giovedì 29 novembre 2007

Le banche centrali e la crociata sulle valute

In grande difficoltà nella quotidiana battaglia per assicurare livelli sufficienti di liquidità sul mercato interbancario, da qualche giorno le banche centrali, in primis la Banca Centrale Europea, sta cercando di fare la voce grossa contro gli speculatori impegnati a scommettere, one way, sul calo del dollaro, che, in effetti, ha ripreso ieri vigore contro l'euro e lo yen, portandosi, d'un solo balzo, nella parte bassa dell'area 1,47 e 110.
Passati i tempi in cui a Cesare Geronzi, allora in Banca d'Italia, bastava alzare il telefono per avvertire, attraverso Florio Fiorni, allora ultra potente direttore finanziario dell'Eni, la cosiddetta banda dei sette di smetterla di speculare sui cambi perché avevano francamente esagerato (chi non ricorda, anche se il direttore finanziario dell'Eni a quel tempo si chiamava Gabrielli, il venerdì nero della lira?), i templari di Francoforte si sono resi conto di avere le armi un po' spuntate e, passate poche ore, sia l'euro che lo yen si sono riportati sul loro ormai abituale trend rialzista, anche perché ai carry traders che stanno perdendo miliardi di dollari poco importa dei desiderata della BCE, della Fed o della Bank of Japan.
Con i tassi sul mercato interbancario che, almeno in Gran Bretagna e nell'area dell'euro, avanzano inesorabilmente verso i massimi toccati dopo il 9 agosto scorso e le banche destinatarie dei generosi finanziamenti a tre mesi della BCE che continuano a tenersi stretti gli stessi, nel timore, forse non infondato, di prestare i soldi a qualche banca che rischia di fare il botto, non restava agli intoccabili ed ultra autonomi membri del board dell'istituto di Francoforte che fare un po' di ammuina sul marcato dei cambi, incuranti della antica saggezza dei traders che sanno bene che l'unico errore che va accuratamente evitato è quello di mettersi contro il trend, soprattutto ove le ragioni a supporto del trend sono più che fondate e l'onda viene ormai cavalcata da fondi governativi con munizioni, purtroppo, denominate in dollari che sembrano scottare tra le dita degli arabi, dei cinesi e dei giapponesi che, tutti assieme, vantano attività per migliaia e migliaia di miliardi di dollari.
In Italia, in luogo del trend be your best friend e del suo contrario, si usa un'espressione un pò scurrile che non riporto ma che tutti conoscono, anche se va ricordato che personaggio del calibro di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, in linea con i loro sventurati omologhi britannici, ignorarono del tutto questo assunto e, svenatisi o meglio svenatici per decine di migliaia di miliardi di lire, dovettero poi alzare le braccia e accettare una pesante svalutazione della lira, e della sterlina inglese, e l'uscita ignominiosa dallo SME, un'uscita che ha avuto il suo bel peso nel successivo rientro nel sistema valutario europeo, anche a causa di quel 1995 che vide la lira a quota 1.250 contro il marco tedesco durante il governo di Lamberto Dini, e che ci portò a pietire un cambio della lira con in nascituro euro ad un livello di 1936, 27 che corrispondeva ad un cambio di 990 lire contro il marco che si collocava del 23 per cento circa al di sotto del cambio di lungo periodo tra la nostra valuta e quella tedesca.
Purtroppo la storia è tutto fuorché maestra di vita e sia i templari della BCE che i loro colleghi delle altre tre principali banche centrali sono solo all'inizio di un percorso accidentato e costoso che li porterà, e purtroppo ci porterà, ad altri bagni di sangue, apparentemente ignari che un euro a 1,70 dollari ed un dollaro nell'area compresa tra i 90 e i 95 yen sono perfettamente adeguati ai fondamentali delle rispettive aree economiche e che, in realtà, anche a questi livelli, la valuta statunitense continuerebbe a presentare margini tutt'altro che disprezzabili.
Vorrei, per inciso, ricordare al Professor Marcello de Cecco, che nei suoi articoli sul supplemento finanziario di Repubblica sembra avere cambiato e parecchio idea, quanto sosteneva (in un'affollatissimo dibattito svoltosi presso la Facoltà di Economia dell'Università di Napoli) oltre trenta anni orsono sul dollaro e su una politica valutaria statunitense che definiva la fabbrica del formaggio verde e che aveva consentito l'acquisizione di non disprezzabili attività economiche europee ed asiatiche a prezzi di assoluto saldo.

Chi rompe paga e i cocci sono suoi


Il discorso tenuto dal numero due della Federal Riserve, Donald Kohn, al Council for Foreign Relations a New York ha accesso nuovamente le speranza degli operatori economici su un nuovo taglio del tasso sui Fed Funds già nella riunione del Federal Open Market Committee prevista per l’11 dicembre, previsione rafforzata dalle indicazioni di un sensibile rallentamento dell’economie e di crescenti difficoltà nell’ottenimento di prestiti contenute nel Beige Book della banca centrale americana reso note ieri.

Era quello che gli investitori volevano sentirsi dire e conferma le previsioni dei principali analisti statunitensi che si spingono a vedere i tassi USA al 3 per cento entro la metà del 2008, dando così una decisa spinta al rialzo dei tre principali indici di Wall Street e facendo fare un vero e proprio balzo in avanti alle quotazioni delle banche, quotazioni che ormai da giorni testavano e sfondavano verso il basso i minimi dell’anno.

Il mercato ha così bellamente ignorato gli ulteriori segnali depressivi provenienti dall’economia reale, con gli ordini di beni durevoli che hanno segnato in ottobre l’ennesimo calo o il dato sulla vendite delle case esistenti che ha segnato una flessione dell’1,2 per cento e soprattutto del prezzo mediano che registra forse il più alto calo della storia recente, registrando una flessione del 5,1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, per non parlare poi dello stillicidio di notizie su nuovi tagli all’occupazione nel settore finanziario.

D’altra parte, è quantomeno evidente che, passare da un ritmo di crescita del prodotto interno lordo che dovrebbe aggirarsi per il terzo trimestre di quest’anno poco al di sotto del 5 per cento allo striminzito 1,5 per cento previsto per l’ultimo trimestre, rappresenta certamente uno shock per investitori e risparmiatori ed è realmente alquanto probabile che, nonostante le voci dissenzienti di alcuni membri, Bernanke si piegherà nuovamente ai desideri dei banchieri e dell’inquilino della Casa Bianca, ripercorrendo così pari pari la strada già sperimentata dal suo celebre predecessore, Alan Greenspan.

Le previsioni di quasi certa recessione autorevolmente formulate dal capo economista di Goldman Sachs e dagli analisti di Merrill, con questi ultimi che si spingono sino a parlare di questa come di una fase salutare per l’economia USA dopo la lunga fase di crescita, rappresentano, peraltro, un’ulteriore spinta ai decision makers della Fed, che, già di per loro, hanno un approccio molto più pragmatico e pro mercato dei templari che guidano la Banca Centrale Europea, che, molto in stile vecchia Europa, sono ancora legati ai pregiudizi anti inflattivi ereditati da quella Bundesbank che i disoccupativi li contava utilizzando il milione come unità di misura.

Come scrivevo già il 3 settembre scorso, solo il tempo sarebbe, e sarà, in grado di dirci se le terapie escogitate dalle banche centrali e dai governi potranno riportare la fiducia e convincere i risparmiatori ad abboffarsi nuovamente di quella carta in vario modo rappresentativa del debito di qualcun altro che è la versione contemporanea della moltiplicazione dei pani e dei pesci operata da qualcuno più in alto di Ben Bernanke, Jean Paul Trichet e ultimo, ma proprio ultimo, di quel prode Governatore della Bank of England a stento sottratto due mesi orsono alla violenza fisica dei solitamente compassati membri del Parlamento britannico per la sua brillante gestione del caso Northern Rock.

