martedì 31 maggio 2016

I dolori del giovane Cameron


Appena reduce da un G7 in Giappone dove ha trovato molta solidarietà nei leader mondiali rispetto alla sua battaglia per mantenere il Regno Unito nell'Unione europea e dopo lusinghieri sondaggi che dicono che la maggioranza dei sudditi della novantenne Elisabetta seconda sono dalla sua stessa parte, David Cameron ha scoperto al rientro in patria che un numero imprecisato di parlamentari del partito conservatore sta tramando per defenestrarlo anzitempo, dopo non aver colto l'occasione quando Cameron risultò coinvolto nei Panama Papers.

Questa notizia, che indica implicitamente l'ormai svanita possibilità di liquidare il leader conservatore tramite Brexit, sta ridando fiato alla sterlina che aveva perso molto terreno contro euro e contro dollaro quando il risultato del referendum del 23 giugno sembrava molto più incerto e sta interrompendo quello sciopero degli investimenti che gli industriali hanno messo in atto da qualche mese in attesa che lo scenario divenga più chiaro e si chiarisca se l'orizzonte della Gran Bretagna è quello dell'Unione a 28 paesi o quello, molto più angusto e procelloso, degli angusti confini nazionali, con il rischio connesso di un secondo referendum per l'uscita della  Scozia dal Regno Unito e contestuale richiesta di ammissione dalla UE da parte dell'ex regno di Maria Stuarda.

In pochi casi come in questa campagna referendaria, il mondo intero ha fatto a gara nell'interferire, a mio avviso giustamente, in una competizione elettorale interna a un Paese, anche se la più clamorosa è stata quella del presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama, che, in visita a Londra, ha apertamente ammonito i cittadini britannici dal votare per far uscire la Gran Bretagna dall'Unione, una sortita che ha fatto diventare ancora più rosso il viso di Boris Johnson, quell'ex sindaco di Londra che viene visto come l'ispiratore dell'attuale complotto in corso per rovesciare David Cameron e prenderne il posto.

Ma Obama non è stato il solo a intervenire a gamba tesa nell'agone elettorale britannico, allo scopo si sono prodotti anche i vertici dell'Unione europea, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, più o meno tutti i leader dei paesi europei che contano e chi più ne ha più ne metta. Una serie di doccia fredde sui cittadini britannici che hanno fatto prevalere gli inviti a ragionare sullo status speciale di cui godono nell'ambito della UE, inviti fatti dalla Confindustria nazionale, dalle banche e dalla City nel suo complesso, un coro che sembra non avere mai fine e che ripeteva Remain, Remain.

Do molto credito ai sondaggi, ma credo proprio che dovremo aspettare la sera del 23 giugno per dire la parola fine su questa vicenda!

lunedì 30 maggio 2016

E se la Federal Reserve spostasse l'aumento dei tassi a dicembre?


Si fa un gran parlare dell'autonomia delle banche centrali dalla politica e dagli interessi nazionali, ma un breve volgere all'indietro lo sguardo sulle vicende dell'ultimo mezzo secolo rivela che questa convinzione è né più né meno che una superstizione, basti vedere quello che la banca centrale statunitense sotto la guida di Bernspan, al secolo Ben Bernanke, ha fatto durante gli anni più bui della tempesta perfetta e quello che il suo predecessore e Maestro Alan Greenspan fece ai tempi dello scoppio della bolla speculativa azionaria, quella del Nasdaq se la ricordate, inondando letteralmente di liquidità i mercati dopo la rottura impetuosa del listino tecnologico dal livello di 5.000 punti che poi è quello attorno al quale sta ondeggiando da qualche mese.

Ma non è che in Europa, Gran Bretagna compresa, e in Asia si scherzi su questo, con una politica dei tassi a zero e sottozero che è tutta rivolta a far partire più che lo sviluppo l'inflazione, anche se i risultati in tal senso sono del tutto sconfortanti, al punto da far dire a Supermario e compagni che, senza i loro interventi, chissà dove sarebbe gli indici dei prezzi all'ingrosso e quello dei prezzi al consumo.

L'attuale presidente della Fed, una signora dai modi tranquilli e che risponde al nome di Yellen, è cresciuta alla scuola di Greenspan prima e di Bernspan poi ed è usa a sentire il canto delle sirene di Washington e a far di tutto per non innescare un brusco voltafaccia dei mercati prima delle combattutissime elezioni presidenziali di novembre, elezioni nelle quali le uniche speranze di Hillary Clinton risiedono nel fatto che la congiuntura economica sia favorevole, con il tasso di disoccupazione ai minimi storici e vicino a quella che viene definita disoccupazione frizionale (composta per lo più da persone che non hanno intenzione di trovare un lavoro), con le borse vicine o al di là degli attuali massimi storici e poco importa se uno speculatore puro come George Soros sta scommettendo sulla caduta del più importante indice azionario statunitense lo Standard&Poor's 500!

Ma anche se dovesse andare come dico nel titolo, ciò non verrebbe visto come un problema dal Federal Open Market Committee della Fed, l'organismo decisionale della banca centrale americana, organismo il quale, o meglio i suoi componenti a turno, alternerebbero doccia fredde e calde per far capire che il tanto temuto rialzo dei tassi è più lontano o più vicino e, comunque, gli osservatori specializzati (i cosiddetti Fedwatchers) hanno già spostato la data più probabile per la ferale decisione da giugno a settembre.

venerdì 27 maggio 2016

Lo Stato italiano diverrà il primo azionista del Monte dei Paschi di Siena?


In una recente intervista a Bloomberg, il vice ministro dell'Economia, Enrico Morando, ha ventilato l'ipotesi che il pagamento degli ultimi interessi sui Monti Bond per 4 miliardi di euro ricevuti dalla banca senese nel 2012 e interamente rimborsati al Tesoro potrebbe essere pagata in azioni invece che in denaro e questo porterebbe lo Stato italiano a passare dal 4 al 7 per cento del capitale dell'un po' disastrato Monte dei Paschi di Siena, diventandone così il primo azionista in una fase non proprio felice della banca guidata dal bravissimo Fabrizio Viola ma ancora gravata da Non Performing Loans per una cifra che, secondo il Financial Times si aggira sui 40 miliardi di euro e che ha suscitato l'attenzione della vigilanza europea presso la BCE e richiederà senz'altro misure straordinarie per essere  affrontato in tempi non biblici.

Agli attuali corsi di borsa, l'operazione si presenta sicuramente come un affare, ma denota innanzitutto, come ha sostenuto nell'intervista citata lo stesso Morando, la volontà dell'esecutivo italiano di cooperare al rafforzamento del gruppo senese, rappresentando al contempo un atto di fiducia nell'operato dei vertici che hanno preso il posto di quelli precedenti e sotto inchiesta della magistratura con accuse molto pesanti legate a una fase molto oscura del gruppo che ha visto anche la morte ancora inspiegata del giovane direttore della comunicazione di MPS.

Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria, parlavo del Veneto come buco nero del credito in Italia, ebbene gran parte delle imputazioni di Mussari e compagni nascono proprio dalle operazioni messe in piedi per nascondere il buco, o la voragine, aperti nei conti in precedenza solidi del gruppo creditizio senese dalla sciagurata e rapidissima acquisizione della Banca Antonveneta che il Banco Santander aveva acquisito dall'olandese ABN Amro per rivenderla in tempo reale al Monte dei Paschi di Siena con plusvalenza miliardaria, le famose operazioni Alexandria e Santorini, la prima delle quali ha pesato ancora sui conti del 2015 della banca senese e non se in via definitivamente risolutiva.

