domenica 31 maggio 2009

Serge Marchionne è stato davvero stritolato dall'accordo in extremis tra Barack Obama e Frau Angela Merkel!


L’accordo politico intercorso direttamente tra Barack Obama e Frau Angela Merkel ha messo la parola fine alla lunghissima telenovela brasiliana concernente il futuro della casa automobilistica Opel, destinandola, aiuti di stato compresi, all’alquanto inedito consorzio tra la Magna, azienda leader nei ricambi e componenti per l’auto, e i russi della Sherbank e determinando la sconfitta personale dello svizzero-canadese Serge Marchionne, amministratore delegato di quella Fiat che, da Luca Corsero di Monetzemolo al rampollo di casa Agnelli, John Elkann, non si era mai appassionata troppo alla possibilità di realizzare quella massa critica in termini di produzione che non è garantita dalla sola acquisizione della tecnicamente più che fallita Chrysler, che, peraltro, ancora non si sa come uscirà dalle procedure previste dalla legge fallimentare statunitense nelle quali è attualmente ingolfata.

Anche se la maggior parte dei cittadini del pianeta non se ne era troppo accorta, quello che è avvenuto in queste settimane tra la nuova amministrazione americana e il governo tedesco è stato poco di meno che un conflitto in piena regola che, molto più dello scontro che vide Francia e Germania opporsi all’ostinata volontà anglo-americana di fare guerra al regime di Saddam Hussein, ha visto contrapporsi due modelli economici e sociali difficilmente conciliabili, una differenza alla quale non è stata affatto estranea la dicotomia esistente tra il sempre meno potente sindacato a stelle e strisce e la quasi intatta forza delle centrali sindacali tedesche e della sponda socialdemocratica pienamente rappresentata nella Grosse Coalition che domina la Germania dal sostanziale pari cui giunsero Gerard Schroeder e Angela Merkel al termine dello scrutinio delle passate elezioni.

Se un errore Marchionne lo ha commesso è stato proprio quello di sottovalutare la forza e il consenso del cosiddetto modello renano, un modello assolutamente non imitato negli altri principali paesi membri dell’Unione europea e quasi del tutto antitetico a quello imperante nel Regno Unito, in particolare dopo la lunga ristrutturazione messa in atto per oltre dieci anni dal New Labour di Tony Blair, uno che non ha mai fatto mistero di nutrire una sincera ammirazione per le intuizioni della Lady di ferro che risponde al Margareth Thatcher e della quale si è non poche volte vantato di aver completato, con un occhio più attento agli aspetti sociali, l’opera.

Ma altrettanta disattenzione, il povero Serge ha posto alle contrapposizioni profonde che dividono, oggi come ieri, il modello capitalistico renano a quello francese, seppur nella variante decisionista e statalista adottata dal ben poco tenero presidente Sarkozy, per non parlare delle differenze con il molto anomalo modello italiano in salsa berlusconian-tremontiana e con il socialismo basato sull’innovazione e sui cosiddetti ladrillos, i mega costruttori spagnoli attualmente alle prese con una crisi verticale del settore immobiliare, in particolare nell’un tempo fiorente segmento delle seconde case, seconda solo al meltdown in corso in terra statunitense.

Così come, forse per motivi legati alla sua storia personale in gran parte legata a paesi lontani e molto diversi dall’Italia, la sua memoria difettava dei ricordi di numerose avventure di grandi imprese italiane in terra tedesca, inclusa quella parte orientale del paese teutonico graziosamente restituita dall’URSS di Michail Sergeevic Gorbacev nell’ultimo anno della penultima decade del secolo scorso, quali, a solo titolo di esempio, la tragica esperienza dell’industriale siderurgico Riva, la sfortunata scalata della Continental da parte della Pirelli gestita dall’ex genero di lusso di Leopoldo, Marco Tronchetti Provera, l’uomo da Beppe Grillo ribattezzato il Tronchetto dell’infelicità, o, mutatis mutandis, la sfortunatissima telenovela belga che vide sconfitto l’acerrimo nemico di Silvio Berlusconi e patron del gruppo Espresso-Repubblica, l’Ingegner Carlo De Benedetti, uno cui certo non difetta la determinazione personale, né, tanto meno, l’appartenenza a una delle lobby più potenti del pianeta!

E’ difficile, peraltro, chiedere a una nazione che ritiene, a torto o a ragione, di avere pagato un prezzo incommensurabile al processo di realizzazione della moneta unica europea, accogliendo, non senza turarsi abbondantemente il naso, l’Italia nel gruppo dei fondatori della prima ora, ignorando, o fingendo di ignorare, che si trattava del paese caratterizzato dal massimo dell’instabilità politica e che aveva visto, nel cruciale 1995, la propria valuta giungere sino a 1.250 contro il marco e che presentava, nel fatidico momento nel quale vennero decise nel maggio del 1998 le parità fisse e irrevocabili, di un differenziale positivo dei tassi di interesse con quelli tedeschi cifrabile in diversi e molto pesanti punti percentuali, accettando, insieme agli olandesi, persino di concederci, proprio in quella sede, una svalutazione persino superiore a quella determinata nel 1992 dai furibondi attacchi speculativi orditi dal raider pentito George Soros, uno che, insieme a Warren Buffett, ha deciso di non approfittare in alcun modo delle immense possibilità di arricchimento fornite dalla tempesta perfetta prossima a entrare nel suo ventitreesimo mese di vita con pressoché immutata forza distruttiva.

Volendo, come si dice a Roma, riconsolarsi con l’aglietto, si potrebbe anche dire che “tentar non nuoce”, così come si potrebbe dire che quella di Magna e dei loro alquanto improbabili alleati russi è destinata a rivelarsi come la più classica delle vittorie di Pirro, ma poiché sono portato per mestiere a ritenere che la Storia non si fa né con i se, né tanto meno con i ma, spero proprio che il bravo Marchionne disponga di un provvidenziale piano B, anche se mi permetto modestamente e sommessamente di suggerire di evitare con cura l’altrettanto ostica avventura francese in favore di quella che vedrebbe a oggetto le interessanti quote di mercato tuttora appannaggio della General Motors nei diversi paesi dell’America Latina, paesi forse non del tutto stabili politicamente, ma forse anche per questo molto propensi a vedere rafforzarsi la presenza industriale di un’azienda che è pur sempre basata in un paese europeo che continua a essere poco più di un’espressione geografica!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

sabato 30 maggio 2009

Le troppe profezie autorealizzantesi della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs!


Vorrei mettere insieme due informazioni diverse per spiegare il senso del titolo alquanto forte che ho deciso di dare a questa puntata del Diario della crisi finanziaria, la prima è riferita al bilancio del primo trimestre della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, il primo bilancio a cadenza naturale dopo che l’ex investment banks ha abbandonato il cosiddetto anno fiscale, e un rapporto previsivo diffuso qualche settimana orsono dagli analisti, ma sarebbe meglio dire veggenti, al soldo della sopra citata banca.

Come ho già avuto modo di rilevare, dall’esame dei dati relativi al primo quarto del 2009, emerge in qualche modo la vera natura dell’ex regina incontrastata dell’allora gruppo delle Big Five dell’investment banking, un qualcosa che è una sorta di ibrido tra un private equity e un gigantesco hedge fund, una caratteristica certamente anomala ma ben testimoniata dall’incontrovertibile fatto che ben tre quarti dei suoi proventi vengono da attività che non è esagerato definire scommesse e che hanno a oggetto praticamente di tutto, tassi di interesse, cambi, materie prime più o meno energetiche, derrate alimentari, metalli preziosi, indici azionari e, perché no, anche la probabilità che qualche entità concorrente possa tirare le cuoia prima del tempo, un’attività quest’ultima non limitata soltanto a quelle armi di distruzione di ricchezza che sono i Credit Default Swaps.

E’ utile tenere a mente questa particolarità di quello che indubbiamente è uno dei club più esclusivi del pianeta, prima di volgere l’attenzione al citato rapporto previsivo che un ispirato analista di Goldman ha dedicato alle prospettive a breve del prezzo del petrolio, un rapporto uscito quando il prezzo al barile non riusciva a schiodarsi da una oscillazione stretta intorno al livello di 50 dollari, un prezzo peraltro più elevato del minimo di 34 dollari toccato nell’autunno dell’anno scorso, ma davvero infimo rispetto al picco di 147 dollari toccato nel luglio di quell’anno, un picco toccato dopo che non vi era fondo di investimento, banca più o meno globale e singoli operatori che si esimesse dal prendere posizione sull’oro nero, posizioni che puntavano al raggiungimento di quella soglia di 200 dollari al barile prevista, guarda caso, proprio da un altro analista di Goldman.

Per fermare quella strampalata corsa al rialzo, dovette intervenire personalmente e alquanto inusualmente lo stesso sovrano dell’Arabia Saudita, un individuo solitamente misterioso e poco loquace, ma che ritenne fosse giunto il momento di esporsi in prima persona con un’intervista molto ampia e, ovviamente, diffusa dai maggiori quotidiani del globo, nella quale esprimeva tutta la sua contrarietà rispetto a un gioco speculativo che metteva in pericolo le strategie di lungo e lunghissimo periodo del suo paese e di quella stessa OPEC della quale i sauditi sono indubbiamente soci fondatori e di riferimento, un’intervista che confermava l’esattezza delle analisi fatte dal centro studi londinese guidato dallo sceicco Yamani, un altro membro della famiglia reale saudita che aveva ricoperto per un ventennio il ruolo di presidente del cartello petrolifero e che si era guadagnato sul campo la fama di falco nel corso delle due crisi petrolifere degli anni Settanta!

Così come non è del tutto un caso che, poco prima del nuovo rapporto di Goldman Sachs, lo stesso Yamani avesse sentito il bisogno di fare le proprie previsioni sul prezzo del petrolio per tutto il 2009, sostenendo che non vi era ragione alcuna, anche alla luce dei prevedibili crolli all over the world dei PIL e non vedendo alcuna ragione per la quale il prezzo al barile dovesse uscire, nel periodo considerato, dal range compreso tra i 45 e i 55 dollari al barile.

Quello che il raffinato sceicco saudita non poteva prevedere era la verticalità del crollo su base annualizzata del PIL americano, ma ancor più di quello tedesco e di quello giapponese, elementi allora non disponili,ma che non facevano che rafforzare la sua previsione di stabilità dei prezzi, forse aggiungendo al più qualche buona ragione per prevedere che il prezzo medio si sarebbe collocato sulla parte bassa della forchetta da lui stesso indicata.