Se il futuro è realmente imprevedibile, e vi consiglio di diffidare fortemente di chiunque sostenga il contrario, è, tuttavia, sufficiente uno sguardo al presente per farci capire che, dopo migliaia di miliardi di euro di interventi sul piano della liquidità e a sostegno dei cambi, i nostri prodi non sono ancora riusciti a convincere le banche a smetterla con quel clima di sfiducia reciproca che anche ieri, al di là e al di qua dell’Atlantico, vedeva un ulteriore irrigidimento delle condizioni sul mercato interbancario, che nel caso dell’euribor vede i tassi a tre mesi a meno di 5 punti base dal massimo toccato nel corso di questa crisi finanziaria che dura ormai da poco meno di quattro mesi.

Riprendendo la stima di Jan Hatzius, mai troppo citato capo economista di Goldman Sachs, quella che vedeva 10 dollari di credito tagliato per ogni dollaro di perdite subito dalle banche e questo al solo scopo di mantenere intatti i ratio patrimoniali, vorrei aggiornare, in base alle ultime evidenze, la sua previsione di un taglio da 2 mila a 4 mila miliardi di dollari per il solo mercato creditizio statunitense, per azzardarne una che, a livello stavolta globale, porta il credit crunch nel 2008 ad oscillare tra i 6 e gli 8 mila miliardi di dollari, una stima che, quindi, ipotizza che le perdite potrebbero variare tra i 600 e gli 800 miliardi di dollari.

D’altra parte, basti pensare che nei soli Conduit e SIV, se condo le stime di un’analista di uno dei più grandi gruppi bancari europei, sono custoditi titoli della finanza strutturata per 2.700 miliardi di dollari, che almeno altri mille fanno capo direttamente alle banche e alle compagnie di assicurazione e sommando gli LBO e altra roba del genere si arriva facilmente ad oltre 4 mila miliardi dollari di titoli al valore nominale che il mercato oggi quota dal 20 ad un massimo dell’80 per cento per avere una stima di perdite che va dagli 800 ai 2 mila miliardi di dollari, perdite che potrebbero emergere gradualmente nei prossimi tre anni.

Si tratta, ovviamente, di un puro esercizio teorico, anche se temo che, a meno che non vengono escogitati sistemi per pubblicizzare in qualche modo le perdite, né le immissioni di liquidità, né ripetuti e selvaggi tagli dei tassi di interesse, né gli alquanto improbabili fondi interbancari di salvataggio sono in grado di fornire una risposta efficace a problemi anche di dimensioni molto più ridotte di quelle riportate sopra, ritenendo, anzi, che alcune di queste risposte potrebbero davvero essere controproducenti per un disastro che è nato proprio da un prolungato mix di alta liquidità e infimi tassi di interesse.

Se questa è una crisi che trae le sue origini dagli eccessi del mercato finanziario, per quanto assecondati dalla folle politica monetaria del Maestro Greenspan, eccessi che hanno prodotto una montagna di profitti delle banche e dei loro top manager, è forse più giusto che le risposte ed i costi relativi provengano dall’interno del sistema stesso, attraverso una ristrutturazione che veda i gruppi più forti farsi carico di quelli ormai in dissesto, senza oneri espliciti o impliciti per i contribuenti.

mercoledì 28 novembre 2007

Citigroup è alla frutta?

Il pendolo è tornato ieri nuovamente verso gli Stati Uniti, con la notizia che il fondo governativo di Abu Dhabi ha chiuso ieri un'operazione finanziaria con la quale investe 7,5 miliardi di dollari in un prestito convertibile che consentirà agli investitori arabi di acquisire, se lo vorranno, il 4,9 per cento delle azioni dell'ormai fragile colosso finanziario statunitense al prezzo di 37,24 dollari per azione, con esercizio della conversione in un periodo compreso tra il 15 marzo del 2010 e il 15 settembre 2011.
Molto più interessante del possibile acquisto futuro con rimpiazzo del principe Bin Al Waleed come primo azionista di Citi è il fatto che il rendimento delle obbligazioni convertibili di cui godranno gli avveduti investitori arabi sarà dell'11 per cento annuo, ben al di sopra di quel 7,3 per cento attualmente corrisposto da Citigroup sulle sue obbligazioni, un tasso che rivela in modo molto evidente le difficoltà in cui versa il gruppo bancario alle prese con una montagna di titoli della finanza strutturata presente nel proprio bilancio ed una altra, di dimensione forse maggiore, parcheggiata presso un numero sterminato di SIV e Conduit.
Come dicevo ieri, la mossa del gruppo bancario numero uno in Europa, la HSBC, consistente nell'acquisire, seppure con sconto, 45 miliardi di assett da due dei suoi sette SIV mette ulteriormente in difficoltà Citigroup e le altre maggiori banche statunitensi, in quanto diventa più difficile per loro sottrarsi agli inviti pressanti delle autorità di vigilanza che chiedono loro trasparenza e, quindi, di rimettere sopra la linea del bilancio quella massa sterminata di CDO, LBO, Commercial Papers e via discorrendo attualmente parcheggiati nei veicoli posti fuori dal bilancio.
Nel frattempo, l'euforia per le vendite nel week end del Thanksgiving Day si è presto dissolta dopo il vero e prorpio tonfo dell'indice del Conference Board che misura la fiducia dei consumatori, indice che ha toccato, in ottobre, il livello più basso degli ultimi due anni, tornando ai livelli toccati dopo il forte impatto emotivo legato al ciclone Katrina che sommerse New Orleans.
Nè qualche conforto è venuto dalla diffusione del dato sul prezzo delle case che ha segnato, nel terzo trimestre di quest'anno, la contrazione maggiore, -4,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, mai toccata da quando S&P rende noto l'indice, una flessione che conferma peraltro quanto è emerso da un'altra indagine che ha evidenziato un calo dei prezzi delle case su base annua in settembre pari al 4,9 per cento.
Né va sottovalutato l'allarme lanciato in uno studio commissionato a Global Insight dalla conferenza dei sindaci statunitensi e che prevede un calo del valore degli immobili statunitensi nel 2008 del 7 per cento, una flessione cifrabile in 1.200 miliardi di dollari e con conseguenze sull'economia reale e sull'occupazione alquanto pesanti, -166 miliardi per quanto riguarda l'aggregato che misura la creazione di ricchezza degli Stati Uniti.
Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, e gli analisti di Merrill Lynch concordano almeno su un punto, il forte rialzo delle probabilità di una recessione prossima ventura negli Stati Uniti, ricordo che viene definita tale la variazione negativa del PIL per almeno due trimestri di fila, e, mentre Hatzius vede una Fed particolarmente reattiva e pronta a portare i tassi sui Fed Funds al 3 per cento dall'attuale 4,5 entro la metà del 2008, gli analisti di Merrill giudicano addirittura salutare una fase di recessione che dovrebbe portare ad un punto di equilibrio più sostenibile, anche se le recessioni, mi permetto di dire, si sa quando iniziano ma è raramente chiaro dove portano e, soprattutto, quando finiscono.
L'immissione di liquidità effettuata ieri dalla Federal Reserve e gli annunci della Banca Centrale Europea continuano a non sortire effetti sul mercato interbancario che sia nei tassi a tre mesi sull'eiro che in quelli sulla sterlina inglese continuano a mantenersi a livelli di guardia e che superano, rispettivamente, di 72 e 80 punti basi i tassi ufficiali, segno evidente che, nonostante la decisione presa da HSBC, ancora molto deve emergere dagli off balance sheet e, quindi, la sfiducia reciproca regna sovrana.
Non accenna a placarsi, nel frattempo, la guerra per banche in corso in Italia, in particolare il conflitto tra Intesa-San Paolo e Unicredit Group, mentre vi è molto movimento anche ai livelli immediatamente inferiori della graduatoria delle banche italiane, con continui rumors su possibili vendite e speculari acquisizioni che presentano lo stesso grado di imprevedibilità ex ante che ha avuto l'acquisizione di Antonveneta da parte del gruppo Monte dei Paschi di Siena realizzatasi nelle scorse settimane.
L'ultimo pomo della discordia tra Passera e Profumo è stata la questione delle nomine al vertice di Telecom Italia, in particolare l'attribuzione della carica di capo azienda con pieni poteri a Franco Bernabè, fortemente avversata da Unicredit e fatalmente avvenuta pur in presenza del voto contrario del rappresentante dell'istituto di Piazza Cordusio nel comitato nomine di Mediobanca, venendo così a rappresentare l'ennesima sconfitta in ordine di tempo delle richieste dell'ex ragazzo d'oro della finanza italiana, al momento angustiato anche dall'evidente presenza di mani forti ribassiste sul corso di un titolo che non riesce in alcun modo ad allontanarsi dall'area dei 5,60 euro.
Una bella consolazione è venuta a Profumo dall'attribuzione, avvenuta due giorni fa a Londra, del titolo di banchiere dell'anno ad opera della rivista Financial News, mentre, per The Banker, Unicredit Group è la igliore banca nell'Europa centrale e in quella dell'Est.
Alla lista delle banche investigate da Banca d'Italia per la questione dei derivati, si è aggiunta, anche se è stata definita di routine, un'ispezione della Vigilanza presso la sede milanese della Banca Popolare di Milano, attualmente alle prese con le aspirazioni del gruppo francese Credit Mutuel.