Ebbene, quell'acquisizione non è stata molto costosa, ma ha coinvolto anche il Monte dei Paschi di Siena in una zona d'Italia che proprio in quel momento stava vedendo esplodere il fenomeno dei Non Performing Loans e quindi la banca si è trovata di fronte, contemporaneamente, a un deflusso di depositi e ad un aumento degli incagli in una zona del Paese che da locomotiva dell'economia si trasformava nello scenario dei capannoni vuoti e dei capitali degli imprenditori spesso fuggiti all'estero, il tutto con conseguenze disastrose  per la banca e con l'unico corollario felice dell'uscita di scena della omonima Fondazione!


giovedì 26 maggio 2016

Il male oscuro di Unicredit


Come era largamente previsto e come avevo anticipato in diverse puntate del Diario della crisi finanziaria, nel corso del consiglio di amministrazione straordinario del colosso creditizio italiano Unicredit svoltosi martedì scorso, l'amministratore delegato del gruppo, Federico Ghizzoni, ha annunciato la sua disponibilità a rassegnare le sue dimissioni prontamente accettate dai consiglieri che hanno dato mandato al presidente, anche lui in odore di uscita, di trovare un nuovo numero operativo entro la riunione del 9 giugno del CdA, anche se, a quanto si sa, il candidato sarebbe già stato individuato nelle convulse giornate che hanno preceduto il passo indietro del non troppo rimpianto Ghizzoni.

Ma perché Unicredit cambia in corsa il proprio Chief Executive Officer? La risposta è presto detta, in quanto, sotto attacco da parte delle donne e degli uomini che rispondono agli uomini che rispondono agli ordini di Daniele Nouy, capo della vigilanza bancaria europea presso la Banca Centrale Europea, la resistenza di Ghizzoni a procedere al rafforzamento patrimoniale per 5-7 miliardi di euro e la sua ostinazione a trovare misure alternative sotto forma di alienazioni di pezzi dell'impero internazionale del gruppo di Piazza Cordusio sono state giudicate dai soci non più proponibili e di qui la ricerca di un nuovo numero uno più obbediente alle scelte dei soci stessi che tutto vogliono meno che trovarsi in un conflitto con la Nouy e il suo braccio destro operativo che chiedono alla banca di passare dal coefficiente patrimoniale del 10,5 per cento a quello più solido del 12,25, misura già prevista per la Deutsche Bank.

Ma perché la Nouy chiede ai due gruppi creditizi di stare circa due punti percentuali sopra i requisiti patrimoniali previsti dalla normativa vigente nell'eurozona? Mai si sono viste ragioni più divergenti per un identico risultato. per il colosso tedesco sono legate all'enorme esposizione in derivati e titoli più o meno tossici, rischi sui quali mi sono già soffermato diffusamente in passato, mentre per la banca italiana la ragione è duplice ed è data da un lato alla rilevante esposizione in Non Performing Loans e, dall'altro, nei rischi finanziari, ma anche geopolitici, legati alla presenza in decine di paesi diversissimi tra di loro, con posizioni importanti in Germania, dove Unicredit possiede la quarta e un po' traballante banca tedesca, in Austria e in numerosi paesi dell'Est europeo, in particolare in Polonia con Banca Pekao in procinto di essere ceduta pur essendo un'importantissima banca che fa  un agguerrita e a volte vincente concorrenza alle banche tedesche attivamente operante in quel dinamico paese!

Se la mia lettura degli avvenimenti è giusta, vedremo nelle prossime settimane passi importanti di Unicredit in direzione dei desiderata della vigilanza bancaria europea e non è escluso che si assisterà ad un mix tra aumento di capitale e dismissioni.

mercoledì 25 maggio 2016

Il Veneto è davvero il buco nero del credito!


Nella puntata del 13 maggio, avevo titolato: Il Veneto è il buco nero del credito? riferendomi alle quattro grandi banche operanti nella regione caratterizzata un tempo dall'economia più dinamica d'Italia, delle quattro tra hanno sede nella regione (Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e, the last but not the least, quel Banco Popolare che presto convolerà a nozze con la Banca Popolare di Milano, previo un aumento di capitale da un miliardo di euro), mentre la quarta, il Monte dei Paschi di Siena, ha sede altrove ma ha acquisito i dolori della Banca Antonveneta per la modica cifra di poco meno di dieci miliardi di euro.

Sul Corriere della Sera di ieri, Federico Fubini ha pubblicato i risultati di una approfondita inchiesta sul credito nella regione Veneto e ha spiegato che ad avere i conti a pezzi sono ben tredici banche con sede nella regione, la maggior parte di piccole e medie dimensioni, banche che diventano quattordici includendo, come è doveroso, il Monte dei Paschi e ha anche chiarito che il meccanismo che ha portato a piazzare azioni non quotate a prezzi stratosferici seguito dalla Banca Popolare di Vicenza (in questo caso si è già avuta la prova della verità con il valore originario dell'azione di 62 euro passato, in sede di aumento di capitale, a 10 centesimi) e Veneto Banca, ebbene questo stesso metodo è stato seguito da quella Crediveneto, messa recentemente dalla Banca d'Italia in liquidazione coatta amministrativa, che ha convinto migliaia di clienti della banca, e moltissime imprese spesso in cambio di aperture di credito, a sottoscrivere azioni che oramai sono carta straccia.

L'elenco delle banche venete fallite e solo in alcuni casi salvate da concorrenti non sempre con sede nella regione è lungo e, anche se si tratta di realtà creditizie nella maggior parte piccole, il danno per il rapporto tra clientela e sistema bancario è bello che fatto, un danno che non è ancora perfettamente quantificato perché viene da chiedersi quanti dei 125 miliardi di crediti erogati torneranno realmente a casa, anche perché le normative italiane sulla classificazione delle sofferenze sono ancora troppo elastiche, non vigendo da noi e in Europa il principio statunitense secondo il quale un credito si trasforma in perdita dopo pochi mesi di insoluti.

Ma anche stando ai dati ufficiali, abbiamo sofferenze pari a svariate decine di miliardi di euro, a fronte dei quali spesso non ci sono garanzie di nessun tipo e il cui valore è persino inferiore a quel 20 per cento che viene corrisposto in sede di acquisizione di sofferenze da parte degli operatori specializzati, per non dire che con gli aumenti di Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Banco Popolare le disponibilità del Fondo Atlante previste a questo scopo sono pressoché finite.

martedì 24 maggio 2016

Il G7 avverte i britannici sulla Brexit


Sembra proprio che la riunione dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del gruppo dei sette paesi maggiormente industrializzati riunito nel week end in Giappone non avesse altra preoccupazione che quella della scelta che i sudditi della novantenne Elisabetta seconda faranno il prossimo 23 giugno tra l'opzione di restare, remain, nell'Unione europea e quella di uscire, leave, dall'augusto consesso che riunisce 28 paesi in molti casi molto diversi tra di loro per struttura economica, cultura, assetto politico e chi più ne ha ne metta.

Dalla riunione giapponese è venuto uno scenario di sciagure per il Regno Unito, che poi tanto non lo sarebbe visto che la Scozia già prevede nel caso un secondo referendum per lasciare l'unione e chiedere l'ammissione all'Unione europea, con conseguenze ferali sul prodotto interno lordo e una svalutazione della sterlina stimabile tra il 15 e il 20 per cento, un aumento del tasso di disoccupazione e un forte impatto sulla già strutturalmente deficitaria bilancia commerciale, tutte eventualità che avevo segnalato nella puntata del Diario della crisi finanziaria dedicata all'argomento,  esclusa una svalutazione  così massiccia della sterlina.