Ma è a questo punto che i partners della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs decidono che è giunta l’ora di riprendere il gioco sul petrolio esattamente dove l’avevano lasciato nella torrida estate del 2008, quando, dopo aver guadagnato a piene mani sul rialzo da essi stessi creato, avevano bruscamente girato le proprie posizioni e avevano iniziato a guadagnare sul più che prevedibile ribasso, rimettendo così al lavoro quegli stessi veggenti e quegli stessi indovini che affollano i centri studi di Goldman al fine di segnalare al mercato la buona novella del rialzo, non senza prima essersi dati da fare per accumulare le necessarie munizioni in termini di contratti derivati.

Quello che è davvero sorprendente è il silenzio degli economisti più o meno specializzati nel comparto energetico, che dovrebbero pur sapere che è alquanto improbabile una crescita del 30 per cento del prezzo di una materia prima certamente non insensibile al tracollo delle economie a livello planetario, così come stupisce che i ministri finanziari del G7 che l’anno scorso avevano tuonato contro la speculazione, all’epoca si distinse in particolar modo il per la terza volta ministro italiano dell’economia, Giulio Tremonti, non abbiano niente da ridire su un fenomeno che rischia di gelare sul nascere quei germogli di ripresa che, almeno al momento, sono tra gli unici a vedere.

Credo, tuttavia, che la tempistica scelta stavolta da Goldman e dai soggetti che le si sono messi in scia sia estremamente sbagliata, anche perché i governi dei paesi maggiormente industrializzati potrebbero decidere che è giunta l’ora di dare qualcuno in pasto alla platea infuriata dei contribuenti!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

venerdì 29 maggio 2009

Non accenna a finire il meltdown immobiliare!


La diffusione dei dati relativi al ritardo nel pagamento delle rate dei mutui nel primo trimestre dell’anno in corso ha fatto correre più di un brivido lungo la schiena degli analisti per una serie di fondate ragioni, a partire da quel dato sintetico che vede il 12 per cento dei mutuatari impossibilitati a fare fronte a rate, una difficoltà in buona parte legata alla ondata di licenziamenti che prosegue imperterrita da oltre un anno e mezzo e che rende difficile anche ai mutuatari con un buon merito creditizio di onorare puntualmente le scadenze mensili o semestrali del debito contratto per acquistare la propria abitazione o quel rifinanziamento del mutuo stesso contratto quando l’escalation dei prezzi degli immobili offriva agevolmente tale opportunità.

Il dato nazionale, pur il più elevato da quando sono iniziate le rilevazioni nel lontano 1972, non rende assolutamente l’idea di quanto sta avvenendo nei quattro Stati più colpiti dal meldown immobiliare, né la situazione davvero disastrosa in cui si trovano i titolari di mutui del tipo subprime o di quelle vere e proprie trappole mortali rappresentate dai vari tipi di ARM, due tipologie di mutui che sono andati in default nel 50 per cento dei casi, con punte del 55 per cento in Florida, nel New Jersey e nell’area di New York.

Ma l’epicentro del sisma finanziario che sta gettando nella disperazione milioni di famiglie americane è situato in California, Florida, Nevada e Arizona che rappresentano da soli poco meno della metà (il 46 per cento, a voler essere precisi) delle nuove procedure di foreclosure, il termine anglosassone per indicare l’esproprio e la successiva messa all’asta della casa, un meccanismo che, al di là di considerazioni sociali e umanitarie, sta spingendo drammaticamente verso il basso il valore delle case individuali e degli appartamenti situati in condomini e che sta andando contro gli interessi delle stesse banche creditrici che, oltretutto, spendono non meno di 50 mila dollari per ogni procedura attivata.

Ma quello che sta preoccupando di più gli esperti del settore e chiunque si occupi professionalmente di economia è rappresentato dal fatto che è praticamente raddoppiata, dal 3 al 6 per cento, .la percentuale dei mutuatari a medio e alto reddito che avevano acquistato case con mutui di importo che va oltre il limite dei 730 mila dollari previsto per l’intervento di Fannie Mae e Freddie Mac, una percentuale che rischia di crescere ulteriormente a causa delle centinaia di migliaia di licenziamenti già avvenuti e di un volume ancora più elevato previsto da qui a metà del 2010, se non addirittura sino alla fine di quell’anno, di donne e di uomini con redditi superiori ai 100 mila dollari annui, per non parlare di quelle decine di migliaia di licenziamenti che hanno colpito i percettori di redditi ancora più elevati e che si erano impegnati nell’acquisto di dimore lussuose per importi cifrabili nell’ordine di alcuni milioni di dollari, non a caso quelle che hanno subito i maggiori deprezzamenti nelle spietate valutazioni fatte dagli speculatori specializzati nell’approfittare delle disgrazie altrui, valutazioni che in non pochi casi non si spingono al di là di un terzo del valore stimato durante il boom immobiliare bruscamente terminato a metà del 2006!

Agli ottimisti a un tanto al chilo e agli speranzosi membri del Dream Team obamiano mi permetto di suggerire maggiore cautela nell’intravedere germogli di ripresa, anche perché gli accuratissimi reportage dell’Associated Press riportano innumerevoli casi di famiglie con redditi che si spingono fino ai sei zeri che stanno facendo i salti mortali per non restare indietro con i pagamenti, uno sforzo che sta avvenendo a detrimento delle spese per consumi più o meno superflui, un comportamento certamente giudizioso ma che ha un impatto pressoché mortale su un economia, quale è quella statunitense, che trae più del 70 per cento del suo propellente proprio dalla elevata propensione a spendere anche più di quanto si guadagna, o, per meglio dire, si guadagnava nei lontani tempi dell’Eldorado rappresentato dalla crescita perenne.

Molto più significativo, almeno sull’arido piano statistico, è quanto sta avvenendo per le classi di reddito medie e per quelle basse, per quei poco meno di sette milioni di percettori di sussidi di disoccupazione che, pur con il lieve calo registrato nell’ultima settimana considerata, crescono a ritmi superiori alle seicentomila unità, per i 13,7 milioni di disoccupati contati dalle statistiche ufficiali e per quegli oltre 24 milioni stimati applicando il criterio delle unità di lavoro a tempo pieno equivalenti e includendo quanti si allontano dal mercato del lavoro solo perché troppo scoraggiati per sottoporsi all’ennesimo e infruttifero colloquio.

Si tratta di un campione molto più rappresentativo dell’universo dei consumatori americani, un campione composto da decine di milioni di famiglie che stanno veramente facendo i salti mortali per assicurare il necessario ai propri componenti, uno sforzo che è in larga misura basato su sussidi in denaro e in buoni alimentari finanziati da fondi federali e da quelli oramai ridotti al lumicino delle amministrazioni locali che fanno sempre più fatica a piazzare i cosiddetti munibonds, per non parlare della generosità delle associazioni religiose e caritatevoli e dei singoli individui che cercano di portare soccorso ai propri vicini piombati, spesso da un giorno all’altro, da una situazione decorosa a qualcosa che somiglia ogni giorno che passa sempre più all’indigenza.

Non avendo vissuto, se non attraverso qualche lettura, la triste e lunghissima esperienza che prese il nome di Grande Depressione, non sono assolutamente in grado di dire se quello che sta avvenendo nella nazione economicamente e militarmente più forte del pianeta rappresenti, seppure in nuce, la riproposizione di quello scenario che si pensava appartenere definitivamente a un passato da dimenticare, ma quello che posso dire con relativa certezza è che, se le immense risorse destinate a salvare Wall Street fossero state indirizzate verso la necessaria rinegoziazione dei mutui di ogni ordine e specie, non saremmo giunti a questo punto!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

giovedì 28 maggio 2009

General Motors si separa da Opel!


Di fronte al rifiuto deciso dei suoi bondholders di farsi neanche troppo elegantemente spennare, la General Motors ha gettato ieri la spugna, chiudendo in anticipo sui termini previsti l’offerta di conversione dei bonds in azioni ordinarie, una decisione certo obbligata, ma che apre dritta, dritta la strada verso il tribunale fallimentare competente per territorio al suo nuovo Chief Executive Officer, uno scenario certamente annunciato ma che si è tradotto, nelle ultime due sedute di contrattazione, in un tracollo dell’azione del colosso automobilistico che si avvia mestamente a testare nuovamente quel minimo di un dollaro toccato nei mesi scorsi.

E’ stata, invece, una mossa a sorpresa quella con la quale i vertici dell’azienda di Detroit hanno deciso di scindere definitivamente il proprio più che prevedibile destino da quello della controllata Opel che diventa un’azienda autonoma, ricevendo peraltro in dote tutti gli stabilimenti europei controllati, anche sotto diverso marchio, dalla stessa General Motors, una mossa che potrebbe consentire al governo tedesco di avviare una procedura di amministrazione controllata che manda di fatto all’aria l’asta cui partecipa notoriamente anche la FIAT e che chiarisce le ultime alquanto oscure frasi pronunciate dal suo amministratore delegato, Serge Marchionne, dopo un lungo confronto diretto con la cancelliera di ferro, Angela Merkel.

La decisione a sorpresa della separazione consensuale tra General Motors e Opel rischia, inoltre, di aprire un contenzioso tra la Germania e gli altri Stati che ospitano stabilimenti della casa automobilistica con sede legale in terra teutonica, un’ipotesi tutt’altro che remota, almeno stando alle prime inviperite reazioni del governo belga, diffuse via agenzie di stampa solo pochi minuti dopo che era stata battuta la notizia da oltre oceano.

Insomma, dopo lunghissimi mesi di agonia e dopo aver tolto il sonno a ben due presidenti degli Stati Uniti d’America, si sta concretizzando quella soluzione del disastro automobilistico a stelle e strisce voluto da una significativa maggioranza dei cittadini statunitensi, gli stessi che si opposero strenuamente al salvataggio delle due case automobilistiche ree, almeno ai loro occhi, di aver dilapidato il mare di liquidità di cui disponevano solo pochi anni orsono anche per la loro strenua opposizione a qualsiasi cambiamento dei modelli di automobili energivore in favore di modelli più piccoli e dotati di motori più risparmiasi, cosa forse impossibile per Chrysler, ma fattibilissima per GM che produce, come peraltro fa la Ford, modelli del genere ma lo fa solo al di fuori dei confini statunitensi!

Mentre si appresta a entrare nel suo ventitreesimo mese di vita, la tempesta perfetta conta quindi al suo attivo non soltanto il meltdown immobiliare e quello della finanza strutturata, ma anche lo smantellamento di fatto dei due terzi dell’industria automobilistica a stelle e strisce e del suo immenso indotto, fatto non solo di fornitori nazionali e stranieri (cento imprese giapponesi saranno direttamente coinvolte dal fallimento di General Motors), ma anche di una rete capillare di rivenditori, duemila dei quali hanno già ricevuto il benservito da Chrysler e da GM.