martedì 27 novembre 2007

La mossa di HSBC mette nei guai Citigroup


Ancora una volta, le brutte notizie vengono dall’Europa, dove, dopo un avvio positivo dei listini e, in particolare, delle azioni delle principali banche europee, positivamente condizionate dall’avvio a soluzione dell’acquisto della Northern Rock da parte del Gruppo Virgin, la situazione ha cominciato a farsi pesante dopo l’annuncio del colosso britannico e prima banca europea Hong Kong Shanghai Banking Corporation di aver trasferito sui suoi conti titoli per 45 miliardi di dollari facenti capo a due suoi SIV (Structured Investment Vehicles), iniettando 35 miliardi di dollari nelle due società.

La notizia ha fatto tremare i polsi degli operatori, anche il base al fatto che nei principali 30 SIV sono allocati titoli per ben 320 miliardi di dollari ed è evidente che difficilmente le banche che li hanno creati potranno esimersi dall’imitare l’oneroso bel gesto della rivale inglese e saranno quindi, a loro volta, costretti a prendere il possesso diretto di titoli che attualmente quotano anche il 20 per cento del loro valore nominale.

E’ altresì utile ricordare che, secondo un report di un analista facente capo al gruppo BNP Paribas, il totale dei titoli presso Conduit e SIV ammonterebbe, a livello globale, ad un valore nominale pari a 2.700 miliardi

D’altra parte, è proprio per realizzare soluzioni alternative a quella seguita da HSBC che sia negli Stati Uniti che, in questi giorni, in Europa si sta lavorando a creare dei fondi che si facciano carico della massa sterminata di titoli che sono in possesso diretto delle banche o sono allocati presso SIV e Conduit, per un ammontare complessivo che difficilmente è inferiore ai mille miliardi di dollari.

Così come desta preoccupazione la notizia che, secondo un organismo finanziario sovra nazionale, le perdite stimate sui soli credit default swap sarebbero nell’ordine di oltre 700 miliardi di dollari, mentre gli investitori impegnati nell’attività di carry trading stanno precipitosamente chiudendo le loro posizioni debitorie sullo yen, sia per l’apprezzamento della valuta giapponese già verificatosi che per le previsioni che vedono vicino il livello di 100 yen per dollaro.

Per tornare ai problemi della gente comune, è sempre di ieri la notizia che Citigroup, ancora alla ricerca di qualcuno che voglia prendersi la responsabilità di guidare il colosso creditizio fuori dalle secche in cui l’ha portato la gestione dissennata degli ultimi anni, ha intenzione di operare una bella sforbiciata agli organici, si parla di 45 mila licenziamenti e non si sa se la cifra include il taglio di 17 mila persone già annunciato in precedenza, senza al contempo annunciare una riduzione degli stipendi dei top manager e dei semplici manager o l’annullamento dei bonus e superbonus previsti per l’anno in corso.

Che la situazione stia entrando in una fase più acuta lo dimostra, peraltro, il fatto che, nonostante il fermo comunicato della Banca Centrale Europea in cui si esprimeva la volontà di fornire al mercato tutta la liquidità necessaria, anche ieri i tassi interbancari hanno percorso un altro gradino verso i massimi toccati alcune settimane orsono, cosa che non riguarda solo l’euribor ma sta avvenendo anche sui tassi interbancari sul dollaro e la sterlina inglese.

Restando ancora sul mercato del crediti in Europa, l’outing di HSBC ha spinto nettamente verso il basso l’intero comparto bancario europeo e, per quanto riguarda l’Italia, a farne maggiormente le spese è stata l’azione di Unicredit Group che tentava, da alcune sedute di riportarsi verso livelli più adeguati e che ieri ha lasciato 3,2 punti percentuali sul terreno.

L’acquisizione di Northern Rock da parte del gruppo guidato da Richard Branson presenta caratteristiche che non sono destinate a rendere felici né gli azionisti né la Bank of England, in quanto ai primi verrà offerto il prezzo nominale dell’azione pari a 25 pence, un quarto di quanto quotava oggi, mentre alla BoE, per il momento, Branson restituirà poco più di un terzo delle somme ricevute a titolo di finanziamento straordinario dalla banca per evitare l’onta del default.

Se le cose si sono messe oggi male per le banche europee, ancora peggio è quello che accadute alle banche statunitensi che, accomunate dal segno meno, presentano però sensibili differenze nell’entità della caduta che ha toccato anche le due cifre per Fannie Mae, Freddie Mac e per le poche banche specializzate nel settore dei mutui che ancora non hanno chiesto la protezione delle procedure fallimentari.

Per la prima volta, poi, anche nell’after trading, fase nella quale gli investitori istituzionali la fanno da padroni, è continuata, fatte salve poche eccezioni, la fase discendente dei titoli finanziari, mentre ieri è stata realmente la giornata dei Treasury Bonds, con la scadenza decennale salita al punto da portare il rendimento al livello del 3,86 per cento.

Stranamente, tarda il dato di ottobre sulle procedure di espropriazione delle case dei mutuatari in ritardo con le rate del mutuo, una procedura che, nei soli ultimi quattro mesi, ha riguardato oltre 600 mila famiglie ed oltre 400 mila abitazioni, anche se le previsioni sul dato sono poco ottimistiche.

lunedì 26 novembre 2007

Crisi di liquidità: atto II

L’entrata in vigore del FASB157, il pressing delle società di rating sulle compagnie che assicurano la restituzione di capitale ed interessi dei bond di ogni specie e natura in caso di default dell’emittente sul versante statunitense della crisi, il salvataggio della francese Natixis, o meglio del suo braccio assicurativo coinvolto nelle garanzie ai prodotti della finanza strutturata, nonché gli effetti prossimi venturi di Basilea II e di Solvency II sui ratio patrimoniali, rispettivamente di banche e compagnie di assicurazioni, sul versante europeo hanno certamente guastato la già laboriosa digestione dei protagonisti del mercato finanziario statunitense alle prese con gli effetti di quell’orgia culinaria rappresentata dal pasto del giorno del ringraziamento, mentre i loro omologhi europei e giapponesi hanno certamente impiegato il weekend ad interrogarsi sulla non del tutto improvvisa accelerazione della crisi di liquidità sul mercato interbancario europeo.

