che la porterà ad essere l'unica banca italiano libera da sofferenze e con "solo" venti miliardi di euro di credit deteriorati, dai 47 miliardi precedenti l'operazione con il Fondo Atlante che, lo ripeto con questa operazione prosciuga del tutto il suo fondo di dotazione e deve usare anche se non per molto l'effetto leva.

Insomma se questa fosse una favola potremmo dire che tutto è finito nel migliore dei modi e che tutti vissero felici e contenti!

lunedì 1 agosto 2016

Vadre retro Corrado Passera, capitano di ventura


I lettori più affezionati del Diario della crisi finanziaria ricordano bene le gesta di Corrado Passera, ex consulente Mc Kinsey nonché direttore generale della Olivetti, ma a quel tempo, la prima ondata della tempesta perfetta,, Chief Executive Officer di Intesa-San Paolo, il massacratore della prima banca italiana, la Banca Commerciale Italiana, persasi nei meandri dei vari processi di distruzione creativa del grande gruppo creditizio milanese fino a scomparire anche dal logo, ma e forse soprattutto manutengolo di Silvio Berlusconi nell'affossamento del possibile e quasi formalizzato merger tra Air France-KLM e Alitalia, un'operazione che sfumò dopo che Silvio vinse a mani basse le elezioni politiche anticipate in Italia nel 2008 e che vide la nascita di quella cordata capitanata da Colonnino padre, anche lui con un passato in Olivetti, un'operazione che vide miliardi di costi addossati allo Stato e che ha rappresentato uno dei più chiari esempi di come, facendo un'operazione non per realizzare qualcosa ma per contrastare qualcuno, si possa determinare una delle più grandi distruzioni di valore che la storia economica contemporanea ricordi.

Poi il nostro entrò in politica con Mario Monti come suo ministro dello sviluppo economico e fu poi uno dei pochi suoi ministri tecnici a scegliere di restare, senza un grande successo in realtà, sulla scena politica, dove alla prima prova in prima persona, le elezioni per l'importante carica di sindaco di Milano scelse, nella costernazione dei suoi, di fare un endorsement in favore del candidato di centro-destra Stefano Parisi che, come tutti ricorderanno è stato battuto, anche se non in modo esaltante, ma è stato battuto da Giuseppe Sala. 

Ebbene costui, mentre l'amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena si stava giocando la partita della sua vita con niente poco di meno che la vigilanza bancaria europea presso la Banca Centrale Europea sulla cessione en bloc di 9,6 miliardi di euro (che poi sono più o meno ventisette se si contano gli accantonamenti già effettuati) e il correlativo, ma non del tutto visto che di miliardi ne bastavano due di meno, aumento di capitale da 5 miliardi di euro, si presenta tomo tomo cacchio cacchio al presidente di MPS, tale Tonini con quattro paginette quattro nelle quali si dichiara un interesse per la banca senese e si fa il nome della UBS (You and I come recitava la pubblicità della banca svizzera nel corso della prima ondata della tempesta perfetta) non si capisce se come mandante, se come acquirente, insomma una mossa probabilmente prevista dal numero uno di MPS, Fabrizio Viola, e che forse spiega perché si sia precipitato a tagliarsi i ponti alle spalle sia con il Governo che con la Politica più in generale. Forse Viola perderà, come gli è già successo in passato, ma si può proprio dire che se l'è giocata alla grande

Per ora ha incassato il via libera di Madame Nouy, capo della vigilanza europea, sia alla cessione ad Atlante delle sofferenze sia alle modalità del maxi aumento di capitale, mentre il consiglio di amministrazione di MPS ha rigettato il piano di Passera senza neanche discuterlo.