mercoledì 31 dicembre 2008

Due o tre cose che so della tempesta perfetta!


Quella di ieri era la quattrocentesima puntata apparsa su questo blog, il che significa che sono più o meno 450 le puntate del Diario della crisi finanziaria da quando questa avventura editoriale ha preso il via in contemporanea sul sito della UILCA, su quello dei giornalisti free lance, Flipnews, e su Rosso di Sera, per non contare i numerosi siti che hanno deciso di riprendere le puntate da loro ritenute importanti, il che non può che farmi piacere, anche per la quasi sempre corretta citazione della fonte.

Ho rivisto proprio ieri, utilizzando il motore di ricerca, la puntata contrassegnata dal numero cento e mi ha colpito un passaggio nel quale mi dicevo stupito di avere raggiunto quella quota, anche perché, pur avendo abbastanza chiara sin dall’inizio la traiettoria della tempesta perfetta, ero anch’io assordato dal cicaleccio dei commentatori, degli analisti e dei giornalisti più o meno embedded ai vascelli o alle corazzate che solcano il grande mare del mercato finanziario globale, un manipolo molto folto di persone che vedevano la ripresa pressoché dietro ogni angolo ed irridevano alle lucide analisi di Nouriel Rubini e di pochi altri che, anche in presenza dei record della borsa di Wall Street nell’ottobre 2007, continuavano a ripetere che il peggio, purtroppo, doveva ancora venire.

Non pretendo di sapere quali fossero le motivazioni alla base delle certezze di Nouriel o degli altri economisti che osarono allora porsi al di fuori del coro, ma so bene perché sono stato costretto a farlo io, che per oltre un decennio avevo continuato, dal mio osservatorio costituito da un ufficio studi sindacale che coincideva più o meno con me stesso, a scrivere che la crescita esponenziale della finanza strutturata legata a quel mix davvero micidiale rappresentato dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione e dalla deregolamentazione selvaggia ci avrebbe condotti, prima o poi, dritti, dritti verso una crisi molto differente da quei sussulti che si erano susseguiti dal 1987 in poi.

Non riesco a dimenticare le facce dei delegati ad un congresso tenutosi in una località dell’Italia centrale in un freddissimo mese di gennaio del 1998 quando ebbero modo di ascoltare queste tesi, ma la sorte volle che a quell’assise assistessero anche buona parte dei banchieri di primo piano allora operanti in Italia e non credo proprio che condividessero quell’analisi, né tanto meno la critica di quella forma di mercato oligopolistica che tanto facile e redditizia rendeva l’attività delle banche e delle compagnie di assicurazione, una forma di mercato che non è poi tanto cambiata nei dieci anni successivi.

Non meno stupite, d’altra parte, erano state le facce dei miei colleghi e superiori presenti ad una riunione di quella che poi sarebbe stata una divisione di Corporate & Investment Banking, quando, intorno al 1993 esprimevo, da economista della sala cambi, le mie perplessità sulla crescita davvero esponenziale del mercato dei derivati, in particolare di quella parte definita over-the-counter, sintomo, a mio modesto avviso, della trasformazione già allora in corso di un’attività di per sé essenziale per l’agire economico in quella sorta di immenso casinò a cielo aperto che sarebbe poi scoppiato in modo alquanto deflagrante quattordici anni dopo soltanto per le crescenti dosi di politica monetaria accomodante via, via iniettate dal cattivo Maestro di Bernspan, Alan Greenspan, uno che non del tutto a caso prese il posto di Paul Volker e resse le sorti della Federal Reserve per diciannove anni, servendo sotto ben quattro presidenti degli Stati Uniti d’America, uno dei quali gratificato dal doppio mandato!

Non meno stupite, infine, erano state le facce dei redattori del quotidiano Il Manifesto, quando, nel corso della crisi dell’ottobre 1987, primo battesimo del fuoco per il Maestro Greenspan che salvò Wall Street inondando letteralmente di liquidità il mercato, esponevo più o meno le stesse idee, anche se allora erano certamente un po’ più confuse, per il semplice motivo che i fenomeni sottostanti erano in moto da pochissimi anni e avrebbero trovato una valvola di sfogo cinque anni più tardi nel mercato dei cambi, attraverso l’assalto congiunto di George Soros e compagni alla sterlina britannica e alla lira italiana, costrette, con perdite, a svalutare selvaggiamente e a uscire alquanto ignominiosamente dall’allora Sistema Monetario Europeo.

I meno attenti tra i miei lettori forse non ricorderanno che, in quel tragico settembre del 1992, Governatore della Banca d’Italia era Carlo Azeglio Ciampi e presidente del Consiglio, a causa del sopravvenuto impedimento giudiziario di Bettino Craxi, era il dottor sottile, al secolo Giuliano Amato, che si profusero in anatemi contro l’orrida speculazione che sono stati per me un utile guida per decifrare le dichiarazioni di Bernspan, di Paulson e compagnia cantante nelle prime fasi della tempesta perfetta che, ad onta dei loro convincimenti, fra meno di quaranta giorni compirà il suo anno e mezzo di esistenza.

Certo, i redattori alquanto ideologizzati di un quotidiano che, allora come ora, porta orgogliosamente nella testata la scritta ‘quotidiano comunista', erano più che giustificati nel loro scetticismo di fronte alle strane idee di un collaboratore assiduo della testata, anche perché parliamo di cose avvenute ventuno anni orsono, ma quello che mi ha stupito davvero è stata la difficoltà di comprendere appieno le cause della tempesta perfetta da parte degli economisti di professione e titolari di cattedra in prestigiose università italiane che mi sono trovato a fianco nel corso del convegno sulla crisi finanziaria e le sue ricadute sociali non più tardi di nove mesi fa, donne e uomini che, peraltro sono certo in perfetta buona fede, erano davvero convinti che le cose sarebbero tornate come prima nel giro di pochi mesi, anche se aveva già tirato clamorosamente le sue cuoia l’orso di Stearns e l’azione di Lehman Brothers aveva perso in meno di un’ora il cinquanta per cento del suo valore per un rumor proveniente dall’Indonesia!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 30 dicembre 2008

La decisione del trio Bush-Paulson Bernspan di lasciar fallire Lehman Brothers è costata 75 miliardi di dollari!


Per chi ha avuto la pazienza di leggere la trascrizioni dell’ultima conference call di Rick Fuld, l’ex numero uno di Lehman Brothers, quella fatta pochi giorni prima che il governo statunitense lasciasse fallire la storica banca di investimenti, non è stata certo una sorpresa la stima fatta da alcuni analisti sull’enorme somma che è stata persa a seguito del ricorso precipitoso alla procedura fallimentare, in larga parte dovuto al blocco delle disponibilità liquide di Lehman da parte delle altre maggiori banche globali.

Come i lettori più attenti ricorderanno, ho dedicato almeno un paio di puntate a quelle dichiarazioni di Fuld, ma, soprattutto, al vero e proprio fuoco di fila di domande cui venne sottoposto da parte dei migliori analisti delle principali banche concorrenti, traendone l’impressione che l’eccellente lavoro di deleverege svolto nei dodici mesi precedenti aveva creato le premesse per un esito del tutto diverso da quello pervicacemente perseguito dall’ancora per poco ministro del Tesoro statunitense, Hank Paulson, uno che non è mai stato in grado, nelle innumerevoli audizioni al Congresso, di spiegare per quale motivo sono state nazionalizzate o accasate tante altre grandi entità del mercato finanziario a stelle e strisce e lo stesso non è stato possibile farlo nel caso di Lehman.

In una drammatica deposizione fatta davanti alla commissione bancaria del Senato poco dopo il fallimento della ‘sua’ banca, lo stesso Fuld ha detto che il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari non avrebbe mai visto la luce se lui “non fosse prima caduto per terra”, una valutazione che mi trova pienamente concorde e che ha avuto conseguenze devastanti non solo per quanti detenevano titoli direttamente o indirettamente garantiti da Lehman, ma sull’intero mercato finanziario globale che ha rischiato veramente di oltrepassare quel ciglio del baratro ben descritto dal direttore del Fondo Monetario Internazionale poche ore prima che i governi dei paesi maggiormente industrializzati decidessero di gettare nel piatto migliaia di miliardi di dollari per impedire una catena di default senza precedenti.

Tutti coloro che si sono mestamente iscritti al passivo di Lehman Brothers vantando crediti per 200 miliardi di dollari circa hanno scoperto ieri che ben 75 miliardi di dollari mancheranno all’appello a causa della scelta fatta dal trio Bush-Paulson-Bernspan e dal comportamento alquanto miope delle principali banche concorrenti, in quanto la chiusura improvvisa delle posizioni e la vendita frettolosa degli asset ha impedito la valorizzazione corretta di buona parte delle attività presenti nel bilancio della banca, per non parlare poi delle innumerevoli partecipazioni all’estero.