Sugli effetti dell’entrata in vigore, all’inizio della settimana scorsa, dei nuovi criteri contabili previsti dal FASB157, un esame analitico della situazione delle maggiori banche statunitensi può essere senz’altro di ausilio, anche perché il venir meno della possibilità di valutare “in casa” il valore effettivo dei cosiddetti crediti di terza fascia elimina, o almeno dovrebbe, ogni possibilità di edulcorare la realtà nei conti aziendali in relazione a prodotti della finanza strutturata che presentano, in alcuni e non rari casi, più di una difficoltà a fare prezzo in mercati di fatto illiquidi.

Secondo stime fornite dal Daily Telegraph e riprese da un quotidiano finanziario italiano, la sola Citigroup sarebbe in possesso di titoli della finanza strutturata per 128 miliardi di dollari, cifra pari al 220 per cento del suo patrimonio, mentre Morgan Stanley disporrebbe di 88 miliardi di dollari di titoli della specie(pari al 270 per cento del suo patrimonio, Goldman Sachs, di cui ho ricordato la mega svendita di questa roba effettuata a partire del novembre 2006, continua ad averne per 72 miliardi di dollari (210 per cento del patrimonio) e la Lehman Brothers “solo” 35 miliardi (190 per cento del patrimonio), un outstanding, per le sole quattro entità considerate, pari a 323 miliardi di dollari che, mediamente, rappresentano più di due volte del doppio del patrimonio complessivo.

Se si considerano le svalutazioni compiute, ad esempio, da Merrill Lynch, Bank of America, JP Morgan-Chase, Wachovia, Fannie Mae, Freddie Mac, si comprende meglio il motivo per il quale autorevoli analisti hanno stimato, già all’indomani dell’entrata in vigore dei nuovi criteri contabili, che le perdite derivanti da svalutazioni e senza considerare l’effetto di rimbalzo negativo del FASB159 largamente utilizzato per lenire le perdite del terzo trimestre, dovrebbero collocarsi, tra l’ultimo trimestre di quest’anno e il primo del 2008, tra i 250 e i 500 miliardi di dollari.

Il mini rimbalzo di venerdì che ha accomunato i tre indici principali di Wall Street, ma in particolare il sotto indice dei titoli finanziari, in una giornata a chiusura anticipata per il lungo week end del Thanksgiving Day, è realmente indicativo non solo di quella schizofrenia dei mercati che ha dato il meglio di sé a partire dal 9 agosto scorso, ma anche di un mercato in qualche modo autoreferenziale in una giornata in larga misura di esclusivo dominio degli investitori istituzionali, poco disturbati dal parco buoi che ha concentrato, come avviene da molte sedute, sull’acquisto di Tbills e di Tbonds di varia durata.

Segnalo da qualche giorno che, dopo un lento e costante allentamento delle tensioni sul mercato interbancario europeo durato alcune settimane e che aveva portato i tassi a tre mesi almeno 20 punti base al di sotto del massimo del 5,79 per cento, la tensione continuava a salire anche al ritmo di 5 punti base al giorno, sino a sfiorare il 5,70 per cento venerdì, quando, come era già accaduto mercoledì, le banche hanno smesso di prestarsi soldi tra di loro, rinviando ogni operazione ad oggi.

Solo a mercati chiusi, la Banca Centrale Europea ha emesso uno scarno e secco comunicato nel quale afferma di essersi accorta (sic) delle tensioni in corso sul mercato dei prestiti interbancari ed ha promesso che non farà mancare la liquidità, almeno fino alla scadenza (che già si preannuncia rovente) di fine anno, ma omette di dire che il livello dei tassi e la sfiducia reciproca delle banche avviene a livelli di quasi 30 punti base al di sopra del livello toccato il 9 agosto, quando, dopo il congelamento temporaneo di tre fondi da parte di BNP Paribas, il Board autorizzò, dopo frenetici contatti telefonici tra i membri in vacanza, un’immissione di liquidità di 96 miliardi di euro, pari ad una volta e mezzo l’intervento effettuato alla riapertura dei mercati dopo gli attentati dell’11 settembre.

Così come ovviamente omette di dire che ad immissioni di liquidità sempre più massicce, accompagnate dal via libera ad accettare anche l’inaccettabile dalle banche come titoli a garanzia delle suddette immissioni, per lunghe settimane la situazione non accennò a migliorare e bastò una, seppur grave, incomprensione tra il Cancelliere dello Scacchiere britannico e lo sventurato Governatore della Bank of England, per assistere all’assalto agli sportelli della Northern Rock e al successivo adeguamento della BoE al frenetico interventismo della BCE e della Federal Reserve che avevano da tempo abbandonato il principio, sacro quando tutto va bene, che non vanno in alcun modo premiati i comportamenti scorretti degli operatori finanziari.

Pur essendo ovvio, giunti a questo punto di disvelamento, che la pensata di Henry Paulson, la creazione, cioè, di una sorta di meccanismo cooperativo volto ad assorbire, a quali prezzi?, la spazzatura che sta soffocando le banche di tutto il mondo rischia, come tempestivamente ammonì il Maestro Greenspan, di risultare non utile e forse anche controproducente, anche perché non vi è chi ha potuto esimersi dal notare che la più grande istituzione finanziaria del mondo, Goldman Sachs, sta giocando, e come si è visto da un anno almeno a questa parte, apertamente controcorrente, con l’obiettivo, neppure troppo nascosto, di uscire vincitrice da una ristrutturazione feroce al vertice non solo delle Big Five, ma anche delle banche commerciali statunitensi.

Pur non appartenendo alla schiera dei dietrologi e di quelli che vedono un complotto in ogni evento rilevante, non posso esimermi dal notare che alla riunione annuale del Gruppo Bildberg svoltasi in Turchia a giugno, oltre ad una vasta rappresentanza degli uomini al vertice di Goldman Sachs o con un passato in quella istituzione, vi erano tutti i protagonisti della finanza mondiale, incluso Jean Claude Trichet, mentre, per l’Italia, spiccava la presenza di Franco Bernabè, Mario Monti, Paolo Scaroni e Domenico Siniscalco. Pur essendo secretati gli interventi, è possibile che la crisi prossima ventura non sia stata nemmeno sfiorata?

venerdì 23 novembre 2007

Servono nuove regole per questo finance casinò



Mentre Paulson, Blankfein, Rubin, Bernanke e tutti gli altri protagonisti del mercato finanziario statunitense sono impegnati a mangiare il tacchino ed i dolci tradizionali di quella ricorrenza così cara agli americani come è il giorno del ringraziamento, il resto del mondo ha vissuto una giornata in relativo surplace, con qualche tonfo nell’Asia di matrice cinese ed un relativo pari e patta della borsa di Tokyo, mentre agli europei non è parso vero di vivere una giornata che si conclude tra le 17 e le 18, senza l’incubo di quello che poi accadrà nelle ore successive a Wall Street.

L’andamento delle quotazioni di ieri ha, inoltre, confermato i sospetti sulla patria di origine di molti di coloro che stanno giocando apertamente al ribasso sulle azioni delle principali banche europee, certi, come lo era Gorge Soros quando scommise sulla svalutazione di sterlina e lira italiana nel 1992, che vi sarà sempre un livello più basso al quale ricoprirsi con lauti se non cautissimi guadagni.

L’assenza di dichiarazioni dei pezzi grossi di quell’enorme casinò all’aperto che è ormai il mercato finanziario statunitense ha ridato la voce al Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che, parlando a Francoforte, si è ricordato della pericolosità di quegli stessi hedge funds, che, da presidente del Financial Stability Forum, aveva graziato non più tardi di cinque mesi, alla vigilia dell’avvio della “tempesta perfetta”, chiedendo oggi che qualcuno, chi?, deve decidersi ad imporre regole più severe.