Trattandosi del settore cui ho dedicato, insieme a quello dell’investment banking, la maggiore attenzione, non posso esimermi dal commentare l’ennesimo dato che conferma appieno come si sia ben lontani dall’aver toccato il fondo nel settore immobiliare, quel mini rialzo delle vendite di case esistenti in aprile che si è accompagnato all’ennesimo calo del prezzo mediano e ad un aumento di poco meno del 10 per cento dello stock di case invendute, giunte alla cifra rotonda di quattro milioni di unità abitative.

Come spesso accade, il dato di aprile non presenta in realtà alcuna variazione positiva rispetto al dato comunicato il mese precedente, ma segnala una crescita del 2,9 per cento solo per il fatto che è stato pesantemente rivisto verso il basso proprio il dato relativo al mese precedente, un giochetto statistico che, a causa della frequenza, rende i dati volta per volta forniti dalle fonti private e pubbliche difficilmente affidabili prima della verifica fatta generalmente il mese successivo, mentre per la cruciale informazione relativa al prodotto interno lordo statunitense vengono fornite ben tre letture successive, con vistose variazioni tra la prima e la terza.

Quel che conta è che dopo le ultime quattro informazioni relative al settore immobiliare residenziale, e dopo la notizia del crollo verticale delle richieste di mutuo e quella ancora più marcata relativa a quelle di rifinanziamento del mutuo stesso, non si trova più nessuno disposto a giurare sulla prossima uscita dalla crisi in questo settore che, secondo una vulgata popolare quanto palesemente non veritiera, sarebbe stato all’origine della tempesta perfetta, un’evaporazione degli ottimisti a un tanto al chilo che rischia seriamente di porre ulteriore piombo nelle ali della recente ripresa dei corsi azionari, quella che per me è e rimane una corsa dell’orso o un rimbalzo del coniglio morto ove lo stesso sia gettato per terra!

In un simile scenario da dopobomba, non può che fare piacere leggere che la maggior parte degli economisti a stelle e strisce ha decretato che la recessione finirà entro la fine dell’anno in corso, anche se purtroppo si tratta di una non notizia, in quanto alcuni mesi fa la stessa maggioranza di esperti della scienza economica erano convinti che la recessione sarebbe finita già a cavallo dell’estate prossima ventura.

Apprendo dalle agenzie che l’agenzia di rating Moody’s ha deciso di abbassare il rating del settore creditizio italiano, portandolo da stabile a negativo, una decisione motivata con le prevedibili conseguenze sui bilanci delle banche italiane della crisi economica in corso nel nostro come in tutti i paesi del pianeta!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

mercoledì 27 maggio 2009

Attenti al portafoglio!


Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria al vero e proprio ricatto che la nuova amministrazione statunitense sta perpretando nei confronti dei possessori di obbligazioni prima della Chrysler e ora della General Motors, offrendo in entrambi i casi una esigua porzione di quanto a suo tempo pagato dagli investitori istituzionali e dai risparmiatori/investitori o, in alternativa, la trasformazione, sempre a deciso sconto, di quanto è stato acquisito come un credito fruttifero nei confronti delle due case automobilistiche a stelle e strisce in azioni ordinarie delle stesse, quindi di capitale di rischio.

Il rifiuto opposto dai bondholders di Chrysler a questa ‘offerta’ ha condotto dritti, dritti al ricorso ad uno dei capitoli di cui si compone la legge fallimentare statunitense, mentre è di ieri la notizia che, nonostante le estreme pressioni esercitate dal gruppo di lavoro che sta cercando ogni possibile soluzione per General Motors, anche i bondholders per 27 miliardi di dollari di GM restano sulle loro posizioni, il che rende altrettanto inevitabile, salvo un miracolo dell’ultim’ora, il ricorso a una procedura fallimentare che, per quanto pilotata, sempre un fallimento resta, con il doloroso corollario derivante dal divenire esigibili i micidiali Credit Default Swaps per un importo presumibilmente multiplo del debito della casa di Detroit.

La notizia non ha scosso più di tanto la borsa di New York, che ha scelto ieri di privilegiare il dato positivo sulla fiducia dei consumatori, invece di porre attenzione alla secca smentita proveniente dall’ennesimo crollo dei prezzi delle case, -19,1 nel primo trimestre e -18,7 nel mese di marzo, l’ultimo disponibile, una scelta forse opinabile ma che ha consentito ai tre principali indici statunitensi di segnare significativi rialzi e di fare invertire la rotta anche ai principali mercati azionari europei che avevano fatto registrare performance negative sia nella solitaria seduta di lunedì (i mercati USA erano chiusi per festività), sia nella mattinata di ieri, in linea, peraltro, con la chiusura negativa della borsa di Tokyo.

Ma perché è così importante la questione dei possessori di obbligazioni della Chrysler e della General Motors, semplicemente perché rischia di prefigurare l’unica possibile via di uscita da una tempesta perfetta che si appresta a entrare nel suo ventitreesimo mese di vita e che è oramai certo potrà spegnere anche le sue prime due candeline il 9 agosto di quest’anno, una soluzione che prevede che l’enorme montagna di carta partorita dalle fervide menti degli apprendisti stregoni delle investment banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali potrà, nella migliore delle ipotesi, venire acquistata da mani più o meno pubbliche a un prezzo compreso in una forchetta che va dal 10 al 20 per cento del valore facciale, un’eventualità che manderebbe a carte quarantotto i conti dei fondi pensione e dei fondi di investimento, colpirebbe seriamente le compagnie di assicurazione e manderebbe in fumo i risparmi di una vita di semplici investitori, che non credo troveranno consolazione nel fatto che, dopo il dimezzamento del 2008, i grandi patrimonio potrebbero vedere erosa un’altra significativa quota anche nel corso del 2009.

Nella sempiterna guerra tra Wall Street e le tante Main Street di cui è puntellata l’America, rischierebbero così di perdere tutti, uno scenario che non permette di intravedere un possibile punto di svolta della recessione in presenza del perdita di oltre un terzo del valore delle abitazioni, di una sforbiciata molto drastica dei portafogli, per non parlare di quell’ecatombe di posti di lavoro che non aiuta certo la tenuta della propensione al consumo, variabile davvero cruciale in una nazione che vede più del 70 per cento del prodotto interno lordo venire proprio dai consumi di quelle cicale pentite che rischiano ogni giorno che passa di trasformarsi in formichine giudiziose e molto risparmiose!

Credo proprio che non vi sia molta consapevolezza in giro sulla concretezza dello scenario sopra descritto, anche se quel pugno di pessimisti che sta cercando di non farsi incantare dalla corsa dell’orso vede la possibilità che le cose saranno molto, ma molto più chiare tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, non fosse altro che per allora molti dei nodi verranno inesorabilmente al pettine e le attuali cortine fumogene sparse ad arte dagli imbonitori potrebbero venire spazzate via dal vento portato con sé da una nuova e ancor più alta ondata della tempesta perfetta.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno che l’invenzione del nuovo ministro del Tesoro, Timothy Geithner, quelle joint ventures tra pubblico e privato destinate a fare da spazzini delle montagne di carte della finanza più o meno strutturate sono rimaste più o meno nella fervida mente del loro ideatore, rischiando così di fare esattamente la stessa fine ingloriosa delle tante invenzioni partorite dall’altrettanto fervida mente del suo predecessore, l’ ex(?) investment banker Hank Paulson, un uomo del quale si sono letteralmente perse le tracce da quando ha passato le consegne al più giovane suo successore, con il quale ha peraltro percorso quasi tutte le drammatiche tappe della più violenta crisi finanziaria mai vista a memoria di donna o di uomo.

Quello che sta accadendo nel mercato immobiliare e in quello finanziario, due insiemi largamente intersecatesi, non è affatto qualcosa di inedito, seppure non nelle attuali e ancor più prospettiche proporzioni, anche perché è accaduto innumerevoli volte in singoli mercati, in particolare in quello delle valute convertibili, basti pensare a quanto accadde nel lontano accordo del Plaza Hotel di New York ai tempi in cui le sorti del pianeta erano rette dal cosiddetto G3, per non parlare di quanto avvenne negli anni Settanta con i due shock petroliferi, o pochi mesi orsono a quanto è avvenuto nel mercato delle materie prime più o meno energetiche e di quello molto ampio delle derrate alimentari, spesso per motivi che nulla avevano a che fare con le relative funzioni di domanda e di offerta, ma molto di più per effetto delle scommesse via derivati effettuate dai soliti noti!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

martedì 26 maggio 2009

Ma non è che nazionalizzano Bank of America? (seconda e ultima parte)


Le limitazioni poste dallo spazio che mi sono autoimposto per ogni singola puntata del Diario della crisi finanziaria spesso non consentono di sviluppare in modo adeguato ragionamenti complessi e/o questioni che attengono alla stabilità o la stessa sopravvivenza di colossi creditizi di dimensioni enormi come Bank of America, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, UBS, Hong Kong Shanghai Banking Corporation, Deutsche Bank, per non parlare poi di quel misto tra un enorme hefge fund e un private equity che è rappresentato dalla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, un entità che, pur avendo dovuto rinunciare allo stato di investment banks, continua a a trarre il 75 per cento dei suoi ricavi da attività che potrebbero essere definite come delle scommesse sull’andamento delle valute, delle materie prime, degli indici azionari e chi più ne ha ne metta, un settore di attività che presenta in realtà marginali differenze con quella degli scommettitori britannici e che ben si inserisce in quella trasformazione della finanza più o meno strutturata in una sorta di immenso casinò a cielo aperto mirabilmente descritta dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dal suo omologo tedesco, peraltro appena rieletto al suo alto incarico.

E’ anche per questo che spesso mi vedo costretto a tornare sull’argomento trattato in precedenti puntate, pubblicando uno o più approfondimenti che servono a offrire al lettore maggiori informazioni su argomenti complessi e delicati e che hanno a oggetto entità quali Bank of America, una banca che era già ai primi posto della graduatoria delle banche statunitensi e globali, ma che, a causa degli effetti disastrosi della tempesta perfetta prossima a entrare nel suo ventitreesimo mese di vita, è stata scelta dalle autorità monetarie a stelle e strisce come polo aggregante di entità bancarie e finanziarie in difficoltà che erano spesso, a loro volta, la prima entità privata nell’immenso mercato del mortgage statunitense, come quella Coutrywide letteralmente spolpata dal suo fondatore Angelo Mozilo, la prima cassa di risparmio degli Stati Uniti d’America, se non del mondo, come Washington Mutual, o una delle comprimarie nel magico gruppo delle Big Five dell’investment banking, quale era Merrill Lynch.