Ma questo intervento a gamba tesa dei potenti della terra sulla libera scelta di una grande nazione, intervento ovviamente fortemente caldeggiato dalle autorità monetarie britanniche presenti all'incontro e dai rappresentanti della Unione europea per non parlare del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ben presente al centro della foto di gruppo dell'incontro e pressione gradita da tutti gli altri partner presenti rischia di arrivare tardi, perché la partita sembra già decisa in favore della permanenza e ben lo testimonia il forte recupero della sterlina nei giorni scorsi (con un euro si acquistavano 81 centesimi di sterlina poche settimane fa e ora se ne ricevono poco più di 77 centesimi).

Infatti, tutti i sondaggi danno una percentuale dei no all'uscita del Regno Unito dall'Unione europea di sette punti percentuali superiore a quella di quanti vorrebbero invece lasciarla, con gli indecisi ridotti all'infima quota del dieci per cento, sondaggi corroborati dalle quote degli allibratori che pagano pochissimo sopra la pari la possibilità della vittoria del si.

Dando ai sondaggi il credito che meritano, va detto che la partita non è del tutto chiusa e le prossime settimane di campagna possono ancora modificare l'esito che si inserisce in un quadro europeo che vede le presidenziali in Austria che comunque assegnano all'estrema destra circa la metà dei consensi e la partita della Grecia che vede l'Unione europea molto meglio intenzionata verso un accordo, facilitato dal passaggio del secondo pacchetto proposto dal governo Txipras, ma anche qui voglio vedere l'accordo firmato!

lunedì 23 maggio 2016

I guai nostri e i guai degli altri: Unicredit e Deutsche Bank


In questa analisi della terza ondata della tempesta perfetta che ha preso le sue mosse a cavallo tra il 2015 e questo anno di disgrazia 2016, sto prestando particolare attenzione al sistema bancario italiano ed europeo, anche se non sottovaluto quanto sta accadendo oltreoceano con l'esplosione delle sofferenze nel credito al consumo e la ripresa delle attività delle fabbriche prodotto delle banche globali a stelle e strisce con nuove e pericolose invenzioni escogitate dagli apprendisti stregoni che le popolano, e questa attenzione al sistema bancario è data da un lato ai problemi nostrani in materia di Non Performing Loans, crediti deteriorati per i quali la vigilanza della BCE ci chiede l'avvio di un'opera di pulizia, mentre per quanto riguarda le banche globali europee, Deutsche Bank in testa, continuano a permanere rischi reputazionali e ancor di più rischi legati alla montagna di derivati e titoli tossici che le stese hanno in pancia.

Si è tenuta giovedì scorso l'assemblea di bilancio della Deutsche Bank davanti a 5 mila azionisti molto nervosi, non solo e non tanto perché per il secondo anno consecutivo rimarranno all'asciutto e il gruppo  ha registrato una perdita di 6,8 miliardi di euro, ma anche perché la banca è sommersa da 7.800 azioni giudiziarie con contenziosi che vanno da cifre esigue  ad altre che prevedono sanzioni per miliardi di euro, molte delle quali già pagate al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico.

Ha un bel dire il bravissimo Chief Executive Officer di Deutsche, John Cryan (rimasto solo al comando dopo l'uscita di scena del co CEO, Jurgen Fitschen), che "noi siamo meglio della nostra reputazione", perché è universalmente noto che per una banca, al di là dei dati reddituali patrimoniali, la reputazione è tutto e non è stato visto bene l'allontanamento di Gerog Thoma, l'uomo incaricato di presiedere una commissione incaricata di fare piena luce sugli scandali e del gruppo e che è stato costretto alle dimissioni per le critiche ricevute da membri del consiglio di sorveglianza che lo accusavano di eccessivo zelo. Resta e pesa la richiesta della vigilanza BCE di portare i requisiti patrimoniali dall'attuale 10,7 per cento all'alquanto  proibitivo 12,25.

Partono da qua le analogia con il caso Unicredit, anche esso alle prese con una richiesta di forte rafforzamento patrimoniale da parte della vigilanza europea, ma alle prese anche con problemi di governance interna che si intrecciano a quella richiesta, vista la contrarietà del CEO Federico Ghizzoni a procedere ad aumenti di capitale, aumento che, secondo le stime degli analisti, dovrebbero essere nell'ordine dei 5-8 miliardi di euro e che diluirebbero in modo significativo la quota delle tre fondazioni un tempo padrone indiscusse del colosso creditizio milanese.

L'eventuale uscita di Ghizzoni apre poi un capitolo a parte di questa storia, perché è prassi consolidata nel sistema bancario italiano che un cambio al vertice venga annunciato solo quando è stato deciso e, particolare non secondario, quando è pronta una soluzione di ricambio!

venerdì 20 maggio 2016

Il Governo ha fatto tutto quello che doveva fare per le quattro banche italiane tecnicamente fallite?


Dopo un'attesa durata parecchi mesi, i risparmiatori coinvolti nel dissesto di Banca Etruria, Carimarche, Cariferrara e Carichieti hanno visto accendersi la luce verde su un provvedimento del Governo che prevede, a partire da un fondo portato da 100 a 300 milioni circa di euro, la possibilità di coprire in tutto o in parte quanto da loro perso investendo in obbligazioni subordinate delle stesse banche, in molti casi senza ricevere adeguate informazioni sulla rischiosità dell'investimento che stavano effettuando, situazioni spesso al limite, limite spesso superato, della truffa orchestrata da dipendenti di queste banche, come dimostrano i recenti sviluppi dell'inchiesta della procura di Arezzo su Banca Etruria.

Il provvedimento governativo prevede però alcuni paletti, il primo dei quali è dato dal fatto che le obbligazioni devono essere state sottoscritte prima del 12 giugno 2014, quando è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale  la nuova normativa sui salvataggi bancari nell'eurozona approvata anche dall'Italia con l'introduzione del bail in, mentre il secondo è rappresentato dal fatto che il reddito lordo del richiedente non deve superare i 35 mila euro e la sua posizione in titoli non deve superare i 100 mila euro; in ogni caso, invece del rimborso automatico si potrà ricorrere all'arbitrato presso l'autorità anticorruzione guidata da Cantone.

Perché il caso di queste quattro banche di dimensioni tutto sommato modeste è così importante, al punto da condizionare l'andamento in borsa di banche di ben maggiori dimensioni nel primo trimestre di quest'anno di disgrazia 2016? Semplicemente perché si è trattato del primo caso di applicazione del bail in, la normativa europea che prevede che, in caso di dissesto, siano gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti per le somme che eccedano la soglia dei 100 mila euro a pagare entro il limite dell'8 per cento dell'attivo della banca coinvolta, un meccanismo che sostituisce il cosiddetto bail out che prevede, invece, che al salvataggio contribuiscano tutti gli incolpevoli e ignari contribuenti.

Ma, se il bail in entrava in vigore solo alcuni mesi dopo, e precisamente il primo gennaio 2016, perché si è scelto di percorrere questa strada alquanto sanguinosa? La tesi del Governo è che altrimenti si sarebbe andati al fallimento vero e proprio delle quattro banche, con conseguenze sulla stabilità delle zone interessate, nonché il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti delle banche stesse, una tesi che si fonda tuttavia sul presupposto che il Governo non avrebbe proceduto al salvataggio pubblico delle quattro banche, pur essendo lo stesso ammissibile a quella data dalla normativa europea vigente.

Emblematica è l'idea di stabilire uno spartiacque per i rimborsi automatici alla data del 12 giugno 2014, data nella quale il meccanismo del bail in viene approvato in sede italiana, una data che ha tagliato fuori  dall'automaticità solo 186 investitori che avevano acquistato on line le obbligazioni al 50-60 per cento del loro valore e sono stati così classificati come speculatori, tesi che condivido appieno!

giovedì 19 maggio 2016

Il ritorno dell'oro?