Il problema, purtroppo, non è tanto rappresentato dalle perdite dei creditori, quanto dalla perdita di credibilità dell’intero sistema finanziario, in quanto sarà impossibile in futuro non pensare al fatto che una qualsivoglia entità finanziaria, seppure di enormi dimensioni e caratterizzata da una secolare presenza sul mercato, possa essere in grado di offrire la garanzia di essere immune da rischi di default.

D’altra parte, sfido chiunque a sostenere che aveva previsto con largo anticipo sullo scoppio della tempesta perfetta che sarebbe stato necessario procedere al salvataggio di entità come Bear Stearns, Merrill Lynch o Countrywide, che sarebbe stato necessario nazionalizzare entità gigantesche come Fannie Mae e Freddie Mac o la prima compagnia di assicurazioni statunitense e forse del mondo, AIG, che Lehman Brothers potesse fallire o che le Investment Banks, pur di salvarsi, chiedessero e ottenessero di diventare banche ordinarie e di essere per ciò soggette alla vigilanza della Federal Reserve!

In questo processo di caduta verticale della fiducia nelle diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale, non ha certo aiutato la scoperta della truffa da, almeno si spera che questa sia la cifra, 50 miliardi di dollari orchestrata da Bernard L. Madoff, con l’aggravante che il tutto è emerso a causa della confessione del reo, messo alle strette non dai segugi della Securities and Exchange Commission, ma dalle pressanti richieste di riscatto avanzate dai suoi molto facoltosi clienti, molti dei quali per di più erano banche di grandi dimensioni operanti a livello planetario, due delle quali, il Santander e il BBVA, erano peraltro uscite pressoché indenni dalla tempesta perfetta per scoprire che erano finite mani e piedi legati in una delle più classiche riproposizioni dello schema di Ponzi.

Come in molte delle vicende principali di questa oramai lunghissima crisi finanziaria, uno degli aspetti che più colpisce è rappresentato dal fatto che, almeno stavolta, anche i ricchi, a volte i ricchissimi, piangono, anche perché era necessario essere molto abbienti per godere delle cure personali dell’ex presidente del Nasdaq!

Venendo alle vicende quotidiane, le residue speranze di un rally di fine anno sul mercato azionario statunitense si sono infrante definitivamente ieri anche a causa della decisione del Kuwait di non procedere più alla costituzione della joint venture da 17,4 miliardi di dollari con la Dow Chemical, una decisione dettata pare da motivi politici interni a quel piccolo ma ricchissimo stato mediorientale, e dell’annuncio che il raider Kerkorian ha venduto tutte le azioni della Ford in suo possesso, un uno due che ha fatto sprofondare i listini, anche se l’aiuto da 5 miliardi di dollari del Tesoro a GMAC (più un miliardo extra a GM) ha consentito un recupero nelle ultime battute di contrattazione che ha consentito al Dow Jones 30 e allo S&P’s 500 di contenere le perdite allo 0,36 e 0,39 per cento rispettivamente, mentre il Nasdaq ha perso l’1,30 per cento.
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Apprendo mentre sto scrivendo questa puntata la notizia della scomparsa di Flavia Castiglioni, una dirigente sindacale curiosa, preparata e appassionata che ho avuto modo di conoscere e apprezzare in questi anni e che non ha mai abdicato al suo impegno, né tanto meno alle sue idee. Ciao, Flavia.
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Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 29 dicembre 2008

Forse l'industria dell'auto USA se la cava!


L’ultimatum della Federal Reserve alla mega finanziaria GMAC è fatalmente scaduto alla mezzanotte di venerdì scorso senza che venisse presentato un piano credibile che dimostrasse l’intenzione dei detentori di bond per 30 miliardi di dollari di convertirli in azioni, condizione essenziale perché la Fed autorizzi la trasformazione in holding bancaria dell’entità che svolge un ruolo fondamentale per la vendita delle auto della general Motors, della Chrysler e di altre case automobilistiche presenti sul territorio statunitense.

In una laconica e-mail, la portavoce di GMAC ha confermato il superamento della deadline, ma ha anche confermato che i dettagli dell’operazione verranno forniti in tempi molto rapidi, anche perché è ovvio che i bondholders non hanno molte alternative rispetto all’opzione loro proposta, in quanto avrebbero poche possibilità di recuperare il loro denaro nel caso di un’ammissione della finanziaria alla protezione nei confronti dei creditori offerti dall’ancora accomodante legge fallimentare statunitense, mentre hanno qualcosa da guadagnare dall’ammissione di GMAC alle previsioni del TARP, il fondo da originari 700 miliardi di dollari per il salvataggio delle banche operanti negli USA approvato dal Congresso nello scorso mese di ottobre.

Non certo di minore interesse per gli alquanti disperati possessori dei bond di GMAC sarebbero, inoltre, le opportunità offerte, come alle altre banche, dalle varie misure di sostegno messe in campo in questi mesi dalla Fed, quali l’accesso all’ampia discarica a cielo aperto per i titoli più o meno tossici della finanza strutturata gestita dalla Fed di New York, i prestiti a tasso prossimo allo zero cui hanno accesso le sole banche, così come la possibilità di effettuare il risconto a scadenze più lunghe al tasso ufficiale dello 0,50 per cento, tutte ipotesi su cui il mercato ha già scommesso nell’ultima seduta della settimana scorsa facendo registrare all’azione deciso balzo in avanti, cifrabile in chiusura in un rialzo che ha sfiorato il 90 per cento.

Non credo sia necessario spiegare i motivi per i quali la tenuta in vita di GMAC costituisce uno snodo essenziale per la stessa sopravvivenza di General Motors e Chrysler, nonché del loro gigantesco indotto, così come è chiaro che un eventuale successo della trasformazione aprirebbe le porte al non piccolo braccio finanziario di Ford, la casa automobilistica che gode attualmente di migliore salute e non è stata pertanto inclusa nel finanziamento da complessivi 17,4 miliardi di dollari recentemente accordato alle altre due società, ma che non potrebbe permettersi di non godere degli stessi vantaggi che molto presumibilmente verranno a breve accordati alla finanziaria rivale.

D’altra parte, le motivazioni che hanno spinto le autorità monetarie a favorire questa trasformazione sono più o meno le stesse che hanno portato alla nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, in quanto il fallimento delle entità che assicurano buona parte dei finanziamenti agli acquirenti di case e di autovetture sarebbe davvero esiziale per qualsivoglia programma governativo volto al rilancio della domanda in due settori che sono davvero strategici per l’economia a stelle e strisce, anche se è chiaro che gli effetti dei giganteschi sforzi attuali si vedranno solo a partire dalla seconda metà del 2009.

L’attivismo dell’amministrazione uscente e di quella a breve subentrante è, quindi, un qualcosa che va ben al di là delle questioni ideologiche che ancora dividono i due schieramenti, così come va rimarcata l’assoluta noncuranza con la quale George W. Bush ha ignorato gli alti lai dei senatori del suo partito che si erano messi letteralmente di traverso rispetto alla possibilità di approvazione di una legge che si era trascinata per le aule del Congresso per settimane, per finire poi sonoramente bocciata, costringendo un molto riluttante Hank Paulson ad aprire i cordoni della borsa per un importo addirittura superiore di quello previsto dall’abortito provvedimento legislativo.

La mossa del presidente uscente ha, tuttavia, impedito che venissero attribuiti a Paul Volker, l’ex presidente della Fed ed attuale capo della task force in materia economica protamente insediata da Barack Obama, i pieni poteri sulle sorti delle tre maggiori case automobilistiche statunitensi, anche se è ovvio che ciò avverrà a breve, non appena si sarà insediata la nuova amministrazione e diverranno, soprattutto, disponibili gli altri 350 miliardi di dollari previsti dal piano di salvataggio e a gestirli sarà il nuovo ministro del Tesoro e attuale presidente della Fed di New York, il coetaneo di Obama Timothy Geithner.

In uno scenario simile, è davvero difficile dare torto al numero uno della Fiat, nonché vice presidente dell’extracomunitaria UBS, Sergio Marchionne, quando afferma che non è possibile che i governi europei e quelli asiatici restino con le mani in mano rispetto a quanto sta avvenendo al di là dell’Oceano Atlantico, non fosse altro che per la semplicissima ragion che le case automobilistiche europee e giapponesi verrebbe danneggiate da una competizione che avvenisse ad armi assolutamente dispari rispetto alle loro concorrenti a stelle e strisce fortemente insediate sui mercati posti al di fuori degli USA.

Non è peraltro del tutto vero che i governi europei e quello giapponese non stiano facendo nulla per le loro case automobilistiche, ma il problema resta quello dell’andare in ordine sparso e senza nessuna coordinazione, il che, in particolare in Europa, rischia di creare ulteriori disparità sul piano concorrenziale a danno delle imprese di quei paesi che stanno facendo poco o nulla in questo campo come, a solo titolo di esempio,il Belpaese.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 27 dicembre 2008

Le ricette per uscire dalla crisi finanziaria non possono prescindere dagli insegnamenti del caso giapponese!


