venerdì 29 febbraio 2008

Bush e Bernanke tramortiscono i mercati


Come, credo, la maggior parte di coloro che hanno avuto la ventura di leggerlo su la Repubblica di ieri, sono rimasto molto impressionato dall’articolo-saggio dell’economista Nouriel Roubini dall’eloquente titolo “Dodici tappe verso la crisi”, una sorta di percorso ragionato verso il baratro prossimo venturo, che è dato dall’avvitamento della crisi su se stessa, in una specie di spirale senza ritorno nella quale l’imperversare dell’effetto domino non consente a nessuno degli operatori dell’economia, imprese, famiglie e intermediari finanziari, né tantomeno a regolatori e governi, di riprendere in mano il filo di Arianna per uscire indenni dall’oscuro labirinto.

Devo, tuttavia, dire con altrettanta franchezza che, preso da ormai poco meno di sette mesi dall’analisi quotidiana della crisi finanziaria, non riesco ad appassionarmi più di tanto al gioco proposto dal brillante economista, anche se trovo spesso i suoi brillanti articoli una vera e propria boccata di ossigeno nel mare magnum di informazione velinara se non embedded che ci sta alluvionando dal 9 agosto dello scorso anno, così come confesso di non sapere assolutamente in quale delle tappe indicate da Roubini ci troviamo, anche se segnalo da tempo che le onde della tempesta perfetta si stanno facendo più alte e pericolose ogni giorno che passa.

A quanti si stanno stracciando letteralmente le vesti di fronte all’insidia sempre più convinta mossa alla soglia degli 1,52 dollari per euro, così come a quella rappresentata dal precipitare sempre più convinto del dollaro verso la soglia psicologica dei 100 yen, mi permetto sommessamente di ricordare le previsioni (è proprio vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio) formulate su questo blog a fine 2007 e che vedevano un dollaro sempre più debole e pronto a portarsi a 1,70 contro euro e convintamente al di sotto dei 100 yen per dollaro, mentre prevedevo una forte flessione del prezzo del greggio, ancora più sensibile se accompagnata dai livelli sopra indicati della valuta statunitense, ricordando, al contempo, che l’orizzonte previsivo investiva l’intero 2008 e che, quindi, i miei quattro lettori dovranno avere un po’ di pazienza per vederle realizzate.

Eppure, inondando il mercato di liquidità, accettando, a sconto, rilevanti fette della montagna di titoli della finanza strutturata e operando in maniera inusualmente aggressiva sul mercato dei cambi a chiaro e convinto sostegno del dollaro, le principali banche centrali sembravano aver ottenuto qualche discreto successo, anche se ampiamente sproporzionato rispetto all’immenso volume di fuoco proveniente dalle batterie ormai esauste messe in campo dai cow boys della Federal Reserve e dai neotemplari dell’istituto di Francoforte, ma, purtroppo, quando si opera ampiamente contro vento non si può sperare di andare al di là di qualche modesto ed effimero successo, mentre è altresì inevitabile che, prima o poi, si inneschi quel micidiale effetto boomerang cui stiamo assistendo in questi ultimi giorni sui tre mercati su cui le banche centrali si erano così fortemente impegnate.

D’altro canto, ad una analisi francamente errata della cause della più grave e profonda crisi finanziaria dal secondo dopoguerra, non possono che seguire diagnosi errate della malattia e terapie dagli effetti altrettanto disastrosi, un insieme di elementi che fanno perdere credibilità e reputazione ai banchieri centrali proprio quando si registra una lack of confidence di dimensioni mai verificatasi nei confronti di banche, finanziarie, compagnie di assicurazioni e compagnia cantante di attori del mercato finanziario globale.

Ma cosa dovrebbe fare il popolo dei risparmiatori e degli investitori, più o meno istituzionali, impegnato da oltre sette mesi nel più prolungato sciopero degli investimenti che la recente storia ricordi, di fronte ai giochi di parole del presidente Bush ed alle previsioni sul prossimo fallimento di altre banche provenienti da una Fed in pieno panic cutting? Né più né meno quello che stanno già facendo e, cioè, continuare pervicacemente a tenersi alla larga dalle sirene nemmeno tanto allettanti rappresentate da venditori sempre più disperati dei titoli della finanza strutturata e da tutto quello che porti con sé un’alea anche minima di rischio vero o presunto.

Ho appreso solo in questi giorni che la preveggente e ben informata Goldman Sachs non era stata l’unica grande attrice del mercato finanziario globale ad avere iniziato ad uscire per tempo, e con larghissimo anticipo, dalla sua enorme esposizione espressa in CDO, LBO e tutte le altre diavolerie prodotte da una vera e propria schiera di sofisticati tecnici operanti nelle fabbriche prodotto delle CIB, in quanto il colosso svizzero UBS avrebbe accusato solo un leggero ritardo nell’operare una defaticante ritirata strategica rispetto all’intuizione di David Viniar, preveggente, ascoltato e certamente strapagato CFO di Goldman, solo che il problema per entrambi i global players del mercato finanziario globale era rappresentato dall’immensa vastità degli stock di titoli in loro possesso al momento della decisione di disimpegnarsi e che li ha costretti a mantenere presso di sé ammontari tali da procurare danni rilevanti allo scoppio della tempesta perfetta, anche se il gigantesco smaltimento le ha messe al riparo dal rischio di un altrimenti certo e gigantesco default.

Vedendo i solitamente compassati e felici azionisti di UBS dare di sé uno spettacolo non certo esaltante nel corso della recente assemblea del colosso svizzero, scene tali che hanno fatto addirittura temere per l’incolumità fisica dell’un tempo potentissimo numero uno dell’altrettanto potentissima banca extracomunitaria, sono venute alla mente le scene drammatiche dell’assalto agli sportelli di Northern Rock e quelle, dai più rimosse, dell’ira e della disperazione dei milioni di investitori travolti dalle precedenti crisi finanziarie ed economiche che hanno ripetutamente afflitto il pianeta nel corso del secolo che si è concluso da meno di otto anni.

Sono perfettamente consapevole che questa puntata del Diario, come purtroppo molte altre in precedenza, non sarà di conforto per chi la legge, ma il problema è nei fatti descritti molto più che nella loro rappresentazione, anche perché, almeno per me, il copione di questa tempesta perfetta era chiaro sin dal 3 settembre scorso, quando, con l’articolo sulle vere cause della crisi, ho dato inizio ad un’avventura editoriale nella quale non avrei mai creduto di trovarmi impegnato.

Per una volta almeno, risparmio i dettagli di una giornata orribile come tante delle altre che l’hanno preceduta, anche perché la scena che si è svolta su tutti i fusi orari è stata più o meno la stessa.

giovedì 28 febbraio 2008

Il cow boy Bernanke alle prese con la trappola della liquidità


Una vera e propria pioggia di dati negativi provenienti dall’economia reale e i non certo brillanti risultanti di Fannie Mae hanno accompagnato le cupe parole che Ben Bernanke ha pronunciato nel corso di una tutt’altro che tranquilla audizione di fronte all’House Financial Services Committee, un organismo parlamentare che sentirà a breve sette dei maggiori banchieri impegnati nel travagliato settore del mortgage, ma l’erede di Alan Greenspan ha dimostrato di non aver bisogno di suggerimenti nel corso della dura interrogazione da lui subita in quell’austera classe del Congresso statunitense.

Ormai sempre più behind the curve, il nostro non si è forse nemmeno accorto dell’incoraggiamento proveniente da un senatore repubblicano dell’Alabama che ricordava come Bernanke sia bersagliato da tempo più di quanto accada il lunedì ad un quarterback, ed ha sciorinato la lezioncina preparata che si era portata dietro, affermando che la situazione economica è certamente peggiorata, soprattutto in termini di aspettative di famiglie ed imprese, che, certo, quelli relativi all’inflazione sono sempre più reali e sempre meno rischi, ma che lui e i suoi compagni di avventura tireranno dritti per la loro strada di tagliatori dei tassi senza pietà, caso mai qualcuno avesse dimenticato che, in soli otto giorni in dicembre, non ha esitato ad abbassare di 125 punti base il tasso chiave sui Fed Funds.

Con l’euro giunto a testare la soglia degli 1,515 dollari e il biglietto verde sempre più a rischio di ritestare l’area dei 105 yen, il petrolio e le altre materie prime ormai senza freni ed i metalli preziosi lì a macinare record su record, qualche osservatore ha colto, ieri, qualche segno di vago turbmento anche sulla faccia normalmente imperturbabile di Jean Claude Trichet, un uomo che sembra sempre più convinto di essere la reincarnazione in vita di Hans Tietmeyer, mito presidente della Bundesbank sino all’avvio dell’euro, e il potente banchiere centrale europeo si è spinto sino ad ammettere la possibilità di muovere i tassi, anche se non è ancora chiaro in che direzione.

Venendo alle cose serie, non vi è dubbio che, almeno sino a questo momento, la scelta della BCE di mantenere i nervi saldi è risultata certamente più pagante, e non solo in termini di credibilità, di quel vero e proprio panic cutting messo in atto da Bernanke e colleghi, anche perché, a furia di stare dietro e non davanti la curva e di avere come priorità assoluta quella di premiare e non punire il moral hazard, si rischia concretamente di finire dritti, dritti nella cosiddetta trappola della liquidità, che non è solo una previsione teorica di Keynes, ma è stata e continua ad essere la realtà di quel case study che è l’economia giapponese ormai da tempo lunghissimo.

Lasciando Bernanke e soci a meditare sulla loro perdità di credibilità, che, a causa di scelte concrete come l’apertura dello sportello “riservato” dedicato a scontare a prezzi irrealistici i titoli della finanza strutturata, diviene ogni giorno che passa una vera e propria perdita di reputazione, è il caso di ricordare che, dopo l’ennesimo tonfo delle vendite di case esistenti, ier è stata la volta delle vendite di nuove case, giunte ad un volume annualizzato e destagionalizzato che si pone ai minimi degli ultimi tredici anni,con uno stock di invenduto che richiederebbe dieci mesi di tempo per essere smaltito e mentre le vendite di edifici commerciali di valore superiore si 5 milioni di dollari sono letteralmente crollate a 4,3 miliardi di dollari in gennaio dai 20,1 miliardi del gennaio 2006.

Sempre dal fronte dell’economia reale, merita di essere segnalato l’ennesima variazione negativa degli ordini di beni durevoli che sono state, in gennaio, in flessione del 5,3 per cento, con punte di –13,4 per cento per il settore dei mezzi di trasporto, mentre va segnalata l’anomala anche se modesta (-1,4 per cento) flessione degli ordini relativi al settore della difesa.

A perfezionare il quadro sono, poi, giunti i tanto attesi dati relativi al quarto trimestre e all’intero esercizio 2007 di Fannie Mae, il colosso semipubblico del settore del mortgage con mutui in portafoglio per la bellezza di 2.400 miliardi di dollari, dati che segnalano una perdita di 3,6 miliardi di dollari nell’ultima frazione dell’anno ed una perdita 2007 di poco superiore ai 2 miliardi dollari che va messa a confronto con gli utili per 3,65 miliardi registrati nell’esercizio 2006.

Mentre permangono i dubbi degli analisti sui criteri sottostanti ai 2 miliardi di dollari di svalutazioni su crediti operati dai vertici di Fannie Mae, i cui predecessori sono stati pochi anni orsono allontanati e sanzionati proprio per allegri criteri contabili, colpiscono i 3,6 miliardi di perdite segnalati, sempre nel quarto trimestre, i 3,2 miliardi di dollari di perdite legate all’utilizzo di strumenti derivati.

Mi era sfuggita, nei giorni scorsi, la notizia relativa all’incorporazione, da parte di Dresdner Bank controllata dal colosso assicurativo tedesco Allianz, di assetts per 19 miliardi di euro sino a quel momento tranquillamente parcheggiati presso un suo Structured Investment Vehicle, notizia che, purtroppo, non mette assolutamente la parola fine a questa allegra pratica di tenere fuori dai bilanci la vera e propria montagna di titoli della finanza strutturata direttamente o indirettamente facenti capo alle banche e alle compagnie di assicurazione europee, così come alle loro omologhe basate in ogni parte del mondo.

