giovedì 29 ottobre 2009

Il PIL USA cresce spinto dagli incentivi!


Come i miei lettori più assidui avranno certamente notato, mi risulta sempre più difficile scrivere della crisi finanziaria a causa di un andamento dei mercati che sembra andare in direzione opposta alla realtà che vivono decine di milioni di cittadini americani e un numero ancor maggiore di europei, numeri di per sé enormi, ma che rischiano seriamente di aumentare, visto che non passa giorno senza che vengano annunciati interventi di riduzione del personale di questa o di quell’azienda.

Ma negli ultimi giorni sembra che questa schizofrenia tra Wall Street e Main Street stia venendo meno, come si è visto con le reazioni di fronte al vero e proprio tonfo del Consumer Confidence, un sondaggio su cinquemila cittadini statunitensi effettuato dal Conference Board dal quale è emerso che prevale tra gli intervistati un sentimento tutt’altro che positivo rispetto al futuro.mentre resta forte la paura di perdere il posto di lavoro o di non poter pagare le rate del mutuo o gli altri debiti contratti quando le cose andavano bene.

Ma il colpo più forte lo si è avuto ieri quando si è appreso che in settembre le vendite di case di nuova costruzione, dagli analisti previste in forte rialzo, sono invece crollate del 3,6 per cento, il primo dato negativo in cinque mesi che porta il dato annualizzato delle vendite di pochissimo al di sopra delle 400.000 unità (402.000, per la precisione).

E’ ancora presto per dire se questi segnali negativi provenienti dall’economia reale saranno in grado di far sgonfiare la bolla che si è creata dal marzo di quest’anno, quel rally dell’orso che ha conosciuto solo una breve fase di arresto tra metà giugno e metà luglio, ma è riuscito comunque a portare il Dow Jones al di sopra dei 10.000 punti, il Nasdaq al di sopra dei 2.000 e lo Standard & Poor’s 500 al di sopra dei 1.000 punti, soglie psicologiche che sono state o di nuovo violate verso il basso, come nel caso del Dow Jones o, come sta accadendo agli altri due indici, seriamente minacciate di esserlo.

L’annuncio odierno di una crescita del 3,5 per cento del prodotto interno lordo statunitense, una crescita guidata dagli acquisti di case e automobili, a tassi annualizzati superiori al 20 per cento, ha ovviamente ridato fiato al mercato azionario statunitense che mercoledì aveva vissuto una giornata nera, con flessioni del Nasdaq del 2,65 per cento, mentre il rappresentativo Standard & Poor’s 500 aveva lasciato sul terreno poco meno del 2 per cento.

La crescita del PIL a stelle e strisce fa seguito a quattro trimestri negativi consecutivi, il che rappresenta un record che non si registrava dal 1947, anche se va detto che il dato positivo non è soltanto stato spinto dagli incentivi alla rottamazione delle auto e da quelli relativi all’acquisto della prima casa, ma anche da una forte crescita delle spese governative, che sono aumentate del 7,9 per cento dopo essere cresciute dell’11,2 per cento nel secondo trimestre, tassi di crescita inferiori a quelli relativi agli acquisti di case e di auto, ma quasi otto volte superiori a quelli degli investimenti fatti dagli imprenditori che si fermano a un misero 1,1 per cento.

Il problema è rappresentato dal fatto che, esauriti i programmi di incentivazione, bisognerà vedere quale sarà la propensione al consumo nei tre mesi residui dell’anno (due in realtà, visto che siamo alla fine di ottobre) e il dato commentato sopra sulle vendite di case di nuova costruzione non depone bene.

mercoledì 28 ottobre 2009

I consumatori non si fidano!


I continui tentativi di convincere i cittadini statunitensi che il peggio è oramai dietro le spalle non sembrano avere molto successo, come è ben dimostrato dalla flessione a sorpresa di ieri del Consumer Confidence che in ottobre è scivolato a 47,7, perdendo quasi sei punti rispetto al dato di settembre, una flessione in gran parte legata alle preoccupazioni degli intervistati sulla stabilità del proprio posto di lavoro.

Va anche detto che solo con livelli del Consumer Confidence superiori a 90 si può parlare di un buon andamento dell’economia, ma l’abbandono dei livelli superiori a 50 toccati in precedenza rappresenta certamente una doccia fredda per gli ottimisti a oltranza che possono sperare ora solo in un dato positivo del prodotto interno lordo statunitense, dato che verrà comunicato nel corso di questa settimana.

La reazione dei mercati è stata negativa e gli indici statunitensi, al netto di un frazionale rialzo del Dow Jones, hanno segnato flessioni significative, confermando quel movimento altalenante riscontrabile dall’ultima seduta della settimana scorsa, segnale dell’incertezza degli investitori rispetto alla tanto attesa ripresa che tarda a manifestarsi in modo chiaro.

Ma anche oggi le cose non sembrano mettersi bene, con i futures sui tre indici in negativo e la notizia che GMAC Financial Services, il braccio finanziario della General Motors, starebbe chiedendo un terzo intervento di sostegno al Tesoro statunitense che ha già versato 12,5 miliardi di dollari alla società e ne è diventato azionista al 35 per cento.

La profonda crisi di GMAC rappresenta una conferma indiretta della attuale situazione del credito al consumo negli Stati Uniti d’America, un comparto di attività finanziarie un tempo floridissimo e che consentiva alle entità appositamente create da imprese industriali e banche di contribuire significativamente ai profitti delle rispettive case madri, in qualche caso, come in quello della emanazione finanziaria della General Electric, per importi che rappresentavano anche il 50 per cento del totale.

Oggi sono attesi i dati relativi alle case di nuova costruzione nel mese di settembre e quelli sugli ordini di ben durevoli, entrambi previsti in rialzo, i secondi, il dato è stato diffuso mentre sto scrivendo, sono cresciuti dell’uno per cento, dopo essere calati del 2,6 per cento nel mese di agosto, mentre per le case dovrebbe continuare l’effetto positivo legato al bonus fiscale che scadeva proprio in quel mese.

Un buon indicatore del clima di incertezza imperante sui mercati è rappresentato dal prezzo del petrolio che si è portato anche al di sotto dei 79 dollari al barile, dopo aver galoppato per diverse sedute portandosi decisamente al di sopra della soglia degli 80 dollari, ma non trovando supporto né nei dati economici susseguitisi nel frattempo, né nelle posizioni ufficiali dell’OPEC che sembra non gradire troppo questi movimenti eccessivamente anticipatori.

Nel frattempo, avanza al Senato la riforma degli organismi regolatori del mercato finanziario voluta da Obama, una riforma non del tutto gradita dalla Federal Reserve e dalle diverse entità protagoniste del mercato finanziario, che hanno avviato attività lobbistiche destinate a ritardare l’iter e a ottenere modifiche.

lunedì 26 ottobre 2009

ING si divide in due!


Dopo lo scivolone di venerdì a Wall Street, i mercati cercano una direzione tenendosi, seppur di poco, sopra la parità, anche perché vi è molta attesa per la prima lettura del prodotto interno lordo statunitense nel terzo trimestre, un dato anticipato come significativamente positivo e che, ove le attese venissero confermate, rappresenterebbe davvero una svolta nella più lunga crisi finanziaria dal secondo dopoguerra mondiale.

L’andamento positivo odierno dei tre indici, che nel caso del Dow Jones indica valori diametralmente opposti a quelli registrati venerdì, è la chiara indicazione del clima di grande incertezza vissuto dagli investitori individuali che ancora non riescono a vedere una tendenza chiara, ma segnali spesso di segno opposto sui quali è alquanto difficile operare scelte non di piccolo cabotaggio.

Mentre ancora non era stato metabolizzato il dato sulla crescita della Corea del Sud, è giunta la notizia della divisione in due del colosso bancario assicurativo olandese ING, salvato in due riprese dal governo olandese nel momento peggiore della tempesta perfetta, due interventi che hanno suscitato le ire della Commissione europea, che ha valutato il secondo come aiuto di stato e ha comminato una multa da 1,4 miliardi di euro che verrà pagata prima che dell’avvio dell’operazione di scissione.

Al servizio dell’operazione verranno emesse azioni per 7,5 miliardi di euro (11,3 miliardi di dollari circa) che serviranno per restituire allo Stato olandese le somme ricevute in occasione del salvataggio della compagnia, una decisione che avrà ovviamente l’effetto di ridurre il valore delle azioni esistenti e che ha provocato un sensibile calo delle quotazioni.