A parziale integrazione di quanto ho scritto ieri sulla situazione economica giapponese e sulla maggiore flessione su base annua mai registrata nella storia del settore automobilistico nel paese del Sol Levante (-20.4 per cento nel mese di novembre) nelle vendite di automobili e camion, vorrei ricordare anche il tonfo quasi senza precedenti della produzione industriale che ha registrato un calo che sfiora il 9 per cento, sempre in novembre e sempre come variazione anno su anno, due dati che inducono a ritenere che molto difficilmente il piano da mille miliardi di dollari stanziato dal governo giapponese sarà in grado di evitare la riproposizione di quello scenario recessivo conosciuto dal paese, salvo sprazzi più o meno momentanei, a partire dallo scoppio della gigantesca bolla immobiliare e finanziaria nel 1989.

Non vorrei rubare il posto al Dr Doom, ma credo proprio che una delle preoccupazioni maggiori di quanti, ai massimi livelli, si stanno ingegnando per trovare una via d’uscita dalla tempesta perfetta ancora virulentemente in corso, abbia molto a che fare con il caso giapponese, in quanto è stato proprio in quel paese che si sono sperimentati per la prima volta i tassi di interesse ufficiali a livelli di poco superiori allo zero, una politica monetaria ostinatamente perseguita per poco meno di venti anni e che si è dimostrata del tutto inefficace contro il muro pressoché invalicabile di apatia dei consumatori che continuano da allora a sedere sopra la maggiore ricchezza pro capite, almeno riferita a un paese industriale di grandi dimensioni, creando così le premesse del verificarsi concreto di quella trappola della liquidità delineata tanto tempo fa da John Maynard Keynes.

Non voglio aggiungere elementi allo sconforto e ai timori dei decision makers del mondo industrializzato, ma anche i giganteschi piani di sostegno alla domanda e i mega salvataggi delle banche sono stati quasi ossessivamente sperimentati in quella che è stata certamente, e tuttora è, la più lunga recessione mai sperimentata da un paese altamente industrializzato, un caso considerato e studiato a fondo in tutte le scuole di management, producendo montagne di analisi e studi che non hanno mai fornito una risposta plausibile ed esauriente ai reali motivi che hanno spinto i giapponesi ad astenersi da quella vera e propria orgia consumistica che li aveva caratterizzati negli anni Settanta e, soprattutto, negli anni Ottanta.

Lo scoppio pressoché contemporaneo della bolla azionaria e di quella immobiliare, due esagerazioni senza precedenti ben testimoniate dalla quota 40 mila toccata dal Nikkei 225 e dall’astronomico valore di case e lotti di terreno toccati sul finire degli anni Ottanta, la conseguente crisi bancaria provocata in larga misura dal repentino sgonfiamento di questi stessi valori, hanno repentinamente determinato uno scenario che la stessa tempesta perfetta ha impiegato oltre un anno a determinare, ma il risultato è stato più o meno lo stesso: l’astensione repentina e quasi simultanea dei risparmiatori/investitori dall’acquisto dei titoli (allora molto meno sofisticati di quelli successivamente escogitati dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali), un feroce processo di ristrutturazione del sistema bancario nipponico, i ripetuti e fallimentari tentativi di stimolare i consumi.

Ma non è solo la fenomenologia della lunghissima crisi nipponica che ci riporta a quanto sta avvenendo da poco meno di un anno e mezzo all over the world, in quanto vi è un elemento di similitudine ben più evidente e che rischia di rendere inefficaci le politiche monetarie e il selvaggio deficit spending attuati dalle banche centrali e dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, un elemento che è rappresentato dal verticale crollo della fiducia che le persone, spesso a prescindere dal loro livello di reddito e dal loro grado di istruzione, nutrivano nella trasparenza del sistema finanziario, economico e politico, del controllo dello stesso da parte delle autorità monetarie e dei governi, ma, soprattutto, nella sostanziale eticità e correttezza dei comportamenti dei maggiori protagonisti del mercato finanziario globale.

Ripeto di non avere nessuna intenzione di sostituirmi al bravissimo Nouriel Roubini, per lunghi mesi etichettato, appunto, Dr Doom, ma credo proprio che il generosissimo tentativo da parte dei governi di mettere in sicurezza il sistema finanziario, a partire dallo snodo cruciale rappresentato dal sistema bancario, pur essendo certamente condizione necessaria per far fronte agli alti marosi della tempesta perfetta, non sia, purtroppo, condizione sufficiente per ripristinare il necessario grado di fiducia dei risparmiatori/investitori/consumatori per decidere nuovamente di staccarsi dal poco o tanto denaro di cui gli stessi dispongono, condizione indispensabile perché il meccanismo si rimetta in moto.

Al di là delle più che evidenti intemperanze caratteriali del per la terza volta ministro italiano dell’economia, Giulio Tremonti, credo proprio che sia questa la ragione del contendere che lo oppone al Governatore della Banca d’Italia e, non del tutto a caso, presidente da oltre due anni del Financial Stability Forum, Mario Draghi, in quanto a dividere i due non è certo l’analisi della crisi finanziaria, quanto, piuttosto, la necessità, sentita dal ministro e molto meno dal governatore, di procedere ad una sorta di processo di Norimberga che punti in tempi molto rapidi ad accertare le responsabilità individuali e sistemiche di quanto è avvenuto, procedendo subito dopo ad un ricambio molto radicale dei vertici aziendali, dei sistemi di governance e delle regole, un processo che non può che prevedere, almeno questo è quanto sembra pensare Tremonti, un intervento diretto dello Stato nel capitale delle banche e non solo sostegni più o meno onerosi in favore delle stesse!

Ricordo che il Diario della crisi finanziaria è presente anche sul mio blog http://www.diariodellacrisi.blogspot.com/ e che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 26 dicembre 2008

Eppure, è stata davvero una buona annata!


A dimostrazione della dimensione del tutto planetaria della tempesta perfetta in corso da poco meno di diciassette mesi, il Giappone ha conosciuto nel mese di novembre la maggiore flessione su base annua (-20,4 per cento) nelle vendite di automobili e camion mai registrata da quando il dato viene registrato nel paese del sol levante, una flessione che porta il numero totale di veicoli venduti ben al di sotto della soglia psicologica del milione (854 mila) e che proietta un volume di vendite per il 2009 di poco inferiore ai 5 milioni di veicoli, che va confrontato con il picco storico di 7,87 milioni toccato nel 1990, quando non si era ancora del tutto sgonfiata la bolla speculativa che ha toccato il suo culmine nel 1989.

Il primo rosso della sua lunga storia annunciato di recente dalla Toyota, che ha defenestrato l’attuale numero uno riportando alla guida del gruppo automobilistico un erede diretto del fondatore, rischia così di non essere un episodio isolato ed è molto probabile che, al pari della Honda e della Nissan, anche la società che è stata maggiormente studiata dai suoi concorrenti globali per comprendere meglio i segreti del suo successo, dovrà mettere in atto drastiche contromisure in termini di chiusure di impianti e riduzione del numero dei dipendenti.

Come è ampiamente noto ai miei lettori, non appartengo alla schiera dei cultori dello sviluppo perenne, in particolare ove questo modello sia, come purtroppo è, ampiamente basato sull’obsolescenza programmata dei prodotti, nonché ben inserito in quel processo di redistribuzione del reddito e della ricchezza in corso non solo all’interno dei paesi maggiormente industrializzati, ma anche, e forse in modo ancor più stridente, a livello planetario, ma ciò non toglie nulla alla drammaticità di quanto sta avvenendo in quello che resta il cuore dell’industria manifatturiera, una distruzione di capacità produttiva che promette, per l’anno che verrà, livelli di output che mancheranno dell’equivalente della produzione tedesca e francese messe insieme, ovviamente ammesso che ciò possa bastare.

Pur con tutto il suo carico di perdite cifrabili prudenzialmente in migliaia di miliardi di dollari, un fenomeno di credit crunch che distruggerà offerta di credito per decine di migliaia di miliardi, sempre di dollari, la radicale messa in discussione degli a volte già precari equilibri di bilancio pubblico, la sua ecatombe di posto di lavoro stabili e ben retribuiti nei settori maggiormente colpiti, la tempesta perfetta può anche essere l’occasione per un ripensamento collettivo su quei più che evidenti limiti dello sviluppo, almeno nella versione attuale che non si discosta poi troppo dalle linee fondanti della cosiddetta seconda rivoluzione industriale, l’opportunità, forse irripetibile, per aprire le porte a quella terza rivoluzione industriale basata su fonti energetiche alternative e maggiormente locali, su un connubio più intelligente tra la dimensione globale e quella locale, sul rispetto di quella biodiversità così pervicamente combattuta dai teorici dell’approccio monoculturale e via discorrendo.

