lunedì 31 dicembre 2007

Una breve cronologia dei primi mesi della crisi finanziaria


Prendendo spunto da un’ottima cronologia della crisi finanziaria realizzata qualche settimana fa dall’agenzia Reuters, che per la verità è denominata cronologia del credit crunch, è di non poco conto scoprire che i problemi nei quali siamo immersi risalgono addirittura al secondo mese dell’anno che sta per chiudersi, quando il colosso creditizio HSBC, una banca di Hong Kong la cui sede legale fu provvidenzialmente spostata in Gran Bretagna in vista della prossima riunificazione con la Cina, rese noto, l’8 febbraio, di dovere provvedere a massicci accantonamenti per coprire le perdite nel proprio portafoglio di subprime USA e, nello stesso giorno, la californiana New Century Financial Corp. svelò i propri problemi legati al medesimo segmento di attività, il che portò lo spread sulle micidiali CDO e sulla maggior parte dei titoli della finanza strutturata a 200 punti base in due soli giorni.

In questo clima non proprio esaltante si inserì il vero e proprio tonfo dell’indice più effervescente degli ultimi anni, quello della borsa di Shanghai, che giunse a perdere il 10 per cento del suo valore il 27 febbraio, in seguito ad un brusco irrigidimento delle condizioni creditizie imposte da un governo cinese spaventato dalla crescita troppo impetuosa del proprio mercato finanziario interno e della eccessiva accentuazione delle disparità esistenti tra le zone rurali e le province autonome, delle quali l’emblema, nel bene e nel male, è rappresentato proprio da quella di Shanghai.

Ma è tra giugno e luglio del 2007 che si apre un vero e proprio squarcio sulle condizioni in cui versa la finanza strutturata, anche perché i chiari segnali di febbraio hanno già indotto gli investitori ad attuare un enorme anche se graduale disimpegno da CDO, LBO, Commercial Papers ed azioni rappresentative delle banche e delle finanziarie più impegnate su questo versante, e realmente deflagrante è l’annuncio di Bear Stearns sulle difficoltà di due suoi fondi.

Il 10 luglio si apre invece il sipario sul ruolo giocato da Moody’s e Standard & Poor’s nel bubbone che sta esplodendo, ricordo, per comodità di chi legge, che le due principali società di rating hanno giocato per anni un doppio ruolo che le vede da un lato assegnare i rating e, dall’altro, assistere, mediante l’attività di consulenza, gli emittenti affinché i titoli ottengano la massima valutazione possibile, salvo, come accadde appunto quel giorno, tagliare gli stessi rating in relazione a titoli per 12 miliardi di dollari, costringendo così due colossi dei mutui immobiliari statunitensi quali Home Depot e D.R. Horton ad emettere profit warning e spingendo lo spread sui titoli della finanza strutturata a 270 punti base, ad un passo dalla soglia dei 3 punti percentuali.

Confermando l’opinione di quanti ritengono che il 17 sia un giorno infausto, fu proprio in un giorno recante quel numero del luglio di quest’anno che Bear Stearns dichiarò di fatto falliti due dei suoi hedge fund, mandando gli spread ancora più in alto e, mentre accadeva questo, l’allora numero uno di Bear trascorreva le sue giornate tra partite a pocker e impegnandosi a fondo sui campi di golf.

Il resto di quel mese che verrà ricordato come cruciale nella seconda tempesta perfetta (la prima risale ad esattamente 100 anni orsono) vede gli spread giungere prima a 380 poi a 500 punti base, la crisi della banca tedesca IKB fortemente impegnata nei subprime ed in altre varianti della finanza strutturata, altri massicci tagli dei rating operanti sempre da S&P ed un disperato SOS lanciato dalla American Home Mortgage Investment, costretta a vendere in fretta e furia i propri assett.

Ma è il 9 agosto, esattamente due giorni dopo il nulla di fatto del consiglio della Federal Reserve che sembra non vedere nubi all’orizzonte, che un oscuro dirigente italiano della BCE è chiamato a prendere la decisione della sua vita di fronte alla vera e propria paralisi del mercato interbancario europeo, ma anche di quello globale, e dalla sala operativa di Francoforte inonda il mercato con un finanziamento monstre di 94,8 miliardi di euro, una volta e mezzo l’ammontare del finanziamento effettuato dalla BCE all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle.

Poche ore prima, il colosso francese BNP Paribas aveva terrorizzato i mercati procedendo al congelamento temporaneo di tre fondi aventi assett per 2,2 miliardi di dollari, citando problemi di il liquidità totale di alcuni segmenti del mercato che impedivano una corretta valutazione, una mossa che costringerà una infuriata ministro delle finanze francesi ad interrompere le vacanze ed a tornare di corsa a Parigi, mentre nel pomeriggio la Fed e la Bank of Canada intervengono sui mercati e in Europa si studia il salvataggio della banca tedesca IKB.

Due giorni dopo ferragosto, la Fed taglia di mezzo punto il tasso di sconto, dando il via ad una serie ripetuta di tagli dei tassi sui Fed Funds per un punto percentuale complessivo, mentre con il taglio di dicembre porterà il TUS più in basso di un punto e mezzo totale ed apre uno sportello per rifornire le esauste banche accettando in cambio i titoli della finanza strutturata che il mercato ormai vede come il fumo negli occhi, ma anche in Europa ci si dà da fare e si annuncia il salvataggio della Sachsen LB, mediante un intervento interbancario per 17,5 miliardi di dollari.

Tra agosto e settembre, i guai si spostano in Gran Bretagna, prima con la richiesta di Barclays di un finanziamento straordinario alla Bank of England e poi con quella vera e propria follia che ha coinvolto il Cancelliere dello Scacchiere, il Governatore della BoE e il capo dello FSE che, respingendo le richieste di aiuto provenienti dalla Northern Rock, provocano la prima ondata di panico nel settore bancario dal 1866 e, dal 13 settembre in poi, i depositanti si mettono in fila davanti agli sportelli ed assaltano letteralmente il sito web, costringendo il governo inglese, con una decisione del tutto irrituale, a garantire, il 17 settembre (sempre per la felicità degli scaramantici) tutti i depositi dell’ottava banca inglese, ma, come si scoprirà solo in dicembre, dimenticandosi di predisporre le modalità di attuazione della garanzia nella malaugurata ipotesi che vi si dovesse realmente ricorrere.

Non vado oltre, perché tutti gli avvenimenti successivi a questa data sono stati abbondantemente illustrati nell’articolo del 3 settembre e nelle puntate del diario della crisi finanziaria pubblicati a partire dal 19 settembre e disponibili sia su questo blog che sul link al sito della UILCA presente nella home page.

La prossima puntata si occuperà invece degli scenari e delle previsioni per il 2008.

domenica 30 dicembre 2007

Chi assicurerà gli assicuratori?


Mentre infuria la guerra per banche, è inziata ufficialmente da ieri anche la guerra tra le compagnie di assicurazione impegnate nel fornire garanzie sulle emissioni di quel mare sterminato di titoli della finanza strutturata che ormai nessuno vuole più e, per la prima volta nella sua lunga e fortunata storia di finanziere, l’ingresso di Warren Buffett in un settore non ha fatto salire anche le quotazioni dei concorrenti, ma ha portato al tracollo delle quotazioni di MBIA e Ambac i due colossi assicurativi che già da tempo versano in condizioni di estrema difficoltà e sotto il mirino delle agenzie di rating che stanno valutando un downgrade che sarebbe esiziale per la loro attività.

L’acquisto da Ing di una società specializzata nell’assicurare emissioni obbligazionarie e l’ottenimento della licenza per operare in questo settore nello Stato di New York rappresentano l’ingresso in forze del leone di Omaha nel settore più in crisi del grande mercato delle assicurazioni, con l’ambizione dichiarata di acquisire una grossa quota di mercato nell’assicurazione dei titoli emessi dalle municipalità statunitensi e dagli organismi pubblici quali le contee e gli stati su cui si basa il sistema federale, anche se, sempre in questi giorni, il finanziere ha acquistato le attività manifatturiere di una dinastia industriale che dura da tre generazioni, tanto per riaffermare il principio della diversificazione dei rischi che tanti altri sembrano avere dimenticato.

Mentre in molti ironizzano sul futuro dei top manager che sino a poco tempo fa facevano il bello ed il cattivo tempo negli Stati Uniti d’America e, più in generale nel mercato finanziario globale, prevedendo per i più la dipartita verso una nuova vita forse più piacevole, almeno per quelli che potranno permettersela, di quella stressante e dominata dall’avidità cui erano abituati, centinaia di migliaia di meno fortunati hanno già perso il posto di lavoro nell’industria finanziaria e c’è chi ipotizza che un numero almeno pari li seguirà presto sulla strada di un’affannosa ricerca di un nuovo posto di lavoro e di un ridimensionamento drastico dei consumi in base al vincolo di bilancio legato all’entità non certo stratosferica del sussidio di disoccupazione.

Sempre ieri, erano attesi due dati importanti sull’andamento del disastrato settore immobiliare, ma l’entità del tonfo delle vendite di case esistenti in novembre, piombate ai minimi degli ultimi dodici anni e che, almeno in tre delle quattro aree che compongono gli USA ha registrato flessioni su base annua a due cifre, o forse un opportuno problema tecnico ha rinviato a data da destinarsi il dato sulle vendite, sempre in novembre delle case esistenti, che, tanto per memoria, da livelli annui di oltre 7 milioni di unità nel 2005 sono previste viaggiare quest’anno sui 4,7 milioni di abitazioni vendute.

Pur se lontane dalle flessioni del 15 per cento e più registrate dalle due grandi compagnie di assicurazioni citate all’inizio, anche le variegate entità che compongono il settore creditizio hanno vissuto ieri una giornata poco felice e, fosse stato per questi due comparti, gli indici statunitensi avrebbero segnato ieri il secondo forte ribasso consecutivo, un esito evitato in extremis, seppur con una conclusione che ha visto l’ultima seduta utile per le statistiche dell’anno chiudere, come dicono gli esperti, mista ma anche alquanto mesta, in quanto non vi è operatore o analista che non sia consapevole che né gli interventi delle banche centrali, né le decisioni di governi e parlamenti, né le varie e fantasiose ipotesi di salvataggio sembrano in grado di disinnescare quella vera e propria bomba che è rappresentata dal crescente clima di sfiducia tra i risparmiatori ed i consumatori.

Anche perché tutti sono consapevoli che il credit crunch legato anche, ma non solo, alla necessità di riportare i ratio patrimoniali delle banche a livelli di sicurezza dopo le quasi certe perdite per 500-700 miliardi di dollari (che secondo l’ormai tristemente nota formula di Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs si tradurranno in un taglio del credito all’economia per almeno 5-7 mila miliardi di dollari) che verranno verosimilmente contabilizzati entro la fine della crisi finanziaria non colpirà soltanto quelli che dell’effetto leva hanno fatto una religione come gli hedge fund e gli speculatori di ogni ordine e risma, ma anche le aziende industriali, le iniziative di ogni genere e, ultimi ma non certo per ultimi, i cittadini comuni.

venerdì 28 dicembre 2007

Un piccolo suggerimento al Prof. Draghi sul credito al consumo

Continua, almeno apparentemente senza soste, la guerra per banche negli Stati Uniti d’America, ma non si scherza neanche in Europa e in Italia, e l’ultima battaglia è condotta a suon di dossier di valutazione dei concorrenti, un gioco nel quale il ruolo di assoluta protagonista è interpretato dall’ineffabile, potente e preveggente Goldman Sachs, che, giovedì, in un colpo solo ha gettato nel panico i vertici di Citigroup, Bank of America e J.P. Morgan-Chase con valutazioni sui conti delle tre banche USA nel quarto trimestre tali da farle stramazzare al suolo.

Sarà un caso, ma colpisce che gli strali degli attenti e preparati analisti di Goldman si siano diretti contro le tre sole entità del vasto panorama finanziario che avevano, seppur obtorto collo, accettato di accogliere l’imperativo suggerimento dell’ex numero uno di Goldman e attualmente, non si sa per quanto viste le performance recenti, ministro del Tesoro di Gorge W. Bush junior, e si erano imbarcati nella ormai defunta avventura della realizzazione di quel MLEC che tanto ha contribuito ad aumentare il panico degli operatori e le perplessità di commentatori e analisti.

Secondo i tre analisti un po’ teleguidati di Goldman, le tre banche USA dovranno spesare nel quarto trimestre dell’anno perdite complessive per la bellezza di 33,6 miliardi di dollari, così ripartite: 18,7 miliardi per Citigroup, 11,5 per Merrill Lynch e solo 3,4 miliardi (ma il dato rappresenta il doppio delle precedenti previsioni dei tre maliziosi analisti) per la più solida ed avveduta del trio che è rappresentata da J.P. Morgan-Chase.

Ma la vera perfidia degli analisti di Goldman riguarda la povera Citigroup, che non solo è chiamata ad operare svalutazioni monstre dei titoli della finanza strutturata (in gran parte i micidiali collateralized debt obligations), ma si prevede che dovrà tagliare di ben il 40 per cento quel livello elevatissimo di dividendi che rappresenta l’unico motivo degli attuali e dei futuri azionisti di Citi per non seguire il perentorio sell emesso dai nostri tre analisti coraggiosi di Goldman a conclusione del loro rapporto.

Pur a fronte delle mega svalutazioni previste per Merrill Lynch ed alla crescita esponenziale di quelle che toccheranno a J.P. Morgan-Chase, i nostri mantengono un giudizio tutto sommato lusinghiero di neutral, ma è evidente ai più che si tratta soltanto di una fase nell’escalation del processo di downgrade, ma anche del timore del committente dei giudizi delle possibili contromosse delle tre banche che hanno certamente messo all’opera i loro altrettanto numerosi ed agguerriti analisti con l’esplicita mission di fare e senza pietà le pulci ai già noti conti trimestrali ed annuali di Goldman.

In attesa di assistere alle future puntate di questa guerra per banche, mi limito a segnalare che anche l’entità semi pubblica che si occupa di finanziare i genitori che vogliono assicurare un livello adeguato di studi ai propri figli, un’entità affettuosamente chiamata Sallie Mae, sta battendo cassa presso il mercato per un ammontare che dagli iniziali 1,5 miliardi di dollari è presto passato, vista l’aria sempre più brutta che tira, a 2,5 miliardi, anche se deve farsi largo tra le ben più grosse Fannie Mae e Freddie Mac che le loro massicce e pressanti richieste al mercato le hanno fatte già da qualche tempo.

Ma quello che non ha giovato agli umori del mercato è stato il flop dell’attesissimo rimbalzo degli ordini di beni durevoli dopo il vero e proprio tonfo di ottobre e che si è invece tradotto in un miserrimo incremento dello 0,1 per cento (contro il +2,2 per cento atteso) ed un lieve recupero della fiducia dei consumatori per il futuro più o meno remoto, mentre il giudizio degli intervistati sul presente ha continuato a scendere precipitosamente verso livelli più bassi di quelli registrati solo un mese prima.

Ma la vera campana a morto è suonata poco prima con il calo del 7,6 per cento delle richieste di nuovi mutui, una flessione che si è rivelata ancora più consistente nella componente del rifinanziamento degli stessi mutui, calato dell’8,5 per cento, mentre quella relativa ai nuovi mutui è scesa "solo" del 6,6 per cento,, con l’indice complessivo che si è portato a 603,8 dal massimo di 1.856,7 toccato nell’ormai lontanissimo, e non solo in termini temporali, maggio del 2003.; non è quindi del tutto casuale se i listini americani prima, quelli asiatici poi, per finire in modo leggermente più dolce nella conservatrice Europa, hanno accusato il colpo e, anche se ancora una volta al netto delle mani forti che da tempo si vedono sul mercato finanziario globale, hanno segnato ribassi di tutto rispetto.

Nonostante abbia retto molto meglio del previsto e del prevedibile agli effetti della crisi finanziaria in corso, il comparto degli hedge fund inizia sempre di più a fare i conti con gli effetti del credit crunch e non si contano più le chiusure o le limitazioni degli affidamenti facenti capo a banche sempre più nervose ed attente al rischio di controparte, mentre, per i finanziamenti e i committments residui sta salendo ogni giorno che passa il costo che i banchieri richiedono per la loro merce sempre più rara.

Venendo all’Italia, non stupisce la notizia che racconta che Mediobanca, advisor sia della Banca Popolare di Vicenza che del Banco Popolare, ha chiesto alle due banche di cedere a sé stessa, con una spesa di 400 milioni di euro, le partecipazioni in una società di credito al consumo, denominata Linea, portandosi così al terzo posto tra le entità operanti nel lucroso mercato del credito al consumo e nel quale aveva già un posto di rilievo mediante la controllata Compass, ponendosi immediatamente alle spalle del gigante Findomestic conteso tra BNP Paribas e Intesa-San Paolo e della Prestitempo controllata da Deutsche Bank.

Con questa operazione si semplifica ulteriormente il quadro dei soggetti dominanti questo importante segmento del mercato finanziario italiano, che, a parte le società controllate dai gruppi industriali e finalizzate all’acquisto a rate dei propri prodotti, vede l’assoluta prevalenza dei soggetti interamente controllati dalle banche a fronte di una pletora, ma dalle quote di mercato ridottissime, di società finanziarie.

A costo di essere monotono e alla luce delle forti implicazioni sociali del crescente ricorso all’indebitamento da parte delle famiglie, ripropongo un mantra che sembra lasciare completamente indifferenti il Governatore Draghi ed il Governo, un mantra che può sintetizzarsi nella intollerabilità di un tasso di riferimento per il calcolo del tasso usurario valido per le banche e di uno, ben più elevato, applicabile alle società finanziarie.

Pur sperando raramente nell'esistenza dell'ultranoto giudice a Berlino, credo proprio che l'applicazione anche alle società finanziarie possedute al 100 per cento dalle banche del tasso di usura previsto per le piccole o microscopiche società finanziarie costituisca un errore che porta profitti largamente superiori a quelli che dovrebbero essere alle banche e mette spesso, e in modo del tutto legale, il cappio al collo di milioni di debitori più o meno consapevoli di questo vero e proprio assurdo giuridico.
Così come è inderogabile che venga previsto il calcolo di una rata sostenibile che tenga conto di tutti gli impegni finanziari a vario titolo contratti dal cliente, in perfetta analogia con quanto già fanno le banche quando valutano l'incidenza della rata del mutuo, ovviamente di quello a tasso fisso, sul reddito effettivo del soggetto richiedente il mutuo stesso

giovedì 27 dicembre 2007

Quello che è meglio per Alitalia e per l'Italia

La scelta del Consiglio di Amministrazione dell’Alitalia tra le due offerte preliminari di acquisto della compagnia di bandiera presentate da Air France e di Air One, prima ancora che per i contenuti della stessa, ha stupito il mondo economico, quello politico e sindacale e la smaliziata stampa più o meno specializzata per il solo fatto che il presidente e gli altri membri del consiglio si sono improvvisamente ricordati di essere degli amministratori a tutti gli effetti e che loro compito era quello di esaminare gli aspetti economici, industriali e sociali presenti nei piani industriali allegati alle due offerte.

Ignorando bellamente gli inviti che da più parti erano stati loro rivolti affinché prendessero tempo, facessero finta di procedere all’esame comparato delle offerte, dello standing e della credibilità degli offerenti, in una parola, si limitassero a fare i passacarte in direzione di superiori e politicamente più accorti livelli decisionali, Prato e compagni hanno avuto un sussulto di dignità e dopo un congruo numero di ore in seduta collegiale preceduto da giorni e giorni di lavoro compiuto in vista della riunione del consiglio ha stabilito che l’offerta di Air France era da preferire a quella presentata da Air One.

Ma questa resipiscenza del fatto di essere il vertice regolarmente nominato di Alitalia non ha prodotto solo questo effetto ma anche quello di motivare le ragioni che avevano spinto il CdA a compiere questa scelta, ritenendo che non solo il non trascurabile fatto di aver offerto i francesi un importo per azione trentacinque volte superiore all’offerta di Air One, ma l’entità degli investimenti, la credibilità aziendale, le prospettive, l’integrazione in un network di cui, già in lontani e non sospetti anni passati, Alitalia aveva mostrato il desiderio di far parte, costruivano elementi sufficienti per preferire l’offerta di Spinetta a quella di Toto.

Già il fatto di aver esaminato in profondità le offerte, di aver compiuto la scelta e di averla motivata, cose, ripeto, del tutto normali per un normale CdA di una normale azienda, con il corollario naturale per un’azienda partecipata al 49 per cento dallo Stato, di aver trasmesso al ministro dell’Economia che, a sua volta, ha trasmesso al Presidente del Consiglio dei ministri il verbale della riunione ha suscitato schiamazzi e reazioni scomposte che hanno riguardato, nell’ordine, l’opposizione, autorevoli membri del governo e della maggioranza, le tre confederazioni sindacali all’unisono, le regioni del Nord, gli stessi abitanti dei comuni vicini a Malpensa che da lungo tempo protestano per l’inquinamento e la rumorosità dello scomodo aeroporto, ma, al contempo, temono le ricadute economiche del suo presunto ridimensionamento.

Insomma, una volta di più, tutto e il contrario di tutto, con un giudizio prevalente che era quello di ritenere che Prato e gli altri consiglieri non fossero tenuti, come invece le disposizioni di legge, le norme della Consob e lo stesso buon senso prevedono, a fare, auspicabilmente bene, il mestiere per il quale sono poco o tanto pagati, quasi si preferisse che assurgessero a novelli Ponzio Pilato, lavandosene bellamente le mani di una situazione che è, a giudizio almeno stavolta unanime, in avanzato stato di decomposizione.

Anche se un esame, per quanto sommario e superficiale, delle due offerte avrebbe consentito a chiunque, con il doveroso presupposto della buona fede, di concordare con l’analisi e le conclusioni fatte dal consiglio di amministrazione di Alitalia e di comprendere che tra l’offerta di Air France e quella di Alitalia non vi era praticamente confronto e che la disinformazione sui contenuti degli stessi piani industriali aveva superato i limiti della decenza, al punto da far ritenere a tutti coloro che non difendono pregiudizialmente interessi più o meno vestiti che l’amministratore delegato di Air France sia stato molto diplomatico e gentile nel dire che il suo era un piano industriale e quello dei concorrenti, al più, un piano bancario, con un esplicito riferimento al perlomeno strano ruolo giocato da Intesa-San Paolo, e più in particolare dal suo non precisamente in ascesa amministratore delegato Corrado Passera, nei confronti del costruttore marchigiano, tale Toto, che, dopo essersi spartito in regime oligopolistico le lucrose rotte nazionali con Alitalia, pensava forse di essere un novello Davide che sconfigge il favorito Golia.

La storia, in un paese normale, finirebbe qui, eppure le pagine dei quotidiani, nessuno escluso, sono state piene, e ancora lo sono, delle ragioni, più spesso della vera e propria disinformazione, dei vinti e dei minacciosi proclami di guerra che il popolo del Nord pronuncerebbero contro la minacciata annessione alla Francia della disastrata compagnia di bandiera italiana, di veti confederali non basati su sante questioni come le ricadute occupazionali ma sull’onta di non essere stati consultati sulle scelte strategiche, strilli e proclami che, azzardo, non muoveranno di un centimetro la distanza siderale esistente tra la proposta del costruttore marchigiano sponsorizzato da passere e quella avanzata con una certa sobrietà, ma altrettanta credibilità, dai francesi di Air France.

E’ molto triste, ma pare proprio che, anche dopo l’estremamente istruttiva vicenda vissuta ai tempi della crisi e del rischiato fallimento della Fiat, un evento quasi auspicato dall’allora premier Berlusconi, una crisi che, al di là della montagna di parole, non vide farsi avanti nessuno dei capitani coraggiosi dell’imprenditoria italiane e fu necessario l’intervento, per fortuna temporaneo e lucroso, delle banche, nessuno ricordi che esiste solo un modo per vincere una gara ed è dato dall’avanzare un’offerta che, analizzata - come è doveroso - da tutti gli angoli visuali, superi quella concorrente, anche se di poco.

Così come è utile ricordare che per i principali protagonisti di questa vicenda, e cioè i circa ventimila dipendenti di Alitalia e Az Servizi, quello che conta sono le garanzie di breve e medio periodo, molto più che l’italianità o meno dell’offerta che, soprattutto nello scigurato caso di perdita del posto di lavoro, rappresenterebbe una ben misera consolazione.

Lo sciopero dei consumatori statunitensi è il preludio della recessione prossima ventura

E’ bene, ogni tanto, scendere dagli empirei della finanza globale per osservare più da vicini i forti contraccolpi che la tempesta perfetta e i suoi corollari stanno imprimendo all’economia reale, quel coacervo di produzione, distribuzione e soddisfacimento dei bisogni delle centinaia di milioni di persone che vivono negli Stati Uniti e di quel numero molto maggiore di uomini e di donne che abitano il pianeta.

L’occasione per questo bagno di realtà è fornita dall’andamento del tutto deludente delle vendite natalizie negli Stati Uniti d’America, in quanto quell’exploit che inizia con il Thanksgiving e finisce nei giorni immediatamente successivi al Natale non solo non si è verificato quest’anno, nonostante le maggiori catene abbiano iniziato a fare sconti e maxi sconti sin da novembre, ma anche le modeste previsioni di crescita si sono rivelate troppo ottimistiche e la crescita delle vendite si è fermata al 2,4 per cento, poco più di un terzo del robusto + 6,6 per cento registrato, anno su anno, nello stesso periodo del 2006.

Quello che ha maggiormente colpito i cronisti inviati sul campo nei giorni clou della kermesse natalizia è stato l’atteggiamento di estrema prudenza dei solitamente famelici ed onnivori consumatori, che mostravano di spendere con cautela anche i buoni acquisto ricevuti in dono da amici e parenti, consumatori che, quasi fossero europei, limitavano gli acquisiti alle cose utili come l’abbigliamento e, più in generale, quei prodotti che hanno caratteristiche di maggiore o minore indispensabilità, insensibili alle sirene dei prodotti hi tech e di tutti quei prodotti dei quali ci si chiede la reale utilità dopo un acquisto che è, in genere, stimolato da un impulso compulsivo e che viene poi raramente utilizzato.

E’ appena il caso di ricordare che i due terzi del prodotto interno lordo sono rappresentati dai consumi e che, quindi, il flop della solitamente florida stagione natalizia e la palese inefficacia di sconti che si spingono fino ad un proibitivo 70 per cento forniscono, insieme alla sempre più grave crisi del settore immobiliare, una risposta molto più eloquente al ricorrente interrogativo sulle possibilità concrete dell’entrata in una fase recessive delle sibilline parole di Alan Greenspan o dei report dell’innumerevole pletora di centri di analisi più o meno interessati, più o meno embedded alla cultura finanziaria dominante.

Sì, perché anche in questi giorni giungono notizie preoccupanti dal settore immobiliare statunitense e a fornirle sono due rapporti seguiti con grande attenzione dagli addetti ai lavori e che ci dicono che ormai la caduta dei prezzi delle abitazioni supera per intensità quella dell’orribile 1991 che aprì le porte della Casa Bianca al semisconosciuto Bill Clinton che azzeccò il fortunato mantra (It’s economy, stupid!) che atterrò letteralmente Bush padre che, grazie alla vittoria ottenuta contro Saddam Hussein nella prima e molto più saggia guerra del Golfo, avrebbe dovuto avere in tasca la rielezione, ma anche una flessione dei prezzi che sta interessando, per il secondo rapporto, praticamente tutte le aree degli USA.

Secondo l’indice Standard & Poor’s/Case-Shiller, infatti, la flessione ha raggiunto in ottobre una velocità anno su anno del 6,9 per cento, contro il 6,3 dell’aprile 1991, con una flessione ininterrotta che dura ormai da dieci mesi mentre sono 23 i mesi di flessione o crescita inferiore a quelle dei periodi corrispondenti e gli analisti che curano il rapporto si aspettano una ulteriore flessione dei prezzi del 10 per cento nei mesi a venire e spostano alla fine del 2008 l’agognato momento nel quale i prezzi dovrebbero toccare il fondo e si dovrebbe assistere ad una ripresa delle vendite che dovrebbe, almeno nei loro auspici, portare con sé una lenta e graduale ripresa dei prezzi di quella case individuali, quelle villette con giardino sul fronte e qualche volta anche sul retro che rappresentano, molto più di un semplice appartamento, il coronamento del sogno americano e garantiscono ai cittadini di quel paese quella relativa sicurezza che rappresenta il vero motore dei consumi.

Nell’analizzare le vere cause della crisi finanziaria, sono partito dallo sciopero degli investimenti, quel fenomeno che ha pochi precedenti nella storia recente americana, ma questi primi segnali dello sciopero dei consumatori presenta caratteristiche ed apre prospettive molto più inquietanti, perché rappresenta il tassello fondamentale di quell’effetto domino che è in fondo l’incubo di tutti gli economisti, una definizione che solo negli ultimi giorni e nelle ultime settimane comincia ad apparire tra le righe delle interviste fatte ai Nobel per l’economia ed anche negli articoli o nei report degli economisti più vicini alle sorti del mercato.

Una rapida scorsa ai recenti valori che il mercato attribuisce alle azioni delle aziende impegnate nel settore delle costruzioni, un settore che ha un grosso peso nella performance dell’economia americana e nello stock e nei flussi dell’occupazione, permette di constatare che, rispetto ai massimi registrati nella prima parte dell’anno, si segnalano flessioni che vanno dal 40 al 72 per cento ed una flessione media dei corsi azionari che supera anche quel calo medio delle azioni delle entità finanziarie che non hanno fatto ricorso alla protezione della legge fallimentare statunitense e che viaggia ormai da molti mesi intorno ad una perdita del 40 per cento.

Conforta, in questo quadro leggermente desolante, apprendere che, in questo altrimenti orribile 2007, il presidente ed amministratore delegato di Tyson Food, Richard L. Bond, un signore che è a capo della più grande azienda alimentare del mondo, ha ricevuto, in varie forme, compensi complessivi per 24,6 milioni di dollari, una cifra stratosferica contando che il suo stipendi contrattuale è di appena 1,2 milioni di dollari, ma che trova una certa giustificazione nel fatto che la sua colossale azienda è una delle poche che non dovrà preoccuparsi eccessivamente della crisi finanziaria o di quella dell’economia reale, perché, come si usa dire, la gente può fare a meno dell’hi tech, degli abiti firmati e di molte altre cose, ma molto difficilmente potrà rinunciare ai generi offerti da Tyson Food o dalle altre aziende operanti nel settore alimentare.

Alla luce di queste brevi considerazioni sull’andamento attuale e prospettico dell’economia reale, è molto più facile comprendere i motivi per i quali il Presidente Bush, come ricordavo ieri, ha dichiarato, nella settimana nella quale la gente ha più bisogno di essere rassicurata sul suo futuro, di attendersi che una vera soluzione dell’impasse economica e finanziaria in corso non potrà venire in tempi rapidi, dichiarazione fatta anche per evitare di essere ricordato, negli anni a venire, non solo come l’autore della più disastrosa strategia in materia di politica internazionale, ma anche come un epigono del tristemente noto Hedgar Hoover.

mercoledì 26 dicembre 2007

Dalla tempesta non si esce senza nuove regole

L’aprirsi continuo di nuove falle nell’immenso vascello della finanza strutturata è ben testimoniato dal recente messaggio del presidente Bush che, nella cruciale settimana delle feste natalizie, ha dichiarato di attendersi che una vera soluzione dell’impasse economica e finanziaria in corso non potrà venire in tempi rapidi, abbandonando così quell’approccio tranquillizzante, molto di hooveriana memoria, che lo ha contraddistinto nei suoi sette anni di mandato su questo come su tanti altri argomenti, elemento non secondario nella letterale decimazione dei suoi compagni di avventura della prima ora.

Lo stesso richiamo alle armi del più che collaudato navigatore della finanza moderna, Henry Paulson, per lungo tempo numero uno assoluto di Godman Sachs (era, fino all’anno scorso, presidente ed amministratore delegato), ha costituito un tassello tutt’altro che secondario del reshuffling disposto ma in parte subìto da Bush, in quanto è ormai più che chiaro che la crisi scoppiata quest’estate era più che nota, almeno nei suoi aspetti fondamentali, almeno da un anno prima, almeno da quell’autunno del 2006 nel quale lo stato maggiore di Goldman decise, con autentica sorpresa e qualche nota di commiserazione nei quartier generali delle altre grandi banche statunitensi e globali, di cambiare radicalmente strategia e di abbandonare in fretta e massicciamente la nave della finanza strutturata.

E’ troppo presto per indagare sui reali motivi della scelta, così in anticipo sui tempi compiuta dal colosso statunitense e sugli stessi modi di questa ritirata strategica, ma quello che è certo sin d’ora è che ,se vi era un’istituzione con i contatti, le relazioni e il know how adeguati per girarsi in tempi così rapidi, questa era proprio la banca fondata nel 1866 da due oscuri emigranti europei approdati negli Stati Uniti, una banca che vanta il maggior numero di suoi ex ai posti di comando in uno sterminato numero di paesi del mondo e un altrettanto sterminato numero di ex politici e grand commis reclutati, e senza i fastidiosi e numerosi (fino a 100) colloqui a cui si sottopongono i giovani di belle speranze che aspirano ad entrare nel rutilante mondo della grande finanza dalla porta principale.

Va detto, tuttavia, che la sensazione prevalente all’indomani della scelta di Bush, quella che si fosse finalmente messo l’uomo giusto al posto giusto, sembra scemare mano a mano che la situazione degli ultimi mesi, quella che negli USA viene sintetizzata con la classica frase che dice che quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo, sta mettendo sempre di più a dura prova le qualità di Paulson, anche perché le scelte che è chiamato a compiere vengono passate sotto la lente di ingrandimento da analisti e teorici dell’economia che sostengono in modo prevalente che la preoccupazione principale del ministro statunitense sembra sempre di più quella di salvare le banche anche a costo di buttare a mare risparmiatori, investitori, mutuatari ed imprese in vario modo ed a vario titolo danneggiati da una finanza corsara che ha operato senza limiti per troppo tempo.

Come dicevo nell’articolo del 3 settembre scorso sulle vere cause di questa tempesta perfetta e che ha dato il via al diario della crisi finanziaria, è importante capire, oltre ovviamente alle cause, anche quando tutto questo processo di mutazione genetica della finanza ha avuto inizio, anche se, altrettanto ovviamente, si tratta di una questione la cui soluzione è alquanto complessa e di non facile soluzione.
D’altra parte, come sostengono la maggior parte degli esperti, una data d’inizio è certamente rappresentata da quel big bang della finanza avvenuto nell’anno di grazia 1985, quando si avvia, anche nei mercati regolamentati, l’operatività nei derivati, opzioni, futures, swap e via discorrendo, con la creazione di meccanismi di clearing che consentono l’adeguamento quotidiano dei margini di garanzia, un’operatività accompagnata da quelle regole di sorveglianza, in particolare nel settore delle derrate alimentari, che si rivelarono fatali per quel vero e proprio corsaro che era Raul Gardini, bloccato dalle autorità statunitensi per aver rastrellato in vario modo gran parte della produzione di soia a livello mondiale e colpito da una multa di dimensioni stratosferiche.

Lo sganciamento sempre più massiccio delle operazioni derivate dai loro effettivi sottostanti, la successiva cartolarizzazione spinta di tutto quello che era possibile cartolarizzare e la realizzazione di strumenti della finanza strutturata sempre più complessi e di difficile comprensione, nonché di valutazione sotto il profilo del rischio effettivo e del grado di liquidità, sono gli elemento che, in estrema e quasi butale sintesi, hanno determinato, da un lato, un turnover quotidiano di derivati, titoli e valute che, secondo le ultime stime, si aggira sui 2.500 miliardi dollari ed una distanza tra i volumi dell’economia di carte e quelli dell’economia reale che avrebbe dovuto far scattare campanelli d’allarme già negli ultimi decenni del secolo scorso.

Anche se quello che ha maggiori connessioni con l’attuale tempesta perfetta è rappresentato dal dilagare di un modo di fare credito basato sulla traslazione sempre più massiccia del rischio dal concedente ad altri soggetti, non vi è dubbio, tuttavia, che la miriade di strumenti e di prodotti che hanno accompagnato questo trasferimento e la conseguente drastica riduzione degli standard di valutazione del merito creditizio, finanziario ed industriale del richiedente hanno giocato e giocano un ruolo tutt’altro che trascurabile nella moltiplicazione degli effetti negativi derivanti dal mutamento radicale del profilo del banchiere, del finanziere e dell’assicuratore.

In questo scenario, l’operato di Paulson e soci e di Bernanke e compagni segnala un’incapacità ad aggredire le cause della crisi che nasce anche dalla visione prevalente della stessa e da una strumentazione che si rivela ogni giorno che passa inadeguata anche per la citata e voluta lack of analysis, ma, ancor di più, per la resistenza degna di miglior causa che questi protagonisti dell’economia globale mostrano di avere verso il problema centrale che è rappresentato dalla necessità di introdurre regole semplici, severe ed applicabili che rassicurino gli investitori sul fatto che acquistare un titolo non può e non deve rappresentare automaticamente assumere un rischio che deve tassativamente rimanere in capo al concedente il credito.

martedì 25 dicembre 2007

Un babbo natale asiatico per Merrill Lynch

Deve essere proprio brutta la situazione dei conti di Merrill Lynch, forse la banca statunitense che sta maggiormente soffrendo per la crisi finanziaria in corso, una banca che ha già effettuato svalutazioni su titoli della finanza strutturata per enormi ammontari, licenziato uno degli uomini più potenti di Wall Street e assunto, non a caso, il numero uno del New York Stock Exchange, dando un'enorme buonuscita al primo ed un eccezionale assegno di ingaggio al forse un po' recalcitrante secondo.
Dicevo che deve essere proprio una brutta situazione, in quanto, alla vigilia di natale, Merrill ha annunciato che venderà Merrill Lynch Capital al colosso GE Capital, liberandosi di assett per 10 miliardi di dollari e di impegni per altri 5 miliardi, liberando così capitale per 1,3 miliardi di riallocare in altre attività, ma, non si era spenta l'eco di questa prima notizia che, dal quartiere generale di Merrill è giunta la seconda e più importante notizia legata all'arrivo di capitali da Temasek, l'ormai noto fondo governativo di Singapore, e da Davis Selected Advisors, un afflusso di ossigeno pari a 4,4 miliardi di dollari provenienti da Temasek (con un'opzione per altri 600 milioni) e di 1,2 miliardi da Davis.
L'ultrattivo fondo di Singapore ha già annunciato che al termine dell'operazione, che al momento si configura come un oneroso finanziamento a Merrill, giungerà ad una quota azionaria della disastrata banca statunitense non inferiore al 10 per cento del totale, quota che sfiorerebbe il 12 per cento se venisse opzionata anche la tranche di 600 milioni, mentre la quota azionaria di pertinenza di Davis Selected Advisors sarebbe di poco inferiore al 3 per cento.
Questa volta, però, il mercato ha dimostrato molta più lungimiranza di quanta sia stato possibile osservare nelle sedute passate e, come testimonia un un sensibile calo dell'azione passata l'iniziale euforia, sembra rendersi conto che le due mosse del nuovo numero uno di Merrill Lynch non lasciano presagire nulla di buono né nel breve termine, né tantomeno se l'orizzonte si sposta su tempi appena più lunghi, non fosse altro che per la nuova grana che sta scoppiando nel settore delle carte di credito, un settore che, solo per avere un'idea, pesa una volta e mezzo il tanto bistrattato comparto dei mutui subprime.
D'altra parte, come sostengo da giorni, non è pensabile che l'affluso, per quanto massiccio, di capitali provenienti dalla Cina, da Singapore, dai soliti paesi arabi possa risolvere il problema che continua ad essere rappresentato dalla persistente disaffezione degli investitori per i titoli della finanza strutturata, una disaffezione che difficilmente potrà scemare alla luce del vero e proprio bollettino di guerra che da mesi invade i mass media e che per molti altri mesi, al netto dell'informazione embedded, continuerà a gettare secchiate di acqua fredda sui tiepidi spiriti di coloro che sono già stati scottati troppe volte in passato.
Anche se è vero che, fatta la dovuta eccezione per la potente e preveggente Goldman Sachs, le azioni della maggior parte delle banche statunitensi quotano a livelli che sono mediamente del 40 per cento inferiori ai massimi toccati nella prima meta dell'anno, non vi è dubbio che le stesse, in questi mesi così critici per il settore e per le storie aziendali individuali, hanno mostrato livelli di supporto imprevedibili al punto da essere quasi sospetti, anche se uno studio molto accurato sui programmi di riacquisto di azioni proprie da parte della maggior parte delle corporations e delle banche statunitense qualche indizio rivelatore su questo apparentemente insolubile mistero lo fornisce.
Se questo fosse vero, e secondo lo studio vi sono buone ragioni che, almeno in parte, lo sia, ci troveremmo in una situazione che vede, allo stesso tempo, interventi stratosferici per garantire livelli alquanto modesti di liquidità nel mercato interbancario ma anche in quello creditizio alla clientela, accompagnati da interventi massicci sul fronte valutario a sostegno di un dollaro che appare destinato a testare livelli molto più bassi nei confronti delle principali valute, interventi, via buy back nel mercato azionario, mentre sembra proprio che nessuno sia in grado di agire sul versante obbligazionario in senso lato che rappresenta tuttora il bubbone realmente infetto di questa crisi.
E' quasi facile dire che l'iperattivismo delle banche centrali, dei fondi governativi asiatici ed arabi (è di pochi giorni fa la notizia della costituzione di un fondo governativo dell'Arabia Saudita di dimensioni senza precedenti), delle stesse aziende e banche a difesa delle proprie azioni rischiano di avere in tempi neanche troppo lunghi un effetto controproducente analogo a quello sperimentato nella grande crisi valutaria dei primi anni Novanta, quando, dopo aver quasi esaurito le riserve valutarie, la Gran Bretagna e l'Italia accettarono quei livelli di svalutazione delle rispettive valute sui quali Soros e compagni avevano scommesso, livelli che sarebbero stati di molto inferiori se quei governi non si fossero messi, in modo anche molto arrogante, contro vento.

lunedì 24 dicembre 2007

Sarà uno zip zip che vi seppellirà!

Venerdì scorso, è caduta come una meteora sui già attoniti operatori economici una dettagliata analisi dell’Associated Press che segnala il nuovo problema che si sta abbattendo sulle banche e le altre entità finanziarie operanti negli Stati Uniti e che è rappresentato da quell’altrettanto prevedibile aumento esponenziale dei ritardi e dei default individuali in relazione alle carte di credito, in particolare a quei micidiali strumenti denominati carte di credito revolving, che consentono al possessore di pagare, a tassi che in non pochi casi in Italia sarebbero oltre la soglia di usura, solo una frazione delle spese, in quanto l’outstanding viene rateizzato in modi e con cadenze diverse da caso a caso.

A parte i casi eccezionali di Bank of America, che presenta un volume di debito da carte in pessime condizioni per 5 miliardi di dollari e un deliquency rate (così viene definito negli USA il tasso relativo ai ritardatari) cresciuto del 200 per cento in novembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, o di Capital One, afflitta da problemi analoghi e che prevede messe a perdita a questo titolo per 4,9 miliardi nel 2008, è tutta l’industria finanziaria statunitense (crescite dei ritardi nell’ordine del 50 per cento colpiscono HSBC, Advanta e GE MB) che sta tremando rispetto alla quasi certa ipotesi che una parte consistente di quell’outstanding che la Federal Reserve stimava in ottobre in 920 miliardi di dollari possa andare in malore tra fallimenti individuali (ammessi negli USA) o in piani di ristrutturazione disposti per via giudiziale a tassi molto più contenuti e con dilazioni molto dilatate nel tempo.

Anche se verrebbe da dire “è la finanza, bellezza”, non può essere trascurato il particolare che, come per i mutui, gli acquisti dell’auto e tante altre forme di finanziamento, anche per i debiti derivanti dalle zip zip delle tesserine di plastica che le emittenti offrono praticamente a chiunque, è stato impacchettato in titoli della finanza strutturata una percentuale che sfiora, secondo la Fed, la metà del totale dei 920 miliardi di dollari (il 45 per cento per l’esattezza) e che di questi, come degli altri titoli, sembra proprio che nessuno voglia più saperne.

Uno sconsolato finanziare di Fort Lauderdale (Florida) si è trovato a mandare perentori avvisi di pagamento a 5 milioni di titolari di carte di credito, ma ha ancora la forza di affermare che “il desiderio di consumatori di volere, volere, volere e di spendere, spendere, spendere è la vera base economica della nostra nazione”, ben consapevole di avere la base della sua attività in uno stato che, insieme alla California, è stato in assoluto trai più colpiti dagli effetti devastanti della crisi dei mutui immobiliari.

Già, perché l’utilizzo spasmodico delle carte di plastica è in larga parte dovuto all’inaridirsi di quel canale impetuoso di finanziamento che sino ad un anno fa era rappresentato dal rifinanziamento dei mutui reso possibile dalla crescita infinita del valore delle quotazioni e che faceva dire all’allora numero uno della Fed, Alan Greenspan, nel corso di una Humphrey Hawkings (appuntamento che si tiene due volte al Senato statunitense) che chi non aveva approfittato delle possibilità offerte dal rifinanziamento aveva in realtà perso decine di migliaia di dollari (e il Maestro Greenspan è ancora a piede libero).

Quando sarà possibile passare dalla cronaca alla storia di questa tempesta perfetta, il capitolo dedicato alla adeguatezza o meno delle mosse dei ministri e dei governatori delle banche centrali assumerà certamente una parte di rilievo nel corpo dell’opera, anche se credo che, anche a partire dal day by day che sto cercando di descrivere in questi mesi, i lettori un’idea delle contraddizioni e del pressappochismo di questi presunti capitani di lungo corso, abituati al più a navigare in acque molto tranquille, se la saranno certamente già fatta.

Vi è, tuttavia, un punto certo e fermo sul quale non mi stancherò mai di soffermarmi di quando in quando ed è rappresentato dall’aperta contraddizione tra le parabole sull’inflessibile fermezza dei governi e dei governatori delle banche centrali nei confronti di quello che viene definito azzardo morale, con l’inevitabile corollario sulla determinazione a non fare nulla per favorire gli speculatori e, invece, i comportamenti effettivi di Bernanke e soci e di Paulson e compagni, comportamenti che anche i più timidi e conservatori tra gli osservatori, Nobel per l’economia inclusi, hanno bollato come un aperto soccorso a banchieri e finanzieri.

Ma venendo per un momento alle piccole vicende italiane, credo proprio che sia necessaria una riflessione più approfondita sul clamoroso flop del tentativo di un oscuro costruttore marchigiano, sponsorizzato apertamente da Intesa San Paolo e dal suo CEO, Corrado Passera, di acquisire Alitalia in base ad uno di quei piani industriali che le banche sono solite presentare ai propri azionisti e alle controparti sindacali, un piano della cui più che prevedibile inconsistenza si è reso conto anche il molto provvisorio Consiglio di Amministrazione di Alitalia preferendogli quello ben più corposo e credibile presentato da quella Air France che è reduce da un risanamento che ha avuto quasi del miracoloso e che già controlla KLM.

Chissà perché, a tal proposito, mi torna in mente la richiesta perentoria dell’allora azionista numero uno di Citigroup, un noto principe della sterminata famiglia reale dell'Arabia Saudita e grande finanziere che, chiedendo la testa di Chuck Prince III al di lui mentore e predecessore Weill, sostenne che era ormai ora che alla testa delle banche tornassero i banchieri e, più in particolare che mai e poi mai un avvocato avrebbe potuto assurgere al ruolo di amministratore delegato di una banca, almeno di una nella quale lui aveva investito in prima persona una montagna di soldi.
Con buona pace dei tanti, politici e sindacalisti di rango, amministratori delle ricche regioni del Nord Italia, giornalisti e compagnia cantando, che stanno strillando sulla perduta italianità e sulla messa in discussione delle vaste e progressive sorti di quella specie di aborto che è l'hub di Malpensa, scommetto qui ed ora che prodi terrà botta e che la partita della vendita della nostra compagnia di bandiera è a questo punto e per fortuna definitivamente chiusa e che Toto farebbe bene a vendere a qualcuno (Lufthansa?) la sua creatura, Air One, e farlo presto, prima che sia troppo tardi.

Bye bye Mister Paulson

Come avevo alquanto facilmente previsto qualche giorno fa, la decisione della Hong Kong Shanghai Banking Corp prima e quella, un po' più dolorosa del nuovo amministratore di Citigroup poi di immettere nei conti aziendali quel che resta dei SIV di rispettiva proprietà segnava di fatto il de profundis per la grande pensata del ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, quel grande fondo di salvataggio, denominato MLEC, che nelle intenzioni dell'ex numero uno di Goldman Sachs avrebbe dovuto rappresentare un elemento calmieratore del disastrato ed immenso comparto dei titoli della finanza strutturata, anche se dai plausi e le fanfare iniziali del suddetto fondo si erano perse le tracce.
Si è, invece, appreso solo venerdì che del SIV dei SIV non se ne farà più nulla, dopo l'annuncio del disinteresse di Citigroup e di altri probabili partecipanti e la riduzione della disponibilità iniziale a soli 20 miliardi di dollari in luogo dei 100 previsti ai tempi dell'annuncio trionfale in settembre, ma quello che veramente colpisce è il funambolismo di una collaboratrice di Paulson che ha avuto il coraggio di dire che, in fondo, la mossa del ministro è stata comunque geniale in quanto ha prodotto lo stesso quell'effetto anti panico che si proponeva e che questo è avvenuto senza neanche prendersi la briga di mettere in piedi quello che sin dall'inizio appariva come un baraccone realizzato con l'unico scopo di rendere meno trasparenti i prezzi di trasferimento di quella che non si sa se definire zavorra o spazzatura.
A parte il fatto che a me tutto questo fa venire in mente la famosa frase che diceva che se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stato un tram, vorrei aggiungere che pochi avvenimenti di questa crisi finanziaria hanno panicato il mercato come il travagliato parto di quella riunione domenicale in settembre presso gli austeri locali del ministero del Tesoro statunitense, con due degli più stretti collaboratori di Paulson a tenere a bada una trentina di banchieri che erano giunti alla riunione convinti che ci sarebbe stato l'annuncio del fallimento di qualche banca o qualche altra catastrofe del genere, ma che, certamente, non sono stati sollevati dalle altrettanto inquietanti implicazioni del piano che era stato loro presentato.
Quando sarà possibile passare dala cronaca alla storia di questa tempesta perfetta, il capitolo dedicato alla adeguatezza o meno delle mosse dei ministri e dei governatori delle banche centrali assumerà certamente un ruolo di rilievo nel corpo dell'opera, anche se credo che, anche a partire dal day by day che sto cercando di descrivere in questi mesi, i lettori un'idea delle contraddizioni e del pressapochismo di questi presunti giganti abituati al più a navigare nelle acque tranquille se la saranno già fatta.
Vi è, tuttavia, un punto certo e fermo sul quale non mi stancherò di soffermarmi di quando in quando ed è rappresentato dalla aperta contraddizione tra le parabole sull'inflessibile fermezza dei governi e dei banchieri centrali nei confronti di quello che viene definito azzardo morale, con l'inevitabile corollario sulla determinazione a non fare nulla per favorire gli speculatori e i comportamenti reali di Bernanke e soci, così come quelli di Paulson e compagni, comportamenti che anche i più timidi e conservatori tra gli osservatori, Nobel per l'economia inclusi, hanno bollato come un aperto soccorso ai principali responsabili del disastro nel quale siamo immersi fino al collo.
Anche se un esame per quanto sommario e superficiale avrebbe consentito a chiunque, compreso il consiglio di amministrazione di Alitalia, di comprendere he tra l'offerta di Air France e quella di Air One non vi era praticamente confronto (e credo che l'amministratore delegato di Air France, Spinetta, sia stato molto gentile nel dire che il loro era un piano industriale e quello dei concorrenti un piano bancario), eppure le pagine dei quotidiani di oggi, nessuno escluso, sono piene delle ragioni dei vinti e di minacciosi proclami di guerra che i popoli del Nord Italia pronuncerebbero, con l'avallo dei massimi leaders delle tre confederazioni sindacali, contro la minacciata annessione alla Francia della disastrata compagnia di bandiera italiana, strilli e proclami che, azzardo, non muoveranno di un centimetro la distanza abissale esistente tra la proposta del costruttore marchigiano sponsorizzato da Passera e quella avanzata con una certa sobrietà ma altrettanta credibilità dai francesi.

domenica 23 dicembre 2007

Dopo il flop di Alitalia, forse è meglio che i banchieri tornino a fare il loro mestiere

Il terremoto in corso nel mercato finanziario globale sta toccando in modo significativo il nodo della governance delle principali entità operanti nel comparto creditizio ed in quello assicurativo, sia negli Stati uniti che in Europa, mentre un ruolo molto diverso lo stanno giocando la Cina e altri protagonisti asiatici di quel, seppur parziale, riequilibrio che sta avvenendo tra le diverse aree economiche del pianeta.
Sebbene sia ancor presto per tracciare un bilancio, sono già dodici le banche statunitensi ed europee, nonché il più grande private equity del mondo ed il primo ad essersi quotato in borsa, ad avere ricevuto il soccorso, non proprio disinteressato e spesso a titolo molto oneroso, dei vari fondi di investimento governativi di cui dispongono la Repubblica popolare cinese, Singapore, Dubai, Abu Dhabi e, questa è la vera novità, anche un fondo anonimo, pare riconducibile all'Arabia Saudita.
Trattandosi di banche del calibro di Citigroup, UBS, Merrill Lynch, Hong Kong Shanghai Banking Corp. (che, al di là della storia e del nome, è un banca britannica), Deutsche Bank, Standard Chartered, Morhan Stanley, Merrill Lynch, Barclays, Bear Stearns, Merfin Popular Bank e del fondo Blakstone, con interventi stranieri che vanno da uno a dieci miliardi di dollari, è evidente che si tratta di un fenomeno che non potrà non avere riflessi sui processi decisionali e sulle stesse scelte di questi protagonisti della scena finanziaria mondiale.
Per quanto alquanto tramortiti da una crisi finanziaria che dura ormai da poco meno di cinque mesi, non vi è dubbio che gli Stati Uniti non sono indifferenti a queste non tracurabili modifiche negli assetti proprietari di una così larga parte del loro sistema finanziario, anche perche si tratta pur sempre di una nazione che ha posto degli invalicabili paletti all'intervento dei capitali stranieri nei settori considerati strategici, ma un contrasto quasi feroce è in corso tra gli azionisti del colosso svizzero UBS, non tanto per la partecipazione acquisita dal fondo governativo di Singapore, quanto per la quota facente capo al già citato fondo anonimo che dovrebbe fare capo all'Arabia Saudita, un evento, quello di un fondo anonimo, senza precedenti e che ha indotto alcuni azionisti di UBS a promuovere un'azione legale contro il potentissimo istituto di credito elvetico.
La stagione delle trimestrali e dei dati relativi all'intero 2007 è appena agli inizi negli Stati Uniti e per quelle banche globali che adottano la tempistica abbastanza accelerata imposta dalle norme e dai regolamenti vigenti negli USA, mentre per le banche europee sarà necessario aspettare parecchio per avere le informazioni ufficiali sullo stato di salute delle banche e degli altri soggetti finanziari operanti nel continente, ma se il buon giorno si vede dal mattino, è possibile sin d'ora dire che, molto più di quanto è avvenuto con i conti del terzo trimestre, la verità sta, seppur faticosamente, venendo a galla.
Si tratta, per lo più, di una realtà anche peggiore di quanto fosse lecito immaginare e non è un caso che la maggior parte dei sinora rari annunci sia stata accompagnata dall'arrivo dei capitali stranieri in soccorso delle banche dichiaranti, prefigurando, in analogia con quanto accadde con le due crisi petrolifere del secolo scorso, la necessità, per i grandi detentori di surplus commerciali strutturali verso gli Stati Uniti, di impedire un crollo verticale della finanza statunitense e della stessa valuta di quel paese che avrebbe effetti micidiali sugli stock di ricchezza finanziaria in larga parte espressi in dollari e parcheggiati in titoli rappresentativi dell'immenso debito pubblico della, almeno per ora, più importante nazione del mondo, una scelta alquanto forzata, non si sa quanto temporanea e che, comunque, non dovrebbe impedire la prosecuzione di quel processo di diversificazione delle riserve valutarie e dei relativi investimenti, un processo che pare ormai inarrestabile.
Ma se gli Stati Uniti non sono messi bene, ancor più grave sembra la situazione attuale, ma ancor più quella in prospettiva della Gran Bretagna, un paese che ha fatto della deindustrializzazione e del passaggio in mani staniere delle poche attività produttive rimaste quasi una bandiera, puntando, anche attraverso l'ostinata non adesione all'euro, su di una finanziarizzazione spinta e sulla un po' velleitaria ambizione di poter rappresentare nella finanza un polo di dimensioni più grandi di quello rappresentato dall'area euro nel suo complesso.
Ora che i nodi giungono finalmente al pettine, non vi è dubbio che tutti quelli che sono stati i punti di forza di questo isolazionismo strategico dalle sorti del vecchio continente sembrano fatalmente destinati a divenire altrettanti punti di debolezza, dalla forza della sterlina a quello che sembrava un boom perenne del settore immobiliare, da livelli più che statunitensi di credito al consumo che non poca parte hanno giocato nel portare la bilancia commerciale del paese ormai a livelli prossimi al collasso.
Guardando la per tanto tempo invidiata posizione dell'economia britannica, si può certamente dire che le scelte degli altri grandi paesi membri dell'Unione europea, scelte per tanto tempo criticate dai guru dei due paesi anglosassoni, sembrano molto più paganti per le prospettive future e sono sicuro che il giovane Cameron, con tutta probabilità prossimo primo ministro della Gran Bretagna, si guarderà bene dal ripercorrere la strada suicida seguita da Tony Blair e, per quel che resta del giorno, da Gordon Brown.
Ma, per non enfatizzare troppo le disgrazie altrui, credo proprio che sia necessario spendere qualche parola sul fallito tentativo di Intesa San Paolo e, segnatamente, del suo amministratore delegato, Corrado Passera, di accasare Alitalia con la mini compagnia aerea di un altrimenti oscuro costruttore marchigiano, tale Toto, affermando che tale scelta era da preferirisi al concreto progetto industriale presentato da quella Air France che già controlla KLM, una scelta perseguita con ostinazione degna di miglior causa, anche perché era come dire che era meglio che Bertone acquistasse la Fiat, scartando un'offerta avanzata da Volkswagen o da Renault.

sabato 22 dicembre 2007

La Cina è davvero vicina

Se ad ogni giorno basta la sua pena, si può dire che, almeno per oggi, non vi sono stati nuovi annunci di risultati trimestrali da parte delle principali banche statunitensi, ma, tanto per non deludere del tutto le attese, è giunta l'indiscrezione sul possibile raggiungimento di un'intesa tra la disperata Merrill Lynch, sì la banca che dovrebbe svalutare poco meno di 9 miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata nel quarto trimestre dopo l'alluvione di perdite nel terzo, e Temasek, il ricco fondo governativo di Singapore, per un'iniezione di capitali per 5 miliardi di dollari.
Avevo annunciato appena ieri l'ingresso in forze del fondo governativo cinese in Morgan Stanley, mediante un ben remunerato prestito obbligazionario convertibile per 5 miliardi di dollari che, in caso di conversione, porterebbe il braccio finanziario armato della Repubblica Popolare Cinese al 10 per cento della blasonata banca statunitense, mentre, nelle settimane appena trascorse, il fondo governativo di Abu Dhabi si era impegnato in un'operazione analoga nei confronti di Citigroup ed un altro fondo governativo di Singapore era corso in soccorso del colosso svizzero UBS, mentre, oltre un mese fa, la Citic cinese aveva investito un miliardo di dollari in Bear Stearns.
L'iperattivismo delle principali banche centrali del pianeta e questo soccorso rosso o asiatico in generale in favore delle maggiori banche commerciali e di quelle di investimento degli Stati Uniti rischiano veramente di panicare il mercato finanziario, con particolare riferimento a quella moltitudine di operatori dagli orizzonti mentali e culturali un po' limitati che iniziano a rendersi conto che attorno a loro sta accadendo qualcosa di grosso, qualcosa di veramente molto grosso e, si sa, la paura è una pessima consigliera, soprattutto quando centinaia di migliaia di tuoi colleghi hanno perso il posto a partire dalla scorsa, terribile estate.
Nessuno ormai parla più del tanto reclamizzato MLEC, il sogno presto trasformatosi in incubo partorito dalla fervida mente di Henry Paulson, un uomo che davvero una ne fa e cento ne pensa e che pensava di aver trovato l'uovo di Colombo nella progettazione di quel Conduit dei Conduit, o SIV dei SIV se si preferisce, coinvolgendo in una torrida domenica di settembre nel progetto tre delle trenta banche che aveva interpellato, banche come Citigroup, J.P. Morgan Chase e Bank of America, che, poi, pressate ognuna dai propri e giganteschi guai, hanno preso strade diverse nel percorso, mettendo al contempo una bella pietra sullo sfortunato progetto del ministro dell'Economia statunitense.
Non penso di andare lontano dal vero, prevedendo che anche l'altra grande pensata di Paulson, dall'altisonante denominazione di Hope Now, non sia destinata a prendere il volo, anche perché per ora i tanto reclamizzati call center che avrebbero dovuto dare speranza ai tormentati mutuatari, almeno secondo i resoconti di giornalisti cattivissimi, o non rispondono o forniscono notizie del tutto fuorvianti.
D'altra parte, tra poche settimane inizia quel grande rodeo che è la corsa per la nomination in campo democratico e nel più depresso campo repubblicano, in entrambi i casi con i candidati pronti a sbranarsi l'uno con l'altro, ma quasi del tutto unificati da un solo e semplice concetto: stai dalla parte della gente in difficoltà e schierati contro quel concentrato di avidità e spregiudicatezza rappresentato da un settore bancario e assicurativo per di più sempre meno made in USA.
Sul versante delle banche centrali, impegnate ormai ogni giorno a inondare di liquidità un mercato interbancario che, almeno a giudicare dai tassi, sembra sempre più come un malato a cui non fanno più effetto gli antibiotici, non desta stupore la valutazione un po' sconsolata espressa ai piani alti del grattacielo di Francoforte che ospita la sede della Banca Centrale Europea dopo la più grande iniezione di liquidità mai effettuata in un solo giorno a memoria d'uomo (348 miliardi di euro, pari a 500 miliardi di dollari), una valutazione che non può fare a meno di notare quello che tutti hanno già notato e, cioé, che la febbre non scende a dispetto delle dosi massiccie prevista dalla terapia dei dottori templari.
Sono settimane che gli osservatori più attenti avvertono che il pericolo viene certamente dal settore bancario, ma che non vi è emissione di titoli della finanza strutturata che non sia stata garantita in passato dalle più importanti aziende specializzate nel fornire tale tipo di garanzie, entità che vivono del rating loro assegnato e che oggi stanno letteralmente tremando, vedi il caso recente di MBIA, il colosso assoluto del settore negli USA, che è stramazzata dopo l'annuncio di un possibile downgrade che, solo per dirne una, potrebbe portare al default 3 mila comuni, molte contee e addirittura qualche stato di quel grande paese che sono gli Stati Uniti d'America.
Rispondo in anticipo alla più che prevedibile obiezione al quadro che ho appena delineato, basata sull'apparente schizofrenia del mercato azionario, in particolare di quello statunitense, un mercato che sembra impegnato a vedere solo le notizie buone e a scartare quelle cattive, giudicando, ad esempio, buono il balzo in avanti in novembre delle spese personali USA, non pensando a quelle centinaia di milioni di zip zip delle carte di credito che hanno finanziato tali acquisti, proprio quelle carte di credito che evidenziano un outstanding a livelli mai registrati nella storia statunitense di tutti i tempi.
Anche perché, a meno di credere che la Cina e gli altri paesi asiatici o gli investitori arabi abbiano l'intenzione di investire una parte molto rilevante dei loro cospicui tesoretti per fornire tanto di quel capitale alle banche statunitensi ed europee da evitare a queste ultime di tagliare il credito nell'ordine dei previsti 6-8 mila miliardi di dollari, è difficile che da questa tempesta perfetta si possa uscire prima che la realtà, per quanto dura e cruda, abbia preso il posto dei sogni e delle chimere di Paulson, Bernanke, Trichet e compagni.

venerdì 21 dicembre 2007

Continua la pioggia di svalutazioni


Come era largamente prevedibile, la stagione degli annunci dei risultati del quarto trimestre e di quelli relativi all’intero esercizio da parte delle banche statunitensi di ogni ordine e grado, una stagione che per lunghissimo tempo è stata prodiga di buone notizie per gli azionisti e di rilevanti bonus per manager e dipendenti, si preannuncia, e siamo solo ai dati di tre banche, una via dolorosa e costellata, per fortuna solo metaforicamente, di morti e feriti in gran quantità.

Dopo i modesti risultati della preveggente Goldman Sachs, in parte vittima dello stesso gioco al massacro iniziato oltre un anno fa, e la perdita multipla rispetto alle previsioni degli analisti nel quarto trimestre di quest’anno riportata da Morgan Stanley, banca che se le era sostanzialmente cavata nel terribile terzo trimestre, è giunta ieri, non proprio come un fulmine a ciel sereno, la prima perdita trimestrale in 84 anni sopportata da Bear Stearns, che ha evidenziato un risultato negativo per 859 milioni di dollari, pari a 6,9 dollari per azione, ma, il che è ben più grave, ricavi netti negativi per 1,5 miliardi di dollari.

La perdita di Bear supera di più di quasi quattro volte le già nere previsioni degli analisti, nessuno dei quali era, inoltre, giunto sino ad ipotizzare un valore negativo dei ricavi della piccola ma prestigiosa appartenente al club delle Big Five statunitensi, che nell’ultimo trimestre del 2006 aveva comunicato un utile pari a 558 milioni di dollari e ricavi per la ragguardevole cifra di 2,41 miliardi.

In un comunicato, Bear Stearns ha informato gli azionisti e gli operatori economici che quest’anno tutti i membri del comitato esecutivo della banca, incluso l’amministratore delegato, James Cayne, non riceveranno il previsto bonus, che nel 2006 aveva ricevuto ben 40 milioni di dollari a questo titolo, mentre dallo stesso comunicato non si evince se analoga e triste sorte toccherà anche agli altri manager e dipendenti della banca.

Nel frattempo, una breve conferenza davanti ad una rappresentanza degli azionisti del gigante semipubblico del settore dei mutui immobiliari USA, Fannie Mae, che doveva, nelle intenzioni del presidente ed amministratore delegato, Daniel Mull, rassicurare gli intervenuti sul futuro della società si è risolta in un fiasco clamoroso e si è risolta in un tiro a segno nei confronti dell’infelice numero uno e in dichiarazioni di totale sfiducia nei confronti di tutti gli attuali membri del board di Fannie Mae, che, lo ricordo per chi non segue questo diario, è stato insediato dopo il grave scandalo contabile da 6,3 miliardi di dollari emerso nel corso del 2004.

A differenza di quanto è accaduto l’altro ieri per Morgan Stanley, che, dopo l’annuncio dei disastrosi dati ha visto le sue azioni salire significativamente, forse perché si è pensato che la banca avesse realmente voltato pagina, le azioni di Bear ieri, nonostante un sospetto e voluminoso sostegno, hanno perso decisamente terreno, anche perché il comunicato ufficiale si è dimenticato, almeno nella sua prima stesura, di quantificare l’esatta entità delle svalutazioni operate su un più che significativo portafoglio di titoli della finanza strutturata, in particolare pesante nel settore dei mutui immobiliari.

Non è fuori di luogo ricordare che Bear Stearns era stata nei mesi scorsi l’apripista, ovviamente come le seguenti debitamente autorizzata dal ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, nell’aprire le porte del proprio azionariato per l’equivalente di un miliardo di dollari all’ormai famoso fondo governativo cinese, che, solo l’altro ieri, ha ipotecato, puntando con decisione sul tavolo una fiche da 5 miliardi di dollari, una quota azionaria pari al 10 per cento della ben più potente Morgan Stanley, mediante un prestito obbligazionario convertibile a tassi del 9 per cento, superiori a quelli che si pagano su uno junk bond, ossia su un titolo amichevolmente definito spazzatura, ma sempre inferiori all’11 per cento garantito da Citigroup al più avido o soltanto più accorto fondo governativo di Singapore.

Mentre il colosso creditizio britannico HSBC annuncia con una certa sicurezza che l’Irlanda, buon per lei, non verrà di fatto toccata dalla crisi immobiliare, continua, anche a causa delle non certo casuali dichiarazioni del solitamente accorto e potente finanziere italiano Carlo De Benedetti sull’esposizione di non meglio precisate ed identificate banche europee per 340 miliardi sulla parte meno solida dei titoli della finanza strutturata, l’inquietudine degli operatori economici dell’area euro e di quella britannica che, nonostante gli sforzi titanici del board della Banca Centrale Europea, continuano a non fidarsi di nulla che non sia più che certificato e sicuro.

Lo stesso affollamento registrato mercoledì alla ben più misera asta della Federal Reserve, con richieste che superavano di più di tre volte il quantitativo di 20 miliardi di dollari ormai offerto un giorno sì e l’altro pure, rappresenta un significativo segnale del fatto che, anche al di là dell’Oceano, l’inquietudine e la paura continuano a regnare sovrani e che l’approssimarsi della scadenza di fine anno non aiuta certamente a rasserenare gli animi, anche perché un sondaggio effettuato da uno dei più importanti siti finanziari statunitensi tra persone interessate ai mercati rivela che quasi il 60 per cento (59 per cento) di coloro che hanno risposto vedono ormai con certezza approssimarsi la recessione o qualcosa che le assomiglia terribilmente.

In un mondo ormai così globalizzato, non stupisce che gli italiani, stretti nella morsa della più rilevante perdita di potere d’acquisto mai verificatasi dal secondo dopoguerra, si rivolgono ormai sempre più massicciamente alle varie forme in cui si presenta il credito al consumo, un mercato, almeno in Italia, largamente dominato dalle banche che, però, nella maggior parte dei casi operano attraverso società finanziarie totalmente controllate, anche al fine di godere, al pari delle finanziarie vere e proprie, di soglie di riferimento per il tasso di usura molto più elevate di quelle cui sono sottoposte quando operano direttamente come banche.

Come ebbe giustamente a dire al proposito Giuseppe Turani su Repubblica: “Non sarebbe il caso che qualcuno, prima o poi, si occupasse di questa questione del doppio tasso di riferimento tra banche e finanziarie?”.

giovedì 20 dicembre 2007

Ci mancava solo Morgan Stanley!


La perdita multipla rispetto alle previsioni degli analisti annunciata ieri, con riferimento al quarto trimestre di quest’anno da Morgan Stanley, una delle Big Five statunitensi che se l’era sostanzialmente cavata nel terribile terzo trimestre, è stata accompagnata dalla notizia che il fondo governativo della Repubblica popolare cinese ha deciso di investire 5 miliardi di dollari nella banca.

Al di là dell’astronomica cifra relativa alle svalutazioni legate ai titoli della finanza strutturata per 9,6 miliardi di dollari e la stessa tutt’altro che lieve perdita di 3,6 miliardi, quello che ha colpito gli analisti è il dato negativo per centinaia di milioni di dollari degli stessi ricavi, falcidiati dalle svalutazioni a tal punto da segnare un valore negativo (450 milioni di dollari), mentre, nell’ultimo trimestre dell’ormai lontanissimo 2006, morgan Stanley aveva annunciato profitti per 2,27 miliardi di dollari e ricavi per 7,75 miliardi.

Un affranto John Mack, presidente ed amministratore delegato della banca statunitense, ha preso su di sé ogni responsabilità del disastro aziendale e, caso unico nel panorama creditizio statunitense, si è precipitato a rendere noto che non si procederà all’erogazione dei previsti bonus aziendali, anche se dubito che questo bel gesto sarà sufficiente per evitargli, sulla scia di un numero ormai sempre più lungo di predecessori, un’uscita di scena più o meno ignominiosa.

Ovviamente, i dati del quarto trimestre hanno pesato significativamente sui risultati di Morgan Stanley nell’intero esercizio 2007, con profitti pari ad un terzo di quelli segnalati nel 2006 ed un calo dei ricavi complessivi aziendali contenuta nel –6 per cento, ma che evidenzia la forza della frenata finale su un volume di attività che nei primi tre trimestri procedeva ancora a tutta birra.

Con l’arrivo in forze dei capitali cinesi in Morgan Stanley e la presenza ormai molto significativa di arabi e del fondo governativo di Abu Dahbi in Citigroup (nonché quello del fondo di Singapore nel colosso svizzero UBS), l’americanità del capitale delle banche statunitensi inizia ad essere messa seriamente in discussione e questo, insieme alla prevedibile catena di salvataggi prossima ventura, rischia di segnare profondamente un paese nel quale è, ad esempio, fatto divieto ad una compagnia aerea straniera di possedere una quota azionaria superiore al 25 per cento di un vettore aereo statunitense.

Va, tuttavia, segnalato che l’interesse che Morgan Stanley si è impegnata a pagare agli investitori cinesi sul prestito obbligazionario convertibile in azioni è del solo 9 per cento, contro l’11 per cento richiesto dal fondo di Singapore a Citigroup a fronte di un impegno finanziario ben più massiccio.

Non è passata, nel frattempo, sotto silenzio la dichiarazione del noto finanziere italiano Carlo De Benedetti che ha affermato due giorni fa di aver appreso da un’autorevole fonte bancaria che l’esposizione non ancora emersa delle banche europee è pari alla ragguardevole cifra di 340 miliardi di dollari, notizia che non ha contribuito, insieme alle preoccupazioni legate alle dimensioni alluvionali delle iniezioni di liquidità con cui la BCE e le altre principali banche centrali stanno sommergendo, con scarsi risultati, il mercato interbancario, alla tenuta delle quotazioni delle azioni delle principali banche dell’area dell’euro e di quelle basate in Gran Bretagna.

Come ha ben rilevato un noto analista, il Governo britannico si è ormai cacciato in una specie di trappola nei disperati tentativi di non giungere al fallimento dell’ormai nota Northern Rock, fallimento che si tradurrebbe in una sciagura per i conti pubblici e per la stessa credibilità del governo di sua maestà, anche se al proposito continuo a porre il mantra che ripeto ormai da settimane: come mai, in luogo di una più che improbabile piccola folla di strani pretendenti, nessuna banca basata in Gran Bretagna ha ritenuto di farsi avanti per rilevare quella che era l’ottava banca del regno e la quinta per importanza nel settore immobiliare?

La strenua resistenza dei tassi interbancari dell’area euro ai più massicci interventi operati dalla BCE (o dalle singole banche centrali europee nel periodo che precede la sua nascita) denota con chiara evidenza che non viene in alcun modo meno il clima di reciproca sfiducia imperante tra le principali banche operanti nell’area, una sfiducia che la rilevante cifra sulla reale esposizione nella finanza strutturata avanzata da De Benedetti non ha certo aiutato a dissipare.

D’altro canto, dimostratasi del tutto spuntata la via del tagli ripetuto dei tassi di interesse perseguita con determinazione da Bernanke e soci, via oltretutto impraticabile alla luce della fiammata inflazionistica che ha colpito la Germania e, seppure con ritmi appena inferiori, la maggior parte dei paesi dell’area dell’euro, i membri templari e quelli moderati del Board di Francoforte stanno amaramente constatando che, anche mettendo sul piatto ben 500 miliardi di dollari in un giorno, l’effetto sui tassi, invece di essere dirompente e definitivo, si è tradotto in una sorta di solletico che, al più, permetterà di affrontare lo scavallo di fine anno senza troppi morti e feriti.

Il pensionato di lusso Alan Greenspan continua, nel frattempo, a rilasciare ben pagati vaticini in pranzi o cene delle quali è ospite di onore e, dopo aver previsto che le probabilità della recessione prossima ventura hanno ormai raggiunto la fatidica soglia del 50 per cento, ha di recente dichiarato di vedere probabile il temibile scenario della stagflazione, quella micidiale miscela di inflazione e recessione che è vista dai più con ancora maggiore preoccupazione dello scenario puramente recessivo.

Sulle voci relative ad una prossima uscita dell’attuale amministratore delegato di Intesa-San Paolo, Corrado Passera, è autorevolmente intervenuto ieri Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di Sorveglianza del colosso bancario, smentendo recisamente tale possibilità, del che non posso che rallegrarmi, anche se sarebbe meglio lo dicesse anche ad Oscar Giannino che di questa uscita parla, sul suo giornale, Libero mercato, quasi un giorno sì e l’altro pure.

mercoledì 19 dicembre 2007

L'ira dei banchieri centrali non ottiene risultati


Tanto tuonò che piovve! L’annuncio congiunto delle tre principali banche centrali del mondo occidentale, più qualche gregaria a supporto, un annuncio volto a rassicurare le banche che non si sarebbe badato a spese per assicurare la liquidità necessaria al mercato interbancario che segnalava tensioni estreme e strozzature, ben segnalate dai tassi del momento ed, ancor più, da quelli futuri attorno alla cruciale scadenza di fine anno, ha iniziato da ieri (oggi in termini di valuta) a trovare un riscontro nella realtà in dimensioni certamente al di sopra delle più ottimistiche aspettative.

Sul piano strettamente quantitativo, la Banca Centrale Europea, senza distinzioni stavolta tra templari e moderati, ha finanziato le banche richiedenti ad un tasso che non doveva superare tassativamente il 4,21 per cento per 348,6 miliardi di euro (pari alla cifra tonda di 500 miliardi di dollari), con scadenza a 16 giorni (guarda caso, una data che si pone oltre il fine anno), mediante una pronti termine che verrà quasi certamente rinnovata per un periodo pari o superiore a quello iniziale.

L’operazione della BCE è stata prontamente affiancata dall’ennesima operazione da 20 miliardi di dollari effettuata dalla Federal Reserve, mentre, nel frattempo, la Bank of England ha immesso liquidità in quantità imprecisata sul mercato e vi ha aggiunto un ennesima, quanto non necessaria né illuminante, dichiarazione del solito Marvin King, forse prodigo di parole perché teme, come il suo collega a capo della FSE, di essere di fatto esautorato dal Cancelliere dello Scacchiere che intende accentrare su di sé tutti i poteri nelle situazioni di emergenza che dovessero presentarsi nel prossimo futuro nel sistema bancario britannico.

La vera novità, oltre che dalle dimensioni monstre delle operazioni sul mercato, sta nel fatto che si apprende che, almeno con riferimento alla Federal Reserve, sono ormai saltati tutti i paletti sulla selezione dei titoli che le banche statunitensi offrono in garanzia per ottenere la liquidità, anche perché non sono mancate battutacce tra gli operatori, quando si è appreso che l’unico requisito richiesto è che si tratti di titoli dotati di quella tripla A che, almeno sino a poco tempo fa, le società di rating non negavano a nessuno, soprattutto se alla valutazione si accompagnava la salata parcella per l’attività di consulenza offerta da un’apposita branca di attività della stessa società di rating.

Al premio all’azzardo morale elargito a piene mani da Bernanke e compagni via tassi, si aggiunge ora la trasformazione senza precedenti della banca centrale statunitense in una sorta di discarica per titoli che nessuno vorrebbe nemmeno a 20 su cento di valore e, invece, bellamente accolti con valutazioni che si aggirano, sempre secondo i bene informati, intorno ad un ragguardevole 80 per cento, e chissà che la banca Centrale Europea, di fronte ad un’esposizione delle banche europee che, secondo il solitamente ben informato Carlo De Benedetti, si aggira intorno ai 340 miliardi di euro (poco meno di 500 miliardi di dollari) e la Bank of England dell’intrepido King non debbano apprestarsi a fare altrettanto o forse, nella riservatezza delle procedure delle aste in corso, non lo stiano già in qualche modo e abbondantemente facendo.

Per tutto quello che ho appreso in queste settimane sulla grande capacità previsiva degli uomini e delle donne di Goldman Sachs (quelli che, prima dell’assunzione, possono essere sottoposti anche a cento colloqui), non posso unirmi al coro di coloro che si stanno meravigliando per un misero incremento del 2 per cento nei profitti del quarto trimestre del colosso creditizio statunitense, anche perché mi aspettavo francamente molto di più da un’istituzione che ha precorso il mercato di almeno tre trimestri, alleggerendosi della spazzatura rappresentata dai titoli della finanza strutturata e a buon prezzo per molte decine di miliardi di dollari e che altri miliardi ha guadagnato comprando a prezzi di realizzo enormi ammontari di titoli quando nessuno più li voleva.

Certo, per una delle pochissime banche globali a marciare in controtendenza e che ha appena annunciato la costituzione del più grande hedge fund del mondo, con una dotazione di capitale di 10 miliardi di dollari, l’accoglienza che la borsa ha riservato al trionfale annuncio è stata addirittura negativa, anche perché le contemporanee notizie in arrivo da Francoforte, Londra e New York stanno confermando ai più che non solo la crisi non si è esaurita, ma che certamente non siamo neanche in prossimità di quel punto di estremo pericolo rappresentato dalla metà del guado.

Come gli operatori, anche i banchieri centrali devono essere rimasti alquanto delusi da una discesa dei tassi, dopo tanta alluvione di liquidità, che definire modesta è usare un eufemismo degno di miglior causa, anche perché, a parte l’immobilità della parte più lunga della curva, anche per le scadenze sensibili come il mese ed i tre mesi non si registrano riduzioni in qualche modo proporzionali allo sforzo realmente eccezionale compiuto dai tre non secondari prestatori di ultima istanza.

D’altro canto, non è che le notizie provenienti dal settore immobiliare statunitense siano state del genere che risolleva gli animi un po’ intimorati di coloro che devono prendere decisioni a valenza economica, con l’ennesimo calo delle nuove case, che si pongono al livello più baso degli ultimi sedici anni e che, con riferimento alle ville e villette che rappresentano il coronamento della American Dream, non giungono, come dato annualizzato, alle 900 mila unità.

Per l’ennesima volta in poche settimane, il quotidiano Libero Economia, vede il potente amministratore delegato di Intesa San Paolo, Corrado Passera, in uscita dal gruppo che ha così faticosamente contribuito a realizzare, mentre non vi è quotidiano che non si sia dilettato al gioco dell’anno e che consiste nel valutare l’affezione degli azionisti italiani e stranieri di Unicredit Group nei confronti di un personaggio sino a poco tempo fa indiscusso quale è Alessandro Profumo, che anche l’altro ieri non ha esitato a lodare sé stesso e criticare l’operato di tutti gli altri.

Augurando ai due ex golden boys ogni bene nell’attuale e nelle future collocazioni, credo che non sia da sottovalutare la richiesta perentoria che il principe saudita ed allora primo azionista di Citigroup fece a Weill pochi giorni prima del licenziamento del non rimpianto Chuck Prince III, quando disse: è giunta l’ora che a capo delle banche tornino i banchieri.

lunedì 17 dicembre 2007

Goldman Sachs: fortuna o insider trading?

Il forte segnale di discontinuità dato dal nuovo amministratore delegato di Citigroup. Vikram Pandit, a solo pochi giorni dal suo insediamento fortemente voluto dal presidente ad interim Rober Rubin non è bastato ad evitare alla prima banca statunitense l’onta del downgrade da parte di analisti e società di rating, ma rappresenta, comunque, una netta inversione di tendenza rispetto a quella scarsa trasparenza ed opacità di bilancio che caratterizzava Citi al pari delle consorelle statunitensi ed europee.

Dopo l’esempio di HSBC e quello successivamente fornito da Citigroup, sarà molto diffcile per le banche operanti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico continuare a tenere in vita quei simulacri aziendali rappresentati da SIV e Conduit, anche se, inglobando gli attivi dei suoi sette SIV, Pandit ha di fatto mandato in soffitta proprio quel MLEC, il fondo interbancario di salvataggio, appunto, di SIV e Conduit, così fortemente voluto dal ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, ma largamente sponsorizzato da Chuck Prince III e dai suoi omologhi di Bank of America e J.P. Morgan Chase, gettando così nella costernazione i manager impegnati da qualche giorno nel lancio della nuova creatura abortita prima ancora di essere nata.

So già che qualche malizioso si sarà posto qualche domanda sul dove siano andati a finire gli iniziali 100 miliardi di dollari di assett posseduti dai sette SIV di Citi non più tardi di cinque mesi orsono, ma credo proprio che la risposta non verrà mai data, perché la differenza rispetto ai 49 miliardi finita finalmente nei bilanci del colosso creditizio statunitense è formata da un forse inestricabile mix di vendite sottocosto e perdite reali di dimensioni tali da superare la capacità dei migliori tra gli spacchettatori che stanno emettendo in questi mesi parcelle milionarie per l’altrettanto improba fatica di venire a capo dell’effettivo mark to market della montagna di titoli della finanza strutturata posseduti direttamente o indirettamente dalle banche globali.

Quella che avevo raccontato qualche settimana fa sulla fortuna sfacciata di Goldman Sachs che, grazie all’intuizione del suo anziano direttore finanziario David Viniar, aveva deciso sin dal novembre del 2006 di uscire per quanto possibile da un ammontare di titoli della finanza strutturata cifrabile in molte decine di miliardi di dollari era, come si apprende oggi, solo una parte della storia, in quanto, grazie ad ben informato articolo del Wall Street Journal, si viene a sapere che la decisione di Viniar fu solo successiva all’operato di un’oscura sottodivisione della stessa Goldman che, dopo l’estate del 2006, iniziò ad andare controcorrente mettendosi corta sulla maggior parte degli strumenti della finanza derivata.

I bonus miliardari che andranno ai tre protagonisti di questa favola, al coraggioso direttore finanziario, per non parlare di quel sudatissimo premio compreso tra i 65 e i 70 miliardi di dollari che andrà al numero uno di Goldman, Larry Blankfein, sono dunque più che meritati, ma sorge spontanea la domanda sul vero motivo che ha spinto una delle banche che ha creato l’infernale meccanismo del trasferimento del rischio dal concedente al mercato a muoversi, come un sol uomo, in direzione della più massiccia operazione di smantellamento di quella che per anni era stata la gallina dalle uova d’oro del prestigioso istituto fondato nel 1866 e di tutte o quasi le variegate entità che popolano il mercato finanziario globale.

Non vorrei che, una volta passata questa tempesta perfetta, Blankfein e compagni, sotto l’ipotetica accusa di essere stati destinatari del più grande caso di insider trading della storia, dovessero ripercorrere le orme del salvatore del mercato finanziario nella paradigmatica tempesta perfetta del 1907, quel John Pierpoint Morgan che, grazie ai suoi assegni e al carico d’oro del bastimento Lusitania, permise il recupero di Wall Street e dell’intera economia statunitense, per poi finire sotto accusa al Congresso, subendo attacchi di tale virulenza che lo segnarono per sempre e abbreviarono forse lo stesso corso della sua vita.

Mentre Citigroup se l’è cavata con la raffica di downgrade, peggio è andata alla svizzera UBS, destinataria di una class action promossa in terra statunitense da risparmiatori che ritengono di essere stati danneggiati in quanto il colosso svizzero avrebbe taciuto per mesi sulla reale entità delle perdite legate ai titoli della finanza strutturata, sostenendo, cioè, che la svalutazione da 10 miliardi di dollari sia avvenuta solo dopo aver trovato copertura dai due investitori giunti in suo soccorso, uno dall’Asia ed un altro, d’identità ancora ignota, dal Medio Oriente.

Con le banche centrali federate che impazzano sui mercati interbancari con veri e propri rovesci di liquidità, desta sorpresa la notizia, aparsa in un trafiletto di un quotidiano finanziario, che la Banca Centrale Europea sarebbe impegnata, con il solo riferimento al mercato creditizio spagnolo, per l’astronomica cifra di 40 miliardi di dollari e che si tratterebbe di un intervento di soli 5 miliardi di euro superiore rispetto a quello che mantiene ormai in piedi da settimane, in ragione di non meglio precisate difficoltà delle banche iberiche che, poi, in realtà, anche alla luce del forte processo di concentrazione avvenuto in quel paese, si riducono di fatto a due sole entità: Santander e BBVA.

Peccato che non siano altrettanto note le cifre disaggregate relative agli altri grandi mercati creditizi europei, ad esempio, quello francese, quello tedesco o quello italiano, anche se siamo sicuri che, come una madre severe ma imparziale, la BCE non abbia sottovalutato le necessità di nessuno dei richiedenti, mentre per il mercato britannico ci pensa la Bank of England che, alle prese con la nazionalizzazione della disastrata Northern Rock, sta ugualmente e doverosamente facendo la sua parte, anche per evitare che nei guai, stavolta, finiscano istituti del calibro di HSBC, Barclays o Bank of Scotland che vantano un tale ammontare di depositi da eventualmente garantire del tutto al di là delle possibilità dell’intrepido Mervin King.

La netta flessione registrata venerdì sui tre principali listini statunitensi ha ovviamente contagiato ieri prima l’Asia e poi l’Europa, con il relativo conto dei morti e dei feriti tra le molteplici entità che popolano il mercato finanziario dei cinque continenti, anche se le entità dei ribassi sono alquanto diverse da caso a caso, differenze in larga parte dovute alla diversità dei sospetti sullo stato di salute, attuale e prospettica, dei singoli istituti.

Successo, anche se credo proprio sia temporaneo, delle banche centrali federate sul fronte valutario, con l’euro sceso ai minimi da settimane contro la valuta statunitense, mentre molto più modesti sono i progressi di questa nei confronti dello yen.

sabato 15 dicembre 2007

A vuoto il proclama dei banchieri centrali

Quando, alcune settimane orsono, il colosso creditizio europeo Hong Kong Shanghai Banking Corporation annunciò a sorpresa la decisione di riportare gli assett (45 miliardi di dollari) dei suoi numerosi SIV (Structured Investment Vehicles) nei propri bilanci, suonò la campana a morto sul decimato quartier generale di Citigroup, in quanto era a tutti evidente che la pretesa a lungo sostenuta da Charles Prince III, l’allora numero uno di Citi, di considerare quelli dei propri SIV come problemi estranei alla banca che li aveva originati non poteva reggere a lungo e, infatti, oggi la banca statunitense ha annunciato di aver deciso di riportare, con perdite, la montagna di titoli strutturati parcheggiati presso i suoi sette SIV da posizioni off balance sheet a poste dell’attivo (sic) del proprio bilancio.

L’approccio da leguleio dell’avvocato Prince è, peraltro, in larghissima parte quello che gli è costato il posto, in quanto nell’ormai noto meeting tra il potentissimo Weill, per oltre un decennio numero uno di Citi, ed il principe saudita Bin Al Wahaled, allora primo azionista della banca USA, avvenuto tempo fa nell’ipertecnologica tenda nel deserto di quest’ultimo, si stabilì non solo il licenziamento in tronco del Prince, ma anche che mai più un avvocato avrebbe ricoperto la carica di presidente ed amministratore delegato di Citigroup, promessa mantenuta con la nomina, avvenuta la scorsa settimana, dell’indiano Vikram Pandit come CEO di Citi e di un nobile inglese come presidente.

Come già avvenuto nel caso della HSBC, anche la transazione tra Citigroup e i suoi sette veicoli avviene evidenziando un alto livello iniziale di perdite, in quanto l’acquisizione di assett per 66 miliardi di dollari avviene dietro esborso effettivo di soli 49 miliardi, con una svalutazione implicita dei titoli acquisiti pari ad oltre il 26 per cento, mentre la banca inglese aveva contenuto la perdita di valore iniziale al 23 per cento circa, ma il vero valore delle svalutazioni emergerà, anche alla luce delle stringenti norme del FASB 157, solo quando la banca statunitense disporrà anche materialmente dei titoli.

Come è altrettanto ovvio, ora la campana suona per le altre banche statunitensi che si sono date da fare attivamente negli scorsi decenni a realizzare SIV e Conduit (così come lo stesso sta avvenendo per le banche globali europee che hanno fatto in questi anni le americane e per non poche banche asiatiche), essendo a tutti chiaro che, o con l’immissione diretta nei conti o mediante l’applicazione dei fondi di salvataggio che spuntano ormai come funghi, l’esternalizzazione dei rischi in direzione delle scatole off balance sheet o verso gli investitori istituzionali e/o i più o meno sprovveduti risparmiatori è da considerarsi, e per fortuna, un capitolo definitivamente chiuso.

Se a qualcuno è sembrato eccessivo o allarmistico il titolo di giovedì del mio blog, ”Allacciate le cinture di sicurezza!”, credo francamente che quanto sta avvenendo dopo la alquanto improvvida decisione dei banchieri centrali americani, britannici, canadesi, australiani e dei loro colleghi templari della BCE giustifichi appieno l’allarme contenuto nel titolo stesso, valutazione peraltro condivisa nei giorni successivi in numerosi commenti ed analisi apparse sulla stampa specializzata o meno e nel vasto mondo del web.

Annunciare, come hanno fatto i nostri, un’azione massiccia e coordinata delle principali banche centrali del pianeta all’unico scopo di riportare manu militari un clima più sereno sul mercato interbancario statunitense, britannico ed europeo ha panicato la maggior parte degli già spaventati operatori del mercato finanziario globale, quegli stessi soggetti che di tutto sentivano il bisogno meno che i vigilatori del complesso sistema finanziario dessero fiato alle loro preoccupazioni in luogo di procedere, come da lunga e consolidata prassi, con azioni più o meno self explaining.

Non è un caso, peraltro, se, nelle sedute successive al proclama multilaterale dei banchieri centrali, le azioni che hanno maggiormente sofferto sono proprio quelle delle banche e delle altre entità finanziarie istituzionalmente sorvegliate e vigilate dagli spaventati esponenti della Federal Reserve, della BoE, della BCE, della Bank of Canada e della Bank of Australia, così come non è certamente un caso se dalla promessa azione congiunta in termini di liquidità, tassi e valute sono, ed è la prima volta da decenni, estranei ed esentati i banchieri centrali asiatici, inclusa quella non proprio trascurabile entità che è rappresentata dalla Bank of Japan, per non parlare poi di quel trascurabile accidente dato dal fatto che fanno capo a banche centrali, fondi governativi e governi dell’Asia un ammontare sterminato di titoli e depositi denominati in dollari, in larga parte originati dall’avanzo strutturale delle bilance commerciali di quegli stessi paesi.

Ma ancor più rivelatore è l’effetto quasi inesistente, che i massicci interventi già effettuati dopo l’annuncio, la moral suasion e la previsione degli ancor più massicci interventi futuri hanno originato una flessione sulle scadenze cruciali sul mercato interbancario compresa tra i 3 e gli 8 punti base, una flessione che non è nemmeno riuscita ad allontanare l’euribor ad un mese e a tre mesi, su base 365, dalla soglia psicologica del 5 per cento, soglia, peraltro, molto dolorosa per quella moltitudine di mutuatari dell’area euro, in particolare italiani, che hanno contratto mutui a tasso variabile quando il tasso fisso era ai minimi assoluti dal secondo dopoguerra.

Sarebbe poi comico, se non avesse aspetti tragici il primo outing sui conti del quarto trimestre e dell’intero 2007 avvenuto negli Stati Uniti e che ha visto come protagonista Lehman Brothers, quarta entità tra le Big Five statunitensi e con un grande peso nel terremotato settore del fixed income, la quale ha annunciato un sensibile calo degli utili nel quarto trimestre, ma, soprattutto, una flessione del 60 per cento dei ricavi in quel settore obbligazionario che è, appunto, il suo core business, ed una quasi totalità di presenza nei ridotti utili di voci estranee alla gestione caratteristica, il che ha determinato un orientamento pessimistico delle previsioni degli analisti per le prospettive 2008 della banca reso noto pressoché in contemporanea con la diffusione dei dati aziendali.

Se si pensa che Lehman Bros è considerata una sorta di boutique del credito, è evidente che i suoi 79 miliardi di dollari di esposizione nel disastrato settore della finanza strutturata rappresentano un problema da far tremare i polsi, almeno dell’attuale direttore finanziario della casa, in quanto il precedente, noto per la sua battuta di qualche mese fa sul fatto che il peggio era ormai alle spalle, era stato per questa esilarante performance licenziato su due piedi dai per nulla divertiti vertici aziendali.
Bisogna anche dire che il vero e proprio balzo in avanti dei prezzi al consumo in novembre negli Stati Uniti non aiuta, anche per l'inflazione effettiva viaggia ormai ad una velocità annua del 4,20 per cento, appena al di sotto del livello del tasso sui Fed Funds, tagliati pochi giorni fa al 4,25 per cento.