Chi mi segue dal settembre del 2007 sa bene che, nel tenere il giornale di bordo della flotta finanziaria scossa dagli alti marosi della tempesta perfetta, ho dichiarato subito che il mio punto di riferimento teorico era il mai troppo compianto John Maynard Keynes, mentre nel panorama contemporaneo le stelle polari erano lo speculatore George Soros e il Leone di Omaha, al secolo Warren Buffett, due persone diversissime tra di loro ma che analizzavano la crisi finanziaria più grave dal secondo dopoguerra mondiale con una lucidità senza pari.

Ebbene, in queste ultime settimane i miei punti di riferimento vanno ognuno per la sua strada, perché George Soros, spaventato dalla sempre più possibile crisi della Cina (e come dargli torto), sta disinvestendo dagli Stati Uniti d'America, anzi sta scommettendo su un tracollo dell'indice Standard&Poor's 500 e gettandosi a capofitto su quello che Keynes definiva un relitto  barbarico, sì proprio l'oro che sta comprando fisicamente e a mezzo di futures nonché acquistando quote di società specializzate nell'estrazione e nella commercializzazione del metallo giallo, mentre Buffett, da parte sua (e da par suo) si è lanciato a lancia in resta sull'alquanto traballante Apple e forse anche sulla tecnicamente fallita Yahoo.

Insomma, c'è da farsi venire il mal di testa, anche perché non riesco a dimenticare che solo pochi anni fa il metallo giallo aveva toccato i 1.750 dollari l'oncia per poi precipitare poco al di sopra dei mille dollari, un mercato cioè abbastanza ballerino e nel quale si rischia di bruciarsi le dita se non addirittura le mani, un mercato, cioè ballerino non meno di quello del petrolio dove i giochetti dal lato dell'offerta stanno determinando una corsa basata su alquanto risibili motivi come l'incendio in Canada e gli scioperi in Nigeria, due fenomeni certamente importanti ma largamente surclassati dalla rapida crescita dell'offerta di petrolio iraniano che sta recuperando a grandi passi i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.

Il problema è rappresentato dal fatto che Soros non è una stella polare solo per me e, quindi, c'è una quantità di investitori che si stanno mettendo in scia sia sul mettersi contro lo S&P 500 sia nell'acquistare a piene mani l'oro, incuranti del fatto che il metallo giallo vive i suoi momenti migliori quando l'inflazione corre, mentre ora siamo in presenza di una vera e propria deflazione in Europa e di una crescita moderata dei prezzi negli States, ma è ovvio che Soros sta vedendo una recessione mondiale guidata dal crack della Cina e di fronte a questo si va verso i porti sicuri e il porto sicuro per eccellenza rimane l'oro!

mercoledì 18 maggio 2016

Unicredit: la vigilanza BCE cerca il colpo grosso?


Come avevo scritto nelle puntate precedenti, Daniéle Nouy e la sua fidata collaboratrice tedesca incaricata di seguire il dossier delle procedure di risoluzione delle banche appartenenti all'area dell'euro non si accontentano più di pressare, in certi casi molto giustamente, le banche venete o Carige o Monte dei Paschi di Siena ma puntano dritte dritte al cuore del sistema bancario, invitando la seconda banca italiana e la prima per internazionalizzazione, Unicredit appunto, a fare uno sforzo rilevante sul capitale, non bastando i livelli attuali di Cet1 fully loaded che attualmente è al 10,85 per cento, ma chiarendo che non basterebbe nemmeno portarlo, come prevede il piano aziendale, al 12,6 nel 2018, perché la vigilanza della Banca Centrale Europea vuole molto di più anche se non è stato reso noto a quale livello vuole che il gruppo di Piazza Cordusio debba salire, ma quello che è certo è che lo vuole molto prima di quella data.

La notizia delle pressioni della Nouy aumenta il malcontento dei soci di Unicredit nei confronti dell'amministratore delegato del gruppo creditizio milanese, Federico Ghizzoni, un manager un po' grigio che non si è distinto per azioni eclatanti, concentrato come era a garantire la tenuta dei conti che, però, non è sufficiente a garantire lo sviluppo di una banca molto forte in Germania e in Austria e fortissima in alcuni paesi dell'Est dell'Europa, così come evidentemente non è bastato il piano di allontanamento di 18 mila dipendenti annunciato lo scorso anno.

Da quello che si apprende dai giornali, Ghizzoni sarebbe disponibile all'uscita purché la stessa sia onorevole e non si capisce se alluda alle condizioni economiche, certamente generose, o ad una sua eventuale ricollocazione nel panorama economico nazionale, cosa che prevede molto probabilmente un intervento del Governo che, secondo la stampa, sarebbe molto preoccupato per quello che sta accadendo in Unicredit.

Per chi ricorda quanto avevo scritto nelle numerose puntate sulla vigilanza della BCE, uno dei punti più dolenti sollevati dalle banche italiane era proprio la discrezionalità delle regole applicate, una discrezionalità che ora si estende al livello dei requisiti patrimoniali richiesti alle banche dell'eurozona, perché è evidente che i requisiti di Unicredit soddisfano perfettamente quelle stabilite dalla normativa, anche se non siamo a conoscenza dell'esito dello stress test cui è stato sottoposto l'istituto alla fine dell'anno scorso e se questo esito sia alla base delle pressioni attualmente esercitate nei confronti del gruppo milanese.

martedì 17 maggio 2016

Mutui e credito al consumo crescono a tassi da record


Riguardavo gli ultimi articoli sul sistema bancario italiano e ho notato che erano uniti da una visione pessimistica, in buona parte dovuta al pressing e all'inedito attivismo della vigilanza della Banca Centrale Europea sulle nostre banche, in particolare quelle più fragili, se non disastrate, e segnatamente quelle con sede legale in Veneto. Ma va detto che, nell'era dei tassi bassi, se non negativi, non tutto va male e a testimoniarlo è l'esplosione dei mutui a fronte dell'acquisto degli immobili da parte delle famiglie, cresciuti nel 2015 del 90 per cento circa (60 per cento al netto delle rinegoziazioni di mutui già esistenti) e del cosiddetto credito al consumo che, nell'aprile di quest'anno, è cresciuto di poco meno del 14 per cento e si è portato ai livelli più alti da quel 2011 che segna l'inizio della tempesta perfetta su quelle banche italiane che avevano superato pressocché indenni la prima ondata della crisi finanziaria in quanto molto poco esposte ai rischi connessi ai derivati e ai titoli tossici e che non avevano richiesto inerventi di salvataggio da parte del Governo fino ai Monti Bonds che sono successivi a quella data e dei quali sarà, in buona sostanza,. unico fruitore il molto mal messo Monte dei Paschi di Siena.

Il discorso cambia e di parecchio se volgiamo lo sguardo agli impieghi bancari alle imprese non finanziarie e qui le banche italiane nel loro insieme continuano a proceder con i piedi di piombo, gravate come sono di 360 miliardi di Non Performing Loans, un aggregato che è vero che non si trasforma del tutto in sofferenze che sono intorno ai 200 miliardi, mentre, al netto di rettifiche e accantonamenti, sono finalmente scese a 83 miliardi, ma, purtroppo, questo aggregato non viene preso in considerazione dalla vigilanza della BCE che sostiene che, in caso di dissesto, quegli accantonamenti e quelle rettifiche non potrebbero essere utilizzati per la crisi di liquidità che sopravverrebbe inevitabilmente, in particolare se si tratta di gruppi bancari di grandi dimensioni.