Non serve a molto che tutto questo era stato indicato a chiare lettere dai premi Nobel raccolti nel cenacolo del Club di Roma animato da una persona come l’ingegner Aurelio Peccei ben venti anni prima di Rifkin, Gore e gli attuali epigoni di uno sforzo per evitare di superare, e stavolta definitivamente, il punto di non ritorno dell’equilibrio ecologico del pianeta, in quanto serviva ben altro che la saggezza e la forza delle argomentazioni di un piccolo gruppo di donne e uomini di buona volontà per combattere l’illusione della crescita illimitata basata su quel mix davvero micidiale rappresentato dai concomitanti fenomeni della finanziarizzazione, della globalizzazione e della deregolamentazione selvaggia, un’illusione che ha portato a quella crescita drogata e pressoché ininterrotta dell’economia, sia a livello finanziario che reale, negli ultimi ventidue anni.

Mi sembra strano che non siano ancora spuntati come funghi autori che vedano similitudini tra le patologie prodotte dagli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Banks (oggi in gran parte, e fortunatamente, ex) e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche a carattere più o meno globale e quelle vissute dall’Europa ai tempi della peste e delle altre infezioni che spazzarono via una parte non marginale della popolazione europea dell’epoca, creando le premesse ante litteram della prima rivoluzione industriale, quella basata sui tristemente noti enclosure acts (tristemente assonanti agli odierni foreclosure), sul vapore e sul telaio meccanico!

Ho letto di recente un interessante articolo sulle professioni scelte da parte degli espulsi dal dorato mondo dell’investment banking, un foltissimo esercito di donne e di uomini che sono stati costretti ad abbandonare, talvolta in massa e con gli scatoloni in mano come nel caso di Lehman Brothers, la loro attività a ciclo continuo, basata su valori suoi propri e su ritmi difficilmente sostenibili da persone non ben addestrate e altrettanto, se non più, ben remunerate e motivate, molte delle quali, dopo il repentino, brusco e amaro risveglio, necessitanti di adeguato supporto psicologico, se non di un vero e proprio percorso di disintossicazione dopo anni, se non decenni, di blackberry, telefoni cellulari sempre accesi, monitor Reuters o Bloomberg accesi anche nell’initimità della camera da letto.

E’ stato con vero piacere che ho appreso che una parte almeno di queste persone è dato alle attività più disparate, da corsi di cucina per bambini alla meditazione più o meno trascendentale, dalla scrittura al sacerdozio, dal ritorno alla terra all’insegnamento, dal volontariato all’artigianato. Consiglio a chi non l’avesse ancora visto il film Una buona annata, opera quasi profetica di quanto stiamo vivendo.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 25 dicembre 2008

Bernspan salva GMAC e fa la sua parte nel tentativo di salvare l'industria dell'auto a stelle e strisce!


Una seduta del tutto prenatalizia, caratterizzata dal solito orario ridotto e da volumi di scambio molto esili, ha consentito un frazionale recupero dei tre principali indici statunitensi che fa seguito a cinque sedute negative consecutive essenzialmente dovute alle incertezze che avvolgono le prospettive del settore manifatturiero a stelle e strisce, con particolare riferimento all’alquanto disastrato comparto automobilistico e, soprattutto, a quale sarà l’impatto del recente assegno da 13,4 miliardi di dollari staccato in favore di General Motors e Chrysler.

Che qualcosa stesse bollendo nel pentolone di Bernspan e compagni, lo si è capito dall’anomala tenuta degli indici dopo un uno-due di notizie, redditi e spese dei consumatori negativi e nuovi sussidi di disoccupazione giunti a un passo dalla soglia psicologica delle 600 mila unità, ma anche dal significativo recupero dell’azione di General Motors.

L’arcano è stato poi svelato a mercati chiusi, con un comunicato della Federal Reserve che annuncia la trasformazione di GMAC, la più importante entità finanziaria dedicata essenzialmente al finanziamento dell’acquisto delle autovetture, in Bank Holding Company e la sua inclusione tra le entità autorizzate a ricevere interventi da parte del fondo di salvataggio da 700 miliardi di dollari, ma, soprattutto, a ricevere assistenza e garanzie da parte della Fed.

Come è noto, GMAC è partecipata essenzialmente da General Motors e Chrysler ed era impegnata nel tentativo di convincere i detentori delle sue obbligazioni a convertire le stesse in azioni, un operazione essenziale per la stessa sopravvivenza della società e che diventa significativamente meno problematica grazie alla decisione della Fed che, non a caso, è stata seguita da un comunicato in tempo reale di GMAC nel quale si ringrazia la banca centrale USA per quello che si presenta, al di là di ogni ragionevole dubbio, come un salvataggio in zona Cesarini di una entità che ha, nel settore automobilistico a stelle e strisce, la stessa importanza di Fannie Mae e Freddie Mac nel disastrato settore immobiliare.

La provvidenziale trasformazione di GMAC in holding bancaria renderà ovviamente più facile la trasformazione delle obbligazioni in azioni e consentirà a General Motors ed al fondo di private equity Cerberus proprietario di Chrysler di ridurre significativamente le loro quote, con la prima che si troverà a essere titolare del 10 per cento delle azioni, mentre la seconda ridurrà significativamente l’attuale 33 per cento di azioni della ex finanziaria, anche se le due case automobilistiche continueranno a essere gli azionisti di riferimento di GMAC.

Non so quanto Hank Paulson sia contento per questa ennesima sottrazione di risorse al ‘suo’ piano di salvataggio, anche se la quota di 350 miliardi di dollari (in verità erano solo 250, ma il presidente uscente Bush non ha mancato di rendere disponibili i 100 miliardi che la relativa legge attribuiva alla sua responsabilità) è, come Hank non ha mancato di dire alquanto stizzito, praticamente esaurita e si dovrà attendere l’insediamento del presidente eletto e la piena operatività del suo nuovo governo per applicare la seconda tranche del TARP.

Quello che preoccupa davvero Bernspan e i suoi soci del Federal Open Market Committee è la persistenza del differenziale tra i tassi ufficiali praticamente a zero e la cruciale scadenza a tre mesi del LIBOR sul dollaro, uno spread che ancora ieri si manteneva ostinatamente al di sopra dei 100 punti base, un livello che denota la persistenza di tensioni legata all’alto grado sfiducia reciproca esistente tra le banche operanti negli Stati Uniti d’America.

La relativa normalizzazione avvenuta sulla stessa scadenza sull’EURIBOR, che presenta uno spread intorno ai 50 punti base e quella in corso, anche se molto più lentamente sul LIBOR sulla sterlina (87 punti base), rappresentano in realtà la cifra della diversa valutazione esistente, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, sulla solidità del prestatore di ultima istanza, rappresentato dagli stati membri dell’Unione Europea da un lato e dagli Stati Uniti d’America, dall’altro, anche alla luce dell’ampia divergenza degli squilibri strutturali esistenti nelle due più importanti aree economiche del pianeta.

La minore traduzione dagli impegni ai fatti concreti che io stesso attribuisco pressoché quotidianamente ai governi europei, rispetto a quanto sta avvenendo negli USA, è in realtà in larga misura ascrivibile alla netta sproporzione esistente tra le misure volte a garantire il garantibile adottata, su proposta di un Gordon Brown che non sarà il salvatore del mondo ma ha ottime ragioni per considerarsi colui che ha tentato di salvare il mercato finanziario europeo, se non addirittura quello globale nel mese di ottobre di quest’anno, una sproporzione enorme, ma giustificata dalla considerazione che non sarebbe convenuto a nessuno il fallimento, diciamo, di una decina delle più importanti banche europee, entità che movimentano qualcosa come l’80 per cento dell’immenso patrimonio gestito del Vecchio Continente, Gran Bretagna, ovviamente, pienamente inclusa.

Garantire a piè di lista i prestiti interbancari può sembrare una misura estrema in tempo di pace, ma non vi è dubbio che il banchiere pentito che presta gratuitamente la sua opera come ministro di Sua Maestà britannica, sapeva benissimo che si trattava di una condizione necessaria per mettere una pezza agli errori commessi nell’investment banking, anche se solo il tempo ci dirà se sarà stata sufficiente!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 24 dicembre 2008

Il primo suicidio aumenta le analogie tra la prima e la seconda tempesta perfetta!


Mentre continuano a non essere del tutto chiari i contorni e le reali dimensioni dello scandalo legato all’ex presidente del Nasdaq, Bernard L. Madoff, si è tolta ieri la vita un finanziere francese, René-Thierry Magon de Villehuchet, che aveva perso un miliardo di dollari dei suoi clienti inghiottito, come pare sia accaduto ad altri 50 miliardi di dollari, nello schema di Ponzi messo in atto quasi un secolo dopo dal broker statunitense.

Il sessantacinquenne finanziere, discendente da una nobile famiglia francese, era stato presidente d amministratore delegato del Credit Lyonnais USA e, secondo le agenzie di stampa statunitensi, avrebbe sfruttato le sue molto altolocate amicizie al di qua e al di là dell’oceano Atlantico per farsi affidare ingenti somme da gestire, parte delle quali erano state affidate al fondo di Madoff che aveva garantito per anni ritorni molto elevati e pressoché costanti sul capitale investito, ritorni, purtroppo, in larga parte derivanti dalla progressiva dilapidazione delle somme investite stesse.