Dopo aver quasi dichiarato guerra la lillipuziano Principato del Liechtenstein, con grande paura del pacioso Principe Alois, la Cancelliera tedesca Angela Merckel, incurante degli obblighi di ospitalità, ha strigliato ieri ben bene il malcapitato Alberto di Monaco, sovrano dell’omonimo mini stato, al quale, in un serrato confronto a quattr’occhi, ha ricordato che è meglio che dia disposizioni precise in termini di trasparenza bancaria, forse sventolando davanti ai suoi occhi una precisa e dettagliata lista dei depositi degli alquanto infedeli contribuenti tedeschi modello esportazione.

Per quanto riguarda le serrate indagine degli ispettori dell’Agenzia delle entrate italiana sulla copiosa lista di nomi di allegri esportatori di valuta nostrani, non vorrei che la stessa facesse la fine della celebra lista dei 500 di sindoniana memoria che ben tre amministratori delegati dell’allora Banco di Roma, Alessandrini, Barone e Ventriglia, dichiararono, sotto giuramento e davanti a disperati magistrati della procura della Repubblica di Roma, di avere sì letto, ma di non ricordare nemmeno uno dei pur importanti cognomi dei ricchi affidatari di patrimoni alle cure del bancarottiere di Patti, nonché mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli..

mercoledì 27 febbraio 2008

La cancelliera tedesca a caccia di evasori


Non avendo, almeno per il momento, il coraggio di confermare il rating su Ambac, attualmente sotto il tiro di una classa action attivata contro il suo braccio armato Ambac Financials da un agguerrito studio legale statunitense, Moody’s, con un certo coraggio e mostrando sprezzo per il pericolo (o per il mercato?), si è limitata a confermare il massimo rating ad MBIA, il colosso delle monoline che, almeno, è riuscita a raccattare un miliardo di dollaro mediante un aumento di capitale che ha mandato su tutte le furie gli azionisti che, già afflitti dal nettissimo calo del valore delle azioni in corso dal 2007, temono fondatamente l’effetto diluizione.

Ma la notizia del giorno non è stata questa ulteriore perdita di reputazione o l’avvio di un bel dibattito sulla lack of confidence imperversante, né quella relativa allo sfondamento della soglia di 1,50 dollari per un euro o il permanere del barile del petrolio ostinatamente sopra la soglia dei 100 dollari, né l’infrangersi quotidiano dei precedenti record da parte dell’oro e degli altri metalli preziosi e chi più ne ha ne metta, in quanto il mercato è stato ieri ipnotizzato dalla decisione della IBM di innalzare di 15 miliardi di dollari il suo piano di riacquisto di azioni proprie.

Come ricorda, in un suo dispaccio, la sempre puntuale Associated Press, il colosso dell’informatica operante all over the world ha già effettuato operazioni di buyback per 94 miliardi di dollari a partire dal 1995, inclusi i 18,8 miliardi spesi nell’orribile 2007, mentre, compresi gli spiccioli deliberati ma non ancora utilizzati, prevede riacquisti totali nell’anno in corso per 12 miliardi di dollari, tenendosene a disposizione 3,4 miliardi per operazioni spot di buyback da realizzare anche a sorpresa, il tutto per la felicità dei suoi azionisti e per la più agevole realizzazione degli obiettivi in termini di ROE con piani di stock options per i top manager al seguito.

I tre principali listini azionari statunitensi hanno ovviamente brindato alla decisione di Big Blue e avrebbero fatto anche meglio, se quei soliti guastafeste degli appassionati di statistica non fossero stati lì ricordare, anche in una giornata di “festa”, una vera e propria alluvione di notizie che hanno fatto optare verso l’utilizzo, nei festini che si sono tenuti nei grattacieli sempre meno popolati delle maggiori banche basate a Wall Street, dello spumante in luogo del più costoso champagne, a meno che non sia quello prodotto nella fertile California.

Ci mancava, infatti, solo il rapporto elaborato da Standard & Poor’s/Case-Schiller sull’immobiliare residenziale negli Stati Uniti, un rapporto che ha avuto il cattivo gusto di ricordare che, nel quarto trimestre del 2007, il prezzo delle case negli USA è sceso di un soffio meno del 9 per cento, mentre altri studi stimano la flessione nel 10 per cento e prevedono un calo di analoga entità anche per l’anno in corso, rinviando, almeno questa è la speranza degli estensori alternativi, a non prima del 2009, la data del possibile raggiungimento del punto più basso cui dovrebbe, almeno questo è il loro auspicio, seguire la risalita delle quotazioni.

Il bello è che, sempre secondo quei maniaci di statistiche che sono gli americani, al più che sensibile declino registrato e prospettico dei prezzi delle abitazioni, corrisponde non solo il sensibile aumento delle procedure di esproprio che segnalavo ieri, ma anche livelli di crescita dei prezzi all’ingrosso e al dettaglio nel 2007 come non se ne vedevano da decenni, con i primi al +7,4 per cento (non si verificava un aumento simile dal 1981) ed i secondi in crescita del 4,1 per cento, il peggior dato degli ultimi 17 anni e che porta ad una flessione delle retribuzioni in termini reali dei lavoratori americani cifrabile in un tutt’altro che infimo -1,4 per cento.

Il problema, inoltre, è rappresentato dal fatto che siamo alla vigilia dei tanto attesi dati del quarto trimestre e dell’intero esercizio 2007 di Fannie Mae e Freddie Mac , le due entità semipubbliche aventi la mission di agevolare entro limiti di recente accresciuti i cittadini statunitensi nell’acquisto dell’abitazione, e l’attesa è accresciuta dal fatto che, dopo le polemiche seguite ai dati del terzo trimestre apertamente contestati da numerosi ed autorevoli analisti, ci si aspetta che i due colossi rinuncino ad applicare formulette che consentono di ridurre l’entità di svalutazioni, e quindi di perdite, mentre i soliti analisti si stanno esercitando in anticipo a prevedere l’entità delle perdite che verranno segnalate per i due periodi considerati.

Mentre gli ormai sei top manager statunitensi di ambo i sessi giudicati colpevoli dai loro rispettivi giudici sono in trepida attesa di conoscere l’entità effettiva della loro pena (da decine a centinaia di anni), mentre è già stato stabilita l’entità delle rilevantissime pene pecuniarie, divampa ogni giorno che passa il caso Lichtenstein, il Principato lillipuziano che, in base alle dettagliatissime informazioni fornite a pagamento al fisco tedesco da un ex dipendente di banca ivi operante, è stato destinatario di un gigantesco flusso di denaro sottratto al balzello delle rispettive amministrazioni finanziarie da migliaia di ricchi e benestanti di buona parte delle nazioni del globo.

Nonostante le veementi proteste dei governanti del Principato, infatti, gli 007 del fisco tedesco hanno girato, e senza per questo chiedere un solo euro dei milioni da loro pagati, le liste dei contribuenti, si fa per dire, infedeli ai loro colleghi di tutta Europa, di quelli operanti negli Stati Uniti d’America e in un numero imprecisato di nazioni situate in altri continenti, Russia inclusa, anche se non so proprio cosa se ne faranno al Cremino, anche perché temo che in quel grande paese molti nomi presenti nelle liste potrebbero coincidere con quelli dei governanti che sono istituzionalmente chiamati a riceverle.

Credo proprio che, dopo i vip italiani alle prese con le richieste di un fisco sempre meno disposto a credere che la loro residenza effettiva fosse realmente stata spostata in paesi fiscalmente più accomodanti, siano tanti i milionari ed i miliardari costretti ad accorgersi che i notevolissimi passi in avanti compiuti dalle agenzie delegate al contrasto del riciclaggio di denaro legato al terrorismo e al traffico di droga avrebbero consentito l’affinamento di strumenti e modi di operare che sarebbero poi tornati buoni anche verso la delinquenza economica, dagli stessi considerata poco più che un peccato veniale, un peccato ampiamente giustificato dalle esose richieste che le esose amministrazioni finanziarie di ogni paese osano avanzare nei confronti di chi sente, in qualche modo, esentato da quel fastidio rappresentato dal rispetto delle leggi.

martedì 26 febbraio 2008

Come è facile perdere la reputazione


Su un mercato finanziario globale disperatamente alla ricerca di miracolo che faccia da antidoto alla più grave lack of confidence mai registratasi dal secondo dopoguerra ed in una seduta che stava scontando lunedì la solita alluvione di ordini di vendita sulle banche e le varie entità a vario titolo coinvolte nel disastrato settore del mortgage statunitense, è giunta, ancora una volta a mercati aperti, la notizia che Standard & Poor’s ha deciso di confermare il massimo rating a MBIA ed Ambac, le due compagnie monoline nell’occhio del ciclone per avere concesso garanzie ad emissioni di bonds per 1.225 miliardi di dollari, una buona parte dei quali legati a quei titoli della finanza strutturata che ormai risultano meno appetibili dei cosiddetti junk bonds.

Mentre le azioni delle due compagnie graziate effettuavano il più che prevedibile rimbalzo, ovviamente neanche lontanamente sufficiente a colmare le ingentissime perdite dalle stesse registrate rispetti ai massimi delle ultime 52 settimane, gli operatori hanno fatto in tempo a leggere meglio il comunicato con il quale S&P’s motivava la decisione ed hanno appreso che non solo la società di rating si riserva la possibilità di degradare le due monoline a stretto giro di posta se non manterranno l’impegno a rafforzare ed in modo considerevole il capitale, ma che la decisione di non procedere alla ripetutamente minacciata degradazione è legata alla “forte convinzione nella capacità del mangement di rispondere alle preoccupazioni legate all’adeguatezza del capitale della compagnia”, il che ha provocato un sensibile ridimensionamento del progresso delle azioni delle due compagnie nel lungo after hours.

E’ di tutta evidenza che, mentre MBIA uno straccio di aumento di capitale da un miliardo di dollari lo ha a fatica effettuato, Ambac resta in attesa del verdetto delle maggiori banche globali che dovrebbero decidere solo nelle prossime ore o nei prossimi giorni se correre in suo soccorso per un importo molto considerevole, decisione che evidentemente S&P’s considera acquisita in base ad informazioni sconosciute al mercato ed ha deciso di scommettere quel che resta della sua reputazione su questa certezza più o meno granitica, pur sapendo che le trattative, pur sotto la formidabile pressione delle autorità dello Stato di New York, vanno avanti inutilmente da molte settimane, per il semplice motivo che i soccorritori potenziali hanno già abbastanza guai di loro per impegnarsi in una cordata che è chiamata a mettere sul piatto un bid rilevantissimo in favore di una compagnia dal futuro francamente sempre più incerto.

Non sono, francamente, in grado di dire se Moody’s deciderà di seguire l’esempio della sua collega e rivale o se terrà maggiormente conto degli elevatissimi rischi reputazionali impliciti nella eventuale decisione di non adeguarsi al severo giudizio espresso il 18 gennaio scorso dall’altra rivale Fitch’s su Ambac ed il suo braccio armato Ambac Financials, portate, rispettivamente, ad AA ed A, ma ritengo proprio che sarà una di quelle decisioni che avranno un peso determinante sui progetti di riforma del sistema dei rating apertamente minacciati dall’Unione Europea e da buona parte delle autorità di vigilanza a vario titolo chiamate ad esprimersi sul corretto andamento dei mercati.

Nel frattempo, mentre l’ex re delle commodities attende pazientemente che il giudice decida il 20 maggio quanti dei 335 anni previsti per i 20 reati per i quali è stato condannato dopo aver reso ampia confessione, si apprende che ben cinque ex CEO di altrettante compagnie di assicurazioni sono stati giudicati colpevoli di aver manipolato i prospetti finanziari relativi ai loro piani di stock options, al fine di conseguire illecitamente 500 milioni di dollari in aggiunta alla montagna di soldi che avrebbero comunque percepito anche evitando di mettersi la mascherina nera sul viso e ricordo che è elevatissimo il numero di top managers in carica o stesi al sole dei tropici in attesa di essere giudicato da magistrati che sembrano, e giustamente, sentire ogni giorno che passa il fiato sul collo di un’opinione pubblica tutt’altro che rassegnata di fronte alle gesta di questi malfattori dal colletto bianco.

Ovviamente, la bomba sganciata da S&P’s ha sortito l’effetto di imprimere una direzione molto più orientata al segno positivo ai tre principali indici statunitensi, anche se va segnalato che lo stesso, al netto del già citato rimbalzo delle azioni delle due dirette interessate, non si è verificato nel sempre più malconcio settore finanziario, se non altro per la semplice ragione che dovrebbero essere proprio le principali banche statunitensi e quelle globali ovunque basate a dover farsi carico di quello che, ogni giorno che passa, si profila sempre più come un vero e proprio e costosissimo financial bailout nei confronti di una compagnia che dovrà fare i conti fra breve con l’agguerrita concorrenza del new comer ma certo non inesperto Warren Buffett e di altri finanzieri che hanno ormai definitivamente fiutato l’odore del sangue, ma, ancora di più, l’odore dei soldi, e tanti, che potrebbero guadagnare in modo alquanto agevole, ritagliandosi una fetta del ricco mercato delle garanzie sempre più onerose legate alle emissioni di municipalità, contee, stati federali e della pletora di entità a vario titolo ad esse collegate.

Non sono in grado di dire se la improvvida scommessa della un tempo prestigiosa agenzia di rating sarà in grado di passare dalla cronaca alla storia di questa tempesta perfetta che sembra sempre più lungi dal trovare una conclusione, ma sono certo che le future generazioni di studenti di economia dei campus universitari di tutto il mondo studieranno questo case study in un eventuale corso sullo sviluppo sostenibile, mentre le vicende del plotone di amministratori di società già condannati o sulla strada di esserlo potrebbero avere il loro spazio in un’eventuale corso sulla responsabilità sociale di impresa, anche perché è sempre più chiaro che questa non è materia di bilanci sociali ad un tanto al chilo e che spesso non valgono la carta patinata sulla quale sono stampati, ma è fatta di regole volte al contrasto di comportamenti che fanno spesso impallidire le gesta dei delinquenti comuni, persone che a volte sono giusitificate, o ritengono di esserlo, da condizioni di bisogno e non certo destinatarie di stipendi e di bonus multimilionari.

Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?


In nessuna branca del sapere umano, come in quella relativa alle teorie economiche e alla realtà fattuale degli eventi economici stessi, è vero l’assunto che il bicchiere lo si può sempre vedere mezzo pieno o mezzo vuoto, con quello che in termini di speranze o delusioni ne può derivare.

Credo che sia proprio il caso del tanto atteso dato sulle vendite di case esistenti negli Stati Uniti d’America nel mese di gennaio, un dato che si è tradotto nell’ennesima flessione significativa, cifrata al -0,4 per cento su base mensile per le vendite sia di case individuali che di appartamenti in condomini, e che ha portato il tasso annualizzato di vendite a 4,89 milioni di unità, al livello, cioè, più basso dal 1999.

Con riferimento, invece, al prezzo mediano, il mese di gennaio ha segnato una flessione a 201 mila dollari, un valore in calo del 4,6 rispetto a quello segnalato nel gennaio dell’anno che si è appena concluso, mentre lo stock di case invendute ha raggiunto un livello tale che occorrerebbero oltre dieci mesi per venderle tutte, ammesso che si riuscisse a mantenere l’attuale ritmo di vendite mensili, un tempo pressocché doppio di quello che sarebbe stato necessario negli anni del boom edilizio bruscamente interrotto a fine 2006.

Stanno prevalendo, mentre scrivo questa puntata del Diario, gli operatori che preferiscono vedere il bicchiere mezzo pieno, convinti come sono che più in basso di così le vendite ed i relativi prezzi non possano andare e che, quindi, non è il caso di farsi prendere dal panic selling alla vigilia di un trend rialzista tante volte invocato, quanto, almeno sinora, mai apparso all’orizzonte, con la conseguenza che, invece di stramazzare, i listini azionari stanno sostanzialmente tenendo, tenuti su anche dalla brillante performance mattutina del Nikkei 225 e dalla positiva intonazione mantenuta in seguito dai mercati azionari europei, area euro e non.

Appartendo da tempo alla schiera dei pessimisti, non mi dilungo sui motivi a sostegno di questa seconda tesi, anche perché l’analisi degli andamenti economici, ed in particolare degli eventi che si susseguono nel mercato finanziario globale, mi hanno insegnato che, per parlare di un inversione di un trend, è necessario attendere almeno che si ripeta qualche osservazione positiva di un fenomeno, anche perché, se è sempre vero che una rondine non fa primavera, è proprio il caso dire che, almeno con riferimento al settore immobiliare ed a quello correlato del mortgage statunitensi, di rondini all’orizzonte non se ne è vista, da lunga pezza, nemmeno una.

Mentre ancora non pervengono conferme del deal che permetterebbe, grazie al sostegno generoso delle maggiori banche globali, ad Ambac di evitare l’onta del taglio del rating massimo sinora strappato alle sempre più riluttanti Moody’s e Standard & Poor’s e sempre più tentate di seguire l’esempio coraggioso offerti il 18 gennaio scorso dalla rivale Fitch, nuove nubi si addensano all’orizzonte delle semipubbliche Fannie Mae e Freddie Mac, nei confronti delle quali il mercato potrebbe essere tentato di andare a vedere quel colossale bluff rappresentato dall’equiparazione operata dalla Fed della montagna di loro obbligazioni (3.200 miliardi di dollari solo per quelle denominate government sponsored enterprises, alle quali manca, come è a tutti noto, una vera e propria garanzia da parte del Tesoro USA.

Né aiuta anche i più speranzosi nella forbice salvifica del disinvolto Ben Bernanke la doccia fredda giunta da un livello dei tassi di inflazione che, sia nella versione onnicomprensiva che in quelle depurate da energia ed alimentari (ricordo, al proposito, la secca opinione di un Nobel per l’economia domiciliato proprio negli USA, che trovava del tutto originale procedere a sottrazioni di capitoli di spesa vitali per quel grande paese, quasi che si potesse non mangiare o non spostarsi con il sacro mezzo di locomozione privato), è ormai ai massimi dal 1991 e lega le mani, o meglio dovrebbe legarle, anche ad uno che sembra proprio aver giurato di giungere sino ai livelli toccati dal Maestro Alan Greenspan.

Ma gli operatori del mercato finanziario, rotti alle intemperie delle tempeste perfette e di quelle di minore intensità, continuano ostinatamente a ritenere che l’anello debole della catena continui ad essere identificato con il settore finanziario e che questo sia vero in egual misura sia al di qua che al di là dell’Atlantico, anche se, almeno per oggi, ha premiato le banche basate in Europa, mentre ha deciso di punire con fermo accanimento quasi tutte le entità operanti negli Stati Uniti, con una flessione che, al momento, si avvicina ai due punti percentuali per il settore finanziario nel suo complesso, ma con punte significativamente più elevate per le banche di dimensioni maggiori, per quelle leader nel disastrato settore del mortgage e per quelle compagnie monoline alle quali non basta la croce rossa promessa dalle maggiori banche globali.

Altrettanto sensibili al prolungamento dello stato di difficoltà iniziato ormai oltre sei mesi orsono, le banche continuano a mostrarsi oltremodo diffidenti su quel particolare mercato che è rappresentato dall’interbancario, dove, in particolare in quello relativo all’euro, si assiste ad un lento peggioramento delle condizioni che i market makers impongono per le scadenze, quelle ad uno ed a tre mesi, più importanti per i destinatari di finanziamenti indicizzati all’una od all’altra scadenza, circostanza che segnala come, nonostante gli sforzi assidui delle banche centrali, in particolare di quella con sede a Francoforte, tutti sono in attesa che si sistemino le partite aperte con le difficoltà di un numero, per ancora ristretto, di banche europee, banche che sono ancora in attesa di una soluzione chiara e trasparente ad opera di una banca dalle spalle sufficientemente grosse da accollarsi i guai dell’acquisita.

Non aiuta, peraltro, la “temporanea” nazionalizzazione di Northern Rock, evento segnaletico dell’estrema ritrosia delle banche inglesi, dell’area dell’euro e di quelle di ogni altra parte del mondo a gettare il cuore oltre l’ostacolo, il tutto aggravato dalla scoperta che la parte migliore dei mutui della banca britannica, per un importo di 45 miliardi di sterline, si trovano non nei suoi bilanci ma sono stati trasferiti, non credo proprio nottetempo, in un comodo ed accogliente paradiso fiscale dell’isola di Jersey, in un fondo privato dal suggestivo nome di Granite.

domenica 24 febbraio 2008

Le vere cause della questione salariale (2)


La vera e propria resa dell’Istituto Nazionale di Statistica italiano di fronte alle pressanti richieste delle associazioni dei consumatori, dei sindacati confederali e non, di larga parte dell’opinione pubblica, che, seppure con toni ed accenti diversi, chiedevano a voce sempre più alta l’elaborazione di un indice che provvedesse in qualche modo a colmare il divario tra l’inflazione ufficiale e quella percepita, rischia di produrre effetti forse sottovalutati dalle donne e dagli uomini chiamati a “dare i numeri” ufficiali relativi allo stato ed alle prospettive del nostro Paese.

Pur con tutte le cautele dovute all’introduzione ed alla diffusione di un indice nuovo e che, per dichiarata volontà dei solitamente paludati autori delle statistiche ufficiali, non si propone di sostituire quello a cui fanno riferimento, dall’abolizione della scala mobile ed i successivi protocolli del luglio 1992 e di quello stesso mese dell’anno successivo, i bienni economici che scandiscono i contratti normativi quadriennali, è, tuttavia, di tutta evidenza che il divario segnalato di quasi due punti percentuali pieni tra le dinamiche dei due indici in gennaio, +4,8 e +2,9 per cento, rispettivamente, su base annua, è di quelli destinati a non restare senza una qualche conseguenza.

Pur non amando, per idiosincrasia tutta personale, ritornare su questioni già toccate, mi vedo costretto a riprendere alcune delle questioni trattate in una precedente puntata del Diario, quella del 1° gennaio 2008 e che recava il titolo “Le due vere cause della perdita del potere di acquisto dei redditi da lavoro dipendente e da pensione in Italia”, mentre è apparso sul sito della UILCA, su Flipnews e sul quotidiano on line Rosso di Sera come “Speciale sulla questione salariale” qualche giorno più tardi, testo a cui rinvio il lettore per tutte le parti che non tratterò in questa sede.

Premetto che non tornerò sulla controversa questione dell’adesione sin dall’avvio dell’Italia all’euro e sulla parità fissa ed irrevocabile stabilita nel maggio del 1998 ad appena tre anni dai minimi storici toccati dalla nostra valuta sui cross principali, in quanto ritengo del tutto esaustive le argomentazioni relative a quella causa della perdita del potere di acquisto, così come ribadisco la probabile inevitabilità delle scelte che furono allora compiute dalle autorità monetarie e dal Governo e la stima personale, per quanto può valere ed a scanso di equivoci e volgari strumentalizzazioni, per l’allora Premier, Romano Prodi e per il suo ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, due veri esempi di civil servant e che si trovarono nella difficile condizione di ratificare di fatto l’ultima e pesante svalutazione della lira, senza per questo essere minimamente ringraziati dai nostri imprenditori, troppo adusi da tempi immemori al molto italico “chiagni e fotti”.

La mossa azzardata dell’Istat, invece, ripropone con forza le questioni relative all’altro corno del dilemma, l’effetto, cioè, della desensibilizzazione prima e dell’abolizione poi della scala mobile, passando per l’abolizione di quelle cosiddette scale mobili “anomale” che caratterizzavano alcune categorie, tra le quali i bancari, scelte sofferte e quasi drammatiche che videro lacerazioni dell’animo anche nei leader sindacali che alla fine accettarono le proposte governative, anche di fronte a quello che l’ex premier Giuliano Amato ebbe a definire l’orlo del burrone nel quale rischiava di precipitare il Paese intero e non solo il suo apparato produttivo, un rischio che appariva oltremodo concreto ai decision makers dell’epoca e che ci avrebbe portati dritti dritti verso quello scenario drammatico vissuto parecchi anni dopo dall’Argentina.

Premettendo il massimo rispetto per la maggior parte degli autori di quelle scelte così difficili, almeno per quanti operavano sul versante sindacalee su quello governativo, ritengo, tuttavia, che il dibattito teorico che precedette quelle scelte e che vide contrapporsi le tesi del compianto Franco Modigliani, un grande economista che aveva, però, il difetto di vedere l’Italia dal suo osservatorio del Massachussets Institute of Technology, il giustamente celebre MIT, posto in una amena e piccola località nelle vicinanze di Boston, tesi peraltro sposate dalla maggior parte degli economisti italiani, dalla Banca d’Italia, dal mondo imprenditoriale al completo e da larga parte del mondo politico.

In estrema e certamente rozza sintesi, l’idea fondante della critica del Professor Modigliani ai meccanismi di indicizzazione salariale vigenti allora in Italia era data dal fatto che questi, piuttosto che degli effetti, fossero in realtà la causa dei tassi esagerati di inflazione nel nostro Paese che, negli anni Settanta ed in parte degli anni Ottanta, arrivò a sperimentare, per più di un anno, tassi annui di crescita dei prezzi anche superiori al 20 per cento.

Non servirono a dissuadere il celebre accademico, vincitore a pieno merito e semmai con grave ritardo del Premio Nobel per l’economia per le sue intuizioni in materia di risparmio pubblicate decenni prima della cerimonia di Stoccolma, le evidenze di tassi di inflazione notevolissimi esistenti nello stesso periodo considerato in importanti nazioni europee, cito, a solo titolo di esempio, la Gran Bretagna, aventi sistemi contrattuali diversi e che non prevedevano alcuna forma automatica di indicizzazione, ma solo cadenze molto ravvicinate del rinnovo della parte economica dei contratti, accompagnate comunque da doverose verifiche ex post.

E’ quasi superfluo sottolineare come il problema non risiedesse in una sottile disputa accademica tra le tesi di Modigliani e dei suoi brillanti allievi italiani, ricordo per tutti il compianto Ezio Tarantelli vilmente assassinato dalle brigate rosse ed il mio amico Giampiero Capponi che ebbe appena il tempo di scrivere un bellissimo articolo per Il Sole 24 Ore in occasione del conferimento del Nobel al suo amato Maestro per venire poi strappato giovanissimo alla vita da una terribile malattia, e, in posizione solitaria ma certo non per questo sbagliata, il Professor Augusto Graziani che sosteneva che un’eventuale indicizzazione al 100 per cento di salari, stipendi e pensioni avrebbe costituito un valido ed efficace deterrente rispetto al disinvolto mark up operato dagli imprenditori e dai commercianti di casa nostra.

Premetto che il professor Graziani, nipote dell’omonimo economista vilmente cacciato dall’Accademia dei Lincei e dall’insegnamento universitario a seguito di quelle odiose leggi razziali che il regime fascista adottò non solo su pressione degli alleati nazisti ma per intimo ed autonomo convincimento, è forse il più grande economista vivente italiano, caratterizzato da un percorso dottrinario che lo ha visto giovanissimo in cattedra con idee neoclassiche, nonché garante per l’Italia delle prestigiose borse Fullbright, per poi approdare, attraverso un percorso anche tormentato, ad una visione critica dei modelli e delle teorie economiche dominanti a livello accademico ed a porsi come solitario faro di riferimento per una sparuta schiera di giovani economisti, anche molto diversi tra di loro, ma aventi in comune la ferma decisione, in qualche caso anche mantenuta, di non portare il proprio cervello all’ammasso solo per convenienza o interesse personale.

Non lo dico certo per averlo personalmente conosciuto e perché ho avuto il grande onore di averlo come relatore della mia tesi di laurea, ma credo proprio che sarebbe stato meglio se la sua voce fosse stata allora più ascoltata, anche se sono altresì certo che, più che alle pur dotte diatribe tra economisti, la somma di errori che ha portato alla più iniqua distribuzione del reddito che l’Italia abbia mai registrato nella sua storia repubblicana hanno contribuito in misura certamente maggiore la scelta di un ventaglio di tecnicalità, quali il tasso programmato di inflazione basato su un paniere assolutamente inattendibile nelle voci e nei relativi pesi, così come l’avidità e l’assoluta miopia delle associazioni dei datori di lavoro e, the last but not the least, l’incapacità da parte sindacale di dotarsi di una visione dell’economia basata su valori e parametri realmente alternativi a quelli che caratterizzavano, ed ancora caratterizzano, il pensiero economico dominante.

sabato 23 febbraio 2008

Medici molto interessati al capezzale di Ambac


Un rumor giunto quando mancavano pochi minuti alla chiusura delle contrattazioni di venerdì 22 a Wall Street ha consentito un’impennata dei tre principali indici azionari statunitensi dal rosso semi intenso in cui erano immersi da parecchie ore all’area verde, anche se con valori relativamente modesti, e con una singolare coincidenza del Dow Jones 30 con il più ampio S&P 500, entrambi segnalanti un +0,79 per cento quasi miracoloso per gli operatori che si erano ormai rassegnati all’ennesima chiusura settimanale in perdita, come lo sono rispetto a quella ormai stabile prevalenza delle chiusure negative su quelle positive che si registra dall’inizio dell’anno.

Credo proprio che la normalmente alquanto severa Securities and Exchange Commission, equivalente blasonato della nostra relativamente recente Consob, farebbe bene a dare qualche segno di vita, di fronte a qualcosa di più di una voce sparsa ad arte da qualche anonimo operatore desideroso di portare a casa pane e companatico, in quanto il rumor proveniva dall’interno della grande società da settimane in difficoltà ed è stata ripresa da accurati dispacci di autorevoli agenzie di stampa statunitensi mentre le contrattazioni erano bellamente ancora in corso.

A mercati definitivamente chiusi, compreso il lungo after hours che, almeno stavolta, poco ha potuto aggiungere a quello che era accaduto negli ultimi e frenetici minuti di contrattazione sul mercato regolare, riferisco anche io che Ambac, la compagnia monoline che, a fine dicembre, era impegnata a garantire la bellezza di 524 degli oltre 2.400 miliardi di dollari USA di emissioni di bond più o meno strutturati garantiti dalle compagnie monoline, sarebbe in dirittura finale per concludere un importante deal con il gotha delle banche statunitensi e globali per “alzare” capitale riconoscibile come stabile, al fine di evitare che anche Moody’s e Standard & Poor’s seguano l’esempio fornito da Fitch’s, la società di rating che avuto il coraggio, l’ormai lontano 18 gennaio, data che sinora ha rappresentato per me solo il compleanno di mio fratello, il rating di Ambac da AAA ad AA, portando quello del suo braccio armato Ambac Financials ad una solitaria e miserevole A.

Credo proprio che il notevole lag temporale intercorso tra la coraggiosa, ma altrettanto doverosa, decisione dell’agenzia di rating statunitense e le sue due importanti sorelle non aiuti proprio a superare la drammatica lack of confidence che circonda ormai da tempo le decisioni di queste entità private chiamate a svolgere un ruolo semipubblico così importante, direi vitale, per fornire un accettabile grado di trasparenza a mercati che si presentano allo stato come oltremodo oscuri e che sono state pubblicamente messe sul banco degli imputati, in larga ed alquanto allegra compagnia, da buona parte dei decision makers politici dei principali paesi industrializzati e sono sotto stretta sorveglianza da parte delle sempre più preoccupate banche centrali che sono state chiamate, in aggiunta ai loro gravosi compiti, al ruolo non gradevole di spazzini del mercato, accogliendo, spesso in modo riservato, una considerevole fetta di quella altissima montagna di titoli della finanza strutturata, oramai divenuti meno appetibili dei tanto disprezzati junk bonds.

Non vorrei girare il classico coltello nella piaga, affermando che, se siamo giunti al punto in cui siamo, è proprio perché, per oltre un ventennio, gli attuali solerti accusatori delle società di rating, o, in molti casi, i loro predecessori, hanno allegramente girato la testa dall’altra parte rispetto ai sempre più evidenti guasti dell’imperversante modello originate to distribute.

D’altra parte, va detto per onestà che non vi è solo la stranezza del ritardo che al momento è di oltre un mese tra la decisione di una delle tre società di rating e le non decisioni delle altre due, in quanto non sfugge a nessuno che, grazie ad aumento di capitale di un misero miliardo di dollari, la prima delle compagnie monoline, quella MBIA che garantisce 679 miliardi di dollari di emissioni, mantiene ancora al momento la massima tra le pagelle ottenibili.

Non vorrei proprio che, dopo la montagna di parole sulla necessità di punire severamente il moral hazard e le altrettanto copiose lacrime di coccodrillo di economisti, banchieri centrali, governanti, commentatori e compagnia cantante, tornasse sul mercato e, più in particolare, sul mercato finanziario globale, la tristemente nota teoria del too big to fail, anche perché quella relativamente recente branca del sapere umano che è rappresentata dalla storia economica ha da tempo dimostrato, con dovizia di particolari e riferimenti alquanto precisi, che si tratta di un approccio che ha avuto effetti disastrosi e superiori a quelli che si sarebbero verificati seguendo, anche in tempi di crisi e tempeste più o meno perfette, il sano principio di eliminare dal mercato i soggetti incorsi in errori più o meno fatali, consentendo ad altri, e ve ne sono, di prendere il loro posto.

Stupisce, peraltro, che i vertici delle compagnie monoline si stiano avviando, quali pecore al macello, esattamente nella direzione indicata dal titolare di un importante hedge fund che pensa di diventare ancora più ricco giocando scopertamente al ribasso sulle azioni delle prime due companie monoline, MBIA ed Ambac, appunto, un finanziere che, in un dettagliato progetto sottoposto alla disperata autorità newyorkese incaricata di sorvegliare il settore assicurativo, ha proposto di splittare dalle compagnie il ramo che assicura le emissioni effettuate in modo assolutamente tradizionale da municipalità, contee (ricordate la Orange County?), stati federali e una pletora di organismi connessi a questi soggetti, lasciando in capo alle disastrate compagnie le garanzie relative all’enorme quantità di spazzatura dei titoli della finanza strutturata che le stesse, peraltro non da molti anni, hanno, in questo irretiti dalle allettanti sirene delle potentissime CIB delle altrettanto potenti banche basate in quasi tutti i paesi del mondo industrializzato, allegramente garantito.

Come ho avuto modo di sostenere nelle recenti puntate del Diario, si tratta con tutta evidenza di un progetto che, oltre a vedere, buon per lui, la autorealizzazione delle ardite scommesse di William Ackman, porterebbe, in tempi relativamente rapidi, al sicuro fallimento di quello che resterebbe di MBIA, Ambac e delle altre quattro principali compagnie monoline, così come di quel manipolo di altre compagnie minore rispetto alle quali vale il “de minimis non disputandum est”, come dicevano quegli imperialisti ante litteram dei romani.

Il week end non sarà impegnativo solo per Citigroup, UBS, Wachovia Bank, Barclays, BNP Paribas, Allianz (nella versione Dresdner Bank), Royal Bank of Scotland e Société Générale, impegnate nel perfezionamento dell’importante e delicato deal con Ambac, ma anche per la ricerca di una soluzione ai guai di una delle partecipanti ai lavori, quella Socgen che, almeno stando ai primi risultati dell’indagine interna, ha commesso delle leggerezze in vigilando che, pur non prefigurando complicità o reati, sono di per sé tali da vedere realizzato appieno il cosiddetto rischio reputazionale, cosa che il decisionista Sarkozy non può certo tollerare, abituato come è a “rendre la pareille”.

venerdì 22 febbraio 2008

Ma ci si può fidare dell'esattezza dei bilanci?


Un nuovo uno-due si è abbattuto ieri sui già frastornati operatori del mercato finanziario statunitense e l’occasione, stavolta, è stata rappresentata dalla diffusione pressoché simultanea di due importanti rapporti mensili, il Philadelphia Fed Index (-24 punti contro i –20,9 di gennaio ed un consensus ottimistico che prevedeva “soltanto” –10) ed il Leading Indicators del Conference Board (-0,1, come in dicembre), il primo relativo al mese di febbraio ed il secondo al mese di gennaio, in quanto entrambe le rilevazioni indicano inequivocabilmente il netto peggioramento delle condizioni economiche attuali e di quelle prospettiche dell’economia statunitense, rivelando, almeno il Leading Indicators, significative revisioni al ribasso dei dati diffusi in precedenza.

Anche il meno strategico dato sui nuovi sussidi settimanali si è salvato solo grazie al netto peggioramento, in sede di revisione, del dato diffuso la settimana scorsa, ma si mantiene a livelli molto elevati rispetto alla media settimanale registrata nei mesi scorsi, mentre non accenna a diminuire lo stock di sussidi.

La reazione dei mercati azionari ed obbligazionari statunitensi a queste ulteriori e significative brutte notizie - così come il peggioramento delle previsioni della Fed su crescita, prezzi ed occupazione diffuse mercoledì in contemporanea con un dato dei prezzi al consumo che, anche stavolta, senza il giochetto statistico e poco significativo per i consumatori degli ex food ed ex energy, si mantiene saldamente al di sopra del 4 per cento – non poteva che essere negativa, con nette flessioni dei tre indici azionari principali ed il contestuale rialzo dei prezzi dei Treasury Bonds, mentre l’oro ed il petrolio e buona parte delle materie prime continuano a macinare record.

Quello delle revisioni sempre più significative dei dati diffusi in precedenza, normalmente in peggio, inizia, peraltro, ad essere un vero problema e, non a caso, la maggior parte dei commentatori di vicende economiche basa le proprie valutazioni sul consensus pubblicato in precedenza, anche se segnalo che vi è qualche aggiustamento post annuncio del dato di turno anche delle stime diffuse prima dell'annuncio stesso.

Ben più significativi dei giochetti statistici e degli aggiustamenti delle previsioni, tuttavia, sono gli effetti che stanno avendo sulla chiarezza e traparenza dei conti delle banche e delle compagnie di assicurazioni statunitensi, ma non solo, l’influenza che i cosiddetti profitti di carta stanno esercitando sui bilanci dei due ultimi trimestri del 2007 e, ovviamente, su quelli dell’intero esercizio relativo al 2007, in quanto l’applicazione del FAS 159 sta complicando veramente la vita delle agenzie di rating, degli analisti e dei commentatori, anche perché è spesso veramente difficile districarsi tra la realtà e l’apparenza di bilanci che, anche al lordo di queste vere e proprie distorsioni contabili, restano, nella maggior parte dei casi, a livelli disastrosi.

Ricordavo ieri l’accurato articolo del redattore non embedded di Fortune, Roddy Boyd, che, pur limitandosi a fare le pulci al bilancio del quarto trimestre e dell’intero esercizio 2007 del Credit Suisse, di recente afflitto da un buco da 2,85 miliardi di dollari dovuto ai soliti traders infedeli o perlomeno distratti, rilevando che, grazie alle comode previsioni del FAS 159 statunitense, aveva contabilizzato come ricavi il minor valore, in termini di mark to market, sui titoli della finanza strutturata in portafoglio, ricavi per oltre un miliardo di dollari, poneva una questione più generale, in quanto si tratta di una prassi pressoché generalizzata tra le banche statunitensi e le banche globali che operano in quello che rimane il più grande mercato finanziario del pianeta, del tutto incuranti delle reprimende di Moody’s, che, a sua volta, rimane la principale agenzia di rasting e la cui decisione di non considerare, ai fini delle sue valutazioni, questi giochetti, sia pure legali, non potrà che essere prontamente seguita dalle altre due agenzie di rating sue dirette rivali, anche perché sono, a loro volta, tutte e tre nel mirino dei governi e delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati che rimproverano loro comportamenti altrettanto disinvolti nelle valutazioni generose dei titoli della finanza strutturata e dei loro emittenti.

Capisco perfettamente che, per il lettore, queste possano apparire preoccupazioni eccessive basate su tecnicalità apparentemente ininfluenti, ma ricordo che per superare l’influenza dei cosiddetti interessi moratori sui conti economici delle banche italiane, finti ricavi a loro volta chiamati profitti di carta, ci volle un lungo dibattitto e trascorse molto tempo prima che vi si ponesse rimedio, il tutto a danno non solo della corretta rappresentazione in bilancio dei fatti di gestione, ma anche della trasparenza, rendendo tutto un po’ indistinto quando, dai comunicati pesati al bilancino relativi ai prospetti ufficiali, si passa a quel vero e proprio tritacarne rappresentato dalla rappresentazione che degli stessi viene fornita dalla stampa specializzata e non, embedded o meno.

Ma quella che sta iniziando a serpeggiare ai piani alti delle banche e delle compagnie di assicurazioni di tutto il mondo è una preoccupazione ben più fondata e di dimensioni tali da rischiare di togliere il sonno a quei presidenti ed a quegli amministratori delegati che, almeno sino a qualche tempo, erano convinti che, in fondo, i bilanci trimestrali e quelli annuali fossero materia di pertinenza e di responsabilità di coloro che li redigono e di quella figura chiamata Chief Financial Officer o direttore finanziario, a seconda delle latitudini, nonché della sostanziale esattezza dei dati in essi rappresentati.

Purtroppo per queste spesso strapagate figure, lo sviluppo sempre più spasmodico di quelle entità chiamate ad operare nel Corporate & Investment Banking e quel processo di vera autonomizzazione che ha caratterizzato le CIB in questi ultimi anni, in alcuni casi decenni, ha mutato radicalmente la situazione e ha infranto la tranquillità di quelli che, spesso solo per comodità rappresentativa, vengono considerati i veri vertici aziendali, anche perché, ragionando anche solo in termini di contributo al risultato reddituale complessivo, è spesso difficile capire se conti di più il capo della CIB o il CEO della banca di cui questa è espressione.

Il problema diviene ancora più complesso se si sposta l’angolo visuale dal Chairman, dal CEO o dallo stesso Board of Directors, a quello sempre più inquietante di cui dispone lo stesso responsabile della CIB, in quanto, anche senza scomodare il caso Socgen o l’infinita catena di scandali che lo hanno preceduto, è evidente che neanche questa figura in apparenza così potente è, al giorno d’oggi, realmente in grado di giurare sull’esattezza della rappresentazione dei dati che gli vengono forniti dalle funzioni che a lui rispondono, dati spesso elaborati in base a complicatissimi modelli matematici che hanno a riferimento titoli molto più complessi degli stessi modelli che dovrebbero procedere alle stime, il che rende più comprensibile lo sfogo di Sarkozy, quando ha di recente detto, dall’India, che il mercato finanziario è impazzito.

giovedì 21 febbraio 2008

BNL e Antonveneta, ovvero le reali cause dell'avvio della 3^ fase del processo di ristrutturazione del settore creditizio italiano


Per la seconda volta in un breve volgere di tempo, KKR Financial, vero e proprio braccio armato del colossale fondo di private equity Kohlberg-Kravis-Roberts per la raccoltà di liquidità, avrebbe chiesto ed ottenuto dai suoi creditori una dilazione del rimborso di una imprecisata quantità di miliardi di dollari che era stata raccolta attraverso l’emissione di Commercial Papers, mentre si è appreso che è in corso una serrata trattativa per una vera ristrutturazione dell’indebitamento della finanziaria, che fornirebbe una provvidenziale boccata di ossigeno alle locuste accomodante al piano sovrastante della piramide societaria.

Finita l’epoca del denaro facile e dell’allegro trasferimento ad altri soggetti dei rischi assunti in quelle scalate stellari che hanno fatto per anni la felicità della stampa specializzata, più o meno embedded, per le voraci locuste che di private hanno soltanto il nome il gioco si sta facendo veramente duro, come dimostra il caso di GMAC, la finanziaria un tempo di General Motors e incaricata di facilitare in ogni modo l’acquisto delle automobili e dei trucks prodotti dal colosso di Detroit, da qualche tempo passata sotto il controllo dell’altrettanto colossale fondo di private equity Cerberus, attualmente impegnato in una feroce ristrutturazione della controllata, con relativi tagli dei costi e del personale (950 licenziati solo nei giorni scorsi).

Che le locuste, i carry traders e le compagnie monoline sarebbero state le vittime della seconda ondata della tempesta perfetta è noto ai pochi lettori (da ieri raddopppiati nelle venti nazioni che, secondo le statistiche gentilmente offertemi da Google Analytics, ospitano utenti del bolg) sin dal 3 settembre dell’anno scorso, anche se va sottolineato il lag temporale di sei mesi tra la prima ondata, rappresentata dalla crisi di liquidità sul mercato interbancario del 9 agosto, e l’ondata attuale, mentre della terza non parlo per scaramanzia.

In un’alquanto feroce nota, Roddy Boyd, redattore tutt’altro che embedded della rivista Fortune, si diletta in una disamina molto tecnica delle disgrazie del Credit Suisse, dimostrando efficacemente che, al netto del buco da 2,85 miliardi di dollari dovuto ai soliti traders infedeli o perlomeno distratti, il colosso creditizio svizzero aveva attinto a piene mani dalle comode previsioni del FAS 159 statunitense che ha consentito di considerare come ricavi il minor valore, in termini di mark to market, sui titoli della finanza strutturale in portafoglio, ricavi che rappresentano il 16 per cento dei ricavi totali e che Moody’s ha già dichiarato ufficialmente di non prendere in considerazione in ragione della loro natura e di considerarli addirittura distorsivi, sul piano della comunicazione societaria, della concorrenza nei confronti di banche, come Deutsche Bank che utilizzano altri criteri contabili.

Ma la vera notizia di ieri è rappresentata dalla proposta provocatoria del titolare di un hedge fund, William Ackman, noto per essere impegnato in vendite massicce allo scoperto dei titoli di MBIA ed Ambac e che, forse - almeno secondo i commenti interessati dei vertici delle due società sotto tiro - per rendere le sue scommesse autorealizzantesi, ha ufficialmente proposto alla sempre più preoccupata autorità di vigilanza newyorkese sul settore assicurativo la scissione in due delle compagnie monoline, con una new company dedicata esclusivamente ai bonds tradizionali emessi da entità di natura pubblica e lasciando nella pancia della compagnia originaria le garanzie prestate alle emissioni dei titoli della finanza strutturata.

Lasciando gli americani ai loro non pochi guai ed a riflettere sulla inesorabilità della legge di causa-effetto, credo sia utile venire ai guai europei, che ho in parte anticipato parlando del Credit Suisse, con la notizia della guerra di parole scoppiata tra la Germania di Frau Merkel ed il Principato del Liechtenstein, un Paese lillipuziano che ospita poco meno di 50 mila fondazioni a fronte di 35 mila abitanti, una nazione stretta tra le non colossali Svizzera ed Austria e che viene accusata dagli occhiuti ispettori del fisco tedesco di ospitare capitali frutto di evasione, per un importo fino a 4 miliardi di euro, ascrivibili all’ex numero uno di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel e ad altri 800 top manager e ricchi tedeschi che avrebbero scelto le accoglienti norme in vigore nel Principato rispetto ai porti non più sicuri di altri paradisi fiscali già finiti nella famigerata black list redatta da noiose agenzie sovranazionali.

Dopo una bordata di parole rivendicanti la sovranità nazionale di uno Stato grande quanto un quartiere di una metropoli italiana e dotato di forze di sicurezza inferiori a quelle ospitate nel quartiere medesimo, le autorità del principato si sono precipitate ad annunciare una pronta riforma della legge sulle fondazioni, venendo di fatto incontro alle richieste della Germania.

I dati sul quarto trimestre e sull’intero esercizio 2007 diffusi ieri da BNP Paribas, dati peraltro quasi perfettamente in linea con le anticipazioni diffuse dopo lo scandalo di Socgen, e quelli realtivi al vero e proprio tracollo della clientela di Antonveneta nel breve periodo di gestione olandese (almeno di quella palese, in quanto la banca era sotto l’influenza di ABN AMRO già prima di essere ufficialmente conquistata), mi costringono a venir meno ad una regola che mi ero imposta da solo sin dalla prima puntata del Diario della crisi finanziaria e che consisteva nel farmi influenzare il meno possibile dal ruolo di responsabile dell’ufficio studi della UILCA e, in quanto tale, impegnato, tra l’altro, da dieci anni nell’analisi dell’ancora incompleto processo di ristrutturazione del mercato finanziario italiano, da poco tempo entrato nella sua terza fase.

Ebbene, la conquista della Banca Nazionale del Lavoro da parte di BNP Paribas dopo lo stop doverosamente imposto dalle varie autorità preposte all’improbabile scalata di Unipol e la conquista di Antonveneta da parte della sua storica azionista ABN AMRO, nonostante le palese parzialità della Banca d'Italia allora governata da Antonio Fazio in favore della Banca Popolare Italiana di Fiorani e soci, sono davvero state le due vicende che hanno avviato questa terza fase, che ha visto il matrimonio lampo tra Intesa e San Paolo-IMI e quello, altrettanto fulmineo, tra Unicredit e Capitalia, entrambi finalizzati nei fatti all’esclusione di azionisti stranieri (Credit Agricole, Santander e ABN AMRO) sempre più impazienti e sempre meno contenti di avere pagato montagne di soldi per stare su uno strapuntino, mentre nel matrimonio tra Alessandro Profumo e Cesare Geronzi vi era anche il non troppo celato obiettivo di mettere alla porta il giovane e brillante CEO del gruppo romano, Matteo Arpe.

Il ritorno a caro prezzo di Antonveneta in mani italiane e la volontà implicita nelle prime mosse del Monte dei Paschi di Siena di riportare la banca padovana alla sua vocazione regionale, così come le autorevolissime (e finalmente giunte) smentite di BNP Paribas alla vera e propria campagna di stampa che prevedeva un disimpegno da quello che ha definito il suo secondo mercato domestico, smentite che essendo pronunciate in stereofonia dal CEO del colosso francese, Baudoin Prot, dal suo omologo in BNL, Jean Laurent Bonaffé, nonché dal presidente della banca di Via Veneto, Luigi Abete, non possono che essere considerate esaustive e segnaletiche della volontà di proseguire, al netto dei gravosi impegni finanziari che il Governo francese e lo stesso Sarkozy potrebbero richiedere a BNP come all’Agricole per un'eventuale sistemazione della partita Socgen, in un avventura italiana che certamente non era nota nelle sue reali difficoltà all’atto dell’acquisizione, non fosse altro per la semplice ragione che, come è noto, trattandosi di una contro OPA, era impossibile eseguire un’accurata due diligence, così come, peraltro, non era stata prevista, almeno in tempi così brevi, un'operazione come quella denominata Vivaldi, tacitamente approvata da quello stesso Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, che solo casualmente è volato martedì scorso dal suo omologo francese, Philippe Noyer, per un colloquio del quale non è dato, per l'ovvia riservatezza che caratterizza i colloqui tra gli esponenti delle banche centrali, conoscere i reali contenuti.

mercoledì 20 febbraio 2008

UBS & Credit Suisse, in due si soffre meglio


Mentre in Francia si sta ancora cercando di metabolizzare l’impatto della vicenda di Socgen, l’importante banca francese che ha accusato perdite per circa 7,5 miliardi di euro legati al “buco” creato, in apparente solitudine, dal trader Jerome Kreviel e alle perdite rilevanti sui titoli della finanza strutturata, è giunta ieri la notizia che la seconda banca svizzera, il Credit Suisse, è stato costretto ad annunciare svalutazioni per 2,85 miliardi di dollari relative al primo trimestre legate ad “errori” compiuti da alcuni suoi trader, prontamente sospesi, nella valutazione di CDO, Commercial Papers e altre piacevolezze della finanza strutturata.

Non ho usato a caso il termine costretta, in quanto, secondo la nota di un analista dell’altrettanto inguaiata Bear Stearns, peraltro non smentita dal colosso creditizio svizzero, l’outing inatteso dell’amminstratore delegato di Credit Suisse, Brady Dougan, è stato determinato dalla richiesta perentoria della Kpmg, revisore ufficiale dei conti, di inserire queste perdite, pena la non certificazione dei conti stessi, segnale questo del nuovo corso delle società di certificazione e, ancor più, delle società di rating sempre più nel mirino dei governi e delle autorità monetarie per l’estrema leggerezza con la quale hanno concesso sino a poco tempo fa certificazioni di imprese di ogni ordine e rango e valutazioni stellari dei titoli della finanza strutturata.

La data della scoperta e del relativo, non si sa quanto tempestivo, annuncio, nonché le prime caute ammissioni dello sventurato CEO elvetico, inducono a ritenere che sarà necessario rivedere anche i conti del quarto trimestre del 2007 e conseguentemente quelli dell’intero esercizio 2007, il che renderebbe realmente comici i lusinghieri commenti con i quali la stampa specializzata aveva accolto il comunicato della banca che non mancava di sottolineare come, a differenza della rivale UBS, il Credit Suisse era passato sostanzialmente indenne attraverso i marosi della tempesta perfetta.

La vicenda di Socgen e quella del Credit Suisse fanno assumere una ben diversa rilevanza agli appelli accorati che i ministri economici e i governatori delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializati hanno rivolto nelle scorse settimane ai vari soggetti che operano nel mercato finanziario globale affinche dicessero la verità, tutta la verità, sullo stato dei loro conti, anche perché Bernanke, Trichet, Draghi, Paulson, Padoa Schioppa e compagnia cantante sono ben consapevoli del fatto che larga parte della montagna di titoli della finanza strutturata sono spesso annidati off balance sheet, anche se i due casi citati permettono di comprendere come vi sia ben poca traparenza anche al di sopra della linea di bilancio.

L’ultima, anche se temo proprio che non sarà l’ultima, scoperta consente anche di dare maggiore sostanza alla tesi sempre più accredita che gli effetti maggiori della crisi finanziaria si vedranno nel vecchio continente, all’interno ed all’esterno dell’area dell’euro, pur avendo il suo epicentro negli Stati Uniti d’America, anche per l’ovvia considerazione che le leggi ed i regolamenti della miriade di stati e staterelli che compongono l’Unione Europea, senza considerare quella realtà creditizia così importante rappresentata dalla extracomunitaria Confederazione Elvetica e quei paradisi fiscali che si dimostrano sempre più degni di essere ospitati nella black list, rispetto alle relativamente recenti regole in vigore negli USA, regole che hanno indotto una miriade di banche ed imprese europee a chiedere in fretta e furia il delisting dalla borsa di Wall Street.

D’altra parte, la solo apparentemente assurda incapacità di trovare una qualche sistemazione delle per ora poche entità creditizie europee in difficoltà a causa della crisi finanziaria la dice lunga sul grado di fiducia che i banchieri europei ed i loro sempre più preoccupati vigilatori hanno ognuno dello stato dei conti dell’altro, anzi, a partire dalla vicenda francese e da quella svizzera, mi spingerei a dire che una larga parte dei numeri uno delle banche europee iniziano a nutrire seri dubbi anche dei conti della banca o della finanziaria della quale sono alla guida, a volte da lungo tempo.

Si tratta, peraltro, di una circostanza tutt’altro che assurda come potrebbe apparire a prima vista, in quanto gli addetti ai lavori e gli analisti sanno benissimo quanto si sia sviluppata negli ultimi anni, se non negli ultimi decenni, l’autonomizzazione, in parte voluta ed in parte subita da Chairman e CEO, di quelle entità denominate Corporate & Investment Banking, vere banche nelle banche, aventi canali di reclutamento, sistemi di compensazione ed anche riferimenti valoriali nettamente differenziati da quelli che vigono nella parte più tradizionale dell’attività creditizia, una separazione favorita dai risultati stellari che queste entità hanno realizzato fino al 2006.

Purtroppo per tutti, la rivincita e la rivalutazione che sta ottenendo il modello originate and hold rispetto a quello caro alle donne e gli uomini che popolano le CIB di tutto il mondo, cioè il micidiale originate to distribute, con le annesse fabbriche prodotto che ormai sfornano prodotti sempre più incomprensibili e che hanno resa necessaria la nuova professione degli spacchettatori, rischia di arrivare troppo tardi, anche perché il valore nozionale dei titoli, più o meno strutturati, ha raggiunto livelli tali da rischiare di travolgere con sé anche la parte tradizionale dell’attività bancaria, che, peraltro, è divenuta sempre più la fonte, via cartolarizzazioni ed altri marchingegni, della prolifica ed intensissima attività delle stesse CIB.

Ho già segnalato la lucidissima lezione tenuta dal professor Luigi Spaventa nel corso dei lavori del recente Congresso del Forex e delle altre associazioni dei mestieri presenti nel mercato finanziario, svoltosi a Bari, ma ritengo utile segnalare anche la severa reprimenda giunta da Gonzales, altissimo esponente del Banco Bilbao Vizcaya y Argentaria sulla necessità di un tasso maggiore di etica nella professione, così come la sua convinzione che il vero problema consista nell’applicare realmente e severamente le non poche, ma ben poco applicate, regole esistenti.

In un siffatto scenario, hanno avuto meno riscontro di quanto avrebbe potuto essere prevedibile le dichiarazioni rese ad Istanbul dal CEO di Unicredit Group, Alessandro Profumo, dichiarazioni rese in margine ai lavori del CdA del gruppo svoltisi nella città turca e che puntavano a rendere noto al mondo intero che la sua non è la banca dei derivati, parole sovrastate da quelle pronunciate dal Direttore Generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, che della questione si sta attivamente occupando, grazie anche al lavoro dei suoi ispettori, attivati anche dal dispositivo di agosto della Consob e dalle sempre più numerose denuncie di clienti che si ritengono, a torto o a ragione, danneggiati.

martedì 19 febbraio 2008

La vera storia del disastro di Northern Rock


Non so se sia attendibile il giudizio sullo stato psicofisico dell’ex Cancelliere dello Scacchiere ed attuale premier, Gordon Brown, espresso dalla sua ministra per le comunità locali, Hazel Blears, che in un’intervista alla BBC, pur negando che il suo capo sia caratterizzato da cattivo carattere e sia un po’ troppo duro, ha tuttavia ammesso che avrebbe proprio bisogno di una belle e forse lunga vacanza, dando così un autorevole supporto alla campagna che l’aspra stampa britannica sta conducendo da qualche tempo sui motivi della pessima performance e del conseguente calo di popolarità di questo sanguigno politico scozzese, giunto forse troppo tardi alla successione di Tony Blair.

Confesso che della cosa non potrebbe importarmene di meno, se non si intrecciasse con quel vero e proprio disastro rappresentato dal modo in cui la Bank of England, l’attuale Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling e il responsabile dell’autority sul sistema creditizio hanno gestito, o piuttosto non gestito, il caso Northern Rock, una somma di errori ed una chiara lack of governance che hanno alla loro base un peccato originale, che è rappresentato dal non avere in alcun modo compreso che, in presenza di una fulminea e gravissima crisi di liquidità quale era quella innescatasi il 9 agosto 2007, tutto bisognava fare tranne negare ad una banca sbilanciata sul fronte della raccolta l’accesso, ed in forma del tutto riservata, ad anticipazioni straordinarie da parte della BoE.

Ma l’errore del Governatore della BoE, appena confermato, come ricordavo tristemente ieri, nel suo prestigioso incarico, ha fatto di peggio in quelle convulse giornate, in quanto ha reso noto le alquanto oscure ragioni del suo rifiuto opposto alle pressanti richieste dei vertici di Northern Rock, una banca che aveva scelto, per un’errata scelta gestionale mai sanzionata dalle autorità monetarie britanniche, di sbilanciare le fonti di raccolta in favore di quella interbancaria, una fonte che, almeno sino a quel momento, era facile da ottenere al pari dell’acqua del rubinetto proveniente dall’acquedotto comunale di una città senza problemi di approvvigionamento idrico, ma che prevede l’assenza di un modello efficace di shock test e stress test, quali quelli che Draghi sta cercando di imporre alle banche italiane, peraltro molto meno sbilanciate sul fronte della liquidità rispetto alla maggior parte delle banche europee, per non parlare poi delle banche statunitensi.

Non so quanto sia noto che la Gran Bretagna rappresenta uno dei rarissimi casi, almeno tra i paesi maggiormente industrializzati, di divisione in due delle competenze sul mercato creditizio, in quanto, da alcuni anni, le funzioni di prestatore di ultima istanza e controllo della concorrenza sono affidate alla BoE e quelle di vigilanza sono state affidate ad un nuovo organismo che, di fatto, ha letteralmente girato la testa dall’altra parte, anche perché la chiusura dei rubinetti è avvenuta per uno shock esterno alla Gran Bretagna e assolutamente non previsto dal board della BCE, i cui membri erano, quel famoso 9 agosto, tutti beatamente in vacanza.

La concessione tardiva della linea di credito di credito di emergenza di 25 miliardi di sterline, ad un tasso peraltro punitivo, non impedì che si diffondesse un’ondata di panico tra i depositanti e determinato quello assalto agli sportelli, con code chilometriche e l’evaporazione di miliardi di sterline di depositi, per non parlare della vicenda di quel direttore di agenzia sequestrato da due anziani coniugi fino alla concessione della possibilità di ritirare il loro milione di sterline depositato presso la banca.

La calma giunse solo quando il Governo si spinse, travalicando le previsioni di legge sulla tutela dei depositanti che prevedono un rimorso massimo di 41 mila sterline, ad estendere la garanzia all’intero ammontare dei depositi della Northern Rock, una decisione che di fatto nazionalizzava, come è peraltro evidenziato dalla recente inclusione della banca tra le entità pubbliche operata dall’istituto centrale di statistiche britannico, una decisione forse indispensabile, ma che chiarisce in modo palmare quanto quelle sul libero mercato sono in realtà chiacchiere che vanno bene solo quando si è a distanza di sicurezza da situazioni di crisi, figuriamoci quando si è immersi fino al collo negli alti marosi dell’attuale tempesta perfetta.

Sarei tentato, poi, di stendere un velo pietoso sugli errori marchiani compiuti dal Governo di Sua Maestà britannica nei quasi sei mesi di trattative, palesi ed oscure, che hanno caratterizzato quella specie di spettacolo di paese che è stata l’asta per procedere all’accasamento della banca di Newcastle, che più volte ho definito la Sora Camilla, quella che a Roma si dice tutti la vonno e nessuno la piglia, un’asta che ha visto, come ricordavo ieri, una schiera, piccola in verità, di pretendenti aventi tali caratteristiche da non poter essere presi seriamente in considerazione da nessuna autorità monetaria o governativa di nessun paese del mondi civilizzato come acquirenti di un’importante banca del paese da lor, a vario titolo, gestito.

Pur con il rispetto che si deve ad uomo dalle qualità eccezionali, quale certamente è l’eterno giovanotto Richard Branson, del quale ho avuto peraltro il piacere di conoscere a Findhorn in Scozia uno dei giovani e brillanti collaboratori, una persona che ha avuto il coraggio e l’abilità necessarie per rompere il cartello delle blasonate compagnie aeree di bandiera con la Virgin, anche se poi è stato superato da new comers, quali Ryannair, Transavia, Vueling e compagnia cantante ed ha visto appannarsi la sua stella brillata solitaria per qualche anno, ma di certo autore di un progetto di integrazione tra una sua finanziaria e l’ottava banca del regno che gridava vendetta e che ha fatto girare nella loro tomba i Morgan, i Rockfeller, i Rothschild, i Mattioli e persino il povero Enrico Cuccia, un banchiere che nella sua lunghissima vita aveva visto di tutto e che si poteva permettere di cenare a New York persino con il latitante Michele Sindona, anche se ha detto, sotto giuramento, di non aver proprio capito quello che il bancarottiere andava dicendogli, anche perché, se l’avesse capito, un galantuomo come l’avvocato Giorgio Ambrosoli non sarebbe stato vilmente assassinato.

Che dire poi di pretendenti come hedege fund o private equità, entità cui affidare una banca delle tuttora rispettabili dimensioni di Northern Rock equivarrebbe a mettere una pistola od un mitra nelle mani di un rapinatore recidivo di banche o prestare qualche milione di euro a qualche frequentatore confesso e abituale di casinò, se non di vere e proprie bische clandestine, eppure, oltre a Branson, tale era la natura degli altri soggetti, mentre credo che non meriti una parola il tardivo progetto di management buyout avanzato da un oscuro dirigente, credo in pensione, della banca di Newcastle.

A costo di sembrare un po’ noiso ripeto la domanda che faccio da tempo: perché nessuna banca del pianeta ha voluto comprare Northern Rock?

lunedì 18 febbraio 2008

Perché nessuno ha voluto Northern Rock?


L’annuncio della nazionalizzazione di Northern Rock è giunto nella giornata di ieri, domenica, mediante un annuncio televisivo effettuato dal Cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente, in un paese normale, del ministro dell’economia) di Sua Maestà che, con fare alquanto mesto, ha reso noto che il governo, sempre di Sua Maestà, dopo aver esaminato le due proposte di acquisto avanzate dall’originale creatore di Virgin, Richard Branson, e da un gruppo di manager della banca, aveva deciso, sulla base della improponibilità delle suddette due proposte, di procedere alla nazionalizzazione temporanea (sic), dell’ottava banca britannica e quinta nella graduatoria delle entità eroganti mutui.

La nazionalizzazione dell’alquanto malandata banca britannica, un istituto che verrà ricordato dai posteri non già per la sua più o meno gloriosa storia, ma bensì per essere stato il primo istituto di credito assaltato non troppo metaforicamente dai suoi depositanti negli ultimi 166 anni, o per la vita mondana del suo ex numero uno che, assieme alla consorte, era noto per la assiduità con la quale frequentava tutti gli eventi salienti della swinging London, meritandosi, la coppia, un appellativo che non riporto per il rispetto che è comunque dovuto a due scialaquatori professionisti di denaro.

Northern Rock verrà anche ricordata per la triste vicenda che riguarda la costituzione di una fondazione formalmente di proprietà di enti assistenziali, fondazione realizzata, secondo le indagini preliminari di ben tre commissioni di indagine al solo scopo di frodare il severo fisco britannico, anche perché le associazioni di beneficenza non hanno visto un solo penny dalla fondazione che le vedeva come beneficiarie.

La triste ed alquanto scontata conclusione della incresciosa vicenda dell’istituto di Newcastle, tenuto a galla dal sicuro affondamento legato alla più grave crisi di liquidità mai verificatasi dal secondo dopoguerra dalla ciambella di salvataggio da 25 miliardi di sterline gettatale, dopo qualche fatale esitazione, dall’ineffabile Governatore della Bank of England, tale King, recentemente confermato nell’incarico dall’altrettanto ineffabile premier, Gordon Brown, è stata l’inevitabile epilogo di una storia nata male e finita peggio, nonostante una serie di tentativi di salvataggio che, non del tutto a caso, hanno visto una piccola folla di improbabili acquirenti, nessuno con le caratteristiche e lo standing necessari per acquisire l’importante banca britannica.

Si trattava infatti di hedge fund, private equity e di quello che un tempo era un brillante giovanotto e che, per primo, cercò, riuscendovi, di infrangere la barriera all’ingresso posta di fronte al settore delle aerolinee, quasi sempre compagnie di bandiera, alcune anche molto blasonate, e che, senza volerlo, aprì la strada alle compagnie low cost, quali Ryannair, Vueling, Transavia e via discorrendo, per finire con il disperato tentativo di un manager di Northern Rock che ha tentato, un po’ in extremis, di mettere in piedi un classico management buyout alla amatriciana.

Passando dal faceto al serio, credo proprio che sia giunto il momento di interrogarsi sui motivi per i quali nessuno dei tentativi di salvataggio delle ormai non poche banche entrate in difficoltà sia giunto realmente in porto, anche perché continuano ancora oggi in Germania le liti su chi debba accollarsi le perdite dei due piccoli e medi istituti entrati in crisi ad agosto, mentre è andata di fatto fallita in Gran Bretagna la lunghissima asta su Northern Rock e, per quanto riguarda quel vero e proprio disastro di immagine e di reputazione rappresentato dalla vicenda di Socgen, siamo ancora a carissimo amico.

Si dirà che al di là dell’Atlantico le cose stanno un po’ meglio, ed in effetti Countrywide è promessa sposa di Bank of America, ci si prepara allo spezzatino delle compagnie monoline, con Buffett che gioca a fare il gatto con il topo, innumerevoli presidenti e CEO, spesso in cumulo di entrambe le cariche, sono stati cacciati e ricoperti d’oro, mentre già si prevede che le Big Five si ridurranno, nel migliore dei casi, a Big Three e l’ottanta per cento delle entità specializzate nel settore dei mutui sono fallite o in convalescenza nelle corsie previste dall’accomodante legge falllimentare statunitense.

Sulle differenze tra il sistema statunitense e quello vigente in Europa, Gran Bretagna compresa, credo di avere già detto abbastanza nelle precedenti puntate, ma credo che sia utile che qualcuno fornisca qualche risposta all’ormai assilante richiesta di verità che viene, ad ogni pié sospinto, avanzata dai ministri dell’Economia e dai Governatori delle principali banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, Paulson, Trichet e Draghi, solo per citare i più assidui tra di loro.

Il problema vero, però, è rappresentato dal fatto che difficilmente le banche, in particolare quelle basate in Europa, potranno rispondere alla assillante richiesta dei loro regolatori, in quanto, forse, si tratta di una verità di dimensioni difficilmente immaginabili, anche perché ha a che fare con un fenomeno, quale quello, per dirla con un eufemismo, della cartolarizzazione spinta di tutto quello che era cartolarizzabile, un qualcosa che, secondo stime recenti, ha dimensioni valutabili in qualcosa come 25 mila miliardi di dollari, un problema del quale sono tutte da verificare le fette di pertinenza a livello di singolo paese o di singola banca o compagnia di assicurazioni.

Pur essendo estranea alle mie intenzioni la voglia di girare il coltello nella piaga, torno a porre, sia pure per l’ennesima volta, la mia forse un po’ ingenua domanda: come mai nessuna banca del mondo si è fatta avanti per acquisire, a prezzi di assoluto saldo, l’ottava banca del regno e nessuno, almeno al momento, sembra interessato a fare un solo boccone di Socgen, un tempo vista come una ghiotta preda da tante banche europee di rango?

domenica 17 febbraio 2008

Giudici e sceriffi bonficano il casinò della finanza

L’ex amministratore della Refco, uno dei leader mondiali nell’attività di brokeraggio di materie prime, Phillip R. Bennett, è stati ieri giudicato colpevole di aver commesso una ventina di reati, tra i quali, frode assicurativa, frode bancaria, riciclaggio di denaro e per aver fornito false informazioni alla Securities Exchange Commission, un cumulo di imputazioni di per sé impressionante, ma aggravate dalla reiterazione degli stessi reati, che ha indotto il giudice Naomi Reice Buchwald a condannarlo di fatto a restare in prigione a vita, anche perché l’imputato, che peraltro ha candidamente ammesso le sue responsabilità, ha oggi 59 anni e la pena massima prevista, il verdetto relativo sarà pronunciato il 20 maggio prossimo, ammonta a 315 anni, nonché la previsione della restituzione di 2,4 miliardi di dollari allo Stato.

L’aspetto inquietante della vicenda, tuttavia, è dato dal fatto che a determinare la pesantezza della pena restrittiva e di quella pecuniaria non è stata la gigantesca distrazione di fondi addebitata allo sventurato top manager, quanto le false dichiarazioni all’organo di vigilanza preposto alle attività borsistiche, una circostanza che rimanda alla mente, anche per l’appena trascorso anniversario dell’eccidio di San Valentino, la condanna di Al Capone non per l’enorme mole di reati da lui e dai suoi accoliti compiuti in una lunga e non certo onorata carriera, ma per questioni meramente di carattere fiscale, cosa che lo indusse probabilmente a riflettere in carcere sull’errore principale della sua vita: non aver avuto un ottimo e disinvolto fiscalista.

Con l’aria pessima che tira da mesi sui mercati, credo proprio che, pur nella comune sventura, esista una netta differenza tra l’operare alquanto disinvoltamente negli Stati Uniti d’America e in Europa (non parliamo poi dell’Italia), in quanto, dopo i giganteschi crack a raffica dei primi anni del nuovo millennio, la nazione che ospita la piazza finanziaria più importante del pianeta ha deciso, grazie ad un’importante legge bipartisan, di sopperire ai buchi regolatori e legislatori dovuti alla profonda fede statunitense nella libera iniziativa e nel libero mercato, prevedendo, ovviamente ex post, che chi avesse sbagliato da quel momento in poi avrebbe avuto tutto il resto della propria breve o lunga vita per riflettere, dietro le sbarre, sui propri errori.

Anche sul piano strettamente civilistico, le differenze tra l’Europa, o almeno larga parte di essa, ed il paese a stelle e strisce sono del tutto rilevanti, in quanto lo spettro di azioni per rivalersi sulle corporations e sui singoli top manager sono ancora molto più avanzate negli USA che da noi, basti pensare alla class action o ai poteri del singolo giudice attivati, non sempre a ragione, anche dalla richiesta di un singolo cittadino che si sente in qualche modo danneggiato da atti e/o comportamenti di una banca, di una compagnia di assicurazioni, di una utility, o di qualsivoglia azienda.

Già sento i nostri garantisti un po’ pelosi, spesso veri lupi travestiti da agnelli, ringhiare le loro osservazioni sulla eccessiva litigiosità sistemica esiste negli Stati Uniti, ma sono altresì certo che molte delle vicende accadute nel vecchio continente, ultima la maxi evasione fiscale con connessa esportazione illecita di capitali da 3,4 miliardi di euro operata da uno stuolo di manager tedeschi con sponda in Lussemburgo o in veri e propri paradisi fiscali, avrebbero trovato un deterrente più efficace se si applicassero anche da noi le severe leggi e i meno lacunosi regolamenti vigenti al di là dell’Atlantico.

Venendo, ahimè, ai temi dell’attualità, credo proprio che l’increscioso stato di salute delle compagnie monoline stia diventando, ogni giorno che passa, il catalizzatore di questa tempesta perfetta, anche perché le risultanze delle audizioni della commissione del Senato americano istituita ad hoc per valutare le possibili misure da adottare in materia sono realmente inquietanti, per non parlare poi del vero e proprio ultimatum lanciato dall’ancora temuto ex sceriffo Spitzer, attualmente Governatore dello Stato di New York, che ha perentoriamente detto, tra le urla e gli strepiti dei vertici delle compagnie monoline, che una soluzione andrà trovata entro tre, massimo cinque giorni.

Il problema vero, tuttavia, è rappresentato dal fatto che uuna soluzione vera e a portata di mano non c’è, in quanto da qualche anno queste compagnie, nate per fornire garanzie alle emissioni di titoli dei municipi, delle contee e degli stati federali, si sono gettate a capofitto nel fornire alquanto allegramente garanzie ai titoli della finanza strutturata, basandosi semplicemente sui top rating ottenuti ad un tanto al chilo ed esibiti un po’ spudoratamente dagli altrettanto allegri emittenti.

Purtoppo per MBIA, Ambac, Radian, Fgic e compagnia cantante, il problema sta proprio in questo, anche se a pagarne le spese, suscitando le ire del potente Governatore ed il nervosismo del nuovo ed altrettanto temuto sceriffo di New York, un procuratore generale che pare la fotocopia del suo predecessore nell’azione quotidiana e nelle non celate ambizioni politiche, sono entità pubbliche operanti nello Stato e nel New Jersey che stanno pagando sul debito anche il 20 per cento di interesse, in luogo del solito e ben più sostenibile 4 per cento, così come, peraltro, sta avvenendo in tutto per la maggior parte delle entità pubbliche comunque denominate esistenti negli Stati Uniti.

La mossa del solitamente prudente Warren Buffett ha avuto il merito di mettere ancora di più in luce questa evidente contraddizione, in quanto il suo manifesto interesse a riassicurare, per 800 miliardi di dollari, esclusivamente le obbligazioni delle varie entità pubbliche statunitensi (che, in alternativa, potrebbero essere direttamente garantite da un organismo pubblico quale la Federal Deposit Insurance Corporation, come propongono numerosi membri della già citata commissione senatoriale), lascerebbe alle preesistenti compagnie la non certo gradita elusiva sui titoli della finanza strutturata ormai considerati dai più molto meno garantiti degli un tempo disprezzati junk bonds (letteralemte, titoli spazzatura).

I ripetuti tentativi dell’apposito organismo di vigilanza newyorkese volti a convincere un discreto numero di banche globali e non ad aprire i cordoni della borsa in favore almeno del gruppetto di testa delle monoline, almeno in favore di MBIA ed Ambac, continuano a non avere alcun esito, anche perché, secondo stime sicuramente sottovalutate, le banche statunitensi sono già esposte nei confronti delle principali compagnie monoline per la bella cifra di 70 miliardi di dollari ed anche perché le banche sanno benissimo che i 15 miliardi loro richiesti non sono che una frazione delle effettive necessità delle compagnie e che vanno dagli 80 ai 200 miliardi di dollari.

sabato 16 febbraio 2008

Stringere la cinghia, anche se di Ferragamo o di Gucci, può essere veramente duro!


Sugli operatori statunitensi già un po’ frastornati di loro, è giunto ieri un uno-due di notizie relative a sondaggi che misurano mensilmente la fiducia di investitori e consumatori realmente inquietanti, entrambi evidenzianti variazioni negative di entità tale da non essere prevedibili, né infatti previste, dallo stuolo di analisti impegnati sulla piazza newyorkese, che, pur passando gran parte del loro tempo a lucidare le loro palle di vetro sempre più opache, raramente ci azzeccano quando si verificano quelli che vengono giustamente definiti dei salti, per non parlare di quello che accade quando sul tavolo verde del casinò della finanza globale vengono gettate le cosiddette wild cards.

A giungere per primo è il comunicato della Federal Reserve di New York che rende noto che il proprio indice delle condizioni generali dell’attività economica nell’importantissima area da essa sorvegliata è passato da una lettura positiva di 9,03 in gennaio ad una negativa di 11,72 punti nel mese di febbraio, con una variazione assoluta di oltre 20 punti ed un valore che si pone al di sotto dello zero per la prima volta dal maggio del 2005, contro una previsione del consensus degli analisti che vedeva l’indice ancora in territorio positivo con un valore di 6,5 punti.

Mentre gli operatori ancora si stavano interrogando sulle conseguenze di questo tonfo nel territorio che indica il prevalere delle risposte negative su quelle positive in un’area non certo secondaria degli Stati Uniti d’America, giungeva la lettura dell’indice di febbraio dell’Università del Michigan che segnalava 69,6, in calo dell’11 per cento rispetto al dato del mese precedente e che porta l’indice ai livelli della recessione del 1992, mentre il dato sulle aspettative è crollato da 68,1 a 59,4, mentre vi risparmio, per carità di patria e per lontano spirito di appartenenza, le previsioni al riguardo formulate dagli analisti ed il loro successivo arrampicarsi sugli specchi.

Ricordavo ieri che un accurato sondaggio statunitense segnalava che due interrogati su tre erano assolutamente convinti che l’economia a stelle e strisce stesse già attraversando una fase di recessione, sostenendo che niente è peggio nelle vicende economiche delle convinzioni delle persone, in particolare se appartengono a quel popolo di veri e propri eroici consumatori USA, combattenti senza pari nella corsa agli acquisti, una corsa che, peraltro, produce una vera orchestra di zip zip delle loro carte di credito alle casse dei negozi e supermercati, almeno di quelle che non sono ancora state disattivate dalle società emittenti, sempre più preoccupate in relazione al rientro da un outstanding complessivo che dovrebbe avere allegramente superato i mille miliardi di dollari.

Il fatto che, per l’ennesima volta dall’inizio del 2008, l’ottava si sia chiusa con un segno negativo, anche se di dimensioni assolutamente modeste rispetto a quello segnalato giovedì, non è di per sé rilevante, in quanto, come ripeto da tempo, non è tanto l’andamento del mercato azionario il fenomeno da tenere sotto controllo, quanto gli effetti sempre più evidenti della prolungata crisi finanziaria sull’andamento dell’economia reale statunitense e globale, al punto che, anche un dato positivo come la flessione del deficit commerciale 2007, dopo cinque record annuali di fila, non viene salutato con entusiasmo, in quanto viene visto come un ulteriore segnale, via debolezza dell’import USA, della sempre più evidente inversione di tendenza dell’economia e di quel fenomeno che l’ineffabile Bernanke ha definito lo stringere la cinghia da parte dei consumatori (a volte, anche prodotta da Ferragamo o da Gucci).

Assolutamente incuranti delle feroci critiche ricevute da uno dei loro scrutinati, le ormai impavide agenzie di rating continuano nella loro attività di taglio dei rating delle compagnie monoline, ma, più in silenzio e quotidianamente di fette miliardarie della vera e propria montagna di titoli della finanza strutturata e non, apparentemente incuranti del pauroso calo del flusso commissionale per nuove emissioni, ma soprattutto per le connesse attività di consulenza, ridotte ormai al lumicino, al punto da temere per la permanenza della loro stessa tripla A, coraggio che definirei piuttosto paura dell’introduzione di nuove e più stringenti regole sul loro operato che governi e autorità monetaria, nonché autorità di vigilanza sulle borse valori, minacciano un giorno sì e l’altro pure.

Non stupisce, peraltro, che una di questa compagnie, l’appena degradata (da AAA ad A3) Financial Guaranty Insurance Co., abbia chiesto alle competenti autorità dello Stato di New York di potersi dividere in due compagnie, una almeno delle quali, quella buona, meritevole della tripla A, indispensabile per continuare ad operare nell’oramai disastrato settore della emissione di garanzie all’emissione di titoli di ogni genere e specie, che, ricordo per i lettori distratti, ha già attualmente un valore complessivo di 25 mila miliardi di dollari e i cui flussi addizionali vedono le aste, per la disperazione delle entità chiamate a collocarli o a tenerseli, sempre meno frequentate, se non del tutto deserte, e tali saranno finché non tornerà un minimo di fiducia da parte di quegli investitori troppe volte scottati in questi anni per fidarsi dell’acqua tiepida.

Apprendo che il presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, smessi per un attimo i panni di autentico interprete, con piglio assolutamente neotemplare, dello spirito teutonico della Bundesbank, si è esercitato nel mestiere, per lui assolutamente inusuale, di analista e revisore, affermando che, al netto delle difficoltà evidenti anche ai ciechi e forse ai sordi, dell’economia statunitense, non vede rischi concreti di recessione per l’un tempo scintillante locomotiva a stelle e strisce, al che non mi resta che augurare a me stesso a tutti gli europei, che un uomo di tale pasta e buona parte dei suoi colleghi di Francoforte vengano autorizzati a godere di quel meritato e lungo riposo che stanno già godendo personaggi del Calibro di Chuck Prince III, Angelo P. Mozilo e la lunga schiera di Chairman e Chief Executive Officers che, peraltro lautamente liquidati, stanno affollando i resort esclusivi di tutto il mondo, o le nevi della ridente località montana austriaca di Gstaadt, in quanto esenti per censo e status dalla frequentazione delle panchine o degli alquanto affollati uffici di collocamento ai quali hanno destinato allegramente centinaia di migliaia di loro meno fortunati collaboratori.

Un meritatamente scarno comunicato della Banca d’Italia ci informa degli argomenti del sereno e franco colloquio che si è svolto, nel giorno dedicato dalla Chiesa Cattolica al ricordo di San Valentino e dagli uomini e dalle donne del pianeta, comunque e liberamente tra loro combinati, alla celebrazione dei sentimenti, tra il relativamente giovane Governatore della nostra Banca Centrale ed una pattuglia di sei massimi esponenti operativi di altrettanti importanti gruppi creditizi italiani, argomenti, peraltro, già ben evidenziati nel pubblicizzato ordine del giorno, anche se, almeno tra le righe, lo stesso comunicato fa capire che si è trattato più che altro di un lungo discorso di Mario Draghi , più che altro una dotta e severa lezione condita di ammonimenti e di iniziative più o meno unilaterali, come è doveroso che sia, della sempre più agguerrita Vigilanza, agli alquanto silenti e preoccupati suoi ospiti.