Anche se pure a J.P Morgan Chase, a Wells Fargo e a Morgan Stanley è toccato, volenti o nolenti, di farsi carico di altre importanti entità o di rilevanti settori di attività precedentemente gestite da altri, non vi è dubbio alcuno che il compito assegnato a Ken Lewis e ai suoi principali collaboratori è davvero di quelli che dovrebbero fare tremare i polsi, pure in presenza di prezzi molto modesti pagati per acquisire le sopra citate entità e del sostegno di tutto rilievo ricevuto sia dal ministero del Tesoro, sia dal sistema della riserva federale, un impegno che ha visto dedicare, direttamente o indirettamente, risorse pubbliche per centinaia di miliardi di dollari, 45 dei quali sotto forma di preferred shares particolarmente onerose per la banca, già gravata da un servizio del debito di dimensioni ragguardevoli, preferred shares che, a differenza di quanto è avvenuto per Citigroup, non sono, né in toto né in parte, state convertite in azioni ordinarie, cioè in capitale di rischio per il quale non è in alcun modo, come è peraltro giusto che sia, prevista una remunerazione prefissata.

Non è, quindi, per amore del gossip finanziario che ho riferito dell’incontro alla Casa Bianca tra Obama e i due economisti entrambi insignite del premio Nobel per l’Economia, Robert Eunice Stiglitz e Paul Krugman, due accademici molto impegnati nell’attività divulgativa e che non hanno mai fatto mistero delle loro perplessità per la ricetta prescritta prima dall’ex (?) investment banker Hank Paulson e poi dal suo successore, Timothy Geithner, per l’ammalato sistema finanziario statunitense, una terapia, almeno a dire dei due economisti, costosissima e addirittura peggiore del male, anche perché non prevede, come sarebbe secondo loro doveroso, la, seppur temporanea, nazionalizzazione delle entità tecnicamente fallite e destinatarie di aiuti che rappresentano un mutiplo sia della loro capitalizzazione di borsa che del loro stesso patrimonio (capitale più riserve di avrio titolo e specie).

Mi è bastata la parte del colloquio che Stiglitz ha ritenuto di poter divulgare senza venir meno a quell’impegno di riservatezza da lui esplicitamente menzionato, per capire che Obama, che ha pubblicamente dichiarato di tenere in gran conto l’opinione dei due economisti critici, non ha solo riaffermato la sua volontà di salvare i risparmi e i finanziamenti delle imprese e delle famiglie e di no essere affatto impegnato nella difesa a oltranza dei banchieri e degli altri vertici delle entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, ma deve essersi spinto un po’ di più nell’illustrazione della sua road map per raggiungere il predetto scopo, dettagli che, almeno al momento, la nuova amministrazione non ha ancora ritenuto di illustrare ufficialmente ai media e al pubblico.

Avendo svolto per non poco tempo l’attività di central bankers watcher, un’attività non proprio semplice alla luce dell’ermeticità che in quegli anni caratterizzava i banchieri centrali posti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, ho avuto la pretesa di leggere tra le righe dell’intervista concessa da Siglitz a Eugenio Occorsio l’anticipazione del tanto atteso piano B della nuova amministrazione statunitense, un piano che dovrebbe presumibilmente avere caratteristiche notevolmente diverse da quelle presenti nell’approccio del trio Bush.Paulson-Bernspan, un approccio che potrebbe essere efficacemente sintetizzato in una sola frase: aiutare le maggiori entità protagoniste del mercato finanziario, senza chiedere quasi nulla in cambio!

Stiglitz e Krugman sanno benissimo che non pochi dei consiglieri economici di Obama non sono così lontani dall’approccio dell’amministrazione precedente, così come sono perfettamente consapevoli del fatto che alcuni di questi personaggi hanno grandi responsabilità nella deregulation selvaggia operata ai tempi di Clinton (Larry Summers e Robert Rubin, tanto per non fare nomi), ma vogliono credere, e io con loro, che il giovane nuovo inquilino della Casa Bianca sia davvero uno che ascolta tutti, ma poi decide da solo!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

lunedì 25 maggio 2009

Quanto durerà la recessione? (versione per stampa aggiornata alla quarta e ultima puntata)


Spero di fare cosa utile ai lettori ripubblicando le quattro puntate dedicate alla prevedibile durata delle recessione indotta dalla tempesta perfetta. Ricordo che le prime tre puntate sono apparse dal 16 al 18 aprile scorso, mentre la quarta e ultima puntata è quella del 23 maggio.

* * *

Se qualcuno, attratto dal titolo un po’ intrigante, pensasse di trovare in questa e nelle successive puntate del Diario della crisi finanziaria una risposta puntuale all’interrogativo che angoscia governi, banche centrali e parti sociali di tutto il mondo farebbe bene a non proseguire nella lettura, perché su questo, come su tanti altri argomenti, non fornirò altro che valutazioni a partire da quel po’ che so della finanza e dell’economia a livello globale, dalle mie esperienze professionali e dalla mia volontaria esperienza di tenutario del giornale di bordo della flotta del genere umano ampiamente squassata dagli alti marosi di una tempesta perfetta che non accenna a scemare di intensità da quando, il 9 agosto del 2007, ha preso il suo via a causa di un davvero inedito blocco della liquidità sul mercato interbancario.

Accingendomi all’impresa di fornire comunque qualche indicazione temporale, utilizzerò come riferimento metodologico quello che ho capito dell’approccio seguito dal mai troppo compianto John Maynard Keynes, forse l’unico essere senziente ad aver tratto qualche insegnamento da quell’immenso processo di distruzione di ricchezza che fu la Grande Depressione, una fase di durata nettamente superiore ai dieci anni e che venne, al di là di alcune meritorie intuizioni personali di qualche uomo politico, gestita in un modo davvero dissennato e che produsse danni certamente superiori a quelli che le vere cause del crollo borsistico dell’ottobre del 1929 e l’ignoranza quasi assoluta della componente psicologica nell’agire economico avrebbero prodotte senza alcun intervento esterno!

Scusandomi in anticipo per la lunghezza delle premesse metodologiche, mi vedo costretto a chiarire il senso della da me più volte ripetuta affermazione sull’utilizzo come stelle polari nell’orientarmi nella tempesta perfetta di due persone così diverse tra loro per storia, cultura ed esperienze professionali quali Warren Buffett, classico esempio di self made man americano che, a differenza di molti neomiliardari, non ha perso la determinazione, la sagacia e il buon senso iniziali, e George Soros, una persona di assoluto successo nella previsione dei fenomeni economici, ma che la psicologia dell’investitore medio la apprese alla durissima scuola delle persecuzioni razziali in Europa nel suo paese d’origine occupato dai nazisti, una scelta che confermo, anche se la ho allargata di recente ad un gruppo più ampio di persone che attorno a loro si è aggregata in questi mesi e che ha deciso di puntare sul giovane senatore dello Stato dell’Illinois, Barack Obama, come l’uomo in grado di consentire un radicale processo di ristrutturazione dell’economia e della finanza a stelle e strisce, presupposto indispensabile per giungere ad una risposta coordinata dei maggiori paesi industrializzati alle cause profonde che ci hanno portati a questo disastro (un gruppo che ho descritto nelle diverse puntate dedicate a quello che ho definito il patto ‘segreto’ da loro stretto con Obama nella fase più calda delle primarie del partito democratico).

Credo non sfugga ad alcuno di quanti seguono con un sufficiente grado di attenzione l’evoluzione della crisi finanziaria e della dolorosa recessione economica da questa indotta l’assoluta insensatezza delle politiche seguite dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, così come dal sistema della riserva federale e dalle altre banche centrali, nel periodo che va dall’avvio della tempesta perfetta a quello spartiacque della stessa rappresentato dalla decisione di lasciare fallire Lehman Brothers a metà del mese di settembre del 2008, una scelta quest’ultima che sarà certamente studiata quando quello che stiamo vivendo sarà finalmente divenuta Storia e che ha determinato una situazione di tale gravità da fare ritenere a persone investite di responsabilità istituzionali a livello sovranazionale che l’intero sistema finanziario globale potesse collassate nel successivo mese di ottobre, ove i governi e le autorità monetarie del G20/G21 non avessero preso le decisioni che vennero poi assunte nel corso del davvero drammatico summit svoltosi in quei giorni.

Non vi è dubbio alcuno che i colossali piani di salvataggio degli interi sistemi finanziari nazionali partorite in quel vertice e confermate successivamente a livello di parte dell’Unione europea, nonché riprodotte nei ripetuti piani del governo giapponese e di quello cinese siano stati fortemente condizionati dalle incaute e in qualche caso folli scelte assunte in precedenza dal trio Bush-Paulson-Bernspan, nonché dalla relativa inerzia dei governi degli altri maggiori paesi avanzati, i quali, a torto o a ragione, ritenevano che gli Stati Uniti d’America avessero la responsabilità di trovare la soluzione del problema, non fosse altro per avere in larghissima misura provocato la tempesta perfetta stessa, un ragionamento che, al netto dell’evidente contenuto di verità, dimostrava una assoluta miopia nei confronti dell’assoluta interconnessione provocata dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia ai quali nessuno dei leaders politici europei e asiatici si era realmente opposto!

Come spesso accade, la fretta di trovare una soluzione quale che fosse portò, in quelle davvero drammatiche giornate di ottobre (chissà perché gran parte dei fenomeni destinati a sconvolgere questo pianeta si addensano in questo mese?) dell’anno scorso, pur evitando il rischio del collasso immediato del sistema finanziario globale, hanno da un lato favorito l’acuirsi del contagio della crisi alla cosiddetta economia reale, ma, dall’altro, hanno lasciato scoperti un gran numero di sistemi creditizi e finanziari di numerosi paesi da poco membri dell’Unione europea o candidati a entrarvi, nonché di numerosissimi paesi dell’Asia, della totalità dei paesi africani e di quelli dell’America Centrale e Meridionale, un palmare esempio di coperta corta cui si è cercato di mettere una pezza nei successivi summit con impegni più o meno esigibili e con un maxi finanziamento, in parte effettivo e in maggior misura da realizzare, delle scarse risorse del Fondo Monetario Internazionale, definitivamente assurto al ruolo di prestatore di ultima istanza di quella parte del mondo dichiaratamente incapace di provvedere da sé. Ed è proprio da queste contraddizioni che prenderò le mosse domani per affrontare l’interrogativo riportato nel titolo.

Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.

Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!

Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.

Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!

Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.

Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!

Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.

Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano, un gruppo formato dai maggiori conoscitori esistenti dei fenomeni che ho cercato di descrivere di sopra, è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ sull’ultimo scorcio del 2008 e sull’intero 2009, operando una drammatizzazione dell’immediato strettamente unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una pressoché certa ripresa sin dai primi mesi del 2010, ma di questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.

Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.

Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.

Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.

L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!

Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.

Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.

Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.
*
Nella sua non proprio appassionante relazione all’assemblea annuale della Confindustria, la giovane presidentessa, Emma Marcegaglia, ha finalmente detto quello che una parte molto minoritaria degli economisti non embedded sostengono da tempo, affermando che molto difficilmente l’industria potrà tornare ai livelli di produzione precedenti la tempesta perfetta prima del 2013, un orizzonte temporale che certifica una durata della crisi finanziaria e della conseguente crisi dell’economia più in generale che va dai cinque ai sei anni o, se preferite, da 20 a 24 trimestri.

Sentire una simile previsione dalla viva voce della tostissima figlia di Steno, imprenditore siderurgico fattosi davvero da sé e a lungo accreditato di simpatie comuniste non incompatibili con una gestione ferrea della propria azienda, dovrebbe far correre brividi gelati nelle schiene di quanti, Governo, partiti di maggioranza e di opposizione, sindacati, hanno scommesso tutto, ma davvero tutto, sull’ipotesi che il peggio ‘dovrà’ essere passato tra la fine dell’anno in corso e la prima metà dell’anno prossimo, una scommessa che prevede anche che già dall’autunno di quest’anno si possano vedere i primi segnali di inversione di tendenza in parti significative dell’apparato industriale e il non inasprimento del credit crunch, sia sul piano dei volumi di credito che su quello altrettanto importante del non inasprimento ulteriore delle condizioni effettive richieste per ottenerlo, rappresentate dal tasso di interesse e dalla commissioni applicate!

Nelle tre puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate proprio alla prevedibile durata della crisi ero stato molto meno catastrofista di Emma, anche perché sono perfettamente consapevole del significato sulle condizioni di vita delle donne e degli uomini che popolano questo pianeta derivanti dalla prosecuzione, anche per un solo trimestre in più, di questo coacervo di meltdown finanziario e chiusura di fabbriche e impianti, così come non riesco a restare indifferente alla valanga di espropri delle abitazioni, all’ondata di licenziamenti, fenomeni che, in non pochi casi, finiscono per colpire le stesse persone, in una spirale davvero perversa nella quale è addirittura difficile distinguere tra le cause e gli effetti.

Sarebbe troppo facile rinfacciare a Mrs Marcegaglia la sua partecipazione convinta al vasto coro di quanti hanno visto sino a poche settimane orsono la ripresa dietro ogni angolo, così come il suo e altrui evidente fastidio nei confronti di quei pochi economisti e liberi pensatori che mettevano in guardia dai facili ottimismi e, soprattutto, dai più che prevedibili effetti disastrosi derivanti dalla puntuale mancata verifica delle previsioni più ottimiste, anche se devo dire che in uno con i mercatisti più sfegatati sono svaniti,davvero come neve al sole, anche i teorici delle aspettative più o meno razionali, anche se ritengo questa rotta disordinata di queste due affollatissime scuole di pensiero uno dei pochi aspetti positivi della tempesta perfetta che, tra poco più di due settimane, entrerà nel suo ventitreesimo mese di vita!

Mi chiedo spesso cosa direbbe oggi il mai troppo compianto John Maynard Keynes di fronte all’assenza di metodo e di logica che sta caratterizzando l’agire alquanto scomposto dei leaders politici e dei banchieri centrali di fronte all’esplodere simultaneo delle innumerevoli bolle speculative determinato da cause di carattere strutturale determinatesi sin dalla sua sconfitta a Bretton Woods, ma fattesi davvero metastasi pervasive a partire dalla metà degli anni Ottanta, anche se credo che quello che più farebbe infuriare il Yellow del King’s College in quel di Cambridge sia rappresentato dall’utilizzo improprio dell’armamentario teorico da lui costruito a partire dall’evidenza tragica del fallimento del pensiero neoclassico rappresentata dalla Grande Depressione che finì per durare poco meno di un quindicennio anche a causa dell’ottimismo di maniera e delle terapie sbagliate adottate nel primo quinquennio successivo al crollo dell’ottobre del 1929.

Nel mio intervento al convegno sulla crisi finanziaria e i suoi effetti sociali organizzato dalla UIL, ho avuto la possibilità di toccare con mano la scarsa conoscenza degli economisti accademici della mutazione genetica intervenuta, nell’arco di almeno due decenni, nel mercato finanziario globale, una mutazione della quale è facile vedere gli effetti, soprattutto quando gli stessi assumono carattere catastrofico, mentre è molto più complesso avere un’idea sufficientemente chiara delle cause, una ‘lack of understanding’ che non ha consentito alla maggior parte degli economisti di professione di capire che la tempesta perfetta era in realtà del tutto inevitabile, anche se nessuno era in grado di prevedere con sufficiente esattezza quando avrebbe avuto inizio, non fosse altro che per il fatto che era stata evitata ben due volte da Alan Greenspan (nel 1987 e nel 1998) mediante quell’inondazione di liquidità e quelle manovre aggressive sui tassi di interesse che, nella fase attuale, si sono rivelate inutili se non addirittura controproducenti.

Credo proprio che, se i maggiori economisti del pianeta, insigniti o meno del Premio Nobel, avessero frequentato maggiormente le Investment Banks e le megadivisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali (in particolare le loro fabbriche prodotto, affollate di apprendisti stregoni), o avessero studiato la trasformazioni in entità finanziarie delle industrie a carattere più o meno multinazionale, avrebbero capito maggiormente per tempo che quel fenomeno dalla altissima potenza distruttiva che per comodità chiamiamo tempesta perfetta rappresentava non tanto uno degli scenari possibili,quanto l’unico scenario possibile, un vero e proprio caso di scuola di fenomeno del quale non è in discussione la possibilità di realizzazione, quanto, piuttosto, la più o meno esatta individuazione temporale della realizzazione stessa, un fenomeno che, utilizzando l’alquanto spregiudicato linguaggio in voga nelle sale operative di cui queste entità erano ampiamente dotate, rappresentava “un calcio di rigore”.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

domenica 24 maggio 2009

Ma non è che nazionalizzano Bank of America?


In vista del prossimo festival dell’economia che si terrà a Trento a cavallo della fine di maggio, il quotidiano La Repubblica ha dedicato un inserto di ben otto pagine dedicate all’avvenimento, un’iniziativa editoriale certamente lodevole e che ha dato modo anche a quanti non potranno prendere posto nelle locations previste per gli incontri di avere modo di sapere cosa avranno da dire i tre premi Nobel per l’Economia, che hanno, peraltro, ricevuto insieme il prestigioso award, e che hanno deciso di partecipare insieme a quelli tra gli economisti e i giornalisti economici italiani e stranieri che più si stanno impegnando a capire le caratteristiche del tutto particolari della tempesta perfetta che fra due settimane soltanto entrerà nel suo ventitreesimo mese di virulenta e devastante attività.

Pur avendo letto con interesse e con la dovuta attenzione gli articoli di Massimo Giannini, Federico Rampini, Eugenio Occorsio, Giorgio Lonardi, Carlo Petrini e Vittorio Zucconi, devo dire che mi ha molto più interessato quanto hanno detto Joseph Eugene Stiglitz, Michael Spence e George Arkeloff, che, assieme al fresco di Nobel Paul Krugman e il Dr. Doom, al secolo Nouriel Rubini, possono essere annoverati tra i pochi studiosi della scienza economica non emebedded alle logiche e agli interessi del capitalismo finanziario, così come appaiono alquanto scettici sulla ricetta del nuovo inquilino della Casa Bianca, ma, e forse soprattutto, appaiono non poco diffidenti nei confronti della maggior parte dei consulenti in materia che attorniano il giovane presidente degli Stati Uniti d’America e che, in buona parte, era già al servizio permanente attivo del suo predecessore Bill Clinton, uno che non muoveva un passo in materia di economia e finanza se non aveva ricevuto l’imbeccata da Robert Rubin prima e da Larry Summers poi.

Conversare con Stiglitz ha rappresentato un’occasione troppo ghiotta per Eugenio Occorsio che, infatti, ha cercato di capire il motivo della sua non adesione alla ricetta di Geithner e Bernspan per salvare le banche, ottenendo lo scoop di una visita su invito di Stiglitz e Krugman a Obama proprio per discutere le scelte della nuova amministrazione, un incontro che, al netto ovviamente dei dettagli, avrebbe consentito al presidente di chiarire ai suoi due autorevoli interlocutori la sua volontà di salvare i risparmi e i finanziamenti delle imprese e delle famiglie, una volontà che farebbe premio sulla difesa a oltranza dei banchieri e degli altri vertici delle entità protagoniste di quel mercato finanziario statunitense che è pur sempre la costola fondamentale del mercato finanziario globale.

Io e qualche altro cronista malizioso della tempesta perfetta ci spingiamo sino a vedere tra le righe delle scarne frasi dedicate da Stiglitz al delicato argomento qualche anticipazione in merito alle nuove mosse della amministrazione a stelle e strisce, mosse che dovrebbero portare a esaudire il desiderata dei due Nobel sulla necessità di procedere con maggiore decisione sulla strada di una temporanea nazionalizzazione di almeno due delle sei grandi banche statunitensi rimaste sulla scena, un riferimento che acquisisce maggiori contorni ove si pensi alla situazione in cui versano Bank of America e Citigroup, non del tutto a caso dei maggiori aiuti diretti e indiretti da parte del Tesoro e del sistema della riserva federale, aiuti che sfiorano i cento miliardi di dollari in termini di iniezioni di capitale e svariate centinaia di miliardi di dollari sotto forma di alleggerimento di titoli più o meno tossici della finanza strutturata presenti al di sopra e al di sotto della linea di bilancio delle due colossali entità finanziarie appena citate.

Non sfugge a nessun osservatore attento che vi è, tuttavia, una differenza fondamentale tra la banca amministrata da Vikram Pandit e che ha pagato per lunghissimo tempo 60 milioni di dollari a Rober Rubin per un incarico poco più che ornamentale e quella gestita, almeno per il momento da Kenneth Lewis, una banca che si è dovuta fare carico del colosso dei mutui Countrywide, della più grande cassa di risparmio del mondo, Washington Mutual e, the last but not the least, di Merrill Lynch.

Non è un mistero per nessuno che Merrill venne salvata proprio nella stessa notte di metà settembre nella quale il trio Bush-Paulson-Bernspan decise di mandare letteralmente a zampe all’aria Lehman Brothers, mentre nazionalizzava di fatto il colosso assicurativo AIG, un’entità che non era solo troppo grande per essere lasciata fallire, ma che era anche controparte per cifre spropositate dei Credit Default Swaps sottoscritti da tutte le banche più o meno globali poste al di qua e al di là dell’oceano Atlantico e a gestire la quale l’ex (?) investment banker Hank Paulson decise di mandare proprio quel Edward Liddy che era stato suo sottoposto in Goldman Sachs e che doveva garantire che alla potente ma ancor più preveggente ex investment bank e a qualche decina di altre banche venissero saldati i conti che sono, per il momento, costati poco meno di 200 miliardi di dollari ai contribuenti americani, una missione più o meno completata e che consentirà al povere Ed di tornare a godersi la sua più che meritata pensione!