Ma il ritorno del credito al consumo a livelli precedenti la crisi, una crisi che non è stata solo e forse non tanto finanziaria quanto economica, è una buona o una cattiva notizia? Per poter rispondere bisognerebbe disporre di dati di dettaglio che dividano per lo meno tra finanziamenti finalizzati all'acquisto di un bene e finanziamenti finalizzati alla costituzione di scorte monetarie, mentre l'unica cosa che ho potuto vedere dalla notizia è che i richiedenti appartengono alle classi centrali di età, le due che vanno dai 25 ai 45 anni, a dimostrazione che le classi di età più anziane hanno una minore propensione all'indebitamento, in particolare nei confronti di questo tipo di finanziamenti a tassi normalmente non leggeri erogati dalle finanziarie di ogni ordine e grado.

lunedì 16 maggio 2016

In nove anni le banche italiane sono costate 210 miliardi di euro ad azionisti e risparmiatori


In un brillante articolo, Nicola Porro, giornalista e intrattenitore televisivo, ha illustrato i risultati di una ricerca di ImpresaLavoro sulle perdite subite dagli azionisti, e, nel caso delle quattro banche tecnicamente fallite a novembre dello scorso anno, anche dai risparmiatori, a partire dall'inizio della tempesta perfetta nell'agosto del 2007, e ne viene fuori una cifra mostruosa di 210 miliardi di euro così ripartito: 150 miliardi di minor valore delle azioni per le 17 banche quotate in Borsa, 50 miliardi di aumenti di capitale delle stesse e 10 miliardi circa tra le quattro banche di cui al decreto governativo del 23 novembre 2015 e il resto ascrivibile alle Banca Popolare di Vicenza, mentre mancano all'appello nello studio citato le perdite legate a Veneto Banca, con relativo aumento di capitale da un miliardo e il miliardo richiesto dal Banco Popolare di Verona, entrambi richiesti ultimativamente dalla vigilanza della Banca Centrale Europea, insieme a tante altre misure da adottare in concomitanza.

Pur trattandosi di cifre mostruose, va tuttavia detto che i rischi per i risparmiatori legati alle banche italiane non finiscono qui, in quanto, come ricordavo in una recente puntata del Diario della crisi finanziaria, secondo uno studio della Banca d'Italia, sono esposti a rischio bail in più di 400 miliardi di euro tra obbligazioni non garantite e, per 225 miliardi, da depositi oltre la soglia dei 100 mila euro, questi garantiti da uno sforzo cooperativo delle banche sopravvissute al salvataggio dall'interno di una o più di loro mediante il Fondo interbancario di garanzia, Fondo che al momento ha in cassa solo quanto serve a far fronte ai rimborsi degli obbligazionisti di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, ma che avrebbe qualche difficoltà a reperire i fondi se il default riguardasse qualche big del settore o un fenomeno di fallimenti a catena.

Voorei sommesamente ricordare che la strada del passato per il rafforzamento del settore creditizio, quella che ha visto fondersi nelle due più grandi banche del sistema, Unicredit e Intesa-San Paolo, decine e decine di banche e casse di risparmio di ogni dimensione, non ha dato grandi frutti, anche perché ci sono voluti tempi lunghissimi per rendere efficienti qusti carrozzoni ed ora, quindi, il Governo pensa di percorrere la strada degli sgravi di costi, in primis di quelli relativi al personale, per un ammontare pari a 30-40 mila unità, come sta già avvenendo, in vista della fusione con la Banca Popolare di Milano, al Banco Popolare di Verona e Novera che ha appena annunciato 1.800 esuberi di personale.

L'altra strada, quella dell'aggressione della massa da 360 miliardi di euro dei Non Performing Loans, richiederà molto più tempo e l'adozione di misure molto più coraggiose di quelle intraprese sinoad ora con il Fondo Atlante e con lo schema di garanzia dei pacchetti senior di sofferenze delle banche elaborato dal ministero dell'Economia.

venerdì 13 maggio 2016

Il Veneto è il buco nero del credito?


Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alle vicende della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, due banche che sono un vero e proprio ricettacolo di Non Performing Loans (una sigla che rappresenta i crediti deteriorati che ha come sotto insieme le sofferenze lorde e, al netto delle verifiche, le sofferenze nette) con un incidenza sugli impieghi vivi e sul patrimonio a livelli stellari, per poi affrontare il problema rappresentato dal Monte dei Paschi di Siena che, con i suoi 40 miliardi di euro circa di Non Performing Loans, è davvero la grande malata nella pattuglia di vertice delle banche italiane e, tramite l'acquisizione di Antonveneta, è una delle banche leader di questa disgraziata regione dell'Italia, ma ho finito per dimenticare un gigante a livello regionale come il Banco Popolare di Verona, banca che sta per fondersi con la banca Popolare di Milano, come in precedenza aveva fatto con la Popolare di Novara.

Ebbene, la somma degli NPL delle quattro banche non è lontana da quella che caratterizza quella delle banche di una nazione europea di medie dimensioni ed è considerata con grande attenzione, e lettere ultimative, da parte delle donne e degli uomini alle dipendenze del capo della vigilanza presso la Banca Centrale Europea, organismo che ha imposto aumenti di capitale per complessivi 3,75 miliardi di euro, il primo dei quali, quello da 1,75 miliardi, della Banca Popolare di Vicenza è andato notoriamente deserto e ha costretto il neonato Fondo Atlante (mentre il comitato direttivo di Borsa italiana dichiarava l'inammissibilità alla quotazione dell'azione nei mercati regolamentati) a immobilizzare in questa singola banca la metà delle sue disponibilità volte a tale scopo, mentre Veneto Banca ha chiesto tempo per il suo aumento da un miliardo e, per il Banco Popolare, i non lusinghieri dati di bilancio e l'annuncio ufficiale dell'aumento di capitale da un miliardo hanno spinto l'azione a registrare mercoledì una perdita del 15 per cento (poi limata a poco più del 9 per cento in chiusura.)

E' evidente che da una situazione del genere non si esce con misure normali e che le tre banche con sede legale nella regione richiedono una cura di cavallo, che, per il Banco Popolare, coinvolgerà inevitabilmente anche la sposa Banca Popolare di Milano, una cura che passerà attraverso un radicale taglio dei costi operativi, leggi costi del personale, multiplo di quella sensibile sforbiciata prevista dal Governo a livello nazionale, un taglio che comunque non basterà se non verranno adottate misure altrettanto straordinarie sul fronte dei Non Performing Loans per le quali Atlante non ha i mezzi e le misure previste dal Governo sono solo parzialmente applicabili, in quanto riguardano solo gli NPL di buona qualità e ho proprio l'impressione che da queste parti di crediti incagliati di categoria senior ve ne siano non tanti!


giovedì 12 maggio 2016

La corsa del gambero in borsa delle banche italiane!


Dopo una ripresa effimera dopo l'annuncio della costituzione del Fondo Atlante guidato da Alessandro Penati, economista  prestato alla finanza,  è ripresa quella corsa allo squagliamento delle quotazioni in borsa dei titoli delle principali banche italiane, con Monte dei Paschi di Siena che dopo aver sostato nella parte bassa della soglia dei 70 centesimi ora si ritrova nella parte alta della quota dei 50 centesimi e Unicredit che dopo aver rivisto a portata di mano i 4 euro, ora si trova a lottare per tornare a quella dei 3 euro, per non parlare poi delle promesse spose, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, con la prima alle prese con un periglioso aumento di capitale da un miliardo di euro e la seconda che la segue a ruota nei ribassi sempre più consistenti.

Da questo macello si salva in qualche modo Intesa-San Paolo che, tra alti e bassi, rispetto all'inizio di quest'anno, permane nell'area dei due euro. Ma, a livello di sistema, siamo di nuovo a un calo delle quotazioni del 40-50 per cento rispetto a quelle registrate nel mese di dicembre che erano già in sensibile calo rispetto ai massimi toccati nella prima parte del 2015.