Ma il punto più toccante del suo discorso è stato certamente il passaggio che ha voluto dedicare allo sconcerto imperante sulla questione della vendita di derivati, confermando con approccio scientifico che quello che prevale è un modello Origineted to Distribute (OtD), modo alquanto elegante per dire che, in realtà, banche e compagnie di assicurazione hanno trasferito gran parte dei loro rischi ad una clientela fatta di piccole e medie imprese, nonché di voraci amministratori di enti locali di ogni ordine e grado, si tratterebbe quindi della vecchia storia dell’offerta che crea la propria domanda.

Ma una volta fatte queste affermazioni e rilevato che ciò non è proprio un bel modo di agire (almeno ad avviso di chi aveva inaugurato il suo governatorato pronunciando una parola, reputazione e rischi reputazionali, il cui significato molti banchieri andarono di corsa a controllare sul dizionario), Draghi si è dato anche una risposta, chiarendo che molto difficilmente banche e compagnie di assicurazione vorranno rinunciare a queste cattive pratiche, al che i più hanno pensato che a parlare non era un decision maker italiano, europeo ed anche mondiale, ma un passante in vena di esternare le sue considerazioni.

In una giornata così fiacca, risalta con maggiore evidenza la persistente tendenza al rialzo dei tassi interbancari, senza distinzione per valuta di riferimento, ed è possibile notare che, in particolare quelli sulla sterlina inglese e sull’euro, gradino dopo gradino, stanno tornando pericolosamente vicino ai livelli toccati nelle settimane più calde di agosto e settembre, segno evidente che la sfiducia reciproca tra le banche sta velocemente tornando a toccare livelli di guardia, con l’aggravante che tutto quello che poteva essere tentato dalle banche centrali in materia di iniezioni di liquidità e di riduzioni dei tassi di interesse è stato già messo in atto e che, oltre questo, vi sarebbe solo la perdita di credibilità degli stessi banchieri centrali.

In un breve lancio, l’Associated Press ha fatto il conto dei morti e dei feriti dopo la brusca flessione segnata mercoledì a Wall Street, con tutte le investment bank, fatta eccezione ovviamente per Goldman Sachs, ormai a i minimi delle ultime 52 settimane, in gran parte per le speculazioni sempre più diffuse sulla scarsa attendibilità dei loro bilanci e per l’impatto delle nuove norme contabili sul quarto trimestre e su quelli successivi.

Sempre mercoledì, è stato finalmente annunciato il nome della istituzione che gestirà l’ancora non nato MLEC, il fondo interbancario che dovrà accogliere la montagna, o almeno una parte di essa, di titoli della finanza strutturata che stanno letteralmente soffocando le banche dei cinque continenti, un nome, quello della BlackRock Inc., che, pur dicendo poco a noi europei, è in realtà il più grande money manager statunitense e gestisce assett per ben 1.300 miliardi di dollari.

Nei giorni scorsi, riportavo la cifra dei superbonus che verranno erogati, tra poche settimane a Wall Street, ma ho poi scoperto che la cifra, già molto elevata, si riferiva soltanto alle prime cinque banche statunitensi, mentre allargando l’attenzione alle prime sette banche si raggiunge la cifra di ben 95 miliardi di dollari già maturati nei primi due trimestri dell’anno e si apprende che tale cifra sarà solo parzialmente decurtata per i disastrosi dati dei due trimestri successivi.

A dispetto delle incertezze e dei tentennamenti di Draghi e degli altri banchieri centrali è ormai giunta l’ora di individuare in tempi rapidi un nuovo sistema di regole che impedisca questa continua traslazione del rischio e la pressoché totale impunità di quanti, a tutti i livelli, se ne rendono colpevoli, così come non è più derogabile una riflessione profonda sui meccanismi di remunerazione dei top manager e dei loro più stretti collaboratori, almeno prevedendo che ai più che lauti e spesso immotivati premi corrisponda un chiaro e trasparente sistema sanzionatorio.

Sempre approfittando della vacanza dei mercati statunitensi, vorrei inoltre fare qualche considerazione sulla vera e propria montagna di bond, in almeno un caso multipli dello stesso fatturato, che sono stati emessi dalle principali società italiane, spesso emessi utilizzando veicoli esteri, per un ammontare che supera i 100 miliardi di euro per le sole prime tre società per capitalizzazione di borsa, così come ricordo, a solo titolo di memoria, che, anche dopo i casi Parmalat, Cirio e Giacomelli e l’emanazione di una legge che dovrebbe tutelare i risparmiatori, non esistono ancora previsioni atte a scongiurare l’ipotesi di un default prossimo venturo

giovedì 22 novembre 2007

La grande fortuna di Goldman Sachs

Il vero e proprio crollo delle azioni delle banche statunitensi, seguite a ruota da quelle europee e, più di recente, anche da quelle giapponesi sta toccando livelli inimmaginabili non più tardi di cinque mesi fa, né nulla di buono può venire dal rapporto reso noto dall’OCSE, nel quale le stime sulle perdite massime per il sistema bancario mondiale sono state innalzate alla cifra di 300 miliardi di dollari.

Dal mondo ovattato e permeato dal massimo riserbo di Goldman Sachs, trapela intanto una ricostruzione dei motivi per i quali una delle banche più impegnate nella finanza strutturata è uscita pressoché indenne dalla “tempesta perfetta” che dal 9 agosto scorso sta scuotendo fin dalle fondamenta le altre quattro partecipanti al club delle Big Five e decine di banche sparse nei cinque continenti.

Secondo un quotidiano finanziario italiano, la ragione del miracolo starebbe nella decisione, presa, nel novembre dell’anno scorso, dal direttore finanziario di Goldman, David Viniar, ma non contrastata dagli altri partner, di iniziare ad alleggerire da quel momento e in modo massiccio la montagna di posizioni in derivati, CDO, LBO, subprime e altri prodotti della finanza strutturata.

Nello stesso articolo, si ricorda l’entusiasmo con il quale le altre banche d’affari statunitensi fecero la fila per acquisire pezzi del portafoglio giudicato non più desiderabile da Goldman Sachs, né mancarono poco riguardosi commenti sull’anziano direttore finanziario che ne aveva deciso la vendita, anche perché, in quella fase, la finanza strutturata appariva alla maggior parte degli operatori come la gallina dalle uova d’oro e nessuno, ma proprio nessuno, sembrava credere che quella crescita esponenziale di commissioni, utili e relativi bonus si sarebbe arrestata a breve e in un modo così drammatico.

In gergo tecnico, la decisione di Viniar viene definita “girare le posizioni”, cosa che risulta ancora più agevole quando il resto del mondo continua ad andare in direzione opposta, ma vi è un valore aggiunto intrinseco nella maxi vendita, ed è rappresentato dal fatto che nessuno come il numero uno di Goldman conosce con relativa esattezza chi e per quanto è nei guai in questi giorni, anche se, a questo punto, la blasonata istituzione newyorkese rischia un mega procedimento per insider, legato allo scetticismo sul fatto che sia stato solo il fiuto di Viniar e non qualche informazione dall’alto, molto dall’alto, a salvare la banca e a darle l’invidiabile primato di essere l’unica a vantare il segno più nelle quotazioni di borsa rispetto ai valori di inizio anno.

Dopo la pubblicazione dei dati di Freddie Mac, il can can degli analisti sui criteri contabili seguiti dalla banca e dal colosso Fannie Mae non accenna a placarsi e le due istituzioni, oltre al tracollo in borsa, sembrano vedere sempre più concretamente sfumare l’ipotesi di essere destinatarie di buona parte dei provvedimenti legislativi prossimi venturi che un Congresso in pieno clima elettorale sembra sempre più ansioso di varare e con maggioranze bipartisan in grado di sventare eventuali veti da parte di Bush.

Dopo Mizuho Financial Group e Sumitomo Mitsui Financial Group, rispettivamente seconda e terza banca del Giappone, è la volta della Mitsubishi UFJ Financial Group a dover evidenziare un calo del 49 per cento nei profitti del primo semestre, flessione legata alle svalutazioni dei crediti nel settore dei mutui subprime (ne ha per 2,38 miliardi di dollari) e in quello delle carte di credito.

L’ormai attivissimo ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, in un’intervista al Wall Street Journal ha reso noto che la situazione prevista per il 2008 sarà ampiamente peggiore di quella, in realtà già alquanto orribile, che stiamo vivendo nell’anno in corso, mentre non è servita certo a risollevare gli animi la notizia della richiesta pressante di documenti avanzata dalla Securities and Exchange Commission nei confronti di MGIC e Radian, le due maggiori compagnie di riassicurazione di prestiti che avrebbero costretto al fallimento C-Bass una loro joint venture specializzata nell’erogazione di mutui subprime.

Nel panorama creditizio europeo, spicca la sempre più precaria situazione delle banche britanniche, con l’azione di Northern Rock in fase di avanzata evaporazione e Royal Bank of Scotland e Barclays ormai quotidianamente impegnate a smentire rumors e a cercare in ogni modo di non segnare nuovi minimi dell’anno, ma non è che le cose vadano granché meglio per le banche francesi, tedesche, italiane e svizzere, queste ultime colpite oggi dal downgrade inflitto a Credit Suisse.

Ma il fronte che minaccia di rivelarsi più caldo è senza dubbio quello valutario, non solo e non tanto per il costante rafforzamento dell’euro che sembra puntare sempre più decisamente alla soglia di 1,50 dollari (cosa che sta portando al calor bianco la polemica, ormai al limite delle contumelie tra i templari della Banca Centrale Europea e i politici, in particolare quelli francesi con Sarkozy alla testa), quanto per la chiusura massiccia di posizioni debitorie in yen che sta spingendo la valuta nipponica nell’area dei 108 yen contro dollaro e verso un rafforzamento generalizzato nei confronti delle altre principali valute.

Sempre sul fronte valutario, non va sottovalutato il crescente nervosismo dei produttori di petrolio e di altre materie prime per il continuo deprezzamento del dollaro, anche perché posizioni sinora di pertinenza degli “estremisti” iraniani e venezuelani vengono ora riproposte, seppur con diversi accenti, dai sauditi e dai paesi del Golfo arabico, le cui valute sono ormai da decenni legate alla valuta statunitense.

Altra giornata in trincea anche per i banchieri italiani, anche se più che il nervosismo dei loro azionisti sembra turbarli l’attivismo sul mercato dei loro concorrenti, anche perché il volume complessivo degli scambi e certe punte che si ripetono ormai più volte al giorno sembrano sempre più provenire da manine, o manone, interessate, né serve pensare che, ove sia vero, si tratta certamente di un gioco suicida e dagli esiti francamente imprevedibili.

Continua nel frattempo a far discutere l’educato j’accuse rinvenibile tra le righe della già citata intervista rilasciata da Matteo Arpe all’Espresso, un’intervista di cui non va peraltro sottovalutata l’anomala collocazione né l’identità dell’intervistatrice, anche perché in una fase nella quale l’attivismo di private equity ed hedge fund sta turbando gli equilibri del nostro capitalismo consociativo, non sono in pochi a temere il ritorno in campo del giovane banchiere.

mercoledì 21 novembre 2007

Scontro non sempre leale tra banche negli Stati Uniti e in Italia

Non deve stupire il risalto che la stampa, e non solo quella finanziaria, dedica alla notizia del giorno e che è rappresentata dal fatto che, nel bel mezzo di una crisi finanziaria senza precedenti e mentre buona parte delle azioni delle banche statunitensi ed europee stanno testando, spesso con successo, a violare verso il basso i minimi dell’anno, top managers e dipendenti delle banche statunitensi si apprestano a dividersi allegramente 38 miliardi di dollari in super bonus.

Apparentemente incuranti del fatto che l’infezione dei guasti della finanza strutturata sta spandendosi nei cinque continenti, è solo di ieri la notizia del coinvolgimento della Bank of China per 1 miliardo di dollari, i sopravvissuti del vasto popolo di addetti alle varie entità che operano nel mercato statunitense aspettano ansiosamente i solitamente squallidi festini natalizi nei quali vengono distribuite le tanto attese buste contenenti gli assegni dei bonus che un sistema incentivante che ha pochi eguali al mondo prevede per loro.

Anche se le musiche che suoneranno in questa catena di party aziendali richiamano alla mente la melodia intonata dall’orchestra al momento dell’affondamento del Titanic, sono convinto che quel momentaneo brivido non basterà a sollevare gli umori dell’esercito di analisti, traders, venditori e dei loro capi, anche perché la caduta degli dei e la decimazione dei loro subordinati è ben lungi dall’essere giunta al termine, così che non saranno pochi a quelli che penseranno all’eventualità di ricevere, in genere di venerdì pomeriggio, ben altro e più temuto tipo di missiva, quella che annuncia, con accluso assegno, la fine del rapporto di lavoro.

D’altra parte, la vera e propria lotta per la sopravvivenza in corso tra le Big Five statunitensi, una lotta che vede anche i report di valutazione dei rivali utilizzati come vere e proprie armi, sta iniziando a disseminare i propri effetti, con Goldman Sachs che degrada in un sol giorno mezzo sistema bancario americano e si diverte a fare le pulci ad almeno due delle tre banche che hanno avuto la sventurata idea di seguire l’invito del precedente presidente di Goldman e attuale ministro del Tesoro, Henry Paulson, ad impegnarsi in un gioco cooperativo dal quale la sua ex banca si è apertamente dissociata, ammassando munizioni per poter raccogliere i resti di qualcuna delle sue rivali.

Né migliore fortuna la ha avuta Paulson in campo valutario, basti pensare che il suo annuncio di due giorni fa in Asia del permanere della politica del dollaro forte come interesse strategico degli Stati Uniti è stato salutato dal balzo dell’euro sopra la soglia di 1,48 contro dollaro e dal ritorno dello yen al di sotto della parità di 110 yen per dollaro, anche perché, tra le risa degli astanti, il suo omologo cinese ha affermato che anche uno yuan forte è nell’interesse strategico della Cina.

Dopo la vera e propria mattanza delle quotazioni di tutte le banche statunitensi e di quelle britanniche verificatasi lunedì, una mattanza che non ha risparmiato neppure la spiona Goldman, il mercato ha tentato ieri un timido rimbalzo in attesa di rinvenire una parola di conforto nelle minute dell’ultimo consiglio della Federal Reserve, incluso qualche segnale che Bernanke e soci si ripeteranno per la terza volta di seguito nella riunione dell’11 dicembre, dimostrando così che le affermazioni sulla loro neutralità rispetto alle pressioni del mercato hanno più o meno la solidità di quelle di Henry Paulson sulla necessità di avere un dollaro forte.

Non vi è stato il tempo ieri di apprezzare l’incremento delle costruzioni di nuove case in ottobre, in larga misura legato al volatile segmento degli appartamenti e che segna comunque una flessione annua di oltre il 16 per cento, che l’attenzione si è spostata sul correlativo dato sui nuovi permessi di costruzione, calato del 6,6 per cento su base mensile e del 24,5 per cento su base annuale, segnando così il livello minimo da 14 anni.

Mentre non si è ancora spenta l’eco delle polemiche sui nuovi e più permissivi criteri contabili adottati dal colosso semipubblico dei mutui, Fannie Mae, è venuta la perdita di 2 miliardi di dollari della più piccola entità semipubblica Freddie Mac nel terzo trimestre, una perdita in larga misura dovuta a svalutazioni su crediti per 1,2 miliardi di dollari, svalutazioni che rendono ancora meno credibili quelle annunciate da Fannie Mae che ha in portafoglio mutui per un ammontare di decine di volte quello di Freddie Mac. Il mercato, per non saper né leggere né scrivere, ha penalizzato ieri entrambe facendo scivolare le loro quotazioni di oltre un quarto del valore precedente, con l'aggravante, per Fannie Mae, di aver già perso, nelle due sedute precedenti, quasi il 30 per cento; la povera Freddie Mac ha ora bisogno immediato di un aumento di capitale e si è rivolta a Goldman Sachs per assisterla nella improba impresa.

Giornata al cardiopalma per i residui possessori di azioni della Northern Rock, in quanto, dopo l’abbandono di uno dei suoi pretendenti, il private equity Cerberus, e la vaghezza delle rassicurazioni ufficiali sulla prosecuzione delle garanzie statali sui depositi in scadenza a febbraio dell’anno prossimo, l’azione è precipitata al nuovo minimo storico di 0,60 sterline (contro un massimo di 12,5 sterline toccate quest’anno), per poi riportarsi intorno ai 90 centesimi dopo la notizia della presentazione dell’offerta di JC Flowers che, però, è disposta a pagare le azioni al loro valore nominale.

Se Northern Rock è paradigmatica della crisi finanziaria nel mercato britannico, Italease lo è certamente in quello italiano ed oggi il titolo ha rischiato seriamente di portarsi al di sotto della soglia psicologica dei 10 euro (il massimo dell’anno si colloca a 57 euro), determinando, peraltro, il downgrade del Banco Popolare, che ne è, per sua sfortuna, l’azionista di riferimento.

La guerra non dichiarata in corso tra le entità poste al vertice della graduatoria delle banche italiane si arricchisce ogni giorno di nuovi episodi, così come non è un mistero per nessuno che le frenetiche oscillazioni dei relativi titoli, ad esempio di quello di Unicredit Group, non sono da attribuire soltanto al crescente nervosismo del mercato, constatazione alla quale è d’ausilio l’analisi delle oscillazioni intraday e dei relativi volumi, ma un posto a parte in questo conflitto non sempre pacifico lo merita senz’altro l’intervista che Matteo Arpe ha rilasciato ad una colonna del settimanale L’Espresso, nel numero presente in edicola questa settimana.

Se qualcuno si aspettava un attacco frontale a Cesare Geronzi o ad Alessandro Profumo, resterà certamente deluso e dimostra di conoscere poco l’enfante prodige del mondo bancario italiano, il quale, parlando della sua fortunata esperienza in Capitalia, trova l’occasione di spiegare quello che è corretto e ciò che non lo è nel mestiere del banchiere, peccato che, scorrendo le cose a suo modo di vedere vietate, sembra di scorgere proprio il profilo di quelli che, secondo tutti, non sono proprio suoi amici.

martedì 20 novembre 2007

Goldman Sachs colpisce ancora

Gli analisti di Goldman Sachs hanno operato un pesante downgrade del titolo di Citigroup, portando il giudizio a sell, anche sulla base di una stima di ulteriori svalutazioni per 15 miliardi di dollari che il gruppo sarà chiamato ad effettuare nei prossimi due trimestri.

La notizia è giunta all’apertura di Wall Street, un’apertura già appesantita dalle notizie che giungevano dall’Europa, con le forti perdite e svalutazioni segnalate da Swiss Re e un nuovo crollo di Northern Rock (e, appena in minor misura, dell’intero comparto bancario britannico), che si è portata decisamente al di sotto dei minimi segnati dopo l’assalto agli sportelli, nonostante la tanto attesa uscita di scena del suo amministratore delegato, Adam Applegarth, più noto come animatore, assieme alla moglie, della swinging London che per le sue qualità affaristiche.

D’altro canto, non ha certamente giovato al corso del titolo della disastrata banca britannica la voce che le valutazioni fatte della banca dai suoi residui pretendenti si collocherebbe al di sotto della capitalizzazione di borsa e che, nei loro piani, una volta ripianta parte della mega esposizione nei confronti della Bank of England, non rimarrebbero molti mezzi freschi per il rilancio della banca.

Mentre fa ancora discutere la stima di Jan Hatzius, capo economista di Goldman, sull’inevitabile credit crunch, ma soprattutto della sua dimensione oscillante tra i 2 mila e i 4 mila miliardi di dollari, un’altra tegola si è venuta ad abbattere sugli investitori ed è rappresentata dalle crescenti difficoltà in cui versano le sette compagnie che prestano garanzie per l’emissione dei bond.

Mbia, Ambac Financial e le loro più piccole cinque concorrenti sono infatti sotto esame da parte delle società di rating che potrebbero con molta probabilità togliere loro quella tripla A fondamentale per assicurare l’attuale livello del costo di finanziamento per gli emittenti da loro attualmente assicurati per 2.400 miliardi di dollari, circostanza che spingerebbe, tra l’altro, al fallimento entità rilevanti sia del settore pubblico che del settore privato USA.

Per dare un’idea dell’entità del problema, è sufficiente pensare che il colosso mondiale del settore Mbia presenta un rischio di default pari al 28 per cento e la sua capitalizzazione di borsa ha perso il 48 per cento dall’inizio dell’anno, mentre Ambac Financial, con un rischio di default addirittura del 40 per cento, sta vedendo la sua capitalizzazione praticamente evaporare, con un meno 68 per cento dall’inizio di gennaio ad oggi.

Tanto per fare il punto della situazione, al momento oltre al travaglio delle banche di quasi ogni paese (anche la Bank of China ha svalutato i propri crediti per un miliardo di dollari), strette tra l’appetito a volte insaziabile dei propri azionisti e la necessità di far emergere le proprie perdite, vi è il sostanziale blocco del turnover di quella montagna di carta che rappresenta debiti di ogni forma e natura, per non parlare di quegli almeno 150 miliardi di dollari di titoli facenti capo ai private equity che nessuno sembra volere, per finire poi con l’accanimento di legislatori, giudici e l’opinione pubblica che premono per l’adozione di regole più restrittive che mettano al guinzaglio gli operatori del mercato finanziario.

E’ destinata, inoltre, ad avere una certa risonanza l’accusa autorevolmente mossa da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia che si dimise dalla banca Mondiale contro le misure imposte ai paesi dell’Asia dopo la crisi del 1997, che sostiene che FMI e Banca Mondiale adottano due pesi e due misure, a seconda che una crisi finanziaria colpisca paesi emergenti o gli Stati Uniti, anche perché la politica della Federal Reserve e del governo statunitense vanno in direzione esattamente opposta a quella applicata ai paesi asiatici.

Non è peraltro un caso, sostiene sempre Stiglitz se gli unici due paesi dell’area a non aver ceduto alle lusinghe delle sirene della globalizzazione e della piena libertà di movimento dei capitali, l’India e la Cina, non solo sono passati pressoché indenni attraverso quella tempesta, ma hanno anche registrato da allora tassi di sviluppo multipli rispetto a quelli dei paesi che avevano creduto al verbo dei profeti della globalizzazione spinta.

Stiglitz, peraltro, non è il solo a vedere la necessità di nuove e più stringenti regole che rendano l’operato delle banche globali, ma anche quello di tutti gli altri soggetti del mercato finanziario, più trasparente, soprattutto per quanto riguarda le pratiche di trasferimento del rischio da se stesse verso investitori più o meno professionali.