Ma vi è un altro motivo per cui Citigroup potrebbe non fare la fine di BofA ed è rappresentato proprio dalla ‘sconfitta’ subita da Rubin e Pandit nella corsa all’acquisizione delle spoglie di Wachovia Bank che, per loro fortuna, è stata conquistata dalla più piccola ma molte meglio messa Wells Fargo, così come credo che, nel ritirarsi dal conflitto legale, i due banchieri abbiano fatto tesoro dei suggerimenti ricevuti a Washington.

Alla fine della fiera, i 13 miliardi di dollari ottenuti dalla ricapitalizzazione lasciano sempre scoperte per Bank of America le necessità individuate dal Tesoro e dalla Fed, stimate in ulteriori 22 miliardi ai quali vanno aggiunti, a onor del vero, i 45 miliardi di dollari in preferred shares che Lewis dichiara, un giorno sì e l’altro pure, di volere restituire, anche se si dimentica sempre di dire quando!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

sabato 23 maggio 2009

Quanto durerà la recessione? (quarta e ultima parte)


Nella sua non proprio appassionante relazione all’assemblea annuale della Confindustria, la giovane presidentessa, Emma Marcegaglia, ha finalmente detto quello che una parte molto minoritaria degli economisti non embedded sostengono da tempo, affermando che molto difficilmente l’industria potrà tornare ai livelli di produzione precedenti la tempesta perfetta prima del 2013, un orizzonte temporale che certifica una durata della crisi finanziaria e della conseguente crisi dell’economia più in generale che va dai cinque ai sei anni o, se preferite, da 20 a 24 trimestri.

Sentire una simile previsione dalla viva voce della tostissima figlia di Steno, imprenditore siderurgico fattosi davvero da sé e a lungo accreditato di simpatie comuniste non incompatibili con una gestione ferrea della propria azienda, dovrebbe far correre brividi gelati nelle schiene di quanti, Governo, partiti di maggioranza e di opposizione, sindacati, hanno scommesso tutto, ma davvero tutto, sull’ipotesi che il peggio ‘dovrà’ essere passato tra la fine dell’anno in corso e la prima metà dell’anno prossimo, una scommessa che prevede anche che già dall’autunno di quest’anno si possano vedere i primi segnali di inversione di tendenza in parti significative dell’apparato industriale e il non inasprimento del credit crunch, sia sul piano dei volumi di credito che su quello altrettanto importante del non inasprimento ulteriore delle condizioni effettive richieste per ottenerlo, rappresentate dal tasso di interesse e dalla commissioni applicate!

Nelle tre puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate proprio alla prevedibile durata della crisi ero stato molto meno catastrofista di Emma, anche perché sono perfettamente consapevole del significato sulle condizioni di vita delle donne e degli uomini che popolano questo pianeta derivanti dalla prosecuzione, anche per un solo trimestre in più, di questo coacervo di meltdown finanziario e chiusura di fabbriche e impianti, così come non riesco a restare indifferente alla valanga di espropri delle abitazioni, all’ondata di licenziamenti, fenomeni che, in non pochi casi, finiscono per colpire le stesse persone, in una spirale davvero perversa nella quale è addirittura difficile distinguere tra le cause e gli effetti.

Sarebbe troppo facile rinfacciare a Mrs Marcegaglia la sua partecipazione convinta al vasto coro di quanti hanno visto sino a poche settimane orsono la ripresa dietro ogni angolo, così come il suo e altrui evidente fastidio nei confronti di quei pochi economisti e liberi pensatori che mettevano in guardia dai facili ottimismi e, soprattutto, dai più che prevedibili effetti disastrosi derivanti dalla puntuale mancata verifica delle previsioni più ottimiste, anche se devo dire che in uno con i mercatisti più sfegatati sono svaniti,davvero come neve al sole, anche i teorici delle aspettative più o meno razionali, anche se ritengo questa rotta disordinata di queste due affollatissime scuole di pensiero uno dei pochi aspetti positivi della tempesta perfetta che, tra poco più di due settimane, entrerà nel suo ventitreesimo mese di vita!

Mi chiedo spesso cosa direbbe oggi il mai troppo compianto John Maynard Keynes di fronte all’assenza di metodo e di logica che sta caratterizzando l’agire alquanto scomposto dei leaders politici e dei banchieri centrali di fronte all’esplodere simultaneo delle innumerevoli bolle speculative determinato da cause di carattere strutturale determinatesi sin dalla sua sconfitta a Bretton Woods, ma fattesi davvero metastasi pervasive a partire dalla metà degli anni Ottanta, anche se credo che quello che più farebbe infuriare il Yellow del King’s College in quel di Cambridge sia rappresentato dall’utilizzo improprio dell’armamentario teorico da lui costruito a partire dall’evidenza tragica del fallimento del pensiero neoclassico rappresentata dalla Grande Depressione che finì per durare poco meno di un quindicennio anche a causa dell’ottimismo di maniera e delle terapie sbagliate adottate nel primo quinquennio successivo al crollo dell’ottobre del 1929.

Nel mio intervento al convegno sulla crisi finanziaria e i suoi effetti sociali organizzato dalla UIL, ho avuto la possibilità di toccare con mano la scarsa conoscenza degli economisti accademici della mutazione genetica intervenuta, nell’arco di almeno due decenni, nel mercato finanziario globale, una mutazione della quale è facile vedere gli effetti, soprattutto quando gli stessi assumono carattere catastrofico, mentre è molto più complesso avere un’idea sufficientemente chiara delle cause, una ‘lack of understanding’ che non ha consentito alla maggior parte degli economisti di professione di capire che la tempesta perfetta era in realtà del tutto inevitabile, anche se nessuno era in grado di prevedere con sufficiente esattezza quando avrebbe avuto inizio, non fosse altro che per il fatto che era stata evitata ben due volte da Alan Greenspan (nel 1987 e nel 1998) mediante quell’inondazione di liquidità e quelle manovre aggressive sui tassi di interesse che, nella fase attuale, si sono rivelate inutili se non addirittura controproducenti.

Credo proprio che, se i maggiori economisti del pianeta, insigniti o meno del Premio Nobel, avessero frequentato maggiormente le Investment Banks e le megadivisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali (in particolare le loro fabbriche prodotto, affollate di apprendisti stregoni), o avessero studiato la trasformazioni in entità finanziarie delle industrie a carattere più o meno multinazionale, avrebbero capito maggiormente per tempo che quel fenomeno dalla altissima potenza distruttiva che per comodità chiamiamo tempesta perfetta rappresentava non tanto uno degli scenari possibili,quanto l’unico scenario possibile, un vero e proprio caso di scuola di fenomeno del quale non è in discussione la possibilità di realizzazione, quanto, piuttosto, la più o meno esatta individuazione temporale della realizzazione stessa, un fenomeno che, utilizzando l’alquanto spregiudicato linguaggio in voga nelle sale operative di cui queste entità erano ampiamente dotate, rappresentava “un calcio di rigore”.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog

venerdì 22 maggio 2009

Tremonti accetta la sottomissione di Profumo!


Stavolta non sono stati i dati sull’andamento del settore immobiliare statunitense, né i tonfi a ripetizione della produzione industriale e neppure i crolli del prodotto interno lordo della maggior parte dei paesi industrializzati, notizie rispetto alle quali gli alquanto drogati mercati azionari replicano con poco più che un’alzata di spalle, una reazione che è meno possibile quando la secchiata di acqua gelida sugli ottimisti a un tanto al chilo viene direttamente da Bernspan e dai suoi complici, cioè dal cuore stesso di quel sistema della riserva federale che ha inondato letteralmente i mercati di liquidità e ha portato i tassi interbancari ufficiali atre mesi in uno strettissimo corridoio compreso tra lo zero e lo 0,25 per cento.

Ebbene, cosa ha pensato bene di comunicare la banca centrale a stelle e strisce agli operatori, agli analisti, agli investitori? Nient’altro che si erano un po’ sbagliati e che le stime per l’anno in corso vanno viste al ribasso, così come le previsioni per il 2010, revisioni molto significative per il prodotto interno lordo a stelle e strisce, per il tasso di disoccupazione, mentre il tasso di inflazione continua a non destare soverchie preoccupazioni, indicazioni che, tradotte in termini di politica monetaria, stanno a indicare che per molto tempo ancora non ci si discosterà dalla pratica dei tassi nominali a zero e di quelli reali abbondantemente al di sotto di tale livello.

Ma Bernspan, in perfetta sintonia con quanto stava dicendo nella stessa giornata di ieri il nuovo ministro del Tesoro, non se l’è sentita proprio di continuare a propalare ai quattro venti la tavoletta delle banche oramai fuori pericolo, anche perché le prove di resistenza alle quali ha appena sottoposto le prime diciannove entità operanti nel mercato finanziario statunitense e quello un po’ più artigianale condotto per conto del Wall Street Journal su novecento banche di varia dimensione hanno evidenziato che occorrono almeno 767 miliardi di dollari di nuova capitalizzazione soltanto per stare relativamente tranquilli, così come è chiaro a tutti che ci si aspetta che queste somme vengano sborsate dagli azionisti, non fosse altro che per il fatto che dei 700 miliardi del TARP non è rimasta che una disponibilità di poco superiore al dieci per cento e che la stessa è stata appena prenotata dalle sei compagnie di assicurazione ammesse alla spartizione!

D’altra parte, sia che la Fed che il Tesoro hanno dato poche settimane alle dieci banche di grandi dimensioni giudicate sottocapitalizzate per predisporre le relative modalità, ponendo una deadline al 6 giugno per annunciare le stesse al mercato, anche se quella vecchia volpe di Lewis, CEO di Bank of America nel mirino dei consulenti di Obama, ha bruciato tutti sul tempo, annunciando ieri di avere già raccolto poco meno di 14 dei 34,9 miliardi di dollari necessari, un’operazione che è iniziata in sordina due settimane orsono, in sorprendente coincidenza con la costosissima uscita del fondo governativa di Singapore Temasek, che dal duplice investimento su Merrill Lynch, poi fusa in BofA, ha lasciato sul terreno poco meno di 5 dei 7,6 miliardi investiti, una tempestività quantomeno sospetta e che fa pensare che abbiano ‘intuito’ che sarebbero stati chiamati a mettere nuovamente mano al portafoglio, un’ipotesi che ha spinto i suoi massimi dirigenti e forse lo stesso Governo della piccola città-stato a levare precipitosamente le tende dal colosso creditizio statunitense.