Certo, ha pesato il fallimento del tentativo di quotare in borsa la alquanto disastrata Banca Popolare di Vicenza e il ribaltone con vero e proprio ritorno al passato di Veneto Banca, con una nuova maggioranza raccogliticcia e inquinata dalla presenza di grandi debitori, spesso insolventi, della banca con sede a Montebelluna e con il nuovo consiglio di amministrazione che ha dovuto chiedere più tempo per procedere all'aumento di capitale da un miliardo di euro, ma anche il Monte dei Paschi di Siena che tanti crediti problematici ha ereditato dall'acquisita Antonveneta, tuttavia il buco nero delle banche venete o assimilate si riverbera su tutto il sistema bancario italiano per una serie di ragioni che tratterò di volata. Tra le banche venete, ho colpevolmente dimenticato Il Banco Popolare di Verona che ieri in borsa ha perso fino al 15 per cento per i conti in rosso e l'aumento di capitale richiesto dalla BCE.

La prima riguarda proprio il neonato Fondo atlante, con una dotazione di 4,2 miliardi di euro, quasi due in meno rispetto agli annunci, che ne ha 1,5 miliardi già immobilizzati in Banca Popolare di Vicenza e della quale si accorgerà ben presto che sarà molto difficile procedere a un a forte ristrutturazione. Ebbene, secondo fonti autorevoli, la parte del fondo dedicata agli aumenti di capitale è pari a 3 miliardi e ve ne sono in vista altri due per almeno 2 miliardi, quindi, le munizioni del fondo a questo scopo sono pressoché esaurite, mentre ne restano 1,2 miliardi per affrontare il problema dei Non Performing Loans (360 miliardi di euro circa) delle martoriate banche italiane, con la evidente conclusione che il Fondo Atlante è oramai bello che esaurito!

Agli investitori che hanno investito ai tempi d'oro nelle banche italiane non resta dunque che allacciare le cinture di sicurezza e sperare in tempi migliori.

mercoledì 11 maggio 2016

Stavolta Deutsche Bank rischia grosso!


Dopo essere stata indagata e multata per quasi tutto quello che una banca davvero globale può fare e in attesa per il processo che si terrà in Gran Bretagna dove, sulle manipolazioni dell'URIBOR sono indagati sette suoi top manager, ora il colosso tedesco è sotto indagine, presso la procura di Trani, per manipolazione di mercato, avendo venduto nel 2011 quasi tutti i BTP italiani in suo possesso proprio mentre consigliava ai suoi clienti di tenerli sia per la solidità dei conti pubblici italiani, sia perché lo spread tra questi e i Bund tedeschi era tutto sommato a valori limitati tra i 100 e i 200 punti base.

La vendita avvenne massicciamente nel primo trimestre del 2011, regnante Silvio Berlusconi e mentre al timone del ministero dell'Economia era Giulio Tremonti, l'uomo che ha svolto quell'incarico per ben tre volte, senza però lasciare grande traccia di sé, se non per i forti e frequenti contrasti con il suo capo di allora.

I fatti successivi sono noti a tutti, perché la mossa di Deutsche suonò come un campanello di allarme nelle sale operative all over the world e tutte le banche più o meno globali si misero a vendere i BTP italiani con il risultato che lo spread cominciò a salire inesorabilmente sino a raggiungere un picco a 576 punti base e costrinse Berlusconi a dimettersi per lasciare il posto ad un uomo della Trilateral ed espressione dei poteri forti italiani europei che adottò un programma lacrime e sangue senza neanche l'intervento della Troika, Fondo Monetario Internazionale-Banca Centrale Europea-Unione europea,, tanto anticipò i desiderata di questo organismo, in alcuni casi, vedi la riforma Fornero, li superò, portando il nostro sistema previdenziale ad essere tra i più sostenibili dell'Unione europea e frustrando al contempo le attese di milioni di italiane e di italiani che si credevano allora prossimi alla pensione

Questi sono i fatti e, per chi potesse dubitare della mia fede antiberlusconiania invito a leggere il lungo pamphlet dal titolo Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi, recentemente ripubblicato sul Diario della crisi finanziaria, ma non posso non considerare il fatto che con una manovra delle banche globali europee, banche legate a doppio filo con i rispettivi governi, è stata decretata la fine di un Governo, per quanto pessimo, regolarmente eletto.

Non so quante e quali carte  abbia a disposizione l'attivissima procura di Trani, anche perché è noto che il pool dei reati finanziari della procura di Milano ha lasciato cadere la cosa, ma certo ci sarà da divertirsi nel prosieguo di un indagine che vede indagati l'ex presidente Ackermann e altri uomini al vertice di Deutsche!

martedì 10 maggio 2016

Banca Etruria truffò i piccoli risparmiatori?


Come responsabile dell'ufficio studi di un sindacato del settore finanziario ho scritto decine di pagine su quelle che allora chiamavamo pressioni commerciali esercitate dai vertici sui dipendenti delle banche che avevano l'ingrato compito di piazzare a ignari clienti delle banche, ma anche nelle compagnie di assicurazioni non si scherza, prodotti più o meno a rischio di ogni genere e natura, prodotti che spesso hanno rovinato più di un malcapitato e hanno certamente messo a rischio la reputazione di più di una banca.

Non mi ha stupito dunque quanto è emerso ieri nel corso delle indagini sul crac di Banca Etruria, una delle quattro banche salvate dal Governo nel novembre dell'anno scorso con la prima applicazione del micidiale meccanismo del bail in che ha visto l'azzeramento del valore delle azioni, delle obbligazioni e dei depositi per la soglia oltre i 100 mila euro, un applicazione in anticipo di mesi sull'introduzione delle nuove procedure di risoluzione e che tanto è costato in borsa ai titoli dell'intero settore finanziario, è emerso, dicevo, che, secondo gli inquirenti della procura di Arezzo, esisteva nell'ambito della banca una cabina di regia volta a vedere anche ai piccoli risparmiatori, anzi in prevalenza a loro, decine e decine di milioni di euro di bond subordinati, quelli appunto più a rischio se le cose si fossero, come poi è puntualmente accaduto, messe male!

Con singolare tempismo, sempre ieri Giuseppe Vegas, presidente della CONSOB, l'organismo che dovrebbe appunto vigilare sul fatto che cose del genere non accadano, ha detto, nella sua relazione annuale, due cose: la prima è che i risparmiatori erano perfettamente informati, la seconda è che l'organismo da lui presieduto ha fatto (sic) tutto quello che doveva fare in questa circostanza, dimenticando che era stata emanata una disposizione che autorizzava le banche a non inserire più nei prospetti le simulazioni che indicavano esattamente i rischi connessi con gli stessi bond subordinati offerti ai risparmiatori e dimenticando, altresì, quello che era già emerso anche nei mesi scorsi su quanto era avvenuto in moltissimi casi, quando i risparmiatori erano stati volutamente raggirati in sede di sottoscrizione dei bond medesimi.

Non c'è, quindi, da meravigliarsi se, pur in un quadro di debolezza dell'intero sistema bancario europeo, le banche italiane quotate in borsa stiano soffrendo dall'inizio di questo anno disgrazia 2016 in modo ampiamente supplementare e i guai delle due non quotate venete hanno determinato l'azzeramento di fatto del valore delle loro azioni, con Veneto Banca che ha dovuto far slittare di una settimana le procedure per l'aumento di capitale.

Mi ponevo ieri l'interrogativo sulla solidità del sistema bancario italiano e credo proprio che vicende come queste, e soprattutto i retroscena delle stesse, non aiutino di certo!

lunedì 9 maggio 2016

Ma il sistema bancario italiano è davvero solido?