Segnalo che continua senza esiti la ricerca di Robert Rubin, presidente di Citigroup, che sembra non trovare né all’interno né all’esterno un degno erede di almeno una delle due cariche ricoperte da Chuck Prince III, quella di amministratore delegato della maggiore banca USA, ma anche la caccia fruttuosa di Merrill Lynch che si è assicurata i servizi dell’ex numero uno del NYSE non deve essere stata facile, alla luce delle condizioni favolose garantite al neo assunto, dal bonus di 15 milioni di dollari per aver accettato e ad una marea di stock options e di garanzie per l’eventuale, brusco allontanamento che si profila per lui se, come molti ritengono, la situazione reale dei conti è tale che si renderà necessaria, prima o poi, l’acquisizione della banca da parte di un’entità dalle spalle più grosse o, semplicemente, che ha mostrato maggiore prudenza negli anni ruggenti.

La giornata che apre la settima sui mercati si è mostrata subito pesante sin dal mattino in Asia, per proseguire poi con una raffica di segni meno individuali e collettivi in Europa, dando, infine, il meglio di sé sul mercato azionario statunitense, dove, in particolare per quanto riguarda il settore bancario e finanziario, è alquanto generalizzato lo sfondamento verso il basso dei minimi precedentemente toccati nell’anno.

lunedì 19 novembre 2007

Continua il deflusso dei capitali dagli USA

Il dato di settembre sul Treasury International Capital era molto atteso dopo il forte deflusso di capitali dagli USA segnalato nel mese precedente (-150,7 miliardi di dollari), ma le attese di un forte rimbalzo sono state vanificate, perché, anche nel mese in esame, il deflusso di capitali, per l’aggregato più ampio, si è ripetuto, seppure “soltanto” nell’ordine dei 14,7 miliardi di dollari.

Nel suo aggregato più ampio, appunto, il TCI rappresenta il saldo dei movimenti di capitale da e verso gli Stati Uniti, fornendo, nella maggior parte dei casi, le risorse necessarie a bilanciare il cronico deficit commerciale USA e a fornire mezzi aggiuntivi per l’acquisto di Treasury bills, notes e bonds, necessari a far fronte a quel deficit gemello rappresentato dal disavanzo altrettanto cronico del bilancio federale.

Il forte indebolimento del dollaro e i ribassi aggressivi dei tassi di interesse operati da agosto dalla Federal Reserve, mentre stanno consentendo un sensibile miglioramento del deficit commerciale, che si mantiene comunque saldamente a 56,45 miliardi di dollari nel mese di settembre, sta, come è ovvio, spingendo gli investitori stranieri, privati o banche centrali che siano, ad operare un significativo riaggiustamento dei propri portafogli, mediante l’accrescimento delle quote denominate in euro, in yen e in sterline, anche se flussi importanti si stanno dirigendo verso attività denominate in dollari canadesi ed australiani.

Non stupisce, pertanto, che il ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, abbia approfittato della prima occasione disponibile per riaffermare che un dollaro forte continua a rientrare tra gli interessi strategici degli Stati Uniti, ben consapevole come è del fatto che, solo in Treasury di diversa specie e natura, lo stock di investimenti stranieri era pari, alla fine di settembre, a 2.247 miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti depositi per migliaia di miliardi di dollari, una montagna di passività estere con le quali è particolarmente pericoloso scherzare, soprattutto alla luce del fatto che sono in buona parte concentrati in Asia e nei paesi esportatori di petrolio ed altre materie prime.

Raramente si erano visti gli analisti scatenarsi contro un direttore finanziario come è accaduto nel caso dell’incontro che si è tenuto, alla fine della scorsa settimana, tra il malcapitato CFO di Fannie Mae ed un nugolo di esperti che contestavano apertamente il nuovo metodo di calcolo che porta alle svalutazioni sui crediti del colosso semipubblico dei mutui, in rosso nel terzo trimestre per “soli” 1,4 miliardi, grazie in particolare ad un metodo basato su una previsione di perdite del 4 per mille, mentre in precedenza si utilizzava una stima del 7,5 per mille, anche perché Fannie Mae è già incorsa (come la controllata Fannie Mac) in uno scandalo contabile nel 2004 per un “errore contabile” dell’ammontare di 6,3 miliardi.

Anche se è difficile stare dietro a tutte le stime sul costo finale di questa crisi finanziaria, merita attenzione lo studio effettuato dal capo economista per gli Stati Uniti di Goldman Sachs, Jan Hatzius, non tanto per il dato che fornisce sulle perdite delle banche, attorno ai 400 miliardi di dollari, quanto perché valuta la quantità di credito che dovrà essere necessariamente tagliato dalla stesse per mantenersi nei ratio previsti dalle norme attualmente in vigore, prevedendo che – sulla base di 10 dollari tagliati per ogni dollaro di perdite, il credit crunch sarà dai 2 mila ai 4 mila miliardi di dollari, a seconda che le perdite saranno di 200 miliardi o di 400 miliardi di dollari, cifra, quest’ultima, che coincide esattamente con la sua previsione.

Nel frattempo, le banche statunitensi, ma non solo loro, hanno dovuto iniettare, nella settimana che si è appena conclusa, altri 10 miliardi di dollari nei fondi monetari, portando così la somma complessiva di queste “iniezioni” di denaro fresco effettuate dall’inizio della crisi di liquidità nel mese di agosto a ben 100 miliardi di dollari, né va dimenticato che fu poche ore dopo l’annuncio del congelamento di tre fondi di questo tipo da parte di Bnp Paribas che la BCE effettuò, il 9 agosto scorso, la prima maxi immissione di liquidità.

In questo quadro, passa quasi in secondo piano il sensibile calo che ha colpito la produzione industriale statunitense (-0,5 per cento) e l’utilizzazione degli impianti (dall’82,2 all’81,7 per cento), anche se ciò che ha colpito di più è stato il calo dello 0,4 per cento dell’industria manifatturiera, in quanto meno spiegabile, come è stato nel caso dell’output delle utilities (sceso dell’1,6 per cento), con le condizioni metereologiche estremamente miti.

La stessa chiusura moderatamente al rialzo degli indici azionari statunitensi nell’ultima seduta della scorsa settimana, pur in presenza di un ulteriore sensibile calo nel comparto finanziario (Fannie Mae in testa), è un indizio interessante, in quanto mostra come il mercato valuti le notizie sempre più fosche provenienti dall’economia reale come una spinta per convincere, ove ve ne fosse bisogno, Ben Bernanke e soci, già nella prossima riunione del FOMC della Federal Reserve prevista per l’11 dicembre, a continuare sulla strada delle riduzioni del costo del denaro e delle ormai permanenti iniezioni di liquidità.

Sul fronte europeo, intanto, crescono a dismisura le pressioni dei governi dei paesi dell’area dell’euro, affinché la Banca Centrale Europea abbandoni, al pari di quanto sta ormai facendo esplicitamente la Fed, la sua “preistorica” ossessione per l’inflazione, retaggio della precedente esperienza della Bundesbank tedesca, e comprenda che la sua mission principale è quella di salvare le banche riducendo, anche ripetutamente, i tassi di interesse, nella speranza che quelli interbancari riprendano correlativamente e forse di più a scendere, cosa che al momento non accade.

Al di là delle chiacchiere più o meno interessate, il nodo della questione sta esattamente in questi termini: caduta negli Stati Uniti ogni barriera rispetto al premiare o meno l’azzardo morale delle banche in nome delle necessità di evitare il baratro, può l’Europa continuare ad insistere che non si può prescindere dal principio che chi sbaglia paga?
Non vi è, peraltro, chi non abbia capito che le orecchie del navigato banchiere francese Trichet sono molto più attente alle sirene della politica ed alla necessità di non fare la fine del suo collega britannico, messo alla berlina dal Parlamento di Sua Maestà per essersi opposto, per ordine peraltro del Governo, al salvataggio in tempo utile di quella Northern Rock che, a due mesi dall’assalto agli sportelli, assomiglia sempre di più alla Sora Camilla di romana memoria, quella che “tutti la vonno ma nessuno la piglia” e le cui quotazioni stanno inesorabilmente tornando verso il minimo toccato dopo le tristi vicende estive.