Ovviamente, l’esempio di BofA è stato seguito, in qualche caso anche preceduto, da altre entità di minori dimensioni, ed è facile ipotizzare che, nei prossimi mesi, vi sarà un affollamento di richieste al mercato, in quanto alle croniche necessità del Tesoro si sommeranno gli aumenti di capitale ‘spintaneamente’ decisi dalle banche appartenenti a entrambi i campioni messi sotto esame, un affollamento che non promette nulla di buono sia alla luce dell’andamento non esaltante delle aste, sia per la crescente ritrosia mostrata dagli azionisti vecchi e nuovi rispetto all’ipotesi di acquistare, seppure a prezzi stracciati, ulteriori azioni di banche e compagnie di assicurazioni, una situazione che ha già costretto la Fed a venire più volte in soccorso del Tesoro, mentre è da segnalare il fatto che, per la prima volta nella sua storia, l’India ha deciso di sottoscrivere titoli del Tesoro statunitense per 20 miliardi di dollari.

A complicare ulteriormente il problema del soddisfacimento delle crescenti esigenze del Tesoro a stelle e strisce è venuta poi la nuova politica seguita dagli accorti gestori della ingente liquidità cinese, che stanno sempre più operando come venditori dei Treasury Bonds a scadenze più lunghe e come acquirenti dei ben poco remunerativi, ma certamente meno impegnativi, Treasury Bills, un comportamento, quello dei gestori cinesi, che sta destando molta preoccupazione nelle autorità monetarie statunitensi che sanno benissimo che il 2009 sarà un anno difficilissimo sul piano della concorrenza tra gli Stati posti sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, per il semplice motivo che vi saranno emissioni per migliaia di miliardi di dollari destinate, più o meno, agli stessi soggetti, investitori istituzionali e semplici investitori, che non sembrano del tutto entusiasti della prospettiva.

Non mi sono intromesso nell’ennesima diatriba che ha visto protagonista il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che, apparentemente ignaro di essere seduto a fianco del presidente dell’Associazione bancaria italiana, Corrado Faissola, in occasione del Liquidity Day, non ha perso l’occasione per attaccare violentemente i banchieri nostrani, rei, a suo avviso, di pensare più al proprio look che alle esigenze delle loro stesse banche, figuriamoci poi del Paese, nonché di non avere capito la bontà dello strumento che porta il suo nome, quasi non avesse memoria alcuna dei giudizi pesantissimi che, come singoli e come associazione, gli stessi banchieri avevano riservato ai Tremonti Bonds, un giudizio che non era mutato di molto neppure dopo che erano state apportate alcune modifiche volute proprio dall’ABI, anche se fa piacere sapere che, poco prima della solenne riunione, Alessandro profumo aveva deciso di rompere gli indugi e di prenotare due dei dodici miliardi di euro messi gentilmente a disposizione da Giulio!

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giovedì 21 maggio 2009

Sospetti di insider trading sulla strana uscita di Temasek da Bank of America!


Seppur dopo aver apportato significative modifiche rispetto al testo originario votato nei giorni scorsi dalla camera dei Rappresentanti, il Senato degli Stati Uniti d’America ha inferto a larghissima maggioranza, 90 a 5, un colpo quasi mortale al sino a ieri lucrosissimo settore delle carte di credito, in particolare di quelle a pagamento rateale, prevedendo maggiori e più stringenti limiti alla pratica molto diffusa di alzare in maniera molto significativa il tasso di interesse in presenza di ritardi anche minimi nel pagamento delle relative rate, una pratica difesa a spada tratta dalla potentissima associazione bancaria a stelle e strisce e dalla pletora di abilissimi lobbisti che, almeno stavolte, sono stati costretti ad alzare bandiera bianca.

Per avere un’idea della portata del provvedimento, che entro stasera potrebbe essere firmato dal nuovo inquilino della Casa Bianca se l’altro ramo del Congresso procederà per tempo alla ratifica, basti pensare che si tratta della prima misura concreta in favore dei consumatori presa dopo oltre ventuno mesi di tempesta perfetta, in quanto, dopo innumerevoli prese di posizione ufficiali, siamo ancora a carissimo amico per il tanto atteso sblocco della possibilità di rinegoziare i mutui contenenti le cosiddette clausole capestro, mentre non risultano agli atti altre misure volte a limitare le attività di esproprio delle abitazioni e dei beni durevoli più o meno durevoli acquisiti mediante l’utilizzo delle svariate forme di credito al consumo da parte delle banche e delle finanziarie che hanno concesso il prestito.

L’approvazione della legge è stata, peraltro, salutata con estremo favore dal nuovo ministro del Tesoro statunitense, Timothy Geithner, che nel suo intervento al Senato ha sostenuto la necessità di adottare nuove regole volte a tutelare maggiormente i clienti utilizzatori di finanziamenti rispetto alle ampie possibilità attualmente previste in favore dei creditori, il che suona poco meno che una bestemmia rispetto all’approccio protestante che vede la necessità della punizione di chi adotta comportamenti non del tutto giudiziosi e responsabili nella gestione del proprio bilancio familiare, comportamenti che, almeno sino a qualche anno orsono, erano oggetto della riprovazione della maggioranza dei cittadini statunitensi, molto spesso ignari della vera e propria ragnatela di clausole scritte in piccolo nei contratti che il richiedente il prestito dichiarava volentieri di conoscere pur non avendoli spesso mai visti!

Ma in queste ore i vertici delle diciannove maggiori entità protagoniste del mercato finanziario statunitense sono certamente molto più preoccupati per l’assordante tam tam che preannuncia il passaggio alla linea dura della nuova amministrazione, sinora restia a chiedere radicali cambi al vertice delle banche e delle compagnie di assicurazione di fatto salvate dai massicci interventi pubblici, una sorta di benign neglect che sembra oramai destinato a lasciare il posto a un approccio molto più decisionista da parte di Obama e di Geithner, entrambi ben consapevoli della sete di sangue nutrita dalla maggioranza della popolazione nei confronti di quelli che,a torto o a ragione, vengono ritenuti i maggiori responsabili del meltdown finanziario attuale e delle sempre più gravi conseguenze per il reddito e l’occupazione delle donne e degli uomini della più potente nazione del pianeta, un’insofferenza e un’ostilità accresciutesi di molto dopo la ‘scoperta’ delle erogazioni di bonus per decine e decine di miliardi di dollari avvenute anche con riferimento all’orribile esercizio 2008, erogazioni avvenute anche in banche o compagnie di assicurazione tecnicamente fallite e salvate solo da interventi massici da parte del Tesoro e della Fed.

Il nuovo vento che spira con sempre maggiore intensità a Washington e dintorni è una delle ragioni principali della fretta nutrita da un numero rilevante di banche nel ripagare al più presto quanto ricevuto nell’ambito del TARP approvato da un Congresso terrorizzato nell’ottobre dell’anno scorso, un’iniziativa non del tutto disinteressata che vede in prima fila la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, soprattutto da quando, in sede di effettuazione dello stress test, si è non solo scoperto che l’ex investment bank godeva di una ‘piscina di liquidità’ per oltre 150 miliardi di dollari, ma che godeva di tale ampia disponibilità liquida anche quando fu ritenuta meritevole di finanziamenti pubblici per una decina di miliardi di dollari, una somma con la quale sarebbe stato possibile salvare almeno la metà delle decine di banche fallite nei primi mesi del 2009.

Le richieste di restituzione delle somme ricevute nell’ambito del programma di salvataggio da 700 miliardi di dollari si stanno moltiplicando al punto che la presidentessa della Federal depositi Insurance Corporation, Sheila Bair, ha dovuto chiarire che le restituzioni avverranno solo mediante una procedura ufficiale che stabilirà se e quando le banche potranno restituire al mittente quanto ricevuto, anche perché la sopraccitata FDIC faceva molto conto sui flussi derivanti dalle preferred shares per rimpinguare le proprie casse e avere quindi maggiori disponibilità per pilotare i salvataggi di quelle stesse banche di medie e piccole proporzioni che una recente indagine commissionata dal Wall Street Journal vede fortemente sottocapitalizzate, una triste realtà che, come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, riguarderebbe i due terzi delle novecento banche di piccole e medie dimensioni facenti parte del campione, seicento banche che necessitano di iniezioni di capitale per 200 miliardi di dollari entro la fine dell’anno in corso.

Nel tentativo di sottrarsi alle crescenti pressioni che vorrebbero togliergli anche la carica di CEO dopo che una mozione assembleare gli ha già sottratto quella di Chairman, Dick Lewis ha bruciato i tempi e ha raggranellato in sole due settimane ben 13,5 miliardi di dollari, mediante l’emissione di 1.250 milioni di azioni al prezzo di 10,77 dollari cadauna, un prezzo che spiega bene i motivi che hanno spinto il fondo governativo di Singapore, Temasek, ad abbandonare la partita con una perdita di 4,7 miliardi di dollari su 7,6 miliardi di investimento, una mossa molto saggia e fatta pochi giorni prima della nuova diluizione del capitale sociale annunciata solo ieri!

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mercoledì 20 maggio 2009

Per il WSJ, alle banche USA servono 766 miliardi di dollari: e a quelle europee?


A volte la verifica di una previsione richiede tempi talmente lunghi che quando avviene pochi ricordano che è stata fatta, per non parlare poi dell’amnesia più o meno collettiva rispetto a chi ne è stato l’autore, un lag temporale al quale è abituato chiunque si diletti in questa attività, ma che si è verificato solo in parte nel caso delle puntate del Diario della crisi finanziaria dedicate al sempre più probabile fallimento di Lehman Brothers, l’ultima delle quali, “Lehman is the next?”, precedette solo di due settimane la consegna, in una calda serata di metà settembre dell’anno scorso, dei libri in tribunale da parte di uno stremato e sconfitto Richard Fuld, uno che ancora oggi non riesce a capire, ma in questo caso è in buona compagnia, per quale motivo il trio Bush-Paulon-Bernspan decise per il pollice verso solo per la ‘sua’ banca.

Ma devo confessare che non mi era mai capitato di assistere a una realizzazione pressoché istantanea di una previsione, peraltro largamente controcorrente, come è capitato nel caso della puntata apparsa ieri e che metteva in guardia i lettori dalle facili e un po’ strampalate ventate di ottimismo sulla fine del meltdown immobiliare statunitense, un ottimismo molto diffuso e che nella giornata di lunedì aveva tratto ulteriore alimento da due dati minori e neanche troppo affidabili e che, già nel pomeriggio di ieri, è stato letteralmente spazzato via dalla diffusione del dato relativo alle nuove case e ai nuovi permessi di costruzione, entrambi piombati al di sotto delle 500 mila unità annualizzate e che, per quanto riguarda le nuove case realizzate, evidenzia un tasso di crescita così basso come non si vedeva da ben mezzo secolo.