Oltre alla netta divisione del ramo bancario da quello assicurativo, è stata annunciata anche l’alienazione della divisione che si occupa dell’asset management, nonché, nel 2013, verrà ceduta la banca via internet operante negli Stati Uniti.

La drastica riduzione dei costi realizzata anche attraverso l’eliminazione di oltre diecimila posizioni lavorative ha consentito a ING di presentare un utile di 750 milioni di euro nel terzo trimestre, 250 dei quali facenti capo all’attività bancaria, mentre 500 sono ascrivibili a quella assicurativa che resta il core business di ING.

In attesa di indicazioni più chiare sull’andamento dell’economia statunitense, il dollaro continua a mantenersi a 1,50 contro l’euro, mentre il petrolio da tre sedute non riesce ad allontanarsi dagli 80 dollari al barile, anche perché è giunto un primo segnale dalla parte araba dell’OPEC che ha costretto l’organizzazione a rendere noto che, in presenza di ulteriori, forti rialzi dei prezzi, provvederà ad aumentare la produzione.

Più interessanti sono le indicazioni provenienti dai Treasury Bonds che, nella scadenza decennale, stanno registrando una vera e propria impennata dei rendimenti sul mercato secondario che starebbe a indicare vendite massicce che hanno acceso immediatamente sospetti sui grandi detentori stranieri che starebbero operando alleggerimenti delle posizioni, operazioni che normalmente vengono accuratamente frazionate e diluite nel tempo, ma che non sempre riescono a passare del tutto inosservate.

venerdì 23 ottobre 2009

Lo zar Feinberg cala la scure sui compensi!


Dopo aver lavorato a lungo in silenzio, Ken Feinberg, l’esponente del Tesoro statunitense incaricato di porre dei limiti ai compensi dei top manager delle entità che hanno ricevuto fondi pubblici dal TARP, ha iniziato a rendere note le sue decisioni che, almeno al momento, riguardano 175 posizioni di vertice di Bank of America, Citigroup, AIG, General Motors, Chrysler e le sue divisioni finanziarie delle due case automobilistiche.

La maggior parte delle posizioni vedrà ridotto della metà il compenso, che generalmente non supererà i 500 mila dollari, mentre è previsto un compenso di 10 milioni di dollari per un alto dirigente di Bank of America, ma Feinberg ha fatto sapere che ora esaminerà altre 525 posizioni, anche al fine di evitare che i compensi complessivi di persone che sono collocate a livelli più bassi siano di gran lunga più elevate di quelle dei loro superiori.

Feinberg ha anche previsto che nessuno dei dirigenti di prima linea di AIG riceverà più di 200 mila dollari, una cifra certamente dignitosa, ma che negli anni passati veniva considerata al più la paga di un trader di secondo o terzo livello.

Anche se a molti queste decisioni potranno apparire esclusivamente finalizzate a calmare l’opinione pubblica dopo gli scandali dei bonus corrisposti da AIG e Merrill Lynch mentre le rispettive aziende erano state oggetto di pesantissimi interventi di salvataggio, credo invece che si tratti di un intervento necessario per evitare quella folle rincorsa tra risultati drogati e compensi che è stata una delle cause della tempesta perfetta.

D’altra parte, si fa presto a parlare di azzardo morale quando non vengono disinnescate le cause che spingono a comportamenti rischiosi per la banca o la compagnia di assicurazione, ma estremamente gratificanti per i beneficiari dei ricchi premi e cotillions che, nel più classico dei giochi win win, verranno corrisposti in ogni caso, un problema che è stato posto all’attenzione del recente vertice del G20 di Pittsburgh da un documento che prevede di collegare le retribuzioni variabili dei top manager a risultati di medio periodo.

Qualcuno si è forse stupito delle dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia sul rischio di dare per conclusa anticipatamente la crisi finanziaria, così come la sua reprimenda sul moral hazard, ma è indubbio che, nella sua posizione di presidente del Financial Stability Board, Draghi si sia un po’ stufato di vedere che, nemmeno un anno dopo che il sistema finanziario globale si è trovato sull’orlo del collasso, sia ripreso l’andazzo di prima, con le banche che non concedono prestiti ma si dilettano a scommettere su tutto quello che viene trattato sui mercati regolamentati, dalle commodities alle valute, dalle azioni alle obbligazioni e chi più ne ha ne metta.

Come ha ben rilevato il Fondo Monetario Internazionale, le migliorate performance delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e di quello globale rischiano di mandare in cavalleria i propositi riformatori più volte espressi dai leaders politici e dai banchieri centrali, un’eventualità che Draghi non sembra affatto guardare con favore, anche perché, avendo operato ai vertici della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, sa perfettamente che nessuno è in grado di controllare esattamente quello che fanno gli uomini e le donne impegnati nelle sale operative.

giovedì 22 ottobre 2009

Gli utili delle banche spingono il mercato!


Come previsto da molti, Bernspan incluso, il tasso di disoccupazione sta crescendo in molti Stati, ventitrè per la precisione, e in alcuni di questi ha toccato in settembre anche punte del 15 per cento, anche se va detto che in altri diciannove si è registrato un calo della percentuale che indica il numero dei disoccupati sul totale delle forze di lavoro, una flessione che ha riguardato anche un’intera regione, quella del Midwest.

Questi dati stanno a indicare che gli sforzi della amministrazione Obama iniziano a dare i loro primi risultati, in particolare nelle realtà geografiche nelle quali anche le autorità locali stanno facendo la loro, ma non vi è dubbio che siamo ancora lontani dal punto di svolta.

Dopo tre trimestri consecutivi in rosso, Morgan Stanley, una delle due sole grandi investment bank statunitensi a essere rimasta in vita e autonoma, ha finalmente conseguito un utile nel terzo trimestre, anche se di entità non eccezionale visto che è stato di 498 milioni di dollari, un risultato non comparabile con quello del terzo trimestre del 2008 che aveva visto un utile di 7,7 miliardi di dollari dovuti però a un calo eccezionale del valore del debito della banca.

L’entità dell’utile di Morgan Stanley stride fortemente con le somme accantonate per il pagamento dei bonus, incrementate di 5 miliardi di dollari che portano il bottino per l’anno in corso a oltre 10 miliardi, il che vuol dire che sono state accantonati oltre cinque miliardi anche nei due trimestri precedenti che pure si erano chiusi in rosso.

Anche se sta cercando di accreditare un’immagine legata a una gestione più conservativa, anche Morgan Stanley ha sviluppato al massimo la profittevole quanto rischiosa attività di trading, mentre sta procedendo l’integrazione con le attività di Smith Barney, l’entità di cui ha acquisito, per 2,7 miliardi di dollari, il controllo da Citigroup che mantiene tuttavia una quota minoritaria nella joint venture.

Ben più consistenti i risultati di Wells Fargo, che ha chiuso il terzo trimestre con un utile di 2,6 miliardi di dollari, ma, in linea con altre grandi banche statunitensi, ha dovuto far fronte a massicce perdite su crediti sia relative alla banca che all’acquisita Wachovia Bank, perdite che ammontano nel trimestre a 5 miliardi di dollari.

Con Wells Fargo si completa il quadro dei risultati per il terzo trimestre delle banche a stelle e strisce di grandi dimensioni, un quadro che, con la rilevante eccezione di Bank of America, ha visto profitti di varia entità e dimensione accompagnarsi a messe a perdita di prestiti e finanziamenti in crescita rispetto ai trimestri precedenti e ancora lontani, come è stato confermato nella conference call di oggi, dall’aver raggiunto il loro picco, che viene generalmente previsto per l’anno prossimo, in perfetta analogia con le previsioni relative al tasso di disoccupazione, in un rincorrersi davvero inestricabile di cause ed effetti.

Fermandosi alla metà piena della bottiglia, gli investitori hanno spinto tutti e tre gli indici statunitensi al rialzo, in una giornata che ha visto il dollaro superare di un balzo la quota di 1,50 contro dollaro e il petrolio portarsi anche sopra il livello di 81 dollari al barile, mentre l’oro viene scambiato a 1.060 dollari.

mercoledì 21 ottobre 2009

I banchieri centrali fanno la voce grossa!


Il calo a sorpresa nel mese di settembre dell’indice che misura i prezzi alla produzione ha gelato gli entusiasmi di Wall Street, mandando tutti e tre gli indici in flessione in apertura, anche perché è chiaro che difficilmente si potrà parlare di una ripresa reale e sostenibile senza che vi sia un allontanamento dei prezzi al consumo e di quelli alla produzione dalle attuali flessioni anno su anno, anche se le stesse sono in un ordine di grandezza meno vistoso di quello segnalato nel luglio di quest’anno..

Gli ottimisti possono comunque appigliarsi alla lieve variazione positiva delle costruzioni di nuove case, cresciute dello 0,5 per cento in settembre, anche se meno di quanto avessero previsto gli analisti, mentre si registra una flessione molto più netta dei permessi di costruzione, calati dell’1,2 per cento, la più alta contrazione in cinque mesi.

D’altra parte, era prevedibile che, con la fine degli incentivi fiscali per l’acquisto della prima casa, vi sarebbe stato un contraccolpo negativo, anche se sono in corso iniziative parlamentari per portare gli sgravi sino al 30 giugno dell’anno prossimo, ma il problema sta nel fatto che chi poteva permettersi l’acquisto lo ha verosimilmente già fatto.

Non si è ancora spenta l’eco delle dichiarazioni di Bernspan sulla necessità di tirare il freno nelle spese del governo federale, un appello giunto dopo l’ufficializzazione di un deficit per l’anno fiscale che si è appena concluso cifrabile in 1.420 miliardi di dollari, poco meno del triplo di quello registrato l’anno fiscale precedente e che non fa escludere che, in assenza di un redde rationem governativo, il sistema della riserva federale possa decidere di inasprire la politica monetaria, il che rappresenterebbe un colpo prematuro alla ripresa, anche se si tratta ovviamente di un’ipotesi del tutto teorica e che ha davvero poche possibilità di realizzarsi.

Molto più concreta è, invece la diagnosi che sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico ha fatto il consigliere della Banca Centrale Europea, Lorenzo Bini Smaghi, che ha previsto un ulteriore inasprimento del credit crunch e la necessità che le banche europee procedano al più presto a una significativa ricapitalizzazione, dichiarazioni che fanno pensare che in quel di Francoforte si stia pensando seriamente di portare il livello minimo del TIER 1 alla soglia dell’8 per cento, un livello che metterebbe in seria difficoltà le banche di molti paesi membri, certamente quelle italiane che, in molti e importanti casi, sono ben lontane da un simile valore.

Il ritorno ad accenti severi da parte dei banchieri centrali non va comunque preso sotto gamba, anche perché era chiaro da tempo che la politica lassista e in certi casi sostitutiva svolta dalle stesse non poteva durare all’infinito, così come non è ipotizzabile che continui all’infinito l’alimentazione delle operazioni di trading delle banche globali attraverso prestiti a tassi bassissimi se non prossimi allo zero.

E’ comunque chiaro che un cambiamento di rotta da parte di Bernspan e Trichet non è cosa che possa accadere in tempi rapidi, ma, come si suol dire, uomo avvisato mezzo salvato e sono certo che molti campanelli d’allarme stanno suonando nelle sale dei consigli di amministrazione delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario globale, così come stanno andando a pieno regime i sistemi deputati a valutare l’impatto di una variazione dei tassi sui loro conti già non troppo brillanti.

martedì 20 ottobre 2009

Carl Icahn si offre di salvare CIT!


L’annuncio di un deficit statunitense per l’anno fiscale che si è chiuso al 30 settembre pari a 1.420 miliardi di dollari ha indotto Bernspan a fare la voce grossa e a dichiarare in una conferenza che è necessario al più presto riportare i conti dell’America a livelli di rosso meno intensi e più in linea con quelli dell’anno fiscale precedente che si erano chiusi con un deficit di ‘appena’ 459 miliardi di dollari, un auspicio che difficilmente, come lo stesso numero uno della Fed ben sa, potrà trovare riscontro nei difficilissimi mesi a venire.

Molto difficilmente, infatti, sarà possibile chiudere in fretta i cordoni della borsa con il tasso di disoccupazione ufficiale prossimo al 10 per cento e con la necessità di spingere in qualsiasi modo il riavvio dell’attività produttiva, anche perché, nel frattempo, la capacità utilizzata continua a mantenersi su livelli molto, ma molto bassi.

Ma in un mondo che oramai appare dominato dal G2 composto da Stati Uniti e Cina, il numero uno del sistema della riserva federale, non ha dimenticato di lanciare un monito ai governanti cinesi, ma anche ai governanti di altri paesi asiatici in surplus negli scambi commerciali, affinché stimolino i consumi dei loro concittadini, un passaggio indispensabile per contrastare la contrazione del commercio mondiale.

Ma perché da questi nuovi comportamenti dei consumatori asiatici possa venire uno stimolo all’economia americana è necessario che prosegua quella politica del dollaro debole che ha ricevuto la sua benedizione nell’incontro tra le due grandi potenze che si è svolto in apertura del summit del G20, una politica che è destinata a ricadere alquanto fatalmente sulle spalle dell’Europa e del Giappone, via rivalutazione forzata dell’euro e dello yen e conseguente riduzione degli avanzi commerciali .

Dopo la pausa di venerdì, i mercati azionari sono tornati a salire sulla scia di buoni risultati aziendali, ma soprattutto sull’onda della convinzione che il peggio della tempesta perfetta sia oramai alle spalle, anche se i risultati delle banche a stelle e strisce nel terzo trimestre stiano lì a dimostrare che non vi è alcun rallentamento nei default di individui e imprese, ben espressi dagli accantonamenti e le messe a perdita presenti in tutti i bilanci sinora presentati, fatta eccezione della sola Goldman Sachs.

Il finanziere Carl Icahn ha proposto al CIT Group un prestito di 6 miliardi di dollari che dovrebbe consentire alla banca specializzata nei finanziamenti alle strutture commerciali di non dover dipendere dall’accettazione del piano di conversione di bond in azioni da parte dei bondholders, ma ritratta di un’offerta condita da pesanti accuse all’attuale management di CIT per aver operato una disparità di trattamento tra grandi e piccoli creditori e di aver fornito una rappresentazione al ribasso della società.

Il trucco nell’offerta di Icahn, un personaggio che non ha proprio la fama di un santo, sta nel prevedere uno scambio alla pari tra il debito esistente e il suo finanziamento, un’opzione che non consente quella riduzione del debito che è fondamentale per la sopravvivenza di CIT e che era prevista nel piano presentato dagli attuali vertici, un piano che prevede una riduzione del peso del debito per 5,7 miliardi di dollari e che, non a caso, il finanziere ha chiesto ai bondholders di respingere.

sabato 17 ottobre 2009

BofA e General Electric deprimono i mercati!


Quello che è riuscito a J.P. Morgan Chase, ma ancor di più a Goldman Sachs e sicuramente sarà così anche per Morgan Stanley, cioè di più che compensare le perdite legate alle svalutazioni e messe a perdita su finanziamenti di ogni ordine e specie con i sovrabbondanti proventi dell’investment banking, non si è verificato né in Citigroup, né tanto meno in Bank of America, che ha annunciato oggi un rosso nel terzo trimestre di un miliardo di dollari tondo in larga parte legato all’alluvione di messe a perdita relative all’attività tradizionale, che hanno pesato per 9,6 miliardi di dollari, mentre erano poco più di quattro nello stesso trimestre dell’anno scorso.

Quello che sta accadendo a livello delle banche globali, al di là delle specificità che sto cercando di analizzare caso per caso, permette di capire in quali guai si trovino le banche statunitensi di medie e piccole dimensioni che non possono permettersi di partecipare al gioco delle scommesse e che si ritrovano a fare i conti con il progressivo peggioramento della qualità dell’attivo e credo proprio che, alla fine della fiera, il conto dei decessi bancari nel corso del 2009 sarà molto più pesante di quello che risultava la settimana scorsa, quando ha chiuso i battenti la centesima banca dall’inizio dell’anno.

Ma tornando a Bank of America, va detto che le acquisizioni più o meno forzose effettuate nel corso della prima parte della tempesta perfetta hanno prodotto risultati molto diversi, in quanto le attività di quella che un tempo era Countrywide hanno contribuito pesantemente al rosso, mentre dalla divisione che accoglie quel che resta di Merrill Lynch sono venuti profitti per 2,2 miliardi di dollari, anche se ne occorreranno di trimestri per recuperare i circa 27 miliardi persi dalla ex investment bank nel quarto trimestre del 2008.