Dal settembre del 2007 ho tenuto il diario di bordo del sistema finanziario all over the world sommerso dagli alti mari della tempesta perfetta nelle sue tre fasi principali, della quali la terza, quella che stiamo vivendo a partire dai mesi a cavallo del capodanno di questo anno di disgrazia 2016, risulta a mio avviso la più pericolosa e spero di averlo spiegato nelle puntate con le quali ho dato il via alla ripresa del Diario della crisi finanziaria dopo tre anni di voluto silenzio, e, in tutte e tre queste perigliose congiunture, ho sentito sempre un mantra dalle autorità monetarie e da quelle politiche italiane e questo mantra recitava che il sistema italiano era solido e per questo non era stato necessario ricorrere alle massicce ricapitalizzazioni facilitate dalla mano pubblica che in altri paesi europei avevano salvato i rispettivi sistemi creditizi e finanziari dal collasso; ma quanto c'è di vero in questo ritornello che non diventa più reale solo perché è stato ripetuto fino alla noia da governi di destra e di centro sinistra che si sono succeduti alla guida del nostro Paese?

Se la vigilanza sul sistema creditizio italiano fosse ancora attribuita alla Banca d'Italia, sottoscriverei questa apodittica affermazione, ma sin dal 2014 le cose in materia sono radicalmente cambiate e la vigilanza sulle banche dell'eurozona è stata attribuita all'ex responsabile della vigilanza della Banca di Francia, Daniéle Nouy, che si avvale come braccio operativo di Frau Koening e che, dopo una fase relativamente breve di studio, ha fatto chiaramente chiarito con gli atti e con le interviste che l'aria era radicalmente cambiata e che le banche dovevano rapidamente attenersi alle prescrizioni delle draft con cui si intima, pena ricorso alla procedura di risoluzione, di riportarsi su parametri europei per quanto riguarda l'adeguatezza patrimoniale e la massa dei Non Performing Loans espressi in percentuale dei crediti sani che, per le banche italiane, è attualmente intorno a valori doppi se non tripli  di quelli della media dell'eurozona.

Ovviamente, una pulizia, anche non radicale, dei bilanci delle banche italiane che, seppure a fatica, hanno superato gli stress test della Banca Centrale Europea nella passata edizione (mentre per la prossima si attende a breve il risultato) comporterà, nella maggior parte dei casi, di procedere ad aumenti di capitale necessari per restare nell'ambito dei parametri patrimoniali imposti e che, in alcuni casi, possono essere aumentati fino a valori intorno al 20 per cento, come si vocifera per un importante gruppo creditizio nostrano.

Ma quello che preoccupa davvero è lo stato delle casse  del Fondo interbancario dei depositi, ossia l'organismo che deve garantire i depositi fino alla ormai arcinota soglia dei 100 mila euro, che pochi giorni fa, per bocca del suo direttore, ha dichiarato che i 300 milioni in cassa sono tutti impegnati per le obbligazioni subordinate delle quattro banche medie tecnicamente fallite e che le disponibilità precedenti sono state interamente utilizzate per garantire, appunto, i depositi di quelle stesse banche nella soglia garantita dei 100 mila euro. Ricordo sommessamente che, secondo la Banca d'Italia, i depositi fino a 100 mila euro a livello di sistema sfiorano i 500 miliardi di euro e non oso immaginare cosa accadrebbe se ad andare in procedura di risoluzione fossero una o più banche di grandi o grandissime dimensioni!

venerdì 6 maggio 2016

Ora Veneto Banca è davvero a rischio


Al termine di una lunghissima e infuocata assemblea, gli azionisti hanno eletto con una maggioranza che sfiora il 60 per cento la lista antagonista a quella del presidente Bolla e che esprimeva anche l'attuale amministratore delegato Carrus, lista che ha ottenuto il 37 per cento, e ha dato, quindi, al commercialista Stefano Ambrosini, ex commissario straordinario dell'Alitalia, la carica di presidente della disastrata Banca Veneta e dodici posti nel nuovo consiglio di amministrazione della banca.

La sorpresa è aumentata dal fatto che da parte degli uomini e delle donne della vigilanza presso la Banca Centrale Europea c'era stato nei giorni scorsi un intervento a gamba tesa che ammoniva che sarebbero stati esaminati con grande rigore i requisiti di professionalità e onorabilità degli eletti nel nuovo consiglio di amministrazione della banca veneta, lasciando trasparire il sospetto, espresso a gran voce dall'ormai ex presidente Bolla che ha dichiarato che le due liste che appoggiavano Ambrosini erano infarcite di clienti della banca che dovevano alla stessa una cifra complessiva nell'ordine di centinaia di milioni di euro (958 di cui 738 a vario titolo a rischio e spesso concessi senza garanzie) crediti per i quali in molti casi non si sarebbe proceduto, nella molto discussa gestione Consoli, che è indagato per ostacolo all'attività di vigilanza, precedente a quella di Bolla, con la solerzia e l'impegno dovuti ad un'attività di recupero crediti.

Ho scritto più volte in queste settimane delle due alquanto traballanti banche venete, ma, mentre per la Banca Popolare di Vicenza c'è la soluzione rappresentata dal Fondo Atlante che ha investito un miliardo e mezzo di euro per entrare in possesso del 99,33 per cento del capitale e rivolterà quella banca come un calzino, nel caso di Veneto Banca quello che si apre, per usare le parole del neo presidente Ambrosini è un percorso ad ostacoli da compiere per di più avendo lo status di "vigilati speciali" da parte della ben poco accomodante vigilanza della BCE che controllerà le loro mosse passo passo, in particolare in vista di quell'aumento di capitale da un miliardo di euro per il quale la CONSOB ha inviato ieri una lettera nella quale si intima alla banca di avviare le procedure entro una settimana.

Se la regione Veneto fosse una nazione, il suo sistema bancario sarebbe già bello che fallito, ma per  fortuna fa  parte dell'Italia che, a sua volta, è nell'Unione europea e nell'eurozona, ma se i nuovi amministratori di Veneto Banca si illudono di avere sconti hanno fatto male i loro conti, perché non è più tempo di queste manovre all'italiana, spesso orchestrate per evitare che si riesca finalmente a scoprire gli scheletri nell'armadio.

Forse solo in Veneto poteva capitare che due grandi produttori di vino, Zonin e Bolla, avessero un ruolo di così grande rilievo nel mondo del credito, solo che il primo viene accusato da più parti di aver portato la sua banca sull'orlo del baratro, mentre il secondo ha cercato in tutti i modi di salvare il salvabile!

P.S. Dalle statistiche del blog ho notato, nell'ambito di un'esplosione dei contatti su questa puntata, l'apparizione di un folto drappello di russi che, evidentemente, sono molto attratti dalle vicende delle banche italiane, quelle venete in particolare.

giovedì 5 maggio 2016

Tra Grexit e Brexit, l'Unione europea va in pezzi


Come uno di quei fastidiosi mal di stagioni, torna ad esplodere la crisi greca, una nazione oppressa da un debito pubblico che, espresso in percentuale del prodotto interno lordo, non ha paragoni in Europa, nonostante la massiccia tosatura avvenuta pochi anni orsono per 100 miliardi di euro e che ora è alle prese con i mancati impegni nei confronti della Troika, Fondo Monetario Internazionale-Unione Europea-Banca Centrale Europea, impegni molto duri, in particolare sul caldissimo fronte della riforma delle pensioni, e che potrebbero pregiudicare la concessione della terza tranche di aiuti, fondamentali per ripagare i creditori per qualche miliardo di euro nel prossimo mese di luglio e, in assenza dei quali, si potrebbe verificare una situazione di default del debito pubblico dello stato ellenico.

Ho volutamente evitato di esprimere giudizi sull'operato della Troika in questi anni, anni che hanno catapultato un partito alquanto inesperto come quello di Tsipras al potere ad Atene, e non l'ho fatto anche perché bastano e avanzano le critiche espresse da due economisti dello stesso Fondo Monetario Internazionale in un paper che ha avuto risonanza mondiale e nel quale si mettono in evidenza i nessi tra la politica di austerità a dosi massicce e la recessione profonda in cui le stesse hanno precipitato l'economia greca, con costi sociali difficilmente quantificabili ma tremendi, così come si è visto che hanno contribuito a peggiorare gli stessi saldi di finanza pubblica. Insomma una cura peggiore del male!

Ma c'è una considerazione che indurrebbe i diversi soggetti chiamati al capezzale della Grecia a fare uno sforzo aggiuntivo ed è dato dall'approssimarsi della scadenza, il 23 giugno prossimo, del referendum sull'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea, e questo Tsipras, che sarà non esperto ma è molto, ma molto abile, lo sa e non è un caso che stavolta sia lui a fare fuoco e fiamme perché si tenga un vertice dei capi di Stato e di Governo per discutere le sue richieste in merito ai diktat della Troika, così come non è un caso che la Merkel stia facendo di tutto per non concedergli questa chance, non bastando più l'abbaiare del suo cane da guardia, il ministro tedesco delle finanze, Schauble che ha impedito ai ministri dell'economia e delle finanze dell'eurogruppo di discutere le richieste greche.

Per quanto riguarda la Brexit, non è bastato il fermo endorsment del presidente Obama in favore delle posizioni di quanti vogliono restare nell'Unione europea, in quanto l'autorevolezza del primo ministro Cameron è fortemente minata dal suo coinvolgimento nei Panama Papers, ma, nonostante questo, ha parecchie frecce al suo arco per vincere in questa difficilissima competizione referendaria.

mercoledì 4 maggio 2016

La vigilanza BCE interviene su Veneto Banca


Mai una missiva della vigilanza BCE è giunta più gradita ai vertici di una banca sorvegliata ed è questo il caso della lettera di Francoforte giunta ieri  a Veneto Banca, l'alquanto disgraziata banca di una regione  che sembra proprio avere un rapporto tormentato con il credito per le gestioni passate che hanno reso quelle banche le madri di tutti i crediti deteriorati, spesso crediti elargiti agli amici degli amici che erano anche azionisti della banca stessa determinando un corto circuito esiziale per la salute delle banche stesse.

Ho scritto in diverse puntate passate del Diario della crisi finanziaria che questa prassi sta affossando le due banche con sede legale nella regione veneto, La dissestata Banca Popolare di Vicenza che ha subito lunedì scorso l'affronto di vedersi rifiutata la quotazione nei mercati regolamentati da parte del comitato direttivo di Borsa italiana e ha reso necessario un intervento da un miliardo e mezzo di euro da parte del neonato fondo Atlante, Veneto Banca, appunto, e la costola veneta del Monte dei Paschi di Siena, sì quell'Antonveneta che tanti lutti addusse ai senesi e che ha determinato l'uscita di fatto dell'omonima fondazione con sede a Rocca Salimbeni dall'azionariato di una banca che un tempo controllava completamente.

Ma veniamo ai fatti. Ieri il presidente di Veneto Banca, Pierluigi Bolla, il capo della cordata di risanatori dell'istituto di credito, ha tenuto una soddisfatta conference call per rendere noto di aver ricevuto una lettera della vigilanza BCE che ha puntualizzato che vigilerà sui requisiti professionali e di onorabilità dei candidati al consiglio di amministrazione della banca in vista dell'assemblea del 5 maggio che dovrà, appunto. procedere al rinnovo delle cariche sociali.

Anche se la BCE non fa esplicitamente nomi e cognomi, il pensiero di tutti è andato alle due liste Per Veneto Banca e Azionisti di Veneto Banca, due associazioni che esprimono 51 persone indebitate con la banca per 510 milioni di euro, e si tratta in prevalenza di crediti deteriorati, crediti per i quali le passate gestioni non avrebbero fatto i passi necessari per ottenere il recupero del dovuto, quindi, hanno tutto l'interesse a interrompere il processo di risanamento avviato da Botta.

Quello di ieri rappresenta l'ennesimo caso di vigilanza tempestiva e puntuale da parte delle donne e degli uomini agli ordini di Madame Nouy, un'attività di vigilanza che oscura quella esercitata a suo tempo dalla Banca d'Italia e dalle altre banche centrali nazionali dell'area dell'euro! 

martedì 3 maggio 2016

Fallisce l'ammissione in borsa della Banca Popolare di Vicenza


C'era molta attesa per quello che avrebbe deciso ieri il comitato direttivo di Borsa italiana in merito alla richiesta di ammissione ai mercati regolamentati della Banca Popolare di Vicenza appena trasformata in società per azioni e con l'ombrello del neonato Fondo Atlante che si era impegnato a rilevare il 92 per cento dell'offerta ad un prezzo che, molto irrealisticamente, era stato fissato in una forchetta compresa tra i 10 centesimi e i tre euro ad azione e che ieri, in sede di bocciatura, è stata fissata a 10 centesimi appunto, con buona pace degli azionisti che le aveva in carico a 62 euro e che non rivedranno mai i loro soldi pur non essendo stata assoggettata la loro banca alla procedura di bail in e non si sa, al momento, quale sarà la sorte degli obbligazionisti semplici e subordinati.

La decisione negativa di Borsa italiana all'ammissione dell'azione della Banca Popolare di Vicenza era prevedibile, perché si sapeva benissimo che il flottante, ossia il quantitativo di azioni disponibili per le operazioni di compravendita sarebbe stato inferiore a quel 25 per cento richiesto dall'attuale normativa.

In risposta alla decisione dell'organismo di gestione di Borsa italiana, il Fondo Atlante ha comunicato che porterà la sua sottoscrizione dell'aumento di capitale, l'unico capitale della banca perché il resto è praticamente bruciato, al 99,33 per cento restando il residuo a un pugno di azionisti preesistenti e ristrutturerà l'istituto vicentino avendo le mani completamente libere da lacci e laccioli derivanti da minoranze azionarie, una situazione che era stata largamente prevista da Alessandro Penati e dai suoi collaboratori che, non a caso, nei giorni scorsi avevano già fatto presenti le loro intenzioni di rivoltare la banca come un calzino per portarla poi molto probabilmente a una fusione con qualche istituto più in salute, riuscendo, per soprammercato, a realizzare una plusvalenza stimabile in qualche centinaia di milioni di euro.

Si riapre anche la spinosa questione della mancata azione di responsabilità nei confronti dei precedenti amministratori, segnatamente l'ex presidente della banca, Gianni Zonin, un uomo che, per giudizio pressoché unanime dei suoi alquanto infuriati concittadini, ha distrutto il capitale dell'istituto in una presenza ventennale ai suoi vertici. I vertici attuali non hanno sponsorizzato l'azione che è infatti stata bocciata dall'assemblea, ma i nuovi azionisti molto probabilmente non guarderanno in faccia a nessuno.

Ora rimane aperta la questione dell'aumento di capitale di Veneto Banca, aumento che non è garantito dal Fondo Atlante, ma continua ad essere sulle spalle di Banca Intesa-San Paolo i cui vertici da stasera hanno davvero poco da stare allegri in vista di giungo, mese nel quale sarà valutata quell'operazione da parte, oltre che della CONSOB, ancora una volta da parte del comitato direttivo di Borsa italiana.