Per quanto riguarda le case di nuova costruzione, il calo è superiore al 12 per cento se si considerano insieme le case indipendenti e gli appartamenti realizzati in condomini, ma sezionando il dato si scopre che la seconda tipologia di abitazioni, quella che peraltro aveva retto meglio negli ultimi mesi, ha subito un crollo verticale che si è fermato solo di poco al di sotto del 50 per cento (46 per cento, per la precisione), mentre le case cosiddette individuali hanno registrato un piccolissimo incremento.

La soddisfazione del previsore è, tuttavia, sovrastata dalla delusione che io stesso provo per l’allontanarsi per molto tempo ancora della cosiddetta luce in fondo al tunnel della recessione che, almeno sul piano statistico, dura oramai da diciotto mesi, appena meno della tempesta perfetta che, a questo punto è pressoché certo, non avrà difficoltà alcuna a festeggiare il proprio secondo compleanno senza avere perso nemmeno una parte della sua virulenza iniziale.

Se qualcuno dovesse credere che l’ennesimo insuccesso degli ottimisti a un tanto al chilo li dissuaderà dall’esimersi dal praticare questo insensato sport, temo verrà deluso, anche perché questi imbonitori alquanto prezzolati non hanno mai guardato troppo per il sottile, né si sono mai curato troppo della loro già molto esile reputazione, così come non sono noti per prendere in considerazione l’amaro corollario della favola del bambino che gridava di continuo al lupo, al lupo, un’indifferenza dovuta al fatto che rarissimamente sono stati chiamati a pagare pegno e che pensano, in questo caso in perfetta buonafede, che prima o poi il commento che faranno annuncerà la tanto sospirata ripresa!

Se pensate che questa ennesima secchiata di acqua fredda sugli entusiasmi degli analisti e dei commentatori alquanto embedded alle logiche del capitale finanziario abbia determinato sfracelli sui mercati azionari statunitensi e, per quel che restava della giornata di contrattazione, sui mercati europei, ebbene vuole dire che non avete ancora capito quello che sta accadendo da almeno tre mesi a Wall Street e dintorni, mercati che vedono gli investitori/risparmiatori in posizione del tutto marginale rispetto al ruolo centrale giocato dagli investitori istituzionali e dalle principali entità protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce e di quelle entità straniere ma aventi operatività a livello più o meno globale.

Per avere un’idea, anche vaga, di quanto sta avvenendo, può essere utile dare uno sguardo a quanto riporta il Wall Street Journal, il quotidiano che da oltre un anno e mezzo si è trasformato nel giornale di bordo della flotta finanziaria alle prese con i sempre più alti marosi della tempesta perfetta e che, non fidandosi appieno dell’operazione stress test condotta da Geithner e dal sistema della riserva federale sulle prime diciannove banche, ha deciso di appaltare in proprio un’indagine similare sulle 900 istituzioni creditizie di medie e piccole dimensioni e dalla quale emerge che 600 di queste banche non hanno superato il test e che avrebbero quindi bisogno, entro il dicembre di quest’anno di capitali aggiuntivi per 200 miliardi di dollari, in gran parte legati alle probabili insolvenze dei mutuatari, ma anche connesse ad altri rami dell’attività creditizia.

Non che le cose siano andate bene nel test ufficiale condotto dalle autorità monetarie statunitensi sulle prime diciannove entità, non fosse altro che per il fatto che è emerso che dieci di queste, in particolare Bank of America e Wells Fargo, abbisognerebbero, ove si realizzasse lo scenario peggiore previsto dal test, di capitali aggiuntivi per 566 miliardi di dollari, un decimo dei quali riferiti soltanto alle due grandi banche menzionate di sopra, poco meno di 35 miliardi per la sola Bank of America, 13,6 miliardi, invece, nel caso di Wells Fargo.

L’idea balenata nell’ambito della Commissione europea di procedere a un analogo esperimento per le principali istituzioni finanziarie poste al di qua e al di là della Manica sembra un’idea tutt’altro che peregrina, anche perché servirebbe a comprendere meglio i motivi per i quali gli economisti del Fondo Monetario Internazionale attribuiscono perdite maggiori alle banche europee rispetto a quelle americane, 1.200 miliardi di dollari contro poco più di 1.000, nonché a fugare le voci che circolano sull’ammontare dei titoli tossici che tuttora gravano sui bilanci delle banche del Vecchio Continente!

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martedì 19 maggio 2009

La tempesta perfetta non si placherà finché continuerà lo sciopero degli investitori!


Quella vissuta ieri sui mercati finanziari internazionali, eccezion fatta per l’Asia per mere ragioni di fuso orario, sarà certamente una giornata da ricordare in questa fase della tempesta perfetta che, non del tutto a caso, è stata battezzata la corsa dell’orso, anche se qualcuno l’ha definita molto malignamente il rimbalzo del consiglio morto ove lo stesso povero animale venga gettato sul pavimento.

Dopo un’apertura non certo esaltante sui mercati azionari europei, influenzati dalla brutta chiusura di venerdì a Wall Street e dalla performance negativa del Nikkei e di altri mercati asiatici, tutto è improvvisamente cambiato con l’apertura di New York, segno che il week end aveva portato consiglio ai molto timorosi operatori che hanno trovato in dati negativi ma migliori del previsto lo spunto per riprendere a convincersi che, tutto sommato, il peggio poteva essere considerato alle spalle e che bisognava mettersi a comprare al più presto.

Ho fatto una certa fatica a comprendere il buono che c’era nelle notizie che tanto hanno ispirato gli operatori, ma credo che il fatto che importanti catene composte da negozi legati ai piccoli lavori che ognuno di noi può, se ne ha la voglia, fare a casa propria abbiano segnalato, nel primo trimestre, profitti inferiori di ‘solo’ il 22 per cento rispetto a quelli relativi allo stesso periodo dell’anno precedente sia stato visto come un segnale di ripresa del settore immobiliare ed edilizio, quello che da poco meno di due anni segnala una situazione terrificante, un collegamento che è sembrato rafforzarsi con il picco toccato dalle aspettative dei costruttori, o almeno di quelli che non sono ancora falliti!

Non sono un esperto in materia, ma credo proprio che sia il caso di interrogarsi sull’improvviso ritorno del fai da te nelle case americane, un segnale più della volontà di non pagare coloro che questi lavori li svolgono professionalmente che di un ritrovato amore per il bricolage, una volontà che pare molto più dettata dalla necessità e dallo stato non proprio esaltante delle finanze di un rilevante numero di famiglie americane, molte delle quali la casa l’hanno persa e continuano a perderla al ritmo di 340 mila al mese nell’ultimo bimestre, mentre poco meno di sei milioni di donne e di uomini hanno perso il lavoro, mentre più o meno altrettanti hanno dovuto accettare di lavorare a part time non per una scelta di vita ma solo per non perdere del tutto il lavoro.

Credo proprio che, al di là del poco meno che inconsistente pretesto, vi sia in giro una voglia irresistibile di fare finta che sia possibile risolvere i problemi attuali semplicemente ignorandoli, anche perché le ultime informazioni sulle procedure di esproprio, l’apertura di nuovi cantieri, le vendite di case nuove o ‘usate’ sono decisamente pessime, così come non si capisce che fine abbiano fatto i progetti della nuova amministrazione statunitense volti ad aggredire la causa principale del meltdown immobiliare, le clausole particolarmente onerose di cui sono infarciti i mutui subprime e i micidiali ARM, mediante un’opportuna rinegoziazione dei contratti, un’ipotesi fortemente avversata dalle banche, sì anche da quelle che hanno ricevuto soldi dei contribuenti per 45 miliardi di dollari cadauna, Citigroup e Bank of America tanto per non fare nomi, nonché sono state alleggerite di titoli più o meno tossici della finanza strutturata per svariate centinaia di miliardi di dollari, aiuti che erano strettamente collegati sia al mantenimento di flussi adeguati di credito all’economia sia all’ impegno di venire incontro ai mutuatari in difficoltà.

E’ evidente come quella che stiamo attraversando sia forse la fase più delicata della tempesta perfetta, non fosse altro che perché è oramai chiaro che sia i governi che le banche centrali hanno dato fondo a tutte le risorse a loro disposizione, in realtà molto, ma molto di più delle stesse, il che implica che ora bisogna solo aspettare la risposta degli operatori e dei risparmiatori/investitori, una risposta che viene anticipata dalle cosiddette mani forti presenti nel mercato finanziario, ma che non sembra ancora all’altezza delle aspettative dei leaders politici e dei regolatori.

Se, come ha efficacemente ricordato Obama, manca più o meno metà del mercato finanziario, è davvero difficile che questi continui tentativi di fare partire l’auto a spinta possano avere successo per più di qualche seduta, perché, come ben sanno sia il nuovo inquilino della Casa Bianca che i suoi prestigiosi consiglieri, continueremo a galleggiare nella situazione attuale fino a che gli investitori istituzionali e quelli al dettaglio non decideranno di riprendere a fidarsi dei titoli della finanza più o meno strutturata emessi sia dalle banche che dalle imprese di ogni ordine e grado, lo stesso infernale meccanismo che ci ha portati al disastro attuale e che rappresenta l’altra e indispensabile faccia del tanto vituperato effetto leva.

Come ben sanno i miei lettori, le vere cause della tempesta perfetta oramai entrata nel suo ventiduesimo mese di vita risiedono proprio in quel meccanismo che replicava per un numero ennesimo di volte l’erogazione di un credito, liberando in tempi rapidissimi il finanziatore dal rischio connesso al prestito erogato, un prestito che finiva in titoli più o meno complessi che, a loro volta, consentivano di mettere in piedi altre operazioni più o meno derivate, un meccanismo perverso che veniva facilitato sia dalla globalizzazione dei mercati che da quella deregolamentazione selvaggia che aveva fatto saltare gli ultimi paletti posti da legislatori del passato che avevano tratto in qualche modo qualche lezione dall’esperienza della Grande Depressione.

Poiché è difficilmente ipotizzabile che gli investitori possano essere convinti con la forza a mettere i proprio soldi in questo meccanismo, l’unica ipotesi realistica per il futuro non può che replicare quanto è avvenuto, e sta ancora avvenendo, in Giappone dopo lo scoppio della bolla immobiliare e di quella azionaria nell’oramai lontano 1989, una stagnazione dell’economia che dura da un ventennio e che si accompagna ad una ricchezza finanziaria pro capite che ha pochi eguali al mondo!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog