giovedì 31 luglio 2008

I provvedimenti di Bernspan, Paulson ed Effe O Ixs rafforzano la forza distruttiva della quinta ondata della tempesta perfetta!


Non disponendo della classica palla di vetro, non ho assolutamente idea di quale sarà il dato che verrà noto domani sull’andamento degli occupati non agricoli negli Stati Uniti d’America, anticipato in qualche modo ieri da una survey proveniente da un accredito centro di ricerca che indica un saldo positivo di 9 mila unità per gli occupati del settore privato, dato che, se venisse corroborato dal solito apporto positivo ed anticiclico della pubblica amministrazione USA in senso lato, non potrebbe che essere visto positivamente dopo la serie negativa registrata negli ultimi mesi ed i recenti dati sui flussi settimanali e sullo stock di sussidi di disoccupazione, che hanno superato i primi la soglia psicologica delle 400 mila richieste, mentre il secondo non ne vuole sapere di scendere dai 3 milioni ormai toccati e superati da tempo.

Quello che è certo, invece, è il vero e proprio stillicidio di licenziamenti avvenuti ed annunciati in un’orgia di downsizing che dal settore finanziario si sposta sempre più decisamente verso il settore dei servizi non finanziari e, da qualche tempo, anche il settore dell’industria, come è testimoniato dall’annuncio fatti ieri dalla General Motors che ha reso noto un piano di tagli del personale in Canada e negli Stati Uniti che riguarderà ben il 15 per cento della forza lavoro complessiva del colosso automobilistico.

Non è necessario essere keynesiani per capire come tutto questo difficilmente farà bene alla domanda aggregata, anche alla luce del fatto che anche la componente degli investimenti, legata come è alle aspettative alla effettiva disponibilità di credito abbondante e a buon mercato, non promette nulla di buono, mentre la spesa pubblica, già a livelli da record e con deficit e debito per il 2008, ma soprattutto per il 2009, rappresenteranno, per chiunque vincerà la sfida delle presidenziali nel prossimo mese di novembre, il problema dei problemi da affrontare con estrema decisione ed urgenza se si vuole che il dollaro non finisca, dritto, dritto, verso livelli prossimi a 2 dollari per un euro e meno di 90 yen per il biglietto verde.

Al di là delle alquanto scomposte mosse dell’amministrazione statunitense e di un Congresso ormai totalmente immerso nella campagna elettorale in corso che, grazie anche all’efficace sistema di spoil system vigente negli States, riguarderà un numero infinito di posizioni che arriva a toccare anche gli sceriffi di contea, e le misure di controllo degli scambi adottata dalla Securities and Exchange Commission a metà di luglio e recentemente prorogato fino al 12 agosto prossimo venturo per difendere le 19 principali entità finanziarie operanti nel mercato statunitense, per non parlare delle iniezioni di liquidità a raffica e dell’immobilismo sui tassi di interesse garantiti da Bernspan e complici, l’impatto che tutto questo avrà sulla crescita statunitense e sui livelli prevedibili di export di Giappone, Cina e India non rappresenta più motivo di speculazione,mentre l’unica incognita resta quella della profondità che gli effetti della tempesta perfetta virulentemente in corso avranno effettivamente nei trimestri e negli anni a venire.

Dispiace che a fronte di un’evidenza così palmare dei fatti, anche ieri il solito analista a libro paga della potente e preveggente Goldman Sachs si sia voluto esercitare nell’ennesima previsione su un greggio a 149 dollari al barile entro il prossimo mese di dicembre che, seppur molto più moderata della precedente stima della medesima casa di investimenti che vedeva il barile a 200 dollari in un futuro molto prossimo o quelle di fonti interessate quali alcuni paesi produttori che si spingevano anche molto oltre, sembra proprio non volere cogliere le tendenze di una domanda effettiva del greggio come delle altre materie prime energetiche e non che sarebbero evidenti anche ad uno studente del primo anno di una qualsiasi facoltà di economia con sede in un qualsiasi paese del mondo, il che, in presenza del vivace dibattito che vede ministri economici, banche centrali, esperti di ogni genere accapigliarsi sul ruolo che la speculazione finanziaria sta esercitando sui prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari, pare proprio una mossa molto poco saggia per un’istituzione finanziaria da cui provengono ministri, sottosegretari, governatori di banche centrali, Chairman e Chief Executive Officer di tante banche di investimento e di banche commerciali più o meno globali.

Ignoro del tutto quale sia l’attendibilità della stima fornita di recente da Mario Draghi, che vede almeno un quarto del prezzo del greggio ascrivibile ai movimenti finanziari in corso, o quelle altrettanto autorevolmente formulate da altri autorevoli esponenti di organismi internazionali che vedono un peso anche maggiore dell’operatività via derivati sul prezzo di questa come delle altre materie prime, ma invito tutti a leggere con attenzione quanto affermato dal Re dell’Arabia Saudita in una lunghissima intervista apparsa di recente sul quotidiano La Repubblica o le molto eloquenti dichiarazioni dello sceicco Yamani, per lunghissimo tempo presidente dell’OPEC ed ora a capo di un importante centro di previsioni sul greggio, uno che se ne intende, insomma, e che vede consistente un prezzo al barile intorno agli ottanta dollari, anche se non si esprime su di un aspetto importante come il valore trade weighted del biglietto verde.

Mentre gli operatori continuano ad ignorare il testo finale del rapporto che il Financial Stability Forum si era impegnato a formulare entro il mese di luglio, ma, più in particolare, il contenuto esatto di quelle 65 raccomandazioni che vennero anticipate nella cena offerta dal duo Bernspan-Paulson al gotha dell’industria finanziaria globale in quel di Washington a metà di aprile di questo orribile 2008, raccomdazioni che, secondo attendibili indiscrezioni provenienti da quel consesso ben poco conviviale svoltosi rigorosamente a porte molto chiuse, avrebbero mandato il boccone di traverso a più di un banchiere partecipante, la strategia implicita evidenziata dalle mosse di Bernspan, Paulson ed Effe O Ixs appare improntata più ad un premio al moral hazard continuato ed aggravato avvenuto sul mercato finanziario globale che quel sano processo di distruzione creativa di cui il mondo anglosassone si è sempre vantato, evidenziandone i vantaggi sistemici rispetto all’approccio statalisti e welferista proprio della Vecchia Europa.

Di fronte alla minaccia sempre più concreta ai livelli occupazionali nel settore finanziario ed in quello industriale, non stupisce la disinvoltura nel cambiamento repentino dei riferimenti teorici da parte dell’establishment politico e finanziario mondiale, mentre stupisce molto di più che vengano allegramente adottate politiche e misure che, nella migliore delle ipotesi, renderanno la quinta ondata della tempesta perfetta un qualcosa di veramente micidiale, anche perché rafforzata dalle spinte che i provvedimenti e le misure stanno in ogni modo cercando di comprimere.

Faccio un unico esempio, partendo proprio dalla decisione di Effe O Ixs di impedire il gioco al ribasso nei confronti di Fannie Mae, Freddie Mac ed altre diciassette entità finanziarie molto rilevanti, in quanto se qualcuno pensa che un ribassista come David Einhorn non ne approfitti per guadagnare sullo scontato e molto rilevante (in alcuni casi il raddoppio o la triplicazione dai minimi) aumento delle quotazioni delle azioni delle entità finanziarie sotto attacco, non ha un’idea neanche vaga di come si conduce un gioco rischioso ma quasi sempre redditizio come questo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

mercoledì 30 luglio 2008

Il mercato sembra credere all'ultima trovata degli uomini di Goldman Sachs!


Mentre restano in attesa della arma fine di mondo annunciata dal loro indiscusso punto di riferimento Henry Paulson, le donne e gli uomini posti al vertice delle Investment Banks e delle banche commerciali più o meno globali hanno alzato ieri efficaci barriere difensive in quello che doveva essere l’ultimo giorno (ma che, invece è stata prorogata sino al 12 agosto prossimo venturo) di efficacia della norma temporanea escogitata da Effe O Ixs nei confronti dell’orda di ribassisti guidata da David Einhorn, effettuando massicci acquisti di azioni proprie che hanno spinto ad un netto rialzo le quotazioni che erano giunte ormai troppo in basso e rischiavano seriamente, almeno nei casi più disperati di giungere ad un punto di non ritorno.

Che poi, alla fine della fiera, sia gli indici azionari di Wall Street che le quotazioni delle entità finanziarie siano tornati pressappoco ai livelli precedenti al crollo di lunedì questo sembra non importare assolutamente a nessuno, se non ai pochi che si ostinano a tenere d’occhio l’indice di volatilità, giunto a livelli che segnalano inequivocabilmente l’approssimarsi di nuovi rovesci nelle sedute a venire.

Se visitate le pagine finanziarie dei siti economici statunitensi, troverete che solo qualche sparuta voce si ostina ad affermare che i covered bonds prossimi venturi altro non sono che una riproposizione di quei titoli della finanza strutturata che da un anno nessuno vuole proprio più e che il fatto che debbano rimanere inchiodati al bilancio della banca emittente non cambia di molto la loro pericolosità legata alle sorti di un fenomeno sottostante, non importa che si tratti di un mutuo o di qualsivoglia altro, in quanto resta il fatto che non viene meno l’insopprimibile voglia delle banche di traslare su altri il rischio derivante dalle proprie scelte creditizie, un vizio che ha portato loro fortuna per oltre venti anni, ma che adesso sembra proprio non trovare la solita folla di gonzi pronti ad abboccare all’amo più o meno luccicante.

D’altra parte, ad un certo punto della breve storia successiva all’avvio della tempesta perfetta, fu proprio uno di questi banchieri globali, credo proprio si trattasse del numero uno della Deutsche Bank, a dire che, in un modo o nell’altro, gli investitori avrebbero dovuto riprendere a fare il loro mestiere e riprendere a comprare quanto veniva prodotto dagli apprendisti stregoni della sua come delle altre banche e poco importa che da quella sua voce dal sen fuggita siano trascorsi almeno sei mesi e che di acquirenti con la sveglia al collo e vogliosi di prendere per diamanti le perline loro offerte non se ne vedano proprio all’orizzonte né al di là né al di qua dell’Oceano Atlantico.

Quello che sembra, invece, sempre più a rischio di deflagrazione della bolla speculativa relativa sembra proprio essere il mercato del petrolio, così come quello delle altre materie prime e delle derrate alimentari, con il prezzo del barile che ha chiuso con un’ulteriore flessione di 2 dollari al barile, portando a 25 dollari la discesa rispetto al massimo toccato poche settimane orsono, ma che nel corso della seduta è arrivato a perdere anche 4 dollari, alla luce di considerazioni sull’effettivo stato non esaltante della domanda a livello mondiale, considerazioni che non erano diverse quando vi era una gara tra previsori a chi sparava il prezzo prossimo venturo più alto, gioco che è divenuto esilarante quando sono scesi in campo gli esponenti dei maggiori paesi produttori di greggio che sembravano scambiare per realtà i loro più che comprensibili desideri.

Anche se, nel caso del petrolio e dei suoi derivati, non si è giunti ai disordini che hanno caratterizzato i paesi in via di sviluppo per ragioni legate al folle innalzamento dei generi alimentari di prima necessità, va comunque considerato che una sorta di sciopero della benzina si è verificato anche nei paesi maggiormente industrializzati, ma quello che ha fatto veramente impressione, e che ha fatto seriamente preoccupare i petrolieri, è stato un, seppur timido, impatto sullo stile di vita dei solitamente onnivori consumatori statunitensi che hanno cominciato a prediligere i risparmiosi modelli di piccola cilindrata e mandato a picco le vendite di quei giganteschi SUV o gipponi i cui consumi tanto fanno inorridire noi europei e i giapponesi.

Ma anche il sempre più netto rallentamento dell’export asiatico, nonché lo stop forzato della circolazione e dell’attività di migliaia di fabbriche operanti nell’area di Pechino per evitare che le gare olimpiche si svolgano in un nebbione, sta finalmente riconducendo a più miti consigli gli investitori istituzionali e le banche di ogni ordine e grado che pensavano, a spese del resto dell’umanità, di rifarsi almeno in parte delle perdite ingentissime che hanno già contabilizzato, ma ancor più di quelle che verranno alla luce nei prossimi trimestri.