Il vivace dibattito in corso su quale delle lettere dell’alfabeto potrà meglio rappresentare la recessione iniziata alla fine del 2007 rischia di infrangersi sulla dura realtà del perdurante stato comatoso dell’attività bancaria, anche perché molti degli effetti prodotti dalla attualmente profittevole attività di Corporate & Investment Banking stanno aggravando la situazione di quella clientela che viene meno all’impegno di onorare le scadenze di pagamento, innescando una sorta di circolo vizioso che non può non preoccupare l’amministrazione Obama e il Congresso, non fosse altro che per la semplicissima ragione che sta accadendo esattamente l’opposto di quello che era stato vigorosamente promesso sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, promesse che vertevano sul fatto che non sarebbe stato più consentito alle donne e agli uomini della finanza di continuare a fare quelle stesse cose che ci hanno portati dritti dritti allo scoppio della tempesta perfetta!

Qualche insegnamento dovrebbe venire poi dalla seconda notizia del giorno, che è rappresentata dal crollo dei profitti della General Electric, passati dai 4,3 miliardi di dollari del terzo trimestre 2008 ai 2,4 miliardi conseguiti quest’anno, un quasi dimezzamento determinato dal quasi azzeramento degli utili del suo braccio finanziario, GE Capital, un’entità che prima della crisi finanziaria contribuiva per quasi metà ai profitti del gigante industriale, ma quel che è peggio è che le prospettive di buona parte degli investimenti di GE Capital sono davvero pessime, in particolare quelle legate agli investimenti diretti in centri commerciali o in mutui fatti a chi ha realizzato mall, shopping center o altre forme di insediamento commerciale, iniziative che finiscono per coinvolgere General Electric in quella che minaccia di essere una sciagura molto superiore a quella dell’immobiliare residenziale.

venerdì 16 ottobre 2009

Il trading spinge l'utile delle banche USA!


Dopo i risultati di J.P. Morgan Chase, sono giunti anche quelli di Goldman Sachs e di Citigroup, risultati in apparenza positivi, ma che, come nel caso della banca dei nipotini di J.P Morgan e di Rockefeller, richiedono qualche approfondimento per riuscire a comprendere quale è la relazione tra il non positivo stato dell’economia e i profitti delle banche.

Non stupisce il risultato della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, che ha chiuso il terzo trimestre con un utile da 3,03 miliardi di dollari che è circa il triplo di quello conseguito nello stesso trimestre del 2008, ma si pone nettamente al di sotto delle attese degli analisti che prevedevano un utile da 4 miliardi in gran parte generato dai successi della banca nel settore che le è più congeniale e che è rappresentato dalle ‘scommesse’ su tutto quanto è trattato nei mercati regolamentati.

Come è noto, questo tipo di gioco ha visto un netto calo dei partecipanti di grandi dimensioni, che dovrebbero essere non più di cinque banche globali dopo la riduzione delle maggiori Investment Banks statunitensi da cinque a due e la recente decisione di Citigroup di cedere, anche per pressioni governative, la sua divisione attiva nel trading sul petrolio a una compagnia petrolifera per un piatto di lenticchie.

E’ evidente che la presenza di un numero così ridotto di grandi operatori non rende più trasparente un mercato, come quello dei derivati, che già di per sé trasparente non lo è mai stato molto, così come non è un caso che il petrolio venga trattato a valori che sono ben lungi dal rappresentare l’equilibrio tra domanda e offerta.

Così come non è un caso se proprio oggi sia passata in una commissione del Congresso statunitense una prima proposta di regolamentazione del mercato dei derivati, anche perché è del tutto evidente che ulteriori rialzi del prezzo del petrolio rischierebbero seriamente di gelare quelli che, al momento, continuano a essere poco più che indizi di ripresa.

Dopo una lunga serie di trimestri in rosso, Citigroup è riuscita a tornare a un utile di poco più di 100 milioni di dollari, un risultato che si trasforma in una perdita superiore ai 3 miliardi di dollari tenendo conto di quanto dovuto alle preferred shares e della recente operazione sul capitale che ha portato il Governo statunitense a possedere il 34 per cento delle azioni del colosso bancario, una partecipazione ingombrante e della quale il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, vuole liberarsi al più presto.

Ma i problemi di Citigroup come di tutte le maggiori banche statunitensi sono legati alla continua emorragia legata alle perdite sui crediti vantati nei confronti della clientela e che sono state pari nel terzo trimestre a 8 miliardi di dollari, in frazionale miglioramento dagli 8,4 miliardi segnalati nel secondo trimestre e che ha costretto il Chief Executive Officer di Citi, Vikram Pandit, ad ammettere che le cose non sono destinate a migliorare nel prossimo futuro.

Non vi è dubbio che questa stridente dicotomia tra le attività di Corporate & Investment Banking e quelle legate all’attività bancaria tradizionale sono destinate a fare accelerare i progetti dei governi e delle banche centrali in materia di regolamentazione dei mercati finanziari, anche perché nessuno ha voglia di assistere alla creazione di una nuova bolla speculativa!

giovedì 15 ottobre 2009

Il Dow Jone recupera quota diecimila!


Dopo aver occhieggiato per diverse sedute alla soglia dei 10 mila punti, oggi il Dow Jones è riuscito a superarla sull’onda degli utili oltre le previsioni di J.P. Morgan Chase e di Intel, anche se il bilancio del terzo trimestre della banca ha presentato accantonamenti e messe a perdita pressoché doppie di quelle registrate nel trimestre precedente.

L’utile di J.P. Morgan Chase è stato pari a 3,59 miliardi di dollari, un risultato ‘spinto’ dalla performance della divisione di Corporate & Investment Banking che ha sfiorato i 2 miliardi di dollari (1,92, per la precisione), un miliardo in più di quanto aveva guadagnato nel trimestre precedente, a ulteriore conferma che le grandi banche stanno sviluppando al massimo le operazioni di trading.

Come dicevo sopra, le cose vanno molto meno bene nelle attività tradizionali, dove, complice l’acquisizione di Washington Mutual, sono stati necessari accantonamenti per 4 miliardi di dollari circa nel settore dei mutui, mentre quelli per i default sulle carte di credito si sono posizionati poco al di sotto dei 5 miliardi di dollari, ma quello che più conta è che le previsioni per i trimestri futuri non sono affatto rosee.

Non appare, infatti, tranquillizzante che la percentuale di default nel comparto delle carte di credito comunicata dalla banca con riferimento al terzo trimestre si è portata al 10,3 per cento, una percentuale che dovrebbe essere pari al 10,5 per cento nel quarto trimestre, valori ancora largamente al di sotto da quel 14 per cento medio di insoluti sulle carte di credito previsto dal Fondo Monetario Internazionale.

Vi è comunque molta attesa per i bilanci delle altre grandi banche a stelle e strisce, anche perché, a differenza di Morgan Stanley e Goldman Sachs, Citigroup, Bank of America e Wells Fargo dovrebbero risentire molto dell’ondata di default che sta colpendo il settore del mortgage e quello delle diverse forme che assume il credito al consumo, anche se tutte si sono certamente dilettate nelle attività di trading.

Proprio a questo proposito si infittisce l’azione del Congresso e delle diverse Authorities per porre limiti al far west in corso nel mercato dei derivati sul petrolio e le altre materie prime, un attivismo che punta a sottomettere le attività della specie alle regole che già vigono per le contrattazioni future sulle derrate alimentari, anche se le pressioni lobbistiche delle banche potrebbero ritardare o modificare questo corso delle cose.

Nel frattempo, il petrolio ha raggiunto i massimi dell’anno spingendosi nell’area dei 75 dollari al barile, mentre il dollaro ha superato la soglia degli 1,49 contro l’euro, confermando una tendenza al ribasso della quale mi sono occupato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria e che appare destinata a durare anche nel futuro prossimo venturo nonostante l’attivismo delle banche centrali e dei paesi maggiormente ‘lunghi’ di dollari sia sotto forma di depositi che di titoli di stato statunitensi.

Le prossime settimane saranno cruciali per capire se siamo davvero davanti a una svolta dopo ventisette mesi di tempesta perfetta o se siamo ancora di fronte all’onda lunga del rally dell’orso iniziato a marzo di quest’anno!

mercoledì 14 ottobre 2009

BofA inizia a vuotare il sacco!