Quello che, invece, gli operatori non vogliono proprio sentire sono i sempre più chiari segnali provenienti da una pattuglia sempre più folta di membri con diritto di voto nel Federal Open market Commitee della Fed che dicono, un giorno sì e l’altro pure, che non si possono più frapporre indugi rispetto alla necessità di rialzare i tassi di interesse, perché ormai è chiaro a tutti che l’onda lunga del rialzo dei prezzi, anche ove scoppiasse la bolla speculativa sul petrolio, minaccia sempre di più la stabilità dello stesso sistema sociale, né è tollerabile una situazione che vede i tassi del mercato monetario ufficiali negli Stati Uniti d’America negativi di 300 punti base.

La nuova idea di Paulson lascia molto più tiepidi i banchieri europei che sembrano molto più consapevoli del fatto che l’era della finanziarizzazione selvaggia sta ormai volgendo al termine e che sembrano molto più interessati a rifocalizzare le banche da essi gestite verso le molto più sicure attività retail, pur essendo allo stesso modo consapevoli che non è facile che sia possibile evitare i contraccolpi pesanti delle scelte sbagliate fatte nel recente passato, contraccolpi che si tradurranno inevitabilmente in un’accelerazione del processo di concentrazione in corso, un processo spietato e che impedisce di capire sin d’ora chi saranno i vincitori e che gli sconfitti.

Venendo alle cose di casa nostra, quella a cui stiamo per assistere in Mediobanca potrebbe essere la classica scena del canto del cigno, una scena che rischia seriamente di vedere come protagonista l’anziano banchiere di Marino, Cesare Geronzi, uno che non sembra essere del tutto consapevole di occupare la poltrona di presidente del Consiglio di Sorveglianza solo per decisione altrui, ma che, anzi, sembra credere di essere ancora saldamente assiso al timone della sua Capitalia, cosa che fa certamente infuriare l’ex enfant prodige della finanza italiana, Alessandro Profumo, che sembra proprio deciso ad approfittare di questa alzata di ingegno di Geronzi per regolare antiche pendenze non sanate dal matrimonio fulmineo tra la sua Unicredit e la stessa Capitalia, un matrimonio che ha contribuito non poco al vero e proprio meltdown della quotazione dell’azione in Borsa, passata da 7,75 a meno di 4 euro.

Di questa ennesima baruffa tra banchieri approfitterà certamente il Governatore della Banca d’Italia, che pure avversando il duale all’amatriciana, sembra sempre più intenzionato a favorire l’uscita di buona parte di coloro che sono legati alla lunga era della gestione Fazio, così come appare deciso a sbarrare la strada al ritorno dei protagonisti dell’era dei furbetti del quartierino.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

martedì 29 luglio 2008

L'ultima trovata della Spectre di Goldman Sachs si chiama Covered Bonds ma si legge Pfandbriefe!


Una volta occupati pressoché tutti i posti al vertice delle banche di investimento e delle maggiori banche commerciali statunitensi, la pattuglia degli uomini con provata e sicura esperienza nella preveggente e molto potente Goldman Sachs inizia a tirare le fila di un ambizioso progetto che punta a convincere gli oramai riottosi e molto diffidenti investitori e risparmiatori ad accettare una modifica soltanto nominalistica delle cosiddette assett backed securities che verrebbero sostituite dai covered bonds, ossia titoli il cui rendimento e la cui solidità continuerebbero ad essere garantiti da impieghi o da flussi di cassa della banca emittente, ma che resterebbero nel bilancio della banca emittente a differenza di quanto accadeva con ABS, LBO, Commercial Papers e chi più ne ha ne metta, evitando l’impacchettamento e la quasi istantanea vendita ad entità esterne, collegate o meno alla banca emittente.

Ovviamente, la proposta è venuta direttamente ieri dall’indiscusso regista di questa squadra di uomini (non risultano donne ex Goldman Sachs nel pacchetto di mischia) collocati in questi mesi, spesso in questi anni, ai vertici di Merrill Lynch, Wachovia Bank, Citigroup e via discorrendo, l’attuale ministro del Tesoro statunitense ed ex numero uno per lunga pezza della stessa Goldman, l’ineffabile Henry Paulson, un uomo che, per intenderci, ha rinunciato ad un appannaggio complessivo quale quello che è toccato al suo fortunatissimo successore Larry Blankfein e pari, nell’esercizio 2007, a 100 milioni di dollari tondi, tondi, per accontentarsi del ben misero appannaggio che spetta alle donne ed agli uomini che, ovviamente per puro spirito patriottico e di servizio, decidono di mettere le loro indiscusse e notevoli capacità al servizio dei loro concittadini, in quella che dovrebbe essere interpretata come un’attività pro bono che interrompe, spesso solo temporaneamente, carriere ricche di successi e di quattrini guadagnati letteralmente a palate.

Non sono così ingenuo da ignorare l’importanza della modifica in termini di rischio per il sottoscrittore di questa nuova (per modo di dire, in quanto esistono in Germania dal 1769 sotto il nome di Pfandbriefe, ma si legge fandebrife) tipologia di bond, in quanto, fermo restando il rischio di default dell’attività sottostante o il non raggiungimento degli obiettivi previsti in termini di cash flow che fossero stati messi a condizione per il pagamento delle cedole e/o del capitale, “dovrebbe”, il virgolettato ed il condizionale sono assolutamente d’obbligo, venir meno il cosiddetto rischio di controparte, non tanto perché gli emittenti non possano fallire, ma perché, come ha ben dimostrato l’esperienza dell’orso di Stearns, la ferma intenzione di Paulson, di Bernspan, di Effe O Ixs, di Bush e compagnia cantante è quella di erigere a sistema la a parole sempre aborrita tesi che vede la previsione del too big to fail.

I fulminei salvataggi del fondo LTCM nel 1998 e di Bear Stearns nell’inverno di questo orribile 2008, nonché il fatto che verranno fatti tutti gli sforzi possibili ed immaginabili per impedire che falliscano Fannie Mae e Freddie Mac, ed il contestuale fallimento, per ora, di ben sette medie e piccole entità creditizie determina una situazione che tecnicamente si chiama fly to qualità, dove la qualità non sta tanto nella solidità dei conti o nell’abilità gestionale, ma molto più prosaicamente nelle dimensioni raggiunte dall’entità finanziaria, che tornano a rappresentare l’unica ed indiscussa caratteristica meritevole di ogni attenzione da parte dei regolatori e dei governanti e se, come accade ai giorni nostri negli Stati Uniti d’America, da una parte e dall’altra della barricata vi sono solo persone legate da più o meno antichi vincoli di colleganza in una grande istituzione finanziaria quale certamente è Goldman, allora i risparmiatori hanno buone ragioni di fidarsi, sempre al netto della malaugurata ipotesi del default generale del sistema finanziario, ipotesi che, a tempesta perfetta in costante espansione da circa un anno, non può veramente essere esclusa da nessuno, economisti, analisti e giornalisti embedded alle logiche del capitale finanziario compresi.

Funzionerà l’ennesimo gioco di prestigio di Henry Paulson? E’ veramente arduo tentare di dare una risposta a questo cruciale interrogativo, anche se le precedenti performance da “politico” del nostro non sono state certamente all’altezza delle sue gesta come Chairman e Chief Executive Officer di Goldman Sachs, basti pensare al fallimento del Conduit dei Conduit o del SIV dei SIV partorito in un torrido week end del settembre dello scorso anno e miserevolmente abortito prima che venisse il Christmas Eve, o l’altrettanto fallimentare progetto pomposamente denominato Hope Now, con i suoi numeri verdi inutilmente presi d’assalto dai disperati mutuatari in procinto di cimentarsi con una procedura di esproprio, per non parlare delle molteplici dichiarazioni di Paulson che un mese sì e l’altro pure cercavano di convincere investitori e risparmiatori, ma soprattutto sé stesso, che vi era della luce in fondo al tunnel, con il piccolo particolare che affermazioni di questo tenore sono state di quantità superiore al numero di dodici che rappresenta i mesi che ci separano da quel 9 agosto del 2007 quando tutto ebbe inizio con il blocco totale della liquidità sul mercato interbancario dell’area dell’euro.

Nel frattempo, un altro dei ex (ma sono realmente ex o in Goldman si è in servizio permanente effettivo al di là del fatto di essere presenti a libro paga?) colleghi posto al vertice di una importante Investment Bank, quel John Thain che ha diviso buona parte della carriera con Paulson, per poi essere spedito prima alla guida del New York Stock Exchange e poi assurto ai vertici, con un contratto blindatissimo e remuneratissimo (premio di ingaggio da 15 milioni di dollari incluso), della un tempo potentissima ma oggi alquanto disperata Merrill Lynch, ha reso noto urbi et orbi che, dopo i disastrosi conti del secondo trimestre del 2008, la banca venderà buona parte dei suoi alquanto tossici titoli della finanza strutturata, il che prevederebbe, almeno stando agli esiti di realizzi del genere effettuati da altre banche globali, perdite che vanno, nella migliore delle ipotesi, dal 20 al 30 per cento della zavorra eliminata, anche se per alcune di queste schifezze, da poco classificate come Level 3, le perdite possono essere di gran lunga superiori, sino ad invertire la proporzione indicata sopra.

Oltre ad avere completamente sovvertito l’ideologia economica imperante negli States dai tempi della presidenza dell’alquanto mediocre attore di western, Ronald Reagan, un’ideologia che ha visto nella scuola di Chicago dominata da Milton Friedman ed in quella delle cosiddette aspettative razionali la grande rivincita del liberismo rispetto al rispetto che erano riuscite a conquistarsi le idee del mai troppo compianto John Maynard Keynes, più da morto, in verità, che da vivo, Paulson, Bernspan, Effe O Ixs e compagnia cantante sono riusciti, nel breve volgere di dodici mesi, a bypassare quelle poche regole che ancora resistevano in un mercato finanziario statunitense, vera ed insostuibile costola di quello globale, dopo quell’orgia di deregolamentazione che aveva consentito di cartolarizzare il cartolarizzabile, in modi e con formule sempre più astruse e spesso incomprensibili anche agli stessi apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto che le escogitavano, soprattutto se, come purtoppo in alcuni casi pare sia realmente accaduto, perdevano o inghiottivano il foglietto di carta che riportava la miscela tossica che componeva alcuni di questi prodotti della finanza strutturata!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

"Accattateve" le azioni delle locuste!


Uno dei più grandi fondi di private equity del mondo, il Kohlberg, Kravis, Roberts & Company (KKR), con una decisione che non può non essere considerata del tutto contro corrente, ha deciso di chiedere l’ammissione al New York Stock Exchange, entrando nello stesso listino che da tempo ospita il suo maggior rivale, il fondo Blackstone, che offrì al pubblico parte delle proprie azioni proprio alla vigilia dell’avvio della tempesta perfetta che, tra poco più di dieci giorni, compirà il suo prima anno di vita.

Vi sarebbe molto da dire sulla precedente quotazione di Blackstone, un evento caratterizzato da un tempismo perfetto per le locuste del fondo, ma veramente sciagurata per quanti si illusero di entrare in un club dei miliardari in dollari senza assolutamente esserlo e che hanno pagato caro ed amaro quell’atto che aveva alla sua base un mix di invidia sociale e di esibizionismo, condito da un pizzico di autolesionismo, ma la “fortuna” delle locuste presenta troppe assonanza con la preveggenza che ha ispirato i vertici di Goldman Sachs, prima, e del colosso creditizio extracomunitario UBS, poi, quando, tra settembre e novembre del 2006, decisero di girare improvvisamente le proprie posizioni, divenendo venditori di tutto il vendibile delle rispettive montagne di titoli della finanza strutturata che avevano allestito nelle loro fabbriche prodotto e che iniziavano decisamente a puzzare di marcio lontano un miglio.

Non annoierò i lettori con le complesse tecnicalità dell’operazione messa in piedi da KKR per giungere alla quotazione nell’ultimo scorcio di questo orribile 2008, veramente anno bisesto, anno funesto, mediante l’assorbimento del suo American Investmen Fund, attualmente quotato alla borsa di Amsterdam, un fondo che deve valere oramai ben poco se la combinazione con il KKR viene valutata da fonti vicine all’operazione tra i 15 ed i 19 miliardi di dollari, una cifra che supera di poco la forchetta esprimente il valore del solo KKR e che è compresa tra i 12 ed i 15 miliardi di dollari.

A lume di naso, non credo proprio che i sempre più inquieti risparmiatori ed investitori statunitensi ed europei faranno la fila per sottoscrivere le “nuove” azioni che tra breve verranno offerte al pubblico e non solo per la ben triste avventura vissuta da coloro che si strapparono letteralmente di mano le azioni di Blackstone poi repentinamente precipitate, bensì per la semplicissima ragione che, in questi tempi di drammatico credit crunch, le intraprese delle locuste sono pressoché impossibili, in quanto i miliardari che hanno fondato questi organismi non hanno quasi mai utilizzato le disponibilità dei fondi per compiere le loro mirabolanti imprese, quasi tutte realizzate a buffo e/o mediante l’emissioni di titoli di debito (gli ormai famigerati LBO) che nessun investitore è così matto da acquistare,

Come diceva spesso Leonardo Sciascia, quando chiedeva che sulla sua lapida venisse scritto “vissi e mi contraddissi, è proprio vero che è meglio non dire mai qualcosa in modo troppo tassativo, e se qualcuno non ci crede, basterebbe scorrere un dispaccio di agenzia di oggi, a firma David Kaufman, che rende noto che i disastrati fondi di investimento americani di grandi dimensioni, le cui quote vantano valori irrimediabilmente molto ma molto più in basso dei massimi toccati prima della tempesta perfetta, stanno facendo in questi giorni incetta delle azioni delle quattro superstiti Investment Banks statunitensi, scommettendo sull’ipotesi, peraltro molto probabile, di una proroga dell’aiutino che Effe O Ixs (al secolo, Christopher Cox, capo indiscusso della Sec) ha fornito loro nei giorni scorsi e che dovrebbe irrimediabilmente venire a scadenza domani, incuranti del fatto che la diga contro i ribassisti ha funzionato abbastanza bene nelle prime tre sedute, mentre non è riuscita ad impedire il tracollo delle quotazioni delle maggiori entità finanziarie nelle tre sedute successive.

Devo, tuttavia, riconoscere che vi sono delle ragioni alla base di questa apparentemente folle decisione, in quanto essendo, come tutti oramai sanno a causa della spiata degli economisti del Fondo Monetario Internazionale, destinatari, insieme ai fondi pensione, di qualcosa come mille miliardi di dollari di perdite, gli amministratori dei grandi fondi di investimento forse fanno bene a sostenere Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merrill Lynch e Morgan Stanley, per il semplicissimo motivo che i loro destini sono ormai strettamente intrecciati e, così, ridare fiato alle malandate Investment Banks potrebbe anche rivelarsi, insieme alla compiacenza dei regolatori e del Governo degli Stati Uniti d’America, una delle ultime possibilità per evitare l’altrimenti inevitabile default dei fondi stessi.

I miei pochi ma affezionati lettori conoscono sin troppo bene la mia opinione su questa misura asimmetrica ed a lungo andare del tutto inefficace, al pari delle scomposte mosse della Federal Reserve di un Bernspan che, passata finalmente la fase del panic cutting, non sa più cosa fare ed è unito al ministro del Tesoro, l’ineffabile Henry Paulson, da un vero e proprio sentimento di odio nei confronti del collega europeo jean Claude Trichet, uno che sarà pure germanizzato e con il complesso di inferiorità nei confronti della Bundesbank, ma ha visto la sua immagine e quella della Banca Centrale Europea crescere a dismisura in questo lunghissimo anno, incurante del tutto degli attacchi che il più che decisionista Sarkozy ed altri premier europei gli muovono un giorno sì e l’altro pure.

Ma un suggerimento a Effe O Ixs mi sento proprio di darglielo e consiste nella banale considerazione che il suo provvedimento nei confronti dei venditori allo scoperto che, lo ricordo, devono versare come margine di garanzia il 50 per cento della loro scommessa, fa brillare come uno specchio al sole l’esiguità del marine del 5 per cento appena richiesto a coloro che vogliono avventurarsi, via derivati, nelle scommesse sul prezzo del petrolio, influenzandone, e non di poco, il prezzo al barile, così come quello delle altre materie prime sulle quali è possibile operare in questo modo ed. ahimé, anche quello delle derrate alimentari che sta determinando una situazione di rischio di vita per centinaia di milioni di esseri umani, in aggiunta a quanti erano già in questa tristissima condizione anche prima della tempesta perfetta.

Avendo da tempo deciso di non consentire i commenti al blog, vorrei prevenire l’obiezione di quanti ritengono che il mio giudizio sulla recente legge che stanzia 300 miliardi di dollari in favore dei mutuatari in difficoltà e delle tecnicamente fallite Fannie Mae e Freddie Mac (chissà perché nessuno parla mai dell’altrettanto disastrata Sallie Mae che si occupa meritoriamente degli studenti universitari?) sia eccessivamente severo; obiezione corretta in linea di principio, ma che ignora che nel settembre del 2007 la responsabile dell’ente federale che si occupa del settore immobiliare aveva, con l’intelligenza ed il senso pratico che caratterizza le donne, elaborato un progetto molto più efficace che consisteva nel favorire la rinegoziazione di tutti i mutui, evitando così gli almeno due milioni di espropri verificatisi nei mesi successivi, progetto molto apprezzato ma accantonato!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

domenica 27 luglio 2008

Piccole banche falliscono, banche globali tremano!


Alla legge che stanzia una somma considerevole che dovrebbe aiutare 400 mila famiglie statunitensi ad evitare l’esproprio della propria abitazione manca oramai solo la firma del presidente Bush, il quale non solo ha reso noto nei giorni scorsi che non avrebbe posto il più volte minacciato veto al provvedimento, ma, pressato dal ministro del Tesoro statunitense, Henry Paulson, ha fatto la sua parte affinché venisse finalmente data una risposta almeno ad una parte delle milioni di famiglie che rischiano seriamente di perdere la casa, come è già avvenuto per altre milioni di famiglie, come testimoniato dall’alluvione di procedure di esproprio delle case dei mutuatari in difficoltà, procedure che non accennano ad esaurirsi, ma che, anzi, hanno toccato in giugno un nuovo picco di fase e sono risultate il triplo di quelle quello registrate nello stesso mese del 2007.

Il fatto che la situazione sia alquanto drammatica proprio in stati come la California e la Florida è,d’altra parte, molto significativo, in quanto si tratta non solo delle due realtà geografiche degli Stati Uniti d’America che avevano forse rappresentato meglio la virulenza della crescita della bolla speculativa nel settore immobiliare ormai irrimediabilmente esplosa, ma anche dei due stati nei quali maggiore era stato l’attivismo di una pletora di banche e di finanziarie che avevano seguito una politica dell’offerta molto aggressiva, giungendo ad offrire mutui a chiunque mediante sollecitazioni telefoniche ed allettanti depliant infilati nella buca delle lettere dei possibili, a volte anche molto improbabili, mutuatari.

Non è così un caso che, nell’ennesimo caldo week end da quando è iniziata la tempesta perfetta, altre due banche di non rilevanti dimensioni hanno dovuto chiudere i battenti per decisione della Federal Deposit Insurance Corporation, l’equivalente statunitense del fondo interbancario di garanzia italiano, anche se stavolta si è trovato un acquirente nella Mutual of Omaha, per cui i depositanti della First National Bank of Nevada e dell’Heritage Fund, due entità che vantavano complessivamente 28 filiali, vedranno garantiti integralmente i propri depositi, anche oltre i 100 mila dollari che rappresentano il limite dell’intervento del FDIC, il che li pone in una situazione di maggior favore rispetto ai depositanti della banca californiana fallita nelle settimane scorse e per la quale non è stato possibile, anche alla luce delle ben maggiori dimensioni, trovare uno straccio di acquirente.

Inizia, quindi, domani nel modo peggiore la penultima settima che precede il primo anniversario della più grave crisi finanziaria dalla fine della seconda guerra mondiale, che, lo ricordo, viene datata al 9 agosto del 2007, il giorno nel quale il mercato interbancario si trovò in un’inedita situazione di totale blocco della liquidità e, anche a causa dell’assenza per ferie di tutti i membri del Board, un semplice dirigente della Banca Centrale Europea, l’italiano Papadia, fu costretto a prendere la decisione della sua vita, immettendo, dopo un frenetico giro di telefonate con i vertici dell’istituto con sede a Francoforte, liquidità per un ammontare pari ad una volta e mezzo quanto venne messo a disposizione delle 46 banche operanti in prima persona sul mercato dell’euribor dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, l’attacco, cioè, portato dall’organizzazione più pericolosa del fondamentalismo islamico al cuore degli Stati Uniti d’America.

Quella che si apre domani è, inoltre, anche la settimana in cui va a scadenza, il giorno 29, il provvedimento di emergenza con il quale Effe O Ixs (al secolo, Christopher Cox, capo della Securities and Exchange Commission ed un'autenitca fox) ha posto le briglia all’esercito di accaniti ribassisti, impedendo di fatto e di diritto la vendita allo scoperto di diciannove entità operanti nel mercato finanziario statunitense, un numero che include tutte le superstiti Investment Banks, le maggiori banche commerciali statunitensi, Fannie Mae e Freddie Mac, nonché qualche banca europea.

Non so se, anche alla luce dell’esaurirsi in tempi molto rapidi del rimbalzo drogato delle quotazioni di queste entità che hanno vissuto momenti molto drammatici nelle ultime sedute della scorsa ottava, il provvedimento verrà prorogato, come chiedono ovviamente a gran voce gli alquanto disperati vertici di gran parte delle diciannove entità beneficiate e che temono come la peste il ritorno in pista di David Einhorn e di quella vasta schiera di miliardari in dollari che si sono messi sulla sua scia nel settembre del 2007, quando il giovane e ricchissimo hedge funder dichiarò al mondo intero la sua ferma intenzione di giocare al ribasso contro un indeterminato ma folto numero di entità finanziarie statunitensi e globali (il numero esatto forse ce lo ha, involontariamente, fornito lo stesso Effe O Ixs), ma sono certo che da simili e molto asimmetriche misure non è mai venuto nulla di buono, come ho dovuto constatare nella mia non breve attività di central banks watcher, in particolare nei momenti in cui i central bankers ed i governi dei paesi maggiormente industrializzati entrano nel panico.

Comunque vada, per non sapere né leggere né scrivere, sono stati ammassati nuovi sacchetti di sabbia alle finestre dei grattacieli che ospitano le lussuosissime sedi delle quattro Investment Banks e altrettanto sta avvenendo nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, così come ci si sta preparando al peggio nelle sedi delle maggiori compagnie del mondo, nelle monoliner, nel frattempo, si vive questa condizione da oltre sei mesi, e mentre i fondi di investimento ed i fondi pensioni statunitensi iniziano a temere i devastanti effetti sui loro già pencolanti conti dello scoppio della bolla petrolifera che essi stessi hanno contribuito a formare, una bolla che si è già sgonfiata di ben 24 dollari rispetto all’assurdo record toccato non molte sedute orsono, una flessione non molto distante dal 20 per cento e che, per le tecnicalità proprie del mercato dei derivati, ha già determinato perdite di non poco momento per quanti, e non sono pochi, si è inserito nel pericolosissimo gioco di recente.

Sarei molto curioso di conoscere le determinazioni dei severissimi vigilanti sul mercato basato a Chicago, quegli stessi soloni che misero il sale sulla coda del defunto Raul Gardini o su quelle dei fratelli Hunt, quando gli sventurati raiders ebbero l’ardire di monopolizzare il monopolizzabile nella soia il primo e nell’argento i secondi, costringendoli, in tempi non troppo lontani da quei provvedimenti, ad andare incontro alla triste esperienza del fallimento, una decisione che, almeno nel caso del simpatico corsaro accasatosi in Ferruzzi, lo portò ad una morte che rimane tuttora un mistero per quanti lo hanno conosciuto o, come nel mio caso, ne hanno seguito attentamente le gesta dalle colonne de Il Manifesto, quotidiano con il quale ho collaborato per tre anni.

Non mi sono occupato dei numerosi articoli che vedono negli effetti della tempesta perfetta le cause di un numero crescente di fallimenti matrimoniali di numerosi banchieri, finanzieri e, più in generale, di persone ai vertici di Wall Street, anche perché considero molto scontata tale evoluzione dei sentimenti alla luce del fatto che, da poco meno di dodici mesi, queste persone non possono permettersi un week end degno di questo nome, per non parlare poi di un meritato periodo di vacanze e di relax, e questo le mogli non possono in alcun modo accettarlo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

sabato 26 luglio 2008

Continua il meltdown del settore immobiliare


Oramai è in atto una vera e propria corsa contro il tempo tra il Congresso degli Stati Uniti d’America e l’alluvione di procedure di esproprio delle case dei mutuatari in difficoltà, procedure che hanno toccato nel mese di giugno un livello pressoché tre volte superiore a quello registrato nello stesso mese del 2007, mentre nel secondo trimestre di questo orribile 2008 il numero di espropri da parte dei creditori ha superato del 14 per cento il già elevatissimo livello toccato nel primo trimestre, mentre supera del 121 per cento le foreclosure registrate nel secondo trimestre del 2007, un periodo significativo in quanto precede di soli 40 giorni quel 9 agosto dello stesso anno, quando il mercato interbancario si trovò in un’inedita situazione di blocco della liquidità e la banca Centrale Europea fu costretta ad immettere liquidità per un ammontare pari ad una volta e mezzo quanto mise a disposizione dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, l’attacco, cioè, portato dall’organizzazione più pericolosa del fondamentalismo islamico al cuore degli Stati Uniti d’America.

Come è ben noto, caduto il veto presidenziale nei confronti del provvedimento che stanzia una somma considerevole che dovrebbe aiutare 400 mila famiglie statunitensi ad evitare l’esproprio della propria abitazione, la stessa è stata approvata a larghissima maggioranza dalla camera dei rappresentanti, ma manca ancora il definitivo via libera da parte del Senato, ed è per questo che gli autori del provvedimento hanno rivolto un pressante invito alle entità che hanno concesso i mutui nei confronti di quanti stanno ritardando od omettendo del tutto i pagamenti delle rate del mutuo a concedere ai ritardatari il tempo necessario per verificare se la nuova legge, una volta introdotta, sarà applicabile nel loro caso.

Se si esce dal numero globale di espropri, pari a 220 mila in un solo mese, e si volge lo sguardo alla articolazione territoriale di questo triste fenomeno, la situazione si presenta immediatamente in tutta la sua gravità, in quanto vi è un netto peggioramento in 48 stati ed in 95 aree metropolitane sulle 100 aree prese in considerazione dalla società specializzata che da qualche anno tiene la contabilità di questi eventi che minano profondamente la fiducia dei cittadini americani, colpendo uno degli elementi portanti dell’American Dream.

In un mercato finanziario globale talmente malmesso da tendere sempre più spesso a riconsolarsi con l’aglietto, non pochi commentatori hanno visto segni di luce in fondo al tunnel, attaccandosi ad un rimbalzo degli ordini di beni durevoli in giugno largamente legato agli ordini per la difesa, nel recupero dai minimi della fiducia dei consumatori, sempre in giugno, largamente spiegabile con il rimborso fiscale effettuato il mese precedente per decisione congiunta del Governo e del Congresso o in una flessione minore del previsto della vendita di nuove case, dimenticandosi che il ben più significativo indicatore rappresentato dalla vendita di case esistenti, nonché il prezzo mediano a cui si effettuano le sempre minori vendite, sono entrambi scesi e non di poco nello stesso mese preso in esame.

Come ben sanno i miei pochi ma affezionati lettori non appartengo alla schiera di quanti vedono nel meltdown del settore immobiliare statunitense la causa della tempesta perfetta in corso, in quanto la tanto strombazzata ed amplificata questione dei mutui sub prime o dei micidiali ARM, o di quella stravagante invenzione appena dimessa dalla Wachovia Bank che l’aveva ereditata da un’entità finanziaria acquistata a carissimo prezzo nel 2006 non sono stati, mettendo nel mazzo anche i ricorsi a catena alla protezione della legge fallimentare statunitense da parte di un numero rilevantissimo di entità specializzate nel mortgage, che l’ultima goccia del più che colmo vaso di Pandora della finanza strutturata, che presenta un ammontare di problemi che supera di poco meno di cento volte l’ammontare complessivo di sub prime e altri mutui a rischio a causa dei micidiali meccanismi contrattuali in termini di tasso di interesse previsti.

C’è, tuttavia, un brandello di verità nella tesi che vede nel fragoroso scoppio della bolla immobiliare statunitense l’innesco delle turbolenze che stiamo vivendo da poco meno di un anno, ma lo stesso vale per tutte quelle forme di credito al consumo, più o meno finalizzate all’acquisto di un bene a sua volta a carattere più o meno durevole, il gigantesco outstanding delle carte di credito del micidiale tipo revolving e chi più ne ha ne metta, in quanto crediti per migliaia, se non decine di migliaia di miliardi di dollari, sono stati prontamente impacchettati in quei prodotti della finanza strutturata anche molto complessi frutto delle fatiche degli apprendisti stregoni delle Investment Banks e/o delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, molte delle quali basate al di fuori degli USA.

L’insieme delle notizie diffuse ieri ha creato un iniziale, anche se molto timido, tentativo di rimbalzo dei tre principali indici azionari statunitensi dopo il vero e proprio tracollo registrato giovedì, quando si è potuto constatare che a poco servono misure quali quelle escogitate da Henry Paulson, ministro del Tesoro statunitense, e Christopher Cox (meglio noto come Effe O Ixs) numero uno della potente ma molto distratta Securities and Exchange Commission, un duo che ha cercato di mettere le briglie a quello che è divenuto ormai un vero esercito di convinti ribassisti, in larga parte emuli del multimiliardario ed hedge funder David Einhorn, uno che, come scrivevo nella puntata di ieri, della tempesta ha capito tutto da subito e che ebbe l’ardire di svelare urbi et orbi, nel lontano mese di settembre del 2007, la sua intenzione di puntare su flessioni mostre se non sul fallimento di un numero indeterminato di entità operanti nel mercato finanziario statunitense, vera costola del mercato finanziario globale.

Ma non altrettanta fortuna è toccata alle azioni delle maggiori entità operanti nel settore finanziario statunitense, vera costola del mercato finanziario globale, in quanto anche ieri si è registrata una forte flessione delle quotazioni di queste banche di investimento, banche più o meno globali, le disastrate e tecnicamente fallite Fannie Mae e Freddie Mac, entità che, in più di un caso, sono tornate a testare verso il basso i minimi di fase recentemente toccati prima del tentativo un po’ drogato di rimbalzo registrato nelle prime sedute di questa settimana.

Pur essendovi sempre più chiare evidenze del verificarsi di questo fenomeno, è parecchio tempo che non parlo dell’effetto domino, una spirale micidiale per le economie dei paesi maggiormente industrializzati e che vede una catena di azioni e reazioni inizialmente basate sugli effetti psicologici derivanti dallo scoppio repentino di una bola specultativa, fenomeno che diventa realmente devastante quando a scoppiare sono un certo numero di bolle, delle quali, quella finanziaria, era ormai giunta ad un livello del tutto insostenibile.

Credo sia proprio il caso di segnalare l’ulteriore flessione del prezzo del greggio che ieri ha tentato di sfondare verso il basso anche la soglia dei 123 dollari al barile, per poi chiudere appena al di sopra di tale livello che si pone comunque ben 24 dollari al di sotto del massimo storico.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

venerdì 25 luglio 2008

UBS, You & US, sempre più nei guai negli States!


Il vero e proprio tracollo dei tre principali indici azionari statunitensi registrato ieri fa definitivamente giustizia del tentativo che Henry Paulson, ministro del Tesoro statunitense, e Christopher Cox (meglio noto come Effe O Ixs) numero uno della potente ma molto distratta Securities and Exchange Commission hanno messo in piedi per mettere le briglia alla crescente schiera dei ribassisti che ormai vedono come un vate indiscusso il multimiliardario ed hedge funder David Einhorn, uno che della tempesta ha capito tutto da subito e che tenne una quasi conferenza stampa nel lontano mese di settembre del 2007 per rendere nota al mondo la sua intenzione di shortare lo shortabile con riferimento ad un numero indeterminato di entità operanti nel mercato finanziario statunitense, vera costola del mercato finanziario globale.

D’altra parte, i limiti temporanei posti alle vendite allo scoperto delle azioni delle diciannove entità più importanti operanti nel settore creditizio e finanziario statunitense, così come l’inclusione in questo gruppo di importanti gruppi bancari basati in Europa, non erano riusciti che a dare una temporanea e molto limitata boccata di ossigeno alle quotazioni di queste banche di investimento, banche più o meno globali, le disastrate e tecnicamente fallite Fannie Mae e Freddie Mac, rialzi pressoché annullati nella sola seduta di ieri, anche per le disastrose notizie provenienti da quello che è ormai definibile come il meltdown del settore immobiliare negli USA ed il balzo in avanti dei sussidi di disoccupazione settimanali, balzati oltre la soglia psicologica delle 400 mila unità e con lo stock delle quattro settimane ormai stabilmente sopra l’altrettanto psicologico livello dei 3 milioni di richiedenti aiuto.

Ma prosegue anche la vera e propria strage di Chief Executive Officer e Chief Financial Officer, mentre conforta molto la notizia che nessuno, tranne il numero uno di quella Lehman Brothers di nuovo a rischio di finire a zampe all’aria, trova il coraggio di toccare le donne e gli uomini che ricoprono il delicatissimo ruolo che nella smania definitoria americana viene definito Chief Operating Officer, figura caratteristica delle Investment Banks e delle divisioni Corporate & Investment banking delle banche più o meno globali, una figura talmente cruciale nella Investment Bank delle Investment Banks, Goldman Sachs, ha deciso di averne ben due, talmente gemelli da meritare lo stesso mega compenso di 70 milioni di dollari complessivi nel corso del 2007.

L’ultima vittima in ordine di tempo è il CFO di Wachovia Bank, reduce da una perdita veramente record nel secondo trimestre di questo orribile 2008, disgrazia non si sa quanto paragonabile con la decisione repentina di assumere come numero uno il braccio destro di Henry Paulson.al Tesoro, ma suo antico partner e sodale sin dai tempi delle comuni avventure corsare ai vertici di Goldman Sachs, un uomo certamente molto abile nel fissare i suoi astronomici compensi prossimi venturi, certamente stellari rispetto ai ben miseri compensi previsti dall’incarico di sottosegretario nel dicastero economico statunitense, ma altrettanto voglioso di mostrare chiari segni di discontinuità gestionale rispetto al suo predecessore Thompson e poco incline a tenersi sul groppone le donne e gli uomini da questi nominati nelle posizioni chiave, così come si è bellamente esercitato nel solito giochetto di appesantire il primo bilancio trimestrale da lui firmato senza colpe, per creare così un’opportuna base per i successivi confronti.

E’ con vero piacere che rendo noto ai miei pochi ma fedeli lettori che la bella, giovane e brava, ma forse troppo loquace e comunicativa, Erin Callan ha riconquistato la posizione di Chief Financial Officer che le era stata bruscamente tolta tra una conference call e la pubblicazione dei dati del secondo e tremendo secondo trimestre di Lehman Brothers, dovendo attendere poco più di qualche settimana per essere assunta, sempre come CFO, di Credit Suisse First Boston.

Ma se una banca svizzera ha fatto un acquisto così interessante, per il colosso creditizio extracomunitario UBS sembra proprio che quella americana stia diventando una terra maledetta, pizzicata per aver favorito l’esportazione illecita di capitali verso accoglienti paradisi fiscali di non meno di 20 mila infedeli contribuenti statunitensi, è sta messa sotto processo dal nuovo sceriffo di New York, il giovane ed ambizioso figlio dell’ex Governatore democratico Mario Cuomo, per avere venduto titoli della finanza strutturata per 37 miliardi di dollari a 50 mila suoi clienti americani nell’inverno 2007, mentre nello stesso periodo i suoi manager si precipitavano a liberarsi di robaccia del genere, cosa che il giovane Cuomo ha trovato non proprio carina e, almeno secondo il suo personale giudizio di procuratore generale, del tutto illegittima.

Le proteste di rito di UBS, You & US, somigliano troppo alle sue proclamazioni di totale estraneità alle esportazioni pilotate di capitale sentite nei mesi scorsi, dichiarazioni che non hanno impedito agli impudenti alti esponenti dell’amministrazione americana che hanno preteso ed ottenuto il rispetto della convenzione di assistenza stipulata nel 2001 con una Confederazione elvetica ansiosa di non finire nella black list dei Paesi le cui banche non guardano in faccia a nessuno ma prendono soldi proprio da tutti, tipacci compresi, così come non ha stupito l’autonoma decisione di UBS di rinunciare a svolgere negli Stati Uniti d’America la delicata attività di spallonaggio che tanto ha fatto infuriare il Fisco americano che, in questo, non è certo secondo alla determinatissima Frau Merkel, una che un altro po’ muoveva guerra ai principati del Liechtenstain e di Montecarlo, fermando per ora i carri armati ed accontentandosi dei risultati dell’alacre lavoro dei suoi 007.

Certo, come sostengono in forma anonima gli alquanto disperati investment bankers, non è facile in un’attività di gestione dei patrimoni che riguarda ammontari complessivi che, a livello mondiale, si aggirano intorno alla astronomica cifra di 150 mila miliardi di dollari distinguere facilmente i buoni dai cattivi, ma suggerirei loro di stare attenti alle persone dal marcato accento russo, colombiano, afgano, ai tanti dittatori degli stati più o meno di bananas, ai ben vestiti e spesso titolati mercanti di armi, ai nuovi ricchi dei paesi dell’Est Europa e via discorrendo, anche perché, mediante un’opportuna ed attenta selezione della clientela, si può forse tutelare meglio la reputazione del buon nome dell’istituzione finanziaria cui si appartiene e non si crea disagio tra gli “onesti” miliardari che non amano proprio essere accomunati a questa creme de la creme del riciclaggio internazionale del denaro di provenienza dubbia se non del tutto illecita.

Tra le tante forme di attivismo della “nuova” Banca d’Italia vi è, peraltro, quella stimolata dall’inchiesta Alce Nero disposta dagli inquirenti della Procura di Forlì, ben supportati dagli uomini della Vigilanza e da quelli del riformato Ufficio Italiano dei Cambi, un organismo alla cui guida è stato chiamato l’uomo che ha vanificato le trame di Consorte, Fiorani e dei furbetti del quartierino e che non ha trovato carino che le banche italiane avessero omesso di classificare le numerosissime banche e finanziarie della Repubblica di San Marino non come controparti estere quali sono, ma come finanziarie italiane per le quali non è richiesta la segnalazione all’UIC, che, lo ricordo ai più distratti, svolge per l’Italia il medesimo ruolo che L’FBI svolge negli Stati Uniti d’America.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

E' già fallita la furbata di Effe O Ixs?


Come usano dire gli operatori più smaliziati, “buy the rumor sell the news” ed è esattamente quanto sta avvenendo in relazione alla più che prevedibile caduta del più volte minacciato veto presidenziale nei confronti del disegno di legge parlamentare, appena passato a stragrande maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, per aiutare un numero non marginale di mutuatari ad evitare l’apertura della procedura denominata foreclosure, una procedura che, nella maggior parte dei casi, si conclude tristemente con la messa all’asta della casa da parte della banca o della finanziaria che ha concesso il mutuo e che colpisce famiglie che spesso, oltre la casa, hanno perso almeno uno dei lavori di qualcuno dei componenti del nucleo familiare.

La difesa delle diciannove maggiori entità del mercato finanziario statunitense, anche se nel novero sono inclusi alcuni dei maggiori colossi creditizi europei, da parte delle nuove e molto più restrittive regole imposte dalla Securities and Exchange Commission, guidata dall’improvvisamente risvegliatosi Effe O Ixs mostra già i limiti intrinseci in ogni regola che venga imposta mentre la partita è già, e da molto tempo, iniziata, una misura che, lo ricordo nuovamente, non è mai stata applicata quando il mercato andava in ben altra direzione e denotava segni inequivocabili di esuberanza irrazionale che hanno portato più volte dritti, dritti verso la creazione delle numerose bolle speculative poi inevitabilmente scoppiate nel 1987, nel 1998 e, con effetti veramente devastanti, nel 2000-2001, quando il Nasdaq sprofondò in poco tempo dal massimo storico di 5.200 punti a poco più di 1.300 punti, perdendo così i tre quarti del suo valore massimo.

Se qualcuno seriamente pensava di tagliare le lunghe unghie di David Einhorn o di quel folto gruppo di miliardari in dollari che ne seguono da molti mesi le mosse dichiaratamente ribassiste nei confronti di un numero imprecisato, ma sufficientemente ampio, di Investment Banks, banche più o meno globali, delle tecnicamente più che fallite Fannie Mae e Freddie Mac, ebbene, questo qualcuno dimostra una profonda ignoranza dei meccanismi del mercato, un’ignoranza almeno pari a quella dimostrata dalle convulse e scomposte mosse dei banchieri centrali a difesa di un dollaro che, ove si ragionasse sulla base dei fondamentali, potrebbe tranquillamente veleggiare verso un cambio di 2 per un euro, così come potrebbe sfondare verso il basso il livello dei 100 yen per dollaro.

Non ho scelto del tutto a caso di interrompere per ben cinque puntate il resoconto di un mercato finanziario globale letteralmente drogato dalle manovre delle banche centrali e dalle decisioni veramente asimmetriche della Sec, volgendo lo sguardo a quanto sta avvenendo nel sistema bancario italiano (termine che abbandonerò volentieri quando le banche che ne sono grande parte, così come le compagnie di assicurazione mostreranno, nei fatti e non a chiacchiere, di adottare comportanti ispirati alle best practices internazionali), un sistema nel quale la terza fase del processo di ristrutturazione, basata prevalentemente su di una conventio ad excludendum pregiudiziale nei confronti delle banche straniere, incluse quelle basate nell’area dell’euro o negli altri paesi dell’Unione europea, sembra giungere agli sgoccioli, anche grazie alla manovra a tenaglia attuata da Draghi, Catricalà e Tremonti, nonché al maggiore attivismo della Consob e, almeno negli ultimi tempi, della stessa Isvap che per lungo tempo è sembrata troppo attenta alle esigenze dell’associazione di categoria delle compagnie di assicurazione.

Tale mia scelta editoriale è stata dettata essenzialmente da una valutazione che vedeva la totale inutilità di mettere a dura prova la pazienza dei miei lettori in relazione a movimenti dei listini azionari statunitensi, con particolare riferimento alle diciannove entità poste sotto protezione dallo sforzo congiunto di Fed, Sec e di quel ministro del Tesoro statunitense di cui tutto si può pensare meno che sia in grado di dimenticare gli interessi della Ditta per la quale ha lavorato per buona parte della sua vita, quella Goldman Sachs che corre seriamente il rischio di finire sul banco degli imputati per le sue responsabilità in merito all’avvio della tempesta perfetta, ma soprattutto per avere svolto un ruolo fondamentale nella creazione di quella vera e propria montagna di titoli della finanza strutturata che sta rischiando di rendere del tutto insolubile la più grave crisi finanziaria dalla fine del secondo conflitto mondiale.

A costo di risultare noioso, continuo a ripetere che, in assenza di una rilevantissima contrazione del valore nominale di questi titoli, l’introduzione di regole molto severe per il domani e l’accertamento senza reticenze e timori delle responsabilità individuali ed aziendali che ci hanno portati sull’orlo del burrone o, come dicono i catastrofismi, ben oltre l’ultimo centimetro che separa la terra dal vuoto, anche se non posso non prendere atto che anche gli economisti di chiara fama che pensavano di risolvere tutto con una riedizione di una sorta di Piano Brady hanno, alla fine, dovuto ammettere che l’ordine dei problemi è come minimo decine e decine di volte superiore a quello che fu forse il più grande sforzo dei paesi maggiormente sviluppati per venire incontro all’insostenibile indebitamento dei paesi in via di sviluppo.

Desta una certa impressione assistere a flessioni che si aggirano intorno al 20 per cento per Fannie Mae e Freddie Mac, pur restando i volumi largamente inferiori a quelli che si registravano nelle settimane passate per la presenza delle micidiali bordate di Einhorn e compagni, segno inequivocabile del fatto che a non credere più nelle possibilità di una soluzione in bonis per le due entità semipubbliche sono gli stessi disperati azionisti, che sanno benissimo che, in caso di salvataggio, la prima cosa a polverizzarsi è proprio il valore delle azioni che si sono ostinati a mantenere anche quando era ormai chiaro che difficilmente le autorità monetarie avrebbero potuto estendere la garanzia federale ai 5,200 miliardi di titoli emessi da Fannie Mae e Freddie Mac, per la semplice ragione che il limite costituzionale a 9 mila miliardi di dollari, livello a cui il debito pubblico statunitense è oramai vicinissimo, non consente, in un anno che vede una feroce competizione elettorale, essere travalicato do oltre il cinquanta per cento.

Né aiuta il depresso clima psicologico degli operatori e degli investitori lo scenario disegnato dall’ultima edizione del Beige Book della Federal Reserve e il moltiplicarsi delle dichiarazioni di membri del Federal Open Market Committee che ritengono non più dilazionabile l’avvio di una stretta monetaria, per la semplicissima ragione che non è pensabile protrarre oltre un livello dei tassi a brevissimo negativi, ove espressi in termini reali, per 300 punti base.

Come avevo più volte sostenuto, la nuova enorme bolla speculativa verificatasi, via derivati, sul prezzo del petrolio e delle altre materie prime, derrate alimentari tragicamente incluse, sta sgonfiandosi rapidamente, con un calo di 20 dollari al barile in un numero tutto sommato limitato di sedute, il che apre scenari alquanto catastrofici per quella pletora di investitori istituzionali, inclusi un buon numero di fondi pensione, che aveva deciso di rifarsi di almeno una parte dei circa mille miliardi di dollari di perdite che, alla fine della fiera, dovrebbero affliggerle, contro i “soli” 400 miliardi attribuibili alle istituzioni finanziarie, ma quello che è grave è che nessuno ha ancora imposto un innalzamento dei margini di garanzia dal misero 5 per cento attualmente previsto.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

giovedì 24 luglio 2008

Riusciranno Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà a correggere le anomalie del sistema bancario italiano? (quinta ed ultima parte)


Temevo proprio che le quattro puntate pubblicate sino ad ieri sullo sforzo, compiuto nei rispettivi ambiti di responsabilità, dal Governatore della Banca d’Italia, Merio Draghi, il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, ed il, per la terza volta, ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, per affrontare le molteplici criticità tuttora esistenti nel settore creditizio italiano a quasi venti anni dall’avvio del processo di privatizzazione e ristrutturazione del sistema bancario italiano non avrebbe suscitato l’interesse dei lettori nei 28 Paesi che, oltre che dall’Italia, si collegano quotidianamente al blog, ma la lettura delle statistiche gratuitamente offertemi dal mio provider Google mi hanno convinto che l’interesse di quanti operano all’estero per le vicende italiane è reale ed attento, anche alla luce dell’integrazione crescente esistente nell’ambito del mercato finanziario globale.

Prevengo l’obiezione relativa all’eccessiva attenzione alle mosse di Draghi rispetto a quelle degli altri due protagonisti del tentativo di utilizzare lo scenario offerto dalla terza fase del processo di ristrutturazione in corso nel sistema creditizio per “picconare” gli elementi residui di oligopolio collusivo tuttora esistenti nel settore creditizio italiano, ma questo diverso peso nasce dalla evidente differenza di ruolo esistente tra le tre cariche da essi ricoperte, nonché dalla determinazione che Mario Draghi ha dimostrato, sin dal giorno del suo insediamento a palazzo Koch, nel tentativo di riformare in primo luogo l’istituzione che è chiamato a dirigere, compiendo al contempo ogni sforzo volto a convincere, con le buone o con le cattive, gli un po’ riottosi vertici dei principali gruppi creditizi e grandi banche operanti in Italia che non è più possibile pensare che il nostro mercato finanziario possa funzionare in modo troppo difforme da quanto accade nei principali mercati finanziari europei, statunitensi ed asiatici.

Il presidente dell’Antitrust, invece, deve parlare attraverso le istruttorie relative ad ipotizzate infrazioni della forma concorrenziale del mercato, cosa che sta attivamente facendo da quando la legge per la tutela del risparmio licenziate dal Parlamento agli sgoccioli del 2005, pur nelle più volte da me segnalate imperfezioni ed omissioni, ha attribuito all’Authority da lui presieduta tale competenza, impegno che si è concretizzato nei giorni scorsi nell’avvio di quattro indagini distinte sul comportamento delle quattro maggiori entità bancarie operanti in Italia in relazione ad eventuali omissioni informative nei confronti della clientela sulla più volte segnalata commissione di massimo scoperto, una questione richiamata appena pochi giorni prima dal Governatore Draghi nel corso del suo intervento pronunciato in occasione della recente assemblea dell’ABI.

Come ho avuto modo di ricordare, Catricalà e gli altri membri dell’Antitrust si sono dotati di un dipartimento diretto dal giovane Calabrò, figlio d’arte in quanto il padre presiede con piglio decisionista un’altra importante Authority, e composto da un nucleo di esperti che hanno prodotto, alcuni mesi orsono, un pregevole e significativo primo rapporto sulla forma di mercato esistente nel settore creditizio che è stata certamente di grande utilità ai commissari per una comprensione migliore delle dinamiche esistenti nel settore, nonché dare loro elementi di carattere più scientifico sul grado di concorrenza che caratterizza allo stato le banche italiane e quelle poche realtà straniere che, come si suole dire, applicano alla lettera il detto che afferma che “quando sei a Roma, fai come i romani”, cosa che peraltro sostengo sin dal rapporto sul credito nel Mezzogiorno ospitato, nel lontano 1992, nel numero monografico che la rivista Sviluppo edita dall’allora Carical, oggi confluita in Carime, volle dedicare all’argomento, mentre qualcosa di più specifico sugli aspetti finanziari seguiti alla deregolamentazione è contenuta in “Accordi di cambio e speculazione; un nuovo approccio teorico” presente nel numero 5, settembre-ottobre 1993, della Rivista Bancaria-Minerva Bancaria, che ospitava, nello stesso numero saggi di Piero Barocci, allora ministro del Tesoro, Antonio Fazio, Governatore della Banca d’Italia, Giampiero Cantoni, allora presidente della Banca Nazionale del Lavoro ed altri contributi.

Tra le possibili dimenticanze, potrebbe esservi anche quella relativa all’egregio lavoro svolto dalla Consob guidata da Lamberto Cardia, un’istituzione che è l’equivalente della potente, anche se di recente un po’ distratta, Securities and Exchange Commission presieduta da Effe O Ixs (al secolo, Chistopher Fox), e che ha redatto delle conclusioni di una indagine svolta nei confronti di Unicredit che verranno ricordate per lungo tempo con timore negli ambienti bancari, anche perché accompagnatorie e giustificatorie di provvedimenti sanzionatori nei confronti di Alessandro profumo, Ceo di Unicredit prima e di Unicredit Group oggi, e di qualche decina di top manager e manager del gruppo con sede a Piazza Cordusio, Milano (Italia).

Con una scelta editoriale un po’ perfida nei confronti dell’ex enfante prodige della finanza italiana, all’epoca dell’uscita dell’articolo da poco convolato a nozze con l’anziano banchiere di Marino, Cesare Geronzi, il settimanale L’Espresso, in un articolo da me ampiamente citato in una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, ha riportato una vagonata di virgolettati della delibera sanzionatoria della Consob che evidenzia comportamenti non proprio commendevoli attribuibili ad esponenti di Unicredit in relazione alla vendita di derivati a clientela corporate ed a varie entità della Pubblica Amministrazione e che ha fornito alla brava e pluripremiata Gabanelli di realizzare una puntata di Report particolarmente ben costruita ed efficace, nonché la realizzazione di alcuni sequel coronati da altrettanto successo che hanno chiamato in causa anche altre banche italiane, nonché suscitato ampie ed articolate ispezioni della Vigilanza della Banca d’Italia presso Unicredit Group ed altre tre grandi entità bancarie di grandi dimensioni operanti nel nostro Paese.

Qualcuno si stupisce per il fatto che l’attività ispettiva della Banca d’Italia sia così intensa negli ultimi due anni e sia giunta anche a violare, per la prima volta dal 2000, quello che a torto è stato per lungo tempo considerato un tempio inviolabile della finanza italiana, quella Mediobanca con sede in piazzetta Cuccia, attualmente presieduta, per espresso desiderio di Profumo, dall’anziano banchiere di Marino e che, almeno stando alle anticipazioni di numerosi quotidiani finanziari italiani, sta preparandosi ad abbandonare il duale all’amatriciana per tornare al Consiglio di Amministrazione di tipo tradizionale, con annesso Comitato Esecutivo e Collegio Sindacale, con una mossa che solo apparentemente potrebbe apparire come un ritorno all’antico ma che, sempre stando ai giornali, rientrerebbe nei desiderata del giovane e preparato Governatore di Bankitalia.

Agli indubitabili meriti delle donne e degli uomini validamente guidati da Anna Maria Tarantola va dato, inoltre, atto di una notevole preparazione nell’affrontare l’evoluzione dei prodotti finanziari di ultima generazione, invenzioni degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Bank e delle divisioni di Investment & Corporate Banking delle banche più o meno globali incluse, va aggiunto l’apprezzamento per il nuovo approccio in termini di controlli seguito da Draghi, un approccio che vede un ruolo molto più attivo delle entità vigilate, mediante l’adozione di strutture e strumentazioni volte ad impedire quella pioggia di non so o non sapevo, nonché le provvidenziali amnesie che spesso caratterizzavano i top manager sotto ispezione, se non sotto indagine.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

mercoledì 23 luglio 2008

Riusciranno Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà a correggere le anomalie del sistema bancario italiano? (quarta parte)


La semplificazione dell’assetto di vertice del sistema bancario italiano intervenuta con l’aggregazione, a coppie, delle prime quattro entità poste al vertice della classifica per total assett, ha consentito di mettere a nudo più facilmente le residue, ma molto importanti, anomalie tuttora esistente nel settore creditizio del Belpaese e che continuano a rendere l’Italia non assimiliabile ai sistemi creditizi più evoluti, in particolare a quelli basati sul modello anglosassone, anomalie sostanzialmente rappresentate, da un lato, dall’anomalo rapporto tuttora esistente tra le Fondazioni di origine bancaria e le banche da cui, per scissione sono nate, o i gruppi creditizi che le stesse Fondazioni hanno contribuito a creare, mentre, dall’altro, è dato dalle questioni legate alla natura cooperativistica e le conseguenti problematiche in tema di governance relative al mondo delle banche popolari, con particolare riferimento a quelle di grandi dimensioni, peraltro quotate in Borsa.

Non è, quindi, un caso se l’attenzione di Mario Draghi e quella di Giulio Tremonti, nelle rispettive competenze di Governatore della Banca d’Italia e di, in questo caso per la terza volta, ministro dell’Economia, è ai livelli massimi nei confronti di queste anomalie, che, almeno in alcuni e ben circoscritti casi, sembrano assolutamente determinati a superare, mediante l’utilizzazione dell’ampia strumentistica a loro disposizione, mentre l’attivismo di Antonio Catricalà, nella sua veste di presidente dell’Antitrust, è, ovviamente, più rivolto alla soluzione dei problemi legati alla particolare forma di mercato prevalente nel settore del credito che presenta, ancora oggi, elementi propri del modello dell’oligopolio collusivo, anche se non vanno negate le promettenti presenze di germi concorrenziali a livello, purtroppo, ancora embrionale.

Le due maggiori criticità nei due rispettivi ambiti sono rappresentanti dall’assoluto predominio della Fondazione Monte dei Paschi di Siena sull’omonimo gruppo, con il pesante corollario dell’assorbimento, dovuto alla pesantissima acquisizione di Antonveneta, di poco meno del 90 per cento del patrimonio disponibile della Fondazione medesima, mentre per quanto riguarda le banche popolari, non vi è dubbio alcuno sulla ferma intenzione di Draghi di indurre, con le buone o con le cattive, la Banca Popolare di Milano ad adottare un modello di governance che garantisca pari opportunità di rappresentanza a tutti i soci, mettendo la parola fine ad un sistema che consente ai soci dipendenti, attivi o in quiescenza, di controllare la stragrande maggioranza dei posti del molto ampio Consiglio di Amministrazione, avendo al contempo ampia voce in capitolo sulle scelte gestionali e sugli organigrammi interni.

Mentre, nel secondo caso, il Governatore ha utilizzato la strada della Vigilanza, mediante l’invio di una folta squadra di ispettori, raddoppiata in corso d’opera, che è poi sfociata nella lunga relazione sui risultati dell’ispezione non casualmente tenuta in prima persona dalla responsabile della Vigilanza, Anna Maria Tarantola, che ha anche letto una missiva personale di Draghi ed ha lasciato agli attoniti consiglieri meno di sei mesi per riformare lo Statuto della banca in conformità alle stringenti raccomandazioni di Via Nazionale, molto più ardua e complessa si presenta la strada da percorrere per indurre i riottosi vertici della Fondazione senese a diluire in modo estremamente significativo la preponderante maggioranza azionaria nel gruppo omonimo.

In entrambi i casi, il Governatore ha trovato opportune sponde interne, rappresentate, in ambito BPM, dal presidente Mazzotta e dalle più che tempestive dimissioni del direttore generale, Viola,dimissioni più che motivate dall’interessato e con motivazioni che, molto significativamente, riecheggiano molte delle considerazioni rappresentate dalla dottoressa Tarantola, nonché una palese divisione del fronte sindacale interno, che vede tre sigle più aperte rispetto alla necessità di cambiare qualcosa per evitare approcci più drastici che finirebbero, per un molto malinteso conservatorismo, per gettare via il cosiddetto bambino insieme all’acqua sporca, mentre, per quanto riguarda la questione senese, non vi è dubbio che la decisione fulminea dell’ex presidente della Fondazione ed attuale numero uno del gruppo bancario, Mussari, ha determinato, non si sa quanto volontariamente, le condizioni per una necessaria apertura dell’azionariato a soci non necessariamente italiani e dotati delle cosiddette spalle forti, necessarie per cavare gli inquilini di Rocca Sansedoni dagli impicci nei quali si trovano e che non sono in alcun modo risolvibili dalla più che prevedibile vendita dei residui gioielli di famiglia.

Avendo dedicato più di una puntata del Diario della crisi finanziaria alla ricostruzione, ovviamente basata su ragionamenti logici e niente di più, delle intenzioni del giovane e preparato Governatore, non crdo sia necessario tornare sui dettagli dell’operazione che potrebbe vedere nascere il terzo polo bancario ed assicurativo italiano, mediante l’acquisizione e successiva incorporazione della Banca Nazionale del Lavoro da parte della banca senese, così come l’acquisizione della Unipol che consentirebbero al partner assicurativo di Siena, la francese AXA di realizzare in Italia una compagnia che si porrebbe immediatamente alle spalle di Sai-Fondiaria.

La presa di posizione del sindacato interno della banca di Rocca Salimbeni (ma quante rocche ci sono in quel di Siena?) contraria all’introduzione della figura dell’amministratore delegato, attualmente non prevista dallo Statuto, ha rafforzato in me l’idea che tale carica potrebbe essere prevista a breve ed essere occupata da Matteo Arpe, che, pur avendo rifiutato di recente il posto di numero uno di Deutsche Bank Italia, difficilmente resisterebbe alla prospettiva di un ritorno alla grande sulla scena bancaria nazionale forzatamente abbandonata per le ragioni che descrivevo nella puntata di ieri, anche perché, nel frattempo, è asceso ad analoga carica in BNL Gallia, persona con la quale ha avuto modo di lavorare molto bene in Capitalia, cosa che potrebbe ripetersi in ambito Monte dei Paschi.

Pur essendo frutto di personali ragionamenti, non vi è dubbio che la soluzione che intravedo per il Monte dei Paschi di Siena, al di là dell’esattezza nell’individuazione dei protagonisti (sia persone che aziende), avrebbe il pregio di cavare le castagne dal fuoco ad una pluralità di soggetti italiani e stranieri, che difficilmente possono, in tutta onestà, dirsi soddisfatti dello stato attuale delle cose, realizzando, inoltre, sinergie di non poco momento e contribuendo a quella semplificazione degli assetti di sistema che la terza fase del processo di ristrutturazione del settore finanziario italiano non ha ancora prodotto, per non parlare poi della novità che sarebbe rappresentata dal superamento del modello attuale di bancassurance realizzabile con la realizzazione di un vero gruppo bancario ed assicurativo che rappresenterebbe un elemento di assoluta novità nel panorama creditizio italiano.

La doppia soluzione prossima ventura delle due criticità sopra esposte consentirebbe di evitare stravolgimenti ancora più radicali che, seppure personalmente da me ritenuti opportuni per la modernizzazione del sistema e per una maggiore omogeneità dello stesso all’esperienza di paesi più evoluti in campo finanziario, certamente non sarebbero graditi dalle potenti associazioni di categoria delle banche popolari da un lato e del mondo delle Fondazioni bancarie dall’altro.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

Riusciranno Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà a correggere le anomalie del sistema bancario italiano? (terza parte)


Il fulmineo innamoramento tra le due figure che per anni erano state davvero le più antitetiche nel panorama del mutante sistema bancario italiano, l’ex enfante prodige del credito e della finanza, Alessandro Profumo, e l’uomo per tutte le stagioni nel tempo divenuto l’anziano banchiere di marino, Cesare Geronzi, ha, come tute le cose apparentemente strane delle vita, ragioni profonde che nascono nei propri rispettivi ambiti, ma che non hanno impedito che il secondo venisse prontamente allontanato da ogni incarico veramente decisionale nel gruppo risultante, oggetto dello stesso dorato esilio alla guida di Mediobanca cui venne, in ben altri tempi, destinato l’allora giovane Enrico Cuccia dal presidente della Banca Commerciale Italiana, il mai troppo compianto Mattioli che di Cuccia temeva in primis le capacità scarsamente controllabili ed, in secundis, la parentela acquisita, via matrimonio, con il fondatore dell’IRI, Beneduce, vera mente economica del regime fascista.

L’arrivo di Profumo in quello che allora era il Credito Italiano presieduto da Rondelli avvenne in qualche modo in sordina, in quanto smessi i panni di consulente della Mc Kinsey, l’allora giovanissimo manager fu reclutato come responsabile della pianificazione e controllo di gestione della banca, per scalarne rapidamente tutte le posizioni fino a diventare uno dei più giovani amministratori delegati in un settore creditizio nel quale a posizioni simili si ascendeva dopo trenta o quaranta anni di onorata carriera iniziata, come si suol dire, al pezzo.

Ma la vera fortuna di Profumo, oltre a quella di avere avuto un mentore come il collaudatissimo Rondelli, trae origine dal panico che si diffuse tra i vertici delle fondazioni originate dalle previsioni della Legge Amato-Carli, ma soprattutto dalle ferme direttive emanate dall’allora ministro del Tesoro ed ex Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, un clima che creò le premesse che convinsero i decision makers delle fondazioni Cassa di Risparmio di Verona, Cassa di Risparmio di Torino e la cosiddetta Friuladria ad aderire convinti al progetto che avrebbe dato vita ad Unicredito Italiano, in aggiunta alla partecipazione rilevantissima che l’ex banca di interesse nazionale aveva acquisito nel Credito Romagnolo che, dopo una serie di acquisizioni su base locale, prese il nome più sbrigativo di Rolo, una banca che rappresentò, sotto la guida di tal Farsetti, la vera e propria gallina dalle uova d’oro del gruppo.

Come già nel caso di Banca Intesa, anche nel caso del gruppo guidato per un breve tratto di strada dal duo Rondelli-Profumo, l’uovo di Colombo fu rappresentato dall’adozione di quel modello di gruppo su base federale che vinse definitivamente le resistenze dei maggiorenti delle tre fondazioni, cui fu garantito che non sarebbero state smantellate le un po’ ridondanti direzioni generali, né sarebbero stati dimessi i marchi delle ex casse di risparmio che le avevano partorite a norma di legge, con il relativo corollario di difesa ad oltranza degli interessi locali che la gestione relativamente autonoma delle banche garantiva ai vari Palenzona, Biasi ed agli altri maggiorenti presenti in quei “mostri” come ebbe, in un soprassalto autocritico, a definire le Fondazioni di origine bancaria lo stesso autore della legge, il Dottor Sottile, al secolo Giuliano Amato.

Anche in questo caso, anche se in misura meno rilevante a causa dell’approccio maniacale di Profumo al taglio dei costi ed alla ridefinizione del processo produttivo che prevedeva la centralizzazione di tutto il centralizzabile, la mancata adozione di un modello “normale” nel mondo bancario anglosassone, il costo del forse inevitabile compromesso tra i diversi interessi in gioco è cifrabile in miliardi di euro derivanti dalle ritardate sinergie e dalla defatigante gestione sia delle risorse tecniche che di quelle umane proprie di un modello che prevedeva la permanenza di diverse sedi centrali, di in numeri centri elettronici ed amministrativi e quant’altro, situazione che faceva un po’ venire l’orticaria al giovane manager ligure, che dovette, peraltro, soggiacere al desiderio dei maggiorenti delle Fondazioni che misero di fatto alla porta Rondelli, un banchiere di vecchia scuola della cui preparazione ed integrità mai nessuno ha osato dubitare, uomo di grande rigore ma anche capace, sul versante personale, di gesti veramente commoventi che non è certo questa la sede per ricordare, ma che restano indelebili nella memoria di chi ha avuto modo di venirne a conoscenza.

L’abbandono definitivo delle bizantinerie del modello su base federale richiese anni e venne completata in quella che viene definita la seconda fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano, ma è stato a seguito dello spavento rappresentato dalle mire delle banche estere sul florido mercato creditizio italiano che non è stato consentito all’ormai meno giovane banchiere ligure di godere i frutti della sua intensa attività e capacità diplomatica, perché si apriva inesorabilmente la terza fase, Banca Intesa si era già mangiato in un sol boccone il San Paolo-IMI, quando venne da Roma il pressante appello proveniente dall’anziano banchiere di Marino che voleva in un colpo solo liberarsi dei due scalpitanti soci stranieri e di quel brillante amministratore delegato che era riuscito nella mission impossibile di risanare il gruppo Capitalia, ma che aveva avuto, almeno ai suoi occhi, il tremendo torto di aver ordito manovre alle sue spalle e che, solo per l’intervento in extremis di Colaninno Senior, non era riuscito a licenziare in tronco un anno prima, un ripensamento che costrinse uno stuolo di redattori a modificare il “coccodrillo” gia redatto in memoria di Matteo Arpe, che se la cavò con una letterina di scuse nella quale, di fatto, non si scusava proprio di nulla.

A costo di mettere a dura prova la pazienza dei miei pochi ma molto fedeli lettori, mi vedo costretto a fare un passo indietro che serve per comprendere perché il mercato si è talmente rifiutato di accettare la bontà del progetto industriale alla base di una operazione che di industriale ha ben poco, spingendo inequivocabilmentela quotazione del gruppo risultante dalle stelle dei 7,75 euro alla stalle dei poco più 3 euro cui è piombata pochi giorni orsono, per poi recuperare qualche decina di centesimi.

Già, perché è necessario comprendere i mali antichi del gruppo che alla fine ha deciso di denominarsi Capitalia, per comprendere perché forse Alessandro Profumo avrebbe proprio fatto meglio a far svolgere una accurata due diligence prima di imbarcarsi in un’avventura che rischia di mettere a seria prova la sua fama di vincente, né ha convinto i giornalisti da lui convocati alle 7 di mattina in una improvvisata conferenza stampa (fortunatamente con breakfest offerto) in quel di Washington, nel corso della quale si definì da solo pazzo per artificio retorico, in quanto accomunava il suo azzardo a quello che aveva caratterizzato la cordata che aveva strappato ABN AMRO dalle fauci già spalancate della britannica Barclays, dimenticando o fingendo di dimenticare che in quel caso si è trattato di una contro OPA, circostanza che, per definizione, esclude la possibilità di una diligence ex ante, anche perché si dà per buona quella effettuata in sede di OPA, che peraltro era di tipo amichevole.

Come è a tutti noto, le acquisizioni a ripetizione orchestrate dall’allora direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, ma con un brillante passato in Banca d’Italia, l’allora molto più giovane ma già molto potente Cesare Geronzi, videro cadere nel carniere il Banco di Roma ed il Banco di Santo Spirito, cosa che avrebbe reso necessaria una radicale ristrutturazione delle sedi centrali, non fosse altro per la circostanza che erano tutte e tre basate nella città di Roma, mentre, almeno così dicono le cronache di quegli anni, Cesare riuscì nella incredibile impresa di realizzare una sede centrale che aggiungeva quasi duecento addetti a quelli risultanti dalla somma delle tre sedi centrali delle banche coinvolte nella non proprio sinergica operazione.

Né caratterizzata da maggiori ambizioni sinergiche fu la gestione degli affidamenti che i tre istituti avevano più o meno generosamente concesso ad una clientela che spesso era la stessa per le tre entità, affidamenti che in non pochi casi furono semplicemente sommati ed in qualche caso addirittura aumentati, perché dell’anziano banchiere di Marino tutto si può dire meno che si tratti di una persona che manda via qualcuno senza ascoltare quali siano le sue necessità, che, in una città nella quale le pressioni della politica e quelle provenienti da organizzazioni più o meno occulte, trovano spesso uno o più padrini pronti a sostenere lo stato di reale bisogno del richiedente aiuto.

Non pago delle prede romane, il nostro si presentò con il portafoglio in mano all’asta indetta da Ciampi per risolvere i problemi derivanti dalla liquidazione della Sicilcassa e dal suo forzoso assorbimento da parte di un Banco di Sicilia che si trovò ad affrontare problemi non diversi da quelli nei quali si dibatteva Geronzi in quel di Roma e, del tutto incurante dell’ovvia considerazione che da due debolezze raramente viene una forza, riuscì a strappare alla concorrenza quello che era, per amore o per forza, divenuto il principale, e di gran lunga, istituto di credito operante nella regione siciliana.

Reduce dagli infortuni legati al fallimento della Federconsorzi ed ad altre vicende, il numero uno operativo del gruppo Banca di Roma in tandem con l’allora presidente Pellegrino Capaldo proseguirono l’opera di espansione degli affidamenti, almeno sino all’arrivo di un uomo come Brambilla che cercò, non si sa quanto riuscendovi, di tirare disperatamente il freno a mano, spaventato dall’emergere di una montagna di sofferenze sia in Banca di Roma che nella lontana e tormentata provincia siciliana.

Ma il vero e proprio redde rationem venne con la ormai celebre intervista del 1997 nella quale l’anziano banchiere di Marino fu costretto ad ammettere che il gruppo da lui diretto si trovava in guai molto seri, talmente seri da richiedere una drastica pulizia del bilancio ed a presentare una perdita per migliaia di miliardi di lire e chiedendo al Sindacato di farsi carico della situazione disastrosa dei conti, giungendo ad un accordo che vide un’applicazione ante litteram di quelle che sarebbero poi state le regole di funzionamento del fondo per la salvaguardia dell’occupazione nel settore creditizio che vedrà la luce solo un anno dopo, innescando peraltro quella dichiarazione di stato di crisi del settore bancario che porterà al protocollo di palazzo Chigi del giugno 2007, all’accordo quadro del febbraio 2008 ed al contratto del luglio del 1999 che fu la sede dello scambio politico volto alla difesa dei livelli occupazionali descritto nella puntata di ieri.

Prima dell’arrivo di Matteo Arpe, quello delle sofferenze di Banca di Roma prima e di Capitalia poi rappresenta il vero capitolo doloroso della lunga gestione di Geronzi nella gruppo con sede nella Capitale della Repubblica italiana, in quanto, ad onta di accantonamenti e cartolarizzazioni (spesso con l’elastico) per migliaia di miliardi di lire l’anno, l’ammontare delle sofferenze nette resta, anno dopo anno, pressoché ai medesimi livelli, denotando la presenza di un perverso turn over, che indusse più di un commentatore non embedded a ritenere che molti dei crediti concessi erano in realtà sin dall’inizio destinati a diventare sofferenze.

Sulle diverse caratteristiche della gestione di Matteo Arpe, cui vennero affidati pieni poteri solo dopo il disastroso coinvolgimento della banca romana in vicende quali la vendita dei bond argentini, Parmalat e Cirio, con le connesse disavventure giudiziarie dello stesso Geronzi e di altri top manager del gruppo, non mi soffermerò, avendola descritto a sufficienza in precedenti puntate del Diario della crisi finanziaria, anche se mi preme ricordare qui che l’esperienza venne sfortunatamente interrotta a causa dei ricordati conflitti tra presidente ed amministratore delegato quando si era ad un passo, ma decisivo, dalla possibile uscita dal profondo guado nel quale i precedenti errori gestionali avevano condotto la banca capitolina.

Come dicevo di sopra, l’influenza che tutto questo è destinato ad avere sui conti del gruppo risultante dall’acquisizione di Capitalia da parte di Unicredit è stato pesato, valutato e, purtroppo, scartato in numerosi italian desk di importanti banche globali, senza dimenticare l’impatto che sulla valutazione ha avuto la tempesta perfetta da poco meno di un anno virulentemente in corso, circostanza che preoccupa non poco i decision makers delle fondazioni che hanno dato, a suo tempo, il via libera ad Unicredit e che ora non sembrano del tutto soddisfatti delle prospettive di Unicredit Group, forse ritenendo che un manager bravo nelle fasi di espansione non sia necessariamente il più adatto a gestire una situazione complessa e problematica come l’attuale, né che basti riproporre, come fa l’ultimo piano industriale in ordine di tempo, la solita strada a suon di tagli di costi e di personale per tornare ai bei tempi andati.

Nella quarta parte, che apparirà domani, tratterò, su base stavolta esclusivamente speculativa dei possibili passaggi che potrebbero portare, facendo perno sul gruppo Monte dei Paschi di Siena, alla costituzione del terzo polo bancario ed assicurativo italiano, attualizzando i ragionamenti contenuti in precedenti puntate del Diario dedicate a questa possibile prospettiva, mentre spero di avere lo spazio sufficiente per affrontare l’attualissima e delicata questione della governance nelle banche popolari, questione che, almeno a giudicare da quanto è avvenuto nell’ultimo anno, dopo il fallimento del generoso tentativo di riforma propugnato dall’allora presidente della apposita commissione del Senato della Repubblica, Giorgio Benvenuto, e l’attivismo della Vigilanza della Banca d’Italia, sembra, ogni giorno che passa, richiedere una opportuna soluzione.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

martedì 22 luglio 2008

Riusciranno Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà a correggere le anomalie del sistema bancario italiano? (seconda parte)


L’attivismo congiunto di Mario Draghi ed Antonio Catricalà, rispettivamente Governatore della Banca d’Italia e Presidente dell’Antitrust (due organismi cui la legge per la tutela del risparmio del dicembre 2005 attribuisce competenze, sia pure distinte, sul settore bancario), sembra non trovare orecchie attente né nell’Associazione Bancaria Italiana, né nei singoli maggiori gruppi creditizi o banche di rilevanti dimensioni che si collocano alle spalle di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group (nato dalla fulminea acquisizione di Capitalia da parte di Unicredit), né i banchieri italiani appaiono granché preoccupati delle disposizioni di legge introdotte dal Governo Prodi o delle chiarissime intenzioni bellicose del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, forse il politico che ha nel modo più trasparente reso note le sue idee su questioni tutt’altro che marginali quali il rapporto tra Fondazioni di origine bancaria e banche da esse partecipate o ampiamente controllate, sui metodi con i quali vengono piazzati tra investitori e risparmiatori i titoli della finanza più o meno strutturata e sulle ragioni che spiegano gli elevati margini di profitto dell’industria finanziaria.

In un Paese normale un simile schieramento farebbe fare Giacomo, Giacomo alle ginocchia dei vertici delle banche di ogni ordine e grado, ma non in Italia, in quanto da noi è molto chiaro il rapporto tra affari e politica, e l’ordine in cui vengono indicati è tutt’altro che casuale, per la semplicissima ragione che, almeno sino ad oggi, il sistema bancario si è sempre prestato, seppur con lodevoli e significative differenze, a cavare le castagne dal fuoco delle continue crisi industriali che, dalla Ferruzzi alla Fiat, passando per i gruppi di medie o minori dimensioni, non mancano proprio mai, per non parlare dell’intervento a gambe tese del candidato Berlusconi che ha spinto Air France a battere saggiamente in ritirata dalle sue mire di acquisizione della più volte tecnicamente fallita Alitalia, anche se della cordata di salvatori più reclamizzata della storia industriale italiana non si è ancora vista traccia.

Non credo di rivelare particolari segreti, ricordando l’anomalo ruolo giocato dall’ex enfante prodige della finanza italiana, Corrado Passera, nel fallimento del tentativo coraggiosamente portato avanti dall’amministratore delegato di Air France, che in piena e difficilissima trattativa con le nove organizzazioni sindacali presenti nella malridotta compagnia di bandiera italiana, ha visto non smentite ufficialmente da Intesa-San Paolo un non meglio definito ruolo che il candidato Berlusconi attribuiva non tanto al gruppo bancario quanto direttamente al suo amministratore delegato che, peraltro, voci maliziose accreditavano come simpatizzante dello schieramento di centro-sinistra, cosa certa per quanto riguarda il presidente del consiglio di sorveglianza del gruppo, il Prof. Avv. Giovanni Bazoli, delle cui idee politiche fanno fede diverse ed ampie interviste rilasciate ad importanti quotidiani e periodici.

Ma quali mai potevano essere i motivi che potevano spingere il Chief Executive Officer di Intesa-San Paolo ad infilarsi in una disfida lanciata in piena campagna elettorale dal candidato e per la terza volta premier, Silvio Berlusconi? Nonostante gli eloquenti silenzi del banchiere, non vi era chi non ricordasse che, soltanto nel luglio del 2007, la cordata di Carlo Toto di Airone, da lui apertamente patrocinata, si era sottratta alla offerta vincolante, pur essendo rimasta senza concorrente alcuno e che l’offerta di Air France era venuta solo dopo il ritiro di Passera e Toto. Così come era noto a tutti che mancavano del tutto i presupposti finanziari ed industriali perché fosse possibile finalizzare la poco probabile acquisizione dell’Alitalia da parte della newco appositamente costituita da Toto grazie al sostegno finanziario del gruppo guidato dal summenzionato Passera, non si sa quanto supportato dal Prof. Avv. Bazoli.

Eppure, Passera aveva molti motivi per saltare in corsa sul carro del sicuro vincitore della aspra e combattuta tenzone elettorale ed i motivi non vanno certo ricercati nell’incarico puntualmente ricevuto dal gruppo creditizio di fungere da advisor della privatizzazione della compagnia di bandiera, con modalità molto opportunamente modificate dal nuovo governo che tutto voleva meno che un fallimento del sondaggio con annesso piano industriale del quale nessuno ovviamente saprà nulla sino alla scadenza del mandato prevista per il 10 agosto prossimo venturo.

Le ragioni vere dell’impegno indefesso di Passera e di Micciché, capo della divisione di Corporate & Investment Banking del gruppo, risiedono nel fatto che dopo più di un decennio di cantieri perennemente aperti in quello che allora era soltanto il gruppo Intesa, dopo un tourbillon di piani industriali ad un tanto al chilo, era stato proprio l’ex amministratore delegato di Poste Italiane, ma un tempo top manager di una importante componente del costituendo gruppo, a dire la verità che consisteva poi nel fatto che il tanto strombazzato modello su base federale, che era stato venduto come il miglior modello gestionale possibile, era costato miliardi di euro in mancate sinergie, dando vita ad un piano alquanto più credibile, con il suo scontato corollario di lacrime e sangue per gli stakeholders del gruppo, dipendenti ovviamente in primis.

I cantieri si stavano finalmente chiudendo e il modello divisionale aveva fatto giustizia di buona parte delle innumerevoli banche marchio di cui Banca Intesa si componeva (inclusa quella della storica ma sfortunata Banca Commerciale Italiana), quando, spinti dalla necessità tutta torinese di liberarsi dell’ingombrante presenza del Santander guidato dal molto decisionista Senor Botin e da quella milanese di estromettere, seppur a caro prezzo, l’azionista di riferimento Credit Agricole, Bazoli e Passera ed i loro omologhi al vertice del San Paolo-IMI (che nel frattempo aveva fatto indigestione con la costosissima acquisizione di Cardine e la meno onerosa ma non certo meno problematica annessione del Banco di Napoli), in un solo week end e senza informare il Governo, decisero la nascita del nuovo e colossale gruppo, decisione che favorì l’adozione del duale all’italiana, un modello ancora una volta necessitato dalla altrimenti impossibile composizione degli amministratori e dei membri dei collegi sindacali dei due gruppi felicemente convolati a nozze.

Se c’è un aspetto dell’operazione che non è stata gradita dal neo Governatore della Banca d’Italia, appena subentrato al molto discusso e discutibile Antonio Fazio, è rappresentato dal fatto che uniche vittime della fulminea operazione furono proprio un buon numero di quegli appartenenti ai collegi sindacali che pure dovevano costituire l’asse portante di quel Consiglio di Sorveglianza che, lo dice anche il nome, dovrebbe avere come mission principale quella di gettare occhiate attente e severe su quei discoli ragazzi chiamati a gestire il gruppo bancario risultante dalla aggregazione, anche se un impertinente potrebbe dire che basta ed avanza la rinomata severità ed attenzione dell’ottimo Prof. Avv. Giovanni Bazoli, un nome ed una garanzia verrebbe proprio da dire!

Di qui la necessità di un severissimo piano di integrazione, con il dovuto corollario di un piano industriale ed un accordo sindacale che riuscì, ancora una volta, a salvare quel principio di volontarietà nell’adesione all’accompagnamento ed al pensionamento che tanto erano costati, dopo l’accordo triangolare del giugno del 1997 tra l’ABI, il Sindacato ed il Governo, il conseguente accordo quadro del febbraio 1998 e la contestuale intesa su un fondo per la salvaguardia dell’occupazione, che, pur nato come applicazione originale delle rigide previsioni della Legge sui licenziamenti collettivi, aveva poi trovato, grazie alle previsioni del contratto del luglio del 1999 e per intesa tra le parti stipulanti, la possibilità di giungere alla menzionata volontarietà.

Per dare un’idea della complessità dei problemi che il Chief Executive Officer Corrado Passera ed il Direttore Generale, ma da poco nominato Chief Operating Officer, Francesco Micheli, così come il top manger Pietro Modiano, a suo tempo fuoriuscito da Unicredit ed approdato al Pan Paolo-IMI ed uno dei pochi sopravvissuti all’acquisizione, fatta la debita e notevole eccezione per Enrico Salza, si trovano ad affrontare, basti pensare che la permanenza nel gruppo di oltre un centinaio di aziende giuridicamente indipendenti crea una vera e propria ragnatela aziendale che certamente non risolve i problemi di governance connessi all’adozione articolata di strategie per loro natura centralizzate, né fornisce una idea di efficienza ed efficacia che pure un ex Mc Kinsey come Passera, peraltro accomunato, almeno in questo, al CEO di Unicredit Group, Alessandro Profumo, dovrebbe certamente avere a cuore.

Ma evidentemente le preoccupazioni di Mario Draghi, Giulio Tremonti ed Antonio Catricalà non attengono tanto a questo tipo di difficoltà nelle quali da tempo si dibattono i top manager di Intesa-San Paolo, quanto, come loro stessi hanno più volte dichiarato, alla ricerca dell’evidenza di un trasferimento agli stakeholders, ma proprio a tutti gli stakeholders, clienti e dipendenti ovviamente inclusi, dei vantaggi che certamente hanno mosso i vertici dei due gruppi convolati a nozze a prendere la così tempestiva decisione di unire indissolubilmente i propri destini, vantaggi che, almeno a sentire Draghi e Catricalà, non risulterebbero affatto evidenti, mentre, anzi, cresce il coro di lamentazioni dei clienti per le condizioni loro applicate e per le non sempre eccezionali performance dei prodotti finanziari di ogni tipo e natura loro venduti in base, almeno secondo i sindacati aziendali, quelle che in gergo vengono definite pressioni commerciali, problema cui non sono estranee le grandi realtà creditizie di cui mi occuperò nelle prossime puntate.

Non credo con questo di aver esaurito l’esame delle problematiche legate alla prima delle fusioni lampo che hanno caratterizzato e, forse, continueranno a caratterizzare la terza fase di ristrutturazione del settore del credito in Italia, anche se mi permetto di osservare come le criticità emerse non siano di natura molto diversa da quelle riscontrabile nel lungo processo che dalla iniziale fusione tra il Nuovo Banco Ambrosiano e la Cariplo, che si vantava a suo tempo di essere la più grande cassa di risparmio del mondo, ha via, via aggregato decine e decine di casse di risparmio di ogni dimensione, acquisendo poi la sora Camilla Banca Commerciale Italiana, nonché tutto quanto era ragionevolmente acquisibile nel prosieguo, sino all’ultima importante acquisizione in ordine di tempo, quella della Cassa di Risparmio di Firenze, che, al di là delle certamente ottime intenzioni degli acquirenti, rischia di rinviare a data da destinarsi la completa chiusura dei cantieri perennemente aperti in Intesa prima ed in Intesa-San Paolo poi, portandosi, inoltre, in dote il contenzioso aperto con BNP Paribas per il controllo della gallina dalle uova d’oro Findomestic, sino a poco tempo fa leader davvero incontrastata nel molto redditizio settore del creditizio al consumo.

Nella terza parte, che apparirà domani, tratterò le non meno complesse questioni connesse all’altro grande gruppo creditizio formatosi in tempi relativamente recenti, Unicredit Group, mentre per quanto riguarda il costituendo terzo polo bancario ed assicurativo e le problematiche connesse ai difficili ed ardui passaggi legati alla sua realizzazione, credo proprio che dovrò chiedere un ulteriore sforzo di sopportazione ai miei lettori, dedicando una quarta e spero ultima parte che dovrebbe apparire mercoledì 23.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.