*
Sembra stia per concludersi il lungo braccio di ferro che ha visto impegnate Bank of America da un lato e la Securities and Exchange Commission e il Congresso dall’altro, una svolta che non ha ancora il crisma dell’ufficialità, ma che dovrebbe concretizzarsi nel primo invio di documenti riservati sulla discussa acquisizione della tecnicamente fallita Merrill Lynch, una scelta non del tutto spontanea che è già costata entrambe le cariche al povero Lewis, l’un tempo potentissimo Chairman e Chief Executive Officer di BofA.

A quel che è dato sapere, si tratterebbe per ora di materiale non cruciale per capire cosa è accaduto in quelle convulse trattative, ma è evidente che una volta ceduto sul principio della riservatezza, sarà molto difficile per BofA negare i documenti più interessanti che le verranno chiesti, in particolare quelli sui poco meno di 6 miliardi di dollari di bonus ricevuti dai manager di Merrill Lynch nello stesso trimestre in cui la ex banca di investimenti annunciava una perdita di dimensioni colossali.

Come è già avvenuto nel caso della vendita, sarebbe meglio dire svendita, della gallina d’oro nel trading dei futures sul petrolio da parte di Citigroup, anche in questo caso si vede lo zampino del ministro del Tesoro, Timothy Geithner, uno che non ama troppo apparire, ma che tira spesso le fila anche delle iniziative delle altre Authorities.

Mentre sono in stand by le più volte annunciate riforme delle principali regole del gioco vigenti nel mercato finanziario statunitense e in quello globale, è in corso una ridefinizione dei rapporti di forza tra i governi e le banche globali.

Su un altro versante, la Corte Suprema dovrebbe presto decidere sulla legittimità o meno della condanna ricevuta da uno dei top manager della Enron, Jeff Skilling, l’ex CEO che sta scontando una pena di 24 anni per reati commessi quando era alla guida della società fallita.

Giunti a un passo dalla soglia dei 10 mila punti del Dow Jones, riaffiora un clima di incertezza sul mercato azionario statunitense, mentre il dollaro continua a scivolare nei confronti dell’euro e il petrolio si spinge nell’area dei 74 dollari al barile sulle previsioni di aumento della domanda formulate dall’OPEC, anche se, sempre oggi, è stato diffuso un rapporto che rivela che è dal 2005 due anni prima dello scoppio della tempesta perfetta che è in corso la flessione della domanda dei paesi maggiormente sviluppati.

La pubblicazione dei risultati nel terzo trimestre della Johnson & Johnson conferma le difficoltà dal lato della domanda, con una flessione delle vendite del 5 per cento che non viene controbilanciata dal fatto che è riuscita lo stesso ad aumentare i profitti, che comunque sono cresciuti soltanto dell’uno per cento.

Anche in Europa riaffiorano i dubbi sulla ripresa, anche per il calo a sorpresa di un importante indice tedesco, ma soprattutto perché si inizia a capire che il rafforzamento dell’euro è destinato a continuare e questo certamente inciderà, e non poco, sulle esportazioni del vecchio continente, che già stentano con i livelli di cambio attuali, ma che certamente sarebbero messe ancora più duramente alla prova se si tornasse a quei livelli di 1,60 dollari per un euro già toccati nella prima fase della tempesta perfetta.

lunedì 12 ottobre 2009

L'inesorabile declino del biglietto verde! (2)


Il numero di oggi di Affari & Finanza del quotidiano la Repubblica dedica le prime quattro pagine alla crisi prossima ventura del dollaro, un argomento sul quale ho scritto una puntata del Diario della crisi finanziaria apparsa lo scorso 9 settembre che anticipava buona parte dei ragionamenti espressi nei servizi citati e della quale pubblico oggi ampi stralci, anche se, ovviamente, i valori di riferimento sono nel frattempo cambiati.

La novità è l’indiscrezione del quotidiano britannico Indipendent su incontro tra i rappresentanti di Brasile, Cina, India e Russia con i più importanti paesi esportatori di petrolio e la Francia, notizia per ora smentita soltanto dall’Arabia Saudita e il Kuwait, un incontro nel quale si sarebbe discusso della individuazione di un paniere di valute che soppianterebbe in prospettiva il dollaro quale principale mezzo di pagamento e riserva valutaria, anche se, ovviamente, bisognerà vedere quale sarà la vera posizione della Cina che tuttp può volere meno che un crollo verticale della valuta statunitense.

° ° °

Era davvero tanto tempo che il dollaro non scivolava nei confronti dell’euro come è accaduto ieri, una flessione che ha reso necessari 1,45 dollari per ottenere un euro e che ha consentito all’oro di passare la barriera dei 1.000 dollari e al petrolio di riportarsi al di sopra dei 70 dollari al barile, tutte variazioni che è difficile non collegare alla recente dichiarazione dei ministri economici e dei banchieri centrali del G20 sulla assoluta inopportunità di invertire la rotta rispetto ai piani di stimolo delle economie dei rispettivi paesi, così come sembra molto di là da venire la politica dei tassi ai minimi storici e le maxi iniezioni di liquidità in favore del sistema bancario.

E’ del tutto evidente l’implicazione di tale decisione, che certamente verrà avallata dal prossimo summit dei capi di Stato e di governo del G20 che si svolgerà negli USA, sul valore esterno della valuta statunitense, un valore che non potrà non essere fortemente influenzato da un deficit pubblico per l’anno fiscale in corso pari o superiore ai 2 mila miliardi di dollari e da un debito pubblico che rischia di superare, in un breve volgere di tempo, lo stesso prodotto interno lordo a stelle e strisce, una spirale micidiale che non potrà non influenzare pesantemente anche il 2010 e il 2011, cosa della quale non possono non tenere conto i detentori esteri di dollari e di titoli denominati in tale valuta che continua a fare la parte del leone nelle riserve valutarie mondiali.
.
Certo, siamo ancora lontani dai minimi toccati nella prima fase della tempesta perfetta, quando il per un euro occorrevano 160 dollari e bastavano appena 85 yen per ottenere un dollaro, ma la strada di un declino ulteriore della valuta statunitense appare chiaramente segnata e non è chiaro per quanto tempo continuerà quel sostegno internazionale da parte dei paesi che hanno tutto da perdere da un avvitamento del biglietto verde.

° ° °

Come è evidente, davvero poco è cambiato rispetto a più di un mese fa, ma quello che vi è di diverso è che il biglietto verde, sia sotto forma di depositi che di titoli di stato, sembra bruciare sempre più tra le mani dei paesi che ne detengono ingenti quantità e che non vogliono assolutamente rimanere con il cerino acceso in mano!

sabato 10 ottobre 2009

Citigroup costretta a vendere Phibro!


Nel giorno in cui Barack Obama è stato insignito del Nobel per la pace, i mercati stanno vivendo una seconda giornata positiva consecutiva, anche se sia ieri che oggi i guadagni sono tutto sommato modesti, anche perché non vi sono state notizie che confermino l’inizio della ripresa, anzi, quella relativa al deficit commerciale in agosto, ridottosi del 3,5 per cento rispetto al mese precedente, farebbe pensare piuttosto a perduranti difficoltà dal lato della domanda.

D’altra parte, nei giorni scorsi è giunta l’ennesima conferma della riduzione dello stock del consumer credit, calato stavolta di 12 miliardi di dollari, una riduzione che conferma il netto mutamento delle abitudini dei consumatori, ma anche i criteri più restrittivi adottati dalle banche, nonché fenomeni di vero e proprio razionamento del credito.

Gli unici mercati a non fare festa oggi sono quelli del petrolio e dell’oro, complice anche un rafforzamento del dollaro, ma sia l’oro nero che quello giallo si mantengono a livelli molto elevati, in particolare il secondo che viene scambiato a poco meno di 1.050 dollari, anche questo un segnale del clima di incertezza che vivono gli investitori, in particolare quelli più abbienti che hanno visto i loro patrimoni pesantemente colpiti in questi due ultimi anni.

L’approssimarsi della soglia psicologica dei 10 mila punti del Dow Jones rappresenta un test importante del rally iniziato subito dopo che gli indici statunitensi avevano sperimentato livelli davvero infimi, ma quello che è certo è che gli ulteriori progressi necessiteranno di notizie che dimostrino che la lettera che rappresenta questo ciclo è la V e non la U, un’ipotesi rispetto alla quale continuo a nutrire seri dubbi.

Il governo statunitense avrà anche deciso di liberarsi al più presto della sua quota in Citigroup, qualcosa di più di un terzo delle azioni del colosso creditizio statunitense, ma non ha certamente rinunciato a influenzarne le scelte, come si è visto oggi con l’annuncio della vendita di Phibro, la sua divisione specializzata nel trading sul mercato del petrolio e di altre materie prime e una vera e propria gallina dalle uova d’oro anche durante la tempesta perfetta, come è ben dimostrato dall’alquanto insensato rally che portò le quotazioni a toccare i 147 dollari nel luglio del 2008, ma ha guadagnato anche quando una brusca virata li ha portati a 34 dollari pochi mesi dopo.

L’acquirente è una compagnia petrolifera, la Occidental Petroleum Corporation, e ha sicuramente fatto un ottimo affare, in quanto i 250 milioni di dollari pagati rappresentano meno degli utili di un anno di Phibro, 371 milioni di dollari in media negli ultimi cinque anni, ma il problema è che la divisione era diventata una vera e propria patata bollente nei rapporti con l’amministrazione Obama e non solo perché uno dei suoi trader riceve 100 milioni di dollari l’anno, ma perché è abbastanza imbarazzante per il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, impegnato, insieme alle Securities and Exchange Commission e ad altri regolatori, a regolamentare il mercato dei derivati in generale, ma quelli sul petrolio in particolare, essere il primo azionista di una banca che di questo mercato è uno dei primi attori, ovviamente alle spalle della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

Come i più attenti tra i lettori del Diario della crisi finanziaria avranno certamente notato, le puntate sono allineate al giorno di pubblicazione, mentre per lungo tempo il riferimento era agli avvenimenti del giorno precedente, una scelta che implica che raramente vi saranno puntate di sabato, come da tempo non ve ne sono di domenica.

venerdì 9 ottobre 2009

Un terzo trimestre d'oro per Goldman Sachs?


Se qualcuno aveva pensato che la mossa a sorpresa di ieri della banca centrale australiana potesse essere il preludio di decisioni analoghe da parte delle altre banche centrali, oggi è rimasto certamente deluso, in quanto sia la Banca Centrale Europea che la Bank of England non solo hanno lasciato i tassi invariati, ma hanno anche fatto chiaramente capire che non intendono rialzarli ancora per qualche tempo.

Nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla riunione del Board della BCE, Jean Claude Trichet si è unito al coro di quanti ritengono che il peggio sia passato, ma evidentemente questo giudizio non basta per stringere nuovamente quella che Guido Carli soleva chiamare la corda del boia.

Dopo una giornata di incertezza legata all’assenza di indicazioni, il mercato azionario statunitense è oggi di nuovo in territorio positivo per l’utile a sorpresa messo a segno da Alcoa e il sensibile calo delle richieste settimanali di sussidi di disoccupazione, che comunque permangono abbondantemente al di sopra della soglia delle 500 mila unità.

Ma il dato che più ha colpito gli investitori è quello relativo alle vendite delle catene di negozi che, dopo tredici mesi di continue flessione, ha messo a segno un rialzo, seppure di un modesto 0,1 per cento, un dato peraltro largamente influenzato dalla tardiva apertura delle scuole che aveva penalizzato il mese di agosto, mentre non sono poche le catene che ancora segnalano flessioni comprese tra l’1 e il 2 per cento.

Come è alquanto evidente, si continua a navigare un po’ a vista e l’andamento delle prime giornate di contrattazione di ottobre ne è l’eloquente dimostrazione, con quattro sedute negative, due positive, quella di ieri contrastata, un andamento che dimostra quanto sia ancora forte il clima di incertezza per quelle criticità che ho evidenziato nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria.

Sull’intonazione positiva dei listini a stelle e strisce hanno influito anche le previsioni positive degli analisti sulle due ex investment bank ancora autonome e in piena operatività, previsioni che vedono Morgan Stanley interrompere la serie di tre trimestri consecutivi in rosso, anche se con un utile tutt’altro che rilevante, mentre la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs dovrebbe addirittura raddoppiare il già lusinghiero utile dello scorso trimestre, anche se, a differenza di quello che un tempo si diceva per la Ford, non è detto che quello che va bene per Goldman vada bene anche per gli Stati Uniti d’America!

Se le previsioni degli analisti verranno rispettate, le risorse già accantonate per i bonus dei Goldman Boys dovrebbero portarsi a 16 miliardi di dollari, mentre è previsto che superino abbondantemente i 20 miliardi grazie a quanto verrà sottratto all’utile lordo del quarto trimestre, cifre che hanno già acceso un vivace dibattito sull’opportunità di prevedere salari variabili di quest’entità per una banca che non ha solo ricevuto, e di recente restituito, dieci miliardi di dollari dal TARP, ma è stata anche la maggiore beneficiaria del salvataggio di American International Group, la compagnia di assicurazione particolarmente esposta nei Credit Default Swaps e che, non del tutto a caso, non ha fatto la stessa fine di quella Lehman Brothers che di Goldman è sempre stata una delle più agguerrite concorrenti.

giovedì 8 ottobre 2009

La Fed lancia l'allarme sui mutui commerciali!


Credevo proprio di averle viste tutte in questi ventisei mesi di tempesta perfetta, ma oggi ho avuto una dose supplementare di sorpresa apprendendo che un oscuro analista di una Fed regionale, quella di Atlanta per la precisione, ha provato a stimare l’effetto del ritardo con il quale le banche a stelle e strisce fanno emergere le proprie perdite, un’analisi dalla quale emerge che nel comparto dei mutui commerciali si anniderebbe una vera e propria bomba che non è ancora emersa per la particolare natura di buona parte di questi mutui, non a caso definiti intersest-only loans, per la semplice ragione che il debitore, per un periodo determinato, ripaga gli interessi e non la somma ricevuta.

Sorvolando a piedi pari sulle tecnicalità che hanno consentito il non inserimento a bilancio delle perdite relative ai titoli tossici che hanno come sottostante questa categoria di mutui, è interessante che K.C. Konway, tale è il nome dell’analista, ha stimato che le perdite delle banche sui mutui commerciali dovrebbero esplodere letteralmente l’anno prossimo, una previsione da brivido alla luce delle dimensioni di questa parte del mercato del mortgage statunitense, valutabile in poco meno di 7 mila miliardi di dollari.

Non fornisco volutamente la percentuale di default indicata da Konway in quanto ho letto solo il lancio dell’Associated Press e non il rapporto completo, ragione per la quale mi auguro vivamente che quel dato sia frutto di una svista del redattore, ma non è da oggi che circolano stime inquietanti sulle perdite prossime venture legate ai commercial mortgage.

Ho accennato nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria al rapporto della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs che incita ad acquistare azioni delle maggiori banche statunitensi, un buy signal che sorvola a piè pari sulla questione delle difficoltà che le stesse stanno incontrando nel farsi restituire i soldi prestati ai titolari di carte di credito o ai destinatari delle varie forme di credito al consumo, alle imprese di ogni ordine e grado, a coloro che hanno contratto un mutuo residenziale o commerciale e via discorrendo.

Ma, come sto ripetendo da quando è iniziata quest’avventura editoriale, il problema dei crediti problematici non rappresenta che una parte delle preoccupazioni dei banchieri, in quanto su questo già di per sé ingente ammontare è avvenuta una sorta di moltiplicazione dei pani e dei pesci che ha prodotto quella ancora ben poco scalfita montagna di titoli più o meno tossici presente nei bilanci delle principali entità protagoniste del mercato finanziario.

Che le cose non siano semplici lo dimostra la candida dichiarazione di John Thain, un Goldman Boy passato prima alla presidenza del New York Stock Exchange e poi alla guida di Merrill Lynch poco prima dell’acquisizione da parte di Bank of America, che ha ammesso di non avere compreso sino in fondo i rischi cui era esposta l’ex investment bank.

So bene che è difficile credere che un banchiere del suo calibro non abbia avuto la percezione del baratro sul quale oscillava la banca da lui guidata già da qualche mese, eppure credo che quello che è accaduto a Thain sia avvenuto anche a Chairman e Chief Executive Officer di altri colossi creditizi, per la semplice ragione che era davvero difficile anche per le persone al vertice di queste banche universali avere un’idea esatta di quello che stavano combinando gli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle divisioni di Corporate & Investment Banking, temo, anzi, che non la sapessero esattamente neanche questi ultimi!.

martedì 6 ottobre 2009

L'Australia rialza i tassi di interesse!


L’andamento positivo dei mercati azionari è stato favorito, sia ieri che oggi, dal dato superiore alle attese dell’ISM relativo al settore dei servizi in settembre e da un report di Goldman Sachs che suggerisce di acquistare azioni delle grandi banche statunitensi, un’indicazione che ha spinto ieri in deciso rialzo l’intero indice finanziario.

Non credo che nessuno dei lettori del Diario della crisi finanziaria conosca il nome del Governatore della banca centrale australiana, eppure Glenn Stevens rischia di passare alla storia della tempesta perfetta per essere stato il primo banchiere centrale a credere talmente nella ripresa da osare un rialzo dei tassi di interesse, che è esattamente quello che ha fatto oggi portando il tasso ufficiale più in alto di un quarto di punto percentuale, dal 3 al 3,25 per cento.

Non so se Bernspan, Trichet o King, rispettivamente a capo della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e della Bank of England, abbiano in animo di seguire l’esempio del loro collega australiano, anche se credo proprio che continueranno a lasciare i tassi ai livelli minimi cui attualmente si trovano almeno sino alla fine dell’anno in corso.

Devono pensarla così anche gli investitori, perché gli indici europei non sembrano essere stati influenzati dalla notizia di questo primo rialzo dei tassi di interesse e continuano a restare in territorio positivo, in linea con l’andamento di ieri di Wall Street e delle positive chiusure delle borse asiatiche stamane.

Comunque, quello giunto dall’Australia è un segnale importante, anche se è legato a una situazione ben diversa da quella che si registra negli Stati Uniti d’America o in Europa, in particolare sul fronte dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, ferma in Australia al di sotto del 6 per cento, mentre è oramai a un passo dalla soglia psicologica del 10 per cento sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico.

Ma quello che rende davvero diversa la situazione australiana da quella statunitense ed europea è la condizione dei rispettivi mercati finanziari, in quanto le due aree economiche principali del pianeta continuano a essere gravate da una montagna di titoli più o meno tossici e da una marea crescente di crediti problematici, immobilizzazioni estremamente pesanti e che risentirebbero negativamente di un inasprimento dei tassi.

Il nodo più intricato resta quello dello smaltimento dei titoli ancora in carico alle banche e alle altre entità protagoniste del mercato finanziario, anche perché, in perfetta analogia con i ripetuti tentativi fatti dal suo predecessore Paulson, anche il programma messo in campo dal nuovo ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, rischia di produrre risultati estremamente modesti, non essendo riuscito a mobilitare nemmeno un ventesimo della somma inizialmente prevista e che era pari a mille miliardi di dollari.

Le immobilizzazioni in titoli e in crediti problematici sono in larga misura alla base del razionamento dell’offerta di credito a famiglie e imprese, un credit crunch che sta minacciando la ripresa e che mette i banchieri centrali in una condizione di non completa autonomia nella determinazione della politica monetaria.

Draghi mette sull'avviso i banchieri!


Dopo due settimane di dati non proprio entusiasmanti, oggi è stato diffuso l’Index Supply Management relativo al mese di settembre che ha lievemente battuto le attese degli analisti, portandosi a 50.9 rispetto al 50,0 previsto e alla lettura precedente che si fermava a 48,4, il che ha fornito uno spunto rialzista in apertura degli scambi a New York.

Nel frattempo, si è appreso che il Tesoro statunitense ha autorizzato altri tre fondi a partecipare al programma per acquistare titoli tossici, il Public-Private Investment Program, ma i nove fondi privati coinvolte al momento autorizzati, più i quattro in attesa di autorizzazione, e lo stesso ministero guidato da Geithner potranno mettere in campo soltanto 40 miliardi di dollari in luogo dei mille previsti.

Intervenendo ai lavori dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G7 in corso a Istanbul, Mario Draghi, nella sua doppia veste di Governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Board, ha confermato che la situazione si sta stabilizzando anche grazie alla Cina e ad altri paesi asiatici, ma che le prospettive sono quanto mai incerte e che, con ogni probabilità, la ripresa sarà lenta e fragile.

In linea con quanto affermato da altri suoi colleghi, i ritmi prevedibili della ripresa non consentiranno di assorbire la disoccupazione, che dovrebbe continuare a crescere ancora per qualche tempo, una circostanza che peserà certamente sia sul clima delle aspettative, sia sui livelli della domanda effettiva.

Pur valutando il sistema finanziario globale più forte e solido di quanto fosse nel mese di marzo, Draghi ha comunque ammesso che persistono situazioni di difficoltà dovute a pesanti immobilizzazioni nei conti di banche e di altre entità protagoniste del mercato, un riferimento che è riferibile sia ai titoli più o meno tossici della finanza strutturata che ai crediti a vario titolo problematici, immobilizzazioni che includono più o meno metà dei 3.400 miliardi di dollari di perdite che non sono state ancora contabilizzate come perdite, un ritardo che riguarda in particolare le non banche (fondi pensione, fondi di investimento, compagnie di assicurazione ed hedge funds) e le banche europee.

Con grande abilità diplomatica, il Governatore si è smarcato dalle domande dei giornalisti sulle polemiche dichiarazioni del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, nei confronti dei due maggiori gruppi creditizi italiani che hanno di recente reso nota la loro indisponibilità a utilizzare i Tremonti Bonds, dichiarando di avere più volte invitato le banche a farvi ricorso, ma che la valutazione finale sullo strumento più utile per rafforzare il capitale resta di pertinenza degli organismi decisionali delle banche stesse, mentre alla Banca d’Italia spetta il compito di valutare l’adeguatezza o meno dei fondi patrimoniali.

Ma la parte più interessante del discorso di Draghi è quella legata ai timori nutriti dalle banche sulle nuove regole che dovrebbero essere introdotte per evitare il rischio del ripetersi di situazioni come quelle che hanno determinato la tempesta perfetta, timori che ha avuto buon gioco a definire prematuri in quanto le nuove regole, pur essendo state delineate in linea di massima nei quattro documenti presentati dal FSB all’ultimo vertice del G20, sono ancora ben lungi dall’essere state approvate.

sabato 3 ottobre 2009

I disoccupati americani superano i 15 milioni!


Le pesanti flessioni registrate giovedì dai tre principali indici statunitensi facevano capire che gli investitori nutrivano forti timori sul fatto che i dati sull’occupazione rilasciati ieri non sarebbero stati in linea con le attese degli analisti che prevedevano una perdita netta di buste paga al di sotto della soglia delle 200 mila unità.

Timori che sono stati puntualmente confermati quando dalle previsioni si è passati ai dati, in quanto non solo il Non Farm Payrolls ha segnato una perdita netta di 263 mila posti di lavoro, ma sono stati rivisti in peggio anche i dati dei due mesi precedenti, mentre il tasso ufficiale di disoccupazione si è portato, ma questo era stato ampiamente previsto, dal 9,7 al 9,8 per cento, il livello più alto dal lontano 1983.

Con quella di agosto, le flessioni mensili consecutive del numero di occupati negli Stati Uniti d’America sono giunte a 21, ma quello che colpisce maggiormente è che il calo degli occupati non risparmia nessun settore, se si fa eccezione per uno striminzita crescita di 3 mila unità nel settore dell’educazione e della sanità, non risparmiando il settore pubblico che ha registrato un saldo netto negativo per 53 mila posti di lavoro.

Dall’inizio della recessione, i disoccupati ufficiali sono di fatto raddoppiati, passando da 7,5 a 15,1 milioni, mentre quelli effettivi, che includono quanti si sono allontanati dal mercato del lavoro e tengono conto delle trasformazioni forzose da tempo pieno a part time, si avvicinano, ogni mese che passa, alla soglia dei 30 milioni.

Che i dati occupazionali sarebbero stati pesanti lo si era capito sia dal balzo in avanti dei jobless claims, sia dalla flessione dell’indice nazionale elaborato dall’Institute for Supply Management che misura l’attività manifatturiera statunitense, ma ieri si è aggiunto anche il calo degli ordini di beni durevoli in agosto, in flessione dello 0,8 per cento, mentre le attese degli analisti erano per un aumento.

Non credo avrà, invece, problemi il nuovo disoccupato Ken Lewis, uno che in pochi mesi ha perso ben due posti, prima quello di presidente e adesso quello di Chief Executive Officer di Bank of America, travolto dall’indignazione degli azionisti per non avere reso note le pressioni ricevute per non ostacolare l’acquisizione di Merrill Lynch e per non aver impedito il pagamento di poco meno di 6 miliardi di dollari di bonus a dipendenti della stessa ex banca di investimenti, bonus pagati in concomitanza della presentazione di una perdita record da 26 miliardi di dollari nel quarto trimestre del 2008.

L’uscita di scena di Lewis non ferma però né l’indagine avviata dal Congresso sulla vicenda, né l’azione intrapresa dalla Securities and Exchange Commission nei confronti di Bank of America, resta da vedere se cambierà l’atteggiamento ostruzionistico sinora portato avanti dalla banca in tutte le sedi in cui è stata chiamata a chiarire i dettagli dell’operazione.

Nel frattempo, la Federal Deposit Insurance Corporation ha deciso la chiusura di altre tre banche, portando il totale dei default bancari nei primi nove mesi dell’anno a 98, un numero che sembra destinato a salire e che ha spinto la FDIC a farsi anticipare decine di miliardi dalle banche operanti negli USA.

venerdì 2 ottobre 2009

Ken Lewis lascia Bank of America!


Un balzo in avanti dei jobless claims, le nuove richieste di sussidi settimanali, e una flessione in settembre dell’indice nazionale elaborato dall’Institute for Supply Management che misura l’attività manifatturiera statunitense hanno ampiamente sovrastato le buone notizie provenienti dal settore immobiliare e spinto gli indici azionari a stelle e strisce in ribasso di oltre l’uno per cento sull’onda dei crescenti timori per una falsa partenza della ripresa.

La flessione dell’indice manifatturiero è stata tutto sommato di modesta entità, passando dal 52,9 di agosto al 52,6 di settembre, ma le attese degli analisti erano per un rialzo sino a 54, mentre le nuove richieste di sussidi di disoccupazione sono balzate a 551 mila dopo tre settimane consecutive di riduzione, il che non sembra di buon auspicio per il Non farm Payrolls di settembre che verrà reso noto oggi insieme al tasso di disoccupazione che è previsto passare al 9,8 per cento dal 9,7 di agosto.

Il dato che misura l’ammontare dei sussidi in essere è risultato pari a 6,09 milioni, in riduzione dal picco toccato di 6,9 milioni toccato nella prima settimana di aprile, ma se si aggiungono i sussidi speciali erogati in base ai provvedimenti di emergenza varati dal Congresso, si giunge a un totale di 9 milioni di persone che stanno vivendo grazie a queste elargizioni, un dato che si discosta poco da quello fornito la settimana scorsa.

Come è noto, un apposito provvedimento legislativo ha permesso di ottenere 53 settimane di sussidio in aggiunta alle 26 normalmente concesse a livello dei singoli Stati, un beneficio che la Camera dei Rappresentanti ha esteso di ulteriori 13 settimane, anche se il provvedimento diverrà effettivo solo dopo l’approvazione da parte del Senato, anche se non si nutrono dubbi sull’esito del voto.

Gli stessi dati relativi al settore immobiliare vanno letti con una certa attenzione, in particolare quello relativo alla spesa per costruzioni in agosto che, è cresciuto dello 0,8 per cento solo per una forte revisione al ribasso del dato del mese precedente (da -0,2 a -1,1 per cento), mentre il balzo in avanti dei nuovi contratti di acquisto di case è ancora in larga misura influenzato dal bonus fiscale sino a 8 mila dollari che scadeva in settembre.

Ma il mercato ha ignorato anche il balzo in avanti del consumer spending che, sempre con riferimento al mese di agosto, è cresciuto dell’1,3 per cento, mentre i redditi sono aumentati solo dello 0,2 per cento, un divario che ha spinto molti analisti a considerare il dato influenzato dal programma Cash for Clunkers che prevedeva consistenti incentivi per l’acquisto di una nuova automobile.

Come ho scritto in una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, l’esaurirsi degli incentivi all’acquisto della prima casa e al cambio dell’automobile, misure che hanno certamente influito positivamente sulla crescita nel terzo trimestre, potrebbe ora determinare una battuta di arresto in entrambi i settori, una previsione che è corroborata dalla persistente esiguità dell’aumento dei redditi.

Come era largamente prevedibile, Ken Lewis si è dimesso anche dalla carica di Chief Executive Officer di Bank of America, dopo aver perso quella di presidente nei mesi scorsi.

giovedì 1 ottobre 2009

Il Fondo Monetario Internazionale rivede le perdite della tempesta perfetta a 3.400 miliardi di dollari!


Il rapporto di metà anno del Fondo Monetario Internazionale presentato a Istanbul informa che le perdite previste nel triennio 2007-2010 per le entità a diverso titolo operanti nel mercato finanziario globale si sono ridotte da 4.000 a 3.400 miliardi di dollari, il che costituisce certamente una bella notizia se non fosse che l’ultima stima ufficiale dello stesso organismo che io ricordi si fermava a 2.200 miliardi di dollari.

La riduzione delle perdite previste sarebbe dovuta a una crescita maggiore del previsto, o meglio al miglioramento delle previsioni di crescita per il 2010, anno nel quale l’economia a livello globale dovrebbe crescere non più del 2,5 per cento come era previsto sinora, ma potrebbe crescere del 3 per cento, anche se tali previsioni verranno rese note solo nella giornata di oggi e l’aumento riportato è ancora frutto delle speculazioni degli analisti.

Secondo gli economisti dell’IMF, vi sarebbe una forte differenza nella contabilizzazione delle perdite tra le banche statunitensi e quelle europee, in quanto le prime si sarebbero già accollate più della metà di quelle di loro pertinenza, mentre quelle europee sarebbero un po’ più indietro nell’evidenziazione di quelle attribuite loro, anche per uno sfasamento dei cicli economici, il che implica che queste perdite andranno a gravare sui bilanci trimestrali futuri, mentre nulla si dice di quanto avrebbero fatto in proposito le cosiddette non banche, fondi pensione, fondi di investimento, compagnie di assicurazione e hedge funds, entità cui le ripartizioni precedenti assegnavano una bella fetta delle perdite complessive stimate.

Ovviamente, nel Global Financial Stability Report, tale è il nome del documento del Fondo, si da atto a governi e banche centrali di aver operato in modo estremamente efficace e di aver contribuito a evitare il collasso sistemico del mercato finanziario globale che si era profilato all’indomani del fallimento di Lehman Brothers, ma si mette in guardia dal rischio, passata la fase più acuta della crisi finanziaria, di rinviare sine die la necessaria riforma delle regole del gioco nei mercati finanziari.

Sempre ieri è stata diffusa la terza e ultima lettura della variazione del prodotto interno lordo statunitense nel secondo trimestre, un dato che segnala una riduzione della flessione dal -1,0 per cento precedentemente stimato allo 0,7 per cento, un miglioramento in buona parte dovuto alla minore contrazione degli investimenti delle imprese, mentre la cruciale componente dei consumi registra un miglioramento soltanto frazionale passando da una flessione dell’1,0 per cento a una dello 0,9, una flessione che, tuttavia, si conferma superiore a quella dello 0,6 per cento del primo trimestre che pure aveva visto il pil a stelle e strisce scendere del 6,4 per cento.

Le due notizie non hanno acceso soverchi entusiasmi a Wall Street, dove i tre principali indici sono andati giù in apertura di qualcosa di più di un punto percentuale e il petrolio, che aveva rivisto la soglia dei 69 dollari al barile rapporto, è ripiombato poco sopra i 66 dollari, anche perché l’indice manifatturiero di Chicago, il Chicago Purchasing Managers Index, si è portato in settembre a 46,1 dai 50 di agosto, invece di crescere a 52 come era nelle previsioni degli analisti, ma anche perché CIT Group, la banca che sostiene finanziariamente reti di vendita e dettaglianti, potrebbe nuovamente trovarsi costretta a ricorrere alle procedure fallimentari per le difficoltà che starebbe incontrando, secondo quanto scrive il Wall Street Journal, nel convincere i possessori di sue obbligazioni a convertirle in azioni.