Lasciando che i morti seppelliscano i morti, non credo sia superfluo ricordare che la più grave macchia del passato professionale dell’attuale presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, è proprio legata alla sua esperienza quale numero uno del Credit Lyonnais, per la quale ha subito un processo dal quale è uscito sostanzialmente indenne ma che ha incrinato la sua fama di banchiere, forse spingendolo a risciacquare i panni nel fiume Meno che, come è a tutti noto, bagna la città di Francoforte e a dare avvio a quel processo di germanizzazione che lo pone molto più vicino alle posizioni di Frau Merkel che a quelle del conterraneo e bellicoso presidente francese, Nicolas Sarkozy.

Non si tratta, come è più che evidente, delle più che legittime scelte personali di Trichet, quanto dell’evidenza che questo progressivo allontanamento dalla sua patria di origine sta influenzando in modo sempre più netto gli orientamenti in materia di politica monetaria della BCE, già di per sé molto orientata a muoversi nel solco di quella perseguita per decenni dalla Bundesbank, un orientamento neotemplare che gioca un ruolo per niente secondario nel mancato coordinamento dei piani di salvataggio francesi e britannici da un lato e di quello tedesco dall’altro, una situazione che sta suscitando il massimo allarme ai piani alti della Commissione dell’Unione Europea che, proprio ieri, ha ritenuto fosse venuto il momento di benedire ufficialmente i piani di salvataggio delle banche approvati dai singoli governi e che sprona quotidianamente i leaders del vecchio continente a passare dalle parole e dalle cifre stanziate sulla carta ai fatti!

Le tensioni tra i partners europei non sono del tutto estranee agli stop and go che stanno subendo le operazioni di salvataggio decise a tavolino dai governi, come è ben dimostrato da quello che sta accadendo in Belgio, dove il governo è stato costretto a dimettersi per il sospetto di aver cercato di influenzare il giudizio dei magistrati sul ricorso dei piccoli azionisti di Fortis che ritengono, a torto o a ragione, di essere stati danneggiati dall’acquisizione da parte di BNP Paribas delle attività al dettaglio della banca in Belgio e Lussemburgo, decisione presa senza l’indizione di una assemblea straordinaria che avrebbe dovuto ratificarla.

La giornata di ieri non è stata soltanto funestata dalla tragica scelta personale del finanziere francese, ma anche da notizie veramente non positive provenienti dal meltdown immobiliare statunitense in corso, con un ulteriore crollo delle vendite di case esistenti che segnano in novembre una flessione che sfiora il 9 per cento e porta il dato annualizzato da 4,91 a 4,49 milioni di case, mentre il prezzo mediano (un’altra delle stranezze statistiche d’oltreoceano) crolla del 13 per cento e si porta a 181 mila dollari per una casa indipendente dagli oltre 200 mila del mese precedente, la più forte flessione degli ultimi quarant’anni, da quando, cioè, esiste l’indice dell’associazione dei costruttori di case e mentre sono crollate del 17 per cento su base annua le vendite totali di case giunte ad un minimo di 332 mila unità.

Nel frattempo, il governo statunitense ha confermato il calo dello 0,5 per cento del prodotto interno lordo nel terzo trimestre, ma con un netto peggioramento delle componenti interne, il che lascia presagire che nell’ultimo trimestre di questo davvero orribile 2008 si dovrebbe registrare una flessione del 6–6,5 per cento, anche se mi trovo costretto a ricordare che esiste un indice molto più attendibile ed autorevole che rivela che la flessione della ricchezza prodotta all’interno degli Stati Uniti d’America è in atto sin dall’ultimo trimestre del 2007 e che quello che verrà archiviato a fine anno sarà il quinto trimestre consecutivo in rosso.

Non bastassero lo squagliamento progressivo del settore finanziario e di quello immobiliare, prosegue pressoché senza soste il crollo delle quotazioni delle due principali case automobilistiche a stelle e strisce, General Motors e Ford, mentre Chrysler rappresenta un discorso a parte in quanto è nelle mani delle voraci e disperate locuste di Cerberus, una tendenza di recente benedetta dall’alquanto impietoso report di una banca europea, anche se extracomunitaria, che ha sostanzialmente definito da buttare le azioni di General Motors, gettando nello sconforto i già disperati possessori delle stesse.

Qualche tempo fa, ho titolato una puntata del Diario della crisi finanziaria chiedendomi se poteva accadere negli Stati Uniti d’America quello che è avvenuto in passato in Gran Bretagna e, cioè la perdita di un settore automobilistico autoctono, un’eventualità in sé non drammatica ma che accelererebbe quel processo di terziarizzazione dell’economia a stelle e strisce che non credo sia del tutto gradito all’establishment di quel paese.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 23 dicembre 2008

Se la Toyota ha il raffreddore, le altre case automobilistiche hanno la polmonite!


Dopo aver cercato di delineare ieri i tratti fondamentali del mercato finanziario globale che verrà quando la tempesta perfetta un giorno cesserà, credo proprio sia meglio tornare alle urgenze del presente, anche alla luce del drammatico appello che il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss Kahn, ha rivolto ai governi dei paesi maggiormente industrializzati affinché osino di più per contrastare, attraverso un deficit spending di dimensioni gigantesche gli effetti degli alti marosi della tempesta perfetta che il 9 gennaio prossimo compirà i suoi primi venti mesi di vita.

Anche se parlava da Washington, l’ex ministro francese delle finanze sembrava parlare più ai paesi membri dell’Unione Europea che all’attuale e alla futura amministrazione del paese che ospita il quartier generale di una delle due istituzioni nate dagli accordi di Bretton Woods, in quanto quello che non manca agli Stati Uniti d’America, forse anche perché sono stati l’epicentro del sisma che sta devastando la finanza e l’economia reale a livello globale, è proprio la consapevolezza dell’estrema gravità delle questioni sul tavolo e che hanno portato il governo e la banca centrale ad impegnare migliaia di miliardi di dollari.

E’ di ieri la notizia della pressante richiesta dei maggiorenti del partito democratico, uscito largamente vittorioso dall’Election Day di novembre, di poter mettere le mani al più presto sulla seconda tranche del mega piano di salvataggio del sistema finanziario statunitense approvato dal Congresso in ottobre, 350 miliardi di dollari che servono come il pane anche all’esterno del settore finanziario e che, vincendo le strenue resistenze dell’attuale titolare del dicastero del Tesoro, sono servite anche pe il finanziamento ponte alle tecnicamente fallite General Motors e Chrysler, sulla prima delle quali è giunto ieri un impietoso report di una importante banca europea che dice senza mezzi termini che l’azione è da buttare, anche se forse gli alquanto disperati possessori di quella che un tempo era una delle più solide azioni americane non hanno avuto bisogno del ‘consiglio’ per buttare giù la quotazione di qualcosa come il 20 per cento in una sola seduta..

Per tutti coloro che continuavano un po’ insensatamente ad auspicare un rally borsistico di fine anno, la giornata di ieri è stata certamente da dimenticare sia in Europa che a Wall Street, in Asia si è salvata Tokyo solo per il piano di intervento governativo monstre appena annunciato, ma colpiva particolarmente la nuova pioggia di vendite sui titoli finanziari statunitensi, in parte dovuta al fatto che la prossima dipartita dell’amico Hank Paulson e l’arrivo di Timothy Geithner, uno che in una banca di investimento o commerciale c’è stato solo come cliente, non fornisce sufficienti garanzie sul destino della seconda tranche citata di sopra, anche visto che, a furor di contribuenti, si potrebbe giungere ad un fifty-fifty tra Wall Street e quella Main Street che sinora è rimasta pressoché a bocca asciutta.

Come dicevo all’inizio, il drammatico appello del direttore del Fondo Monetario Internazionale (ed il contestuale annuncio della prossima e drastica revisione al ribasso delle stime relative al 2009) non rappresenta che l’ultimo pronunciamento dopo quelli di Trichet, Barroso, Almunia e chi più ne ha ne metta agli alquanto esitanti governi europei, inclusi quei tre, Germania, Gran Bretagna e Francia, che hanno speso solo una frazione dei 1.500 miliardi di euro stanziati nel mese di ottobre e, al momento, ancora bellamente sulla carta.

Nel frattempo, anche la nipponica Toyota è costretta ad ammettere che annuncerà la prima perdita in 71 anni di gloriosa storia aziendale, dichiarando di aver preso un raffreddore mentre la maggior parte delle case automobilistiche mondiali presentano chiaramente i sintomi della polmonite, più o meno fulminante e mentre le chiusure forzate già annunciate comporteranno una perdita di produzione almeno equivalente all’output annuo dell’intero settore automobilistico italiano, né si sa quando si potranno scorgere i primi segnali di una ripresa di una domanda che è sempre più orfana dei provvidenziali finanziamenti.

D’altra parte, in uno scenario che vede andare a braccetto la crisi immobile e quella del settore automobilistico, un settore che è peraltro strettamente collegato a quello della chimica, della componentistica, per non parlare del legame con il settore petrolifero, la cosa che bisogna più accuratamente evitare è quella che sta di fatto accadendo giorno dopo giorno e, cioè, il procedere in ordine sparso dei governi dei paesi maggiormente industrializzati, con aiuti a macchia di leopardo che, come giustamente sostiene il numero uno di Fiat, Sergio Merchionne, stanno creando una situazione che mina le basi di una forma di mercato che, almeno sinora, è stata caratterizzata da un alto grado di concorrenza.

Pur appartenendo alla schiera di quanti sostengono che l’attuale modello basato sulla crescita dissennata dei consumi di beni durevoli e semidurevoli basato sulla cosiddetta obsolescenza programmato è insensato, nonché gravemente dannoso per il già precario equilibrio ecologico a livello planetario, trovo del tutto allucinante che non si riesca a trovare, nell’ambito dell’Unione Europea, che, lo ricordo per i più distratti, si basa sulla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, principi che sono basati sull’altrettanto importante assunto che non vi siano vantaggi o svantaggi competitivi determinati dall’azione degli Stati membri, il che, detto con parole diverse, vuole semplicemente dire che non è possibile che Bonn e Parigi decidano unilateralmente di aiutare le proprie case automobilistiche in modo diverso da quanto fa Roma o qualunque altra capitale europea di un paese membro con una significativa presenza nel settore!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 22 dicembre 2008

Come sarà il mercato finanziario globale al termine della tempesta perfetta?


Credo proprio che sia giunto il momento per fare qualche riflessione su quello che sarà il mercato finanziario globale quando, un giorno fatalmente accadrà, avremo alle spalle le macerie lasciate dagli alti marosi di una tempesta perfetta che, in futuro più o meno prossimo a seconda dei punti di vista soggettivi e delle speranze individuali, dovrà pur fatalmente cessare.

Come sempre accade, lo scenario futuro non si costruisce d’un colpo solo, né con la fatidica mazza del banditore di Walras, né tanto meno con i disegni a tavolini degli esperti del Financial Stability Forum, ma viene costruito giorno dopo giorno dalle risposte più o meno spontanee agli effetti della crisi finanziaria, da quelli delle mosse più o meno composte dalle autorità monetarie, e, the last but not the least, dalle decisioni in materia prese, in modo più o meno coordinato, dai governi dei paesi maggiormente industrializzato, cui, a questo punto della storia, è fatalmente rimasto in mano il classico cerino acceso, anche perché quanto potevano fare le banche centrali è stato più o meno già fatto, con la significativa eccezione di una Banca Centrale Europea che non può allinearsi alla politica dei tassi di interesse intorno allo zero per l’assenza di un governo unico sia nell’area dell’euro che nel più ampio territorio dell’Unione Europea.

Vorrei spingermi decisamente oltre, affermando che una parte significativa del nuovo modello è già sotto i nostri occhi, in particolare se limitiamo l’analisi al mercato finanziario statunitense che resta la costola più importante del mercato finanziario globale, in quanto a Wall Street e dintorni qualcosa è già accaduto con la scomparsa delle Investment Banks, una per fallimento, due perché costrette ad essere acquisite da due colossi del credito quali J.P. Morgan-Chase e Bank of America, mentre le due sopravvissute, Goldman Sachs e Morgan Stanley, hanno accettato di diventare banche commerciali, partecipando, sia del punto di vista dei diritti che dei doveri, al novero delle entità soggette alla vigilanza della Federal Reserve, mentre si assiste alla scomparsa di qualche decina di banche medie e piccole e viene ristrutturato l’intero comparto del mortgage che aveva raggiunto dimensioni di poco inferiori a quelle del prodotto lordo a stelle e strisce.

La progressiva normalizzazione del sistema bancario statunitense, nell’ambito del più generale processo di riregolamentazione degli altri comparti del mercato finanziario, un processo in buona parte determinato dalle entità gigantesche delle perdite dovute alla crescita esponenziale dei prodotti più o meno tossici della finanza strutturata, sta determinando, ed ancor più determinerà in futuro, il più gigantesco processo di credit crunch mai registrato dal secondo dopoguerra mondiale, un fenomeno che per ora si aggira sui 10-15 mila miliardi di dollari e che non può prescindere da quelle che, nella prima puntata del Diario della crisi finanziaria del 4 settembre 2008, venivano definite le vere cause della crisi medesima e, cioè, il mix micidiale rappresentato dai concomitanti processi di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione avviatisi, un po’ in sordina, nella seconda metà degli anni Ottanta.

Non vi è dubbio alcuno, infatti, che non sarà più possibile in futuro far convivere la globalizzazione con la sostanziale invarianza, se no addirittura con il miglioramento, delle condizioni di vita e dei livelli di occupazione dei paesi maggiormente industrializzati, un miracolo consentito dai livelli raggiunti dalla cosiddetta economia di carta e ben rappresentata dalla montagna altissima di titoli della finanza strutturata attualmente ancora al di sopra ed al di sotto dei bilanci delle banche di investimento e di quelle più o meno globali, delle compagnie di assicurazione, dei fondi pensione e di quelli di investimento, nonché nei portafogli degli investitori/risparmiatori sparsi per il pianeta.

Come non si poteva non essere d’accordo con la dissoluzione dell’impero sovietico, così sfido a trovare qualcuno disposto a magnificare le progressive sorti dell’investment banking, ma vi è purtroppo un’amara se non quasi crudele verità nell’autodifesa di quei pochi responsabili della finanziarizzazione selvaggia, ove questi affermano che, senza la loro opera, il conto della globalizzazione sarebbe stato ben più salato, se non del tutto intollerabile per le centinaia di milioni di abitanti dei paesi maggiormente industrializzati, così come è tristemente vero che, senza di loro, redditi, investimenti e livelli d’occupazione in questi stessi paesi in questi ultimi ventidue anni sarebbero stati molto, ma molto inferiori a quelli che abbiamo in realtà osservato.

D’altra parte, quello che abbiamo avuto modo di osservare nella più aspra competizione elettorale presidenziale statunitense, ha visto opporsi, in buona sostanza, due punti di vista sulla crisi finanziaria in corso, quello dell’anziano candidato repubblicano, convinto che bastasse eliminare il marcio che alligna a Wall Street per far ripartire la crescita come nulla fosse accaduto e quello del giovane senatore afroamericano di Chicago che, grazie anche al fatto di avere come consulenti e consiglieri le migliori menti disponibili negli USA, sembra avere compreso che solo l’adozione di misure volte a favorire quella che Rifkin definisce la terza rivoluzione industriale potrà consentire, non senza sacrifici, di far convivere le esigenze di reddito, di occupazione e di investimenti delle donne e degli uomini che abitano quella grande nazione senza necessariamente comprimere le attese e le speranze dei miliardi di abitanti dei paesi emergenti o quasi definitivamente emersi.

In estrema sintesi, il ruolo delle banche e della finanza in questo nuovo scenario è oramai nelle mani degli attuali leaders del G20, che sono chiamati già in aprile ad adottare misure e regole che non gettino il bambino insieme all’acqua sporca!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 20 dicembre 2008

Per i banchieri e i top manager è finita la festa!


Pur condividendo appieno le ragioni per le quali il procuratore generale di New York, Andrew Cuomo, ha imposto la rinuncia ai mega bonus da parte dei top manager di Goldman Sachs, così di quelli delle altre banche statunitensi destinatarie di aiuti federali, tuttavia, Dan Peterson, Governatore dello Stato che include la Grande Mela non può fare a meno di rimpiangere i 178 milioni di entrate che gli sarebbero venuti dall’imposizione sui premi sardanapaleschi di soli sei uomini d’oro di Goldman Sachs, il che fornisce una misura indiretta dell’entità lorda di queste elargizioni che, nel 2007, avevano fruttato a Larry Blankfein, il successore di Hank Paulson al vertice della potente e molto preveggente ex banca d’investimenti, 100 milioni di dollari tondi tondi, un quarto dei quali impiegati da larry per comprarsi casa nel più lussuoso ed esclusivo condominio di Manhattan.

Forse è questo il vero senso della frase più ripetuta da quando si sono meglio compresi i reali effetti della tempesta perfetta in corso da diciannove mesi: “nulla sarà come prima”; certamente non sarà come prima per quanti, come Larry, Hank, Robert Rubin, John Thain, per non parlare degli oramai pensionati di lusso cacciati da quel paradiso terrestre che era la finanza più o meno strutturata, che si erano abituati a capitalizzare in un modo che non aveva precedenti nella storia conosciuta la loro posizione al vertice di banche di investimento o commerciali, di compagnie di assicurazione, di hedge funds, fondi pensione o di investimento e chi più ne ha ne metta.

Non so quali saranno le regole di compensation dei manager nel futuro prossimo venturo, ma credo proprio che quella relativa al 2008, anno bisesto e davvero molto funesto, non sarà solo una pausa di riflessione, anche perché non c’è piano di salvataggio, documento finale del G8 o del G20, esternazione di banchiere centrale che non metta la centro la questione delle eccessive elargizione che i vertici aziendali si attribuiscono in base a non meglio precisati parametri, un andazzo che ha coinvolto spesso anche la generalità dei dipendenti delle entità protagoniste del mercato finanziario globale attraverso l’adozione di piani di incentivazione che hanno indotto comportamenti non sempre del tutto deontologicamente corretti e che tanta parte hanno avuto nelle perdite degli investitori/risparmiatori che, alla fine, ha causato la più grave perdita di fiducia nei prodotti della finanza più o meno strutturata, un vero e proprio sciopero degli investimenti che prosegue pressoché ininterrottamente dal luglio del 2007.

Leggendo attentamente il lungo documento finale del vertice del G20 svoltosi qualche tempo fa a Washington, la bozza del documento del Financial Stability Forum dell’aprile di quest’anno, le dichiarazioni sempre più aspre dei ministri dell’economia dei paesi più o meno industrializzati, credo proprio che molto, ma molto difficilmente riprenderà la festa e che nei convivi di fine anno che si svolgeranno nei quartier generali di New York, Londra, Parigi o in qualsiasi altra capitale finanziaria del globo, regnerà un’atmosfera molto meno euforica del passato più o meno recente, festini nei quali scorrerà molto meno champagne e ancor meno adrenalina, per non parlare dei casi nei quali in luogo delle ricche buste di denaro facile verranno distribuite le missive che comunicano in tono un po’ burocratico la cessazione del rapporto di lavoro.

Molti si interrogano su come siamo giunti a questo punto di vero e proprio degrado etico e morale nel rutilante mondo della finanza, ebbene credo che i sistemi di compensation oramai al tramonto abbiano svolto un ruolo tutt’altro che marginale nel trasformare un’attività essenziale per l’attività economica e per soddisfare i bisogni delle persone in quel mondo impazzito stigmatizzato da premi Nobel per l’economia, da politici non del tutto incolpevoli, nonché da quei vigilanti alquanto distratti che dovrebbero fare un mea culpa e forse dimettersi, piuttosto che ergersi a soloni a disastro avvenuto.

Non volendo passare alla Storia come il becchino dell’industria automobilistica statunitense in un triste remake di quanto è avvenuto tempo fa in Gran Bretagna, George W. Bush, ha finalmente deciso di soccorrere le due case di Detroit ormai tecnicamente fallite, General Motors e Chrysler, resistendo alle pressioni di Hank Paulson che pensava di destinare alle banche anche gli spiccioli residui della prima tranche del piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari strappati ad un Congresso molto mal disposto e che è stato, invece, costretto a staccare un assegno da 17,4 miliardi di dollari che forse consentiranno, anche grazie alle stringenti condizioni imposte come collaterale, di non trasformare Detroit e molte altre località negli Stati Uniti d’America e all’estero in realtà postindustriali.

Con il salvataggio dell’auto, si chiude il primo ciclo dell’intervento statale a stelle e strisce nell’economia e viene dichiarato prosciugato il primo plafond da 350 miliardi di dollari del TARP, lasciando al presidente eletto una situazione meno drammatica ed una dote finanziaria di pari entità da spendere in modo ci si augura meno emergenziale ed a mente più fredda, il tutto gestito da persone meno legate delle precedenti agli interessi vestiti di Big Finance e delle grandi corporations a carattere più o meno globale.

Le pesanti bordate che il per la terza volta ministro italiano dell’Economia ha voluto riservare al governatore della Banca d’Italia, nonché presidente pro tempore del Financial Stability Forum, Mario Draghi, appaiono un remake del lungo ed aspro scontro che oppose lo stesso Tremonti all’ex Governatore Antonio Fazio, ma sarebbe un errore confondere le due situazioni, in quanto, stavolta, la materia del contendere è il controllo dello Stato sui maggiori gruppi bancari italiani, un argomento sul quale, al di là dell’evidente gioco delle parti, Berlusconi e Tremonti la pensano allo stesso modo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 19 dicembre 2008

Dieci anni a Tanzi che ha fregato i poveracci, mentre a Madoff che ha preso per il naso banche e miliardari daranno l'ergastolo!


La sola ipotesi di attingere al ‘suo’ fondo di salvataggio delle banche statunitensi da 700 miliardi di dollari, forse la più brillante operazione mai eseguita nella sua pur lunghissima carriera di investment banker culminata al vertice della potente e molto preveggente Goldman Sachs, per evitare il fallimento di General Motors e Chrysler è una prospettiva che sta togliendo letteralmente il sonno ad Hank Paulson, l’ancora per poco ministro del Tesoro a stelle e strisce, una prospettiva che lo ha indotto nei giorni scorsi ad effettuare un pressing psicologico senza precedenti nei confronti del presidente uscente Bush, reo ai suoi occhi di essere divenuto troppo compassionevole nei confronti dei tre milioni, tra occupati diretti e dell’indotto, che potrebbero essere persi nel caso non giungano in tempo finanziamenti federali in entità tale da impedire ai due presidenti delle due case di Detroit di chiedere l’applicazione dell’ancora accomodante legge fallimentare statunitense.

Qualche progresso Hank deve averlo compiuto in questa operazione di persuasione se, non più tardi di ieri, la portavoce della Casa Bianca, Dana Perino, ha lasciato di stucco i giornalisti che attendono da giorni l’annuncio dell’entità e delle modalità del finanziamento statale volto a togliere dalle peste le due case automobilistiche e che si sono invece trovati di fronte per la prima volta una posizione presidenziale in linea con quella dei più fondamentalisti tra gli esponenti repubblicani che hanno fatto clamorosamente fallire il precedente tentativo di salvataggio scaturito da un’intesa raggiunta tra la Casa Bianca ed i leaders democratici del Congresso e tradottasi in un disegno di legge approvato a tambur battente dalla Camera dei Rappresentanti e poi bocciato dal Senato.

Come era largamente prevedibile, le azioni delle due alquanto disperate case automobilistiche sono rapidamente precipitate, con l’azione di General Motors che è giunta a perdere anche il 20 per cento in pochi minuti, per poi chiudere in ribasso ‘soltanto’ del 16 per cento, grazie ad indiscrezioni su progressi del piano di salvataggio e al ridimensionamento della portata delle parole della portavoce del presidente che sono state lette come un tentativo di non perdere del tutto il contatto con il suo partito e anche come un ammorbidimento preventivo della resistenza dei top manager alla durezza delle condizioni, non solo evidentemente di quelle economiche, che saranno verosimilmente richieste, inclusa la possibilità immediata o da fine gennaio che l’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volker, assuma poteri di vita e di morte sulle due malandate e già citate case automobilistiche.

Già debole di per sé, e in attesa di essere sostituito a breve da una delle esponenti del Dream Team obamiano, l’ineffabile Effe O Ixs non ha ritenuto di fare alcun che nei confronti di una più che evidente turbativa di mercato, peraltro avvenuta mentre le contrattazioni erano pienamente in corso, anche se va detto per onestà intellettuale che non rientra tra le prerogative del presidente della Securities and Exchange Commission quella di censurare le parole più o meno sagge dell’inquilino della Casa Bianca che, lo ricordo, fino al 20 gennaio continuerà ad essere, come purtroppo è avvenuto negli ultimi otto anni, il presidente degli Stati Uniti d’America, o come direbbero gli americani, “wright or wrong, my president!”

Nel frattempo, il presidente eletto, Barack Obama, ha fatto una sparata sul sistema di controlli, dicendo peraltro più o meno quello che è stato in precedenza affermato dal premier britannico e dai presidenti della repubblica francese e di quella tedesca, anche se temo che, sotto questo non secondario profilo, la ventata regolamentatoria prevista nel corso del G20 che si terrà nel mese di aprile del prossimo anno (sic) si tradurrà nella metaforica montagna che partorisce il classico topolino.

Ma il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America ha detto nei giorni scorsi una cosa molto più importante quando, dopo la storica e davvero senza precedenti decisione della Fed in materia, si fa ovviamente per dire visto il livello raggiunto dallo strettissimo corridoio previsto per i Fed Funds, di tassi di interesse, ha afermato che oramai le banche centrali hanno fatto tutto il possibile, ed io aggiungerei anche l’impossibile, e che ora la palla torna ai governi che dovranno lavorare di lena per togliere l’acqua dalle stive della semiaffondata flotta delle entità finanziarie di ogni ordine e rango strettamente legata agli altissimi marosi della tempesta perfetta che il 9 gennaio compirà il suo ventesimo mese di vita.

Non ho dubbi che il giovane senatore di Chicago e i suoi più stretti collaboratori e consulenti saranno in grado di stupirci con misure che dovrebbero, o almeno potrebbero, essere davvero all’altezza dell’emergenza che stiamo tutti vivendo, anche se ritengo che, non solo nel caso della General Motors e della Chrysler, qui è Rodi e qui bisogna saltare, in quanto il peggio già previsto per la prima metà del 2009 si tradurrebbe in uno scenario davvero drammatico se si decidesse che, esistendo una legge fallimentare, è anche giusto che la stessa venga applicata ogni volta che se ne si presenti la necessità ed i presupposti.

Non sono altrettanto certo della determinazione, ma soprattutto della coesione, dei ventisette paesi membri dell’Unione Europea, anche perché si ostinano a non utilizzare le tante o poche risorse da ognuno di essi stabilite, ma soprattutto non riescono ancora a mettersi d’accordo sulla necessità di un’azione coordinata e comune.

Apprendo della condanna a dieci anni di carcere riservata dal tribunale di Parma all’ex patron della Parmalat che ha fregato in gran parte povera gente, mentre so che una pena ben maggiore toccherà a Madoff che ha avuto il torto di fregare banche e miliardari!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 18 dicembre 2008

Addio Mr Effe O Ixs, senza di te tutto non sarà come prima!


Pur utilizzando certamente alla grande le nuove possibilità in tema di rappresentazione dei fatti di gestione offerti dalla modifica dei sistemi di valutazione previsti dallo IAS 39 per gli assets più problematici decisa nell’ultimo vertice del G20, le ultime due appartenenti alle Big Five statunitensi, la potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs e Morgan Stanley non hanno potuto evitare di evidenziare una perdita trimestrale di poco superiore, per entrambe, ai due miliardi di dollari, in fondo poca roba, ma che rappresenta, almeno per Goldman, il primo rosso mai registrato da quando, nel 1984, i suoi partners decisero l’ammissione alla quotazione dell’azione della ‘loro’ banca al New York Stock Exchange che, almeno sino all’anno scorso, era saldamente presidiato da un loro ex collega, quel John Thain poi chiamato a fare da esecutore testamentario per la prestigiosa Merrill Lynch che, a differenza della molto più sfortunata Lehman Brothers, è stata accolta tra le salde braccia di Bank of America, che in precedenza aveva già raccolto le spoglie di Countrywide.

Che entrambe le due ex Investment Banks possano sopravvivere agli alti marosi della tempesta perfetta entrata nel suo diciannovesimo mese di vita è questione alquanto controversa e che agita l’happy hour nei bar di cui è disseminato il territorio posto all’ombra del Wall, da tempo oramai trasformatosi nella succursale americana del muro del pianto, tra manager ed impiegati che dal giorno alla notte, o meglio da un momento all’altro, sono chiamati a fare frettolosamente i loro scatoloni di cartone nei quali racchiudere i pochi o tanti ricordi di un epoca del latte e miele che molto probabilmente non si ripeterà più, almeno per loro.

Certo, oggi le due navi della un tempo potente flotta delle banche di investimento sono vigilate dalla Federal Reserve, sono autorizzate a raccogliere depositi, partecipano con maggiore legittimità alle generosissime possibilità tuttora offerte dall’ampia discarica di titoli più o meno tossici della finanza strutturata gestita dal presidente della Fed di New York e a breve presidente della Fed tout court, Timothy Geithner, uno che quando ancora aveva i calzoni corti si faceva rispettare dal ministro del Tesoro e dal presidente della Fed dell’epoca, addirittura il Maestro Alan Greenspan, possono prendere il denaro ad un tasso compreso da l’altro ieri da zero a 0,25 per cento, ma, purtroppo, non è detto assolutamente che tanto basti per smaltire la montagna di problemi prodotti negli anni dai loro apprendisti stregoni indefessamente ed ingegnosamente impiegati nelle loro rabbiche prodotto e che hanno sfornato a ritmi industriali quelle vere e proprie montagne di titoli della finanza strutturata che hanno il maledetto torto di essere ancora bellamente sui loro bilanci, on ed off balance sheet.

Mentre spuntano come i funghi i nefasti effetti dello schema di Ponzi riproposto alla grande dall’ex presidente del Nasdaq, una catena di Sant’Antonio che non ha colpito i soliti gonzi ma bensì le maggiori e più sofisticate protagoniste del mercato finanziario globale, il presidente eletto Barack Obama ha deciso ieri di mandare finalmente sui campi di golf Effe O Ixs, la volpe posta a capo del pollaio rappresentato dal mercato azionario americano, al secolo noto come Christopher Cox, mettendo alla guida della Securities and Exchange Commission la cinquantenne Mary Shapiro, già presente nel Dream Team Obamiano, mentre non sono ancora defunte le speranze su un ripensamento sulla decisione di porre Larry Summers, che da ministro del Tesoro di Clinton fu, insieme a Rober Rubin, uno degli autori della nefasta deregulation che tanta parte ha avuto nell’avvio della tempesta perfetta.

Per quanto riguarda l’inchiesta vera e propria sul candido Madoff, forse riportato a breve ed a furor di miliardari e banche danneggiate, in prigione, stanno emergendo aspetti davvero esilaranti, quale il fatto che uno dei prosecutor della Sec che decise di non procedere nei suoi confronti dopo la circostanziata denuncia di un suo ex dipendente nel lontano 1999 è, in realtà, il marito di sua nipote, per non parlare del sempre più ambiguo ruolo svolto dal suo più stretto collaboratore, quello, per capirci, che teneva i rapporti con gli sventurati anche se facoltosi, a volte molto facoltosi, suoi investitori.

Ai più distratti tra i miei lettori, vorrei ricordare un aspetto emerso sin dai primi mesi della crisi finanziaria e, cioè, il fatto che la divisione della Sec incaricata di prevenire i dissesti bancari era stata smantellata quasi del tutto negli anni, al punto da spingere Effe O Ixs, nell’autunno del 2007, ad un frettoloso reclutamento di 200 uomini e donne che avrebbero dovuto più o meno chiudere la stalla quando la mandria di buoi era già bellamente scappata!

Come accade di sovente in Europa ed in particolare in Italia, è molto difficile che la verità sugli effetti di casi come il repentino ed alquanto proditori fallimento di Lehman Brothers o il buco multimiliardario di Madoff emergano con la rapidità e la trasparenza che i risparmiatori/investitori dovrebbero attendersi quando si tratta di argomenti che toccano più la reputazione che la solidità delle principali protagoniste di quell’ampio casinò a cielo aperto che oramai divenuto, a giudizio di Sarkozy e Kolher, rispettivamente presidenti della repubblica francese e di quella tedesca, il mercato finanziario più o meno globale.

E’ di ieri la notizia che una boutique del credito facente capo a Bank Austria, a sua volta del gruppo Hipoverein, a sua volta posseduto pressoché integralmente da Unicredit Group, aveva una stake del 25 per cento nell’hedge fund posseduto da una donna per gli altri tre quarti con esposizione miliardaria nei confronti di Madoff, ovvero carta straccia, il che fa salire di non poco il conto del coinvolgimento del gruppo guidato da Alessandro Profumo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 17 dicembre 2008

Insegnamenti in margine alla recente defenestrazione 'consensuale' di Pietro Modiano da Intesa-San Paolo


Mentre il mondo intero trattiene il fiato, interrogandosi sull’impatto che l’inedita mossa di Bernspan e soci avrà sul decorso della tempesta perfetta ancora virulentemente in corso dopo diciotto mesi di ininterrotta virulenza, trovo il tempo per tornare sull’ampiamente annunciato cambio al vertice della Banca dei Territori del gruppo bancario Intesa-San Paolo, una vicenda che si è conclusa con le dimissioni concordate di Pietro Modiano, nominato presidente del gruppo Tassara azionista rilevante della stessa Intesa, e l’ascesa alla carica di direttore generale unico, nonché capo della Banca dei Territori di Francesco Micheli, che occupava sino ad ieri la terza posizione esecutiva, dopo Corrado Passera, Chief Executive Officer, Pietro Modiano, direttore generale e vice CEO.

Avendo già espresso la mia opinione sull’opportunità di questo cambio della guardia nel pieno della più grave crisi finanziaria mai vista almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, non tedierò i miei lettori con considerazioni sulla stranezza dell’allontanamento di un banchiere che ha, a giudizio di tutti, ben operato in questo come negli incarichi precedentemente ricoperti nel gruppo direttamente concorrente di Intesa, riuscendo ad ottenere risultati lusinghieri in un’attività come quella del retail banking che, pur non soffrendo nello stesso modo del Corporate & Investment Banking degli effetti della tempesta perfetta, sta pur tuttavia vivendo una fase estremamente difficile.

Mi preme molto di più fare qualche considerazione più generale sul mestiere del banchiere, un mestiere che sembrava, anche in un paese come l’Italia che ha vissuto la triste esperienza delle terne proposte, a volte molto spintaneamente, dal Governatore della banca d’Italia di turno ai membri del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio che poi comunicavano al proponente, tenuto fuori dalla stanza della riunione, l’esito, cioè la nomina del presidente o del direttore generale della banca di diritto pubblico o della cassa di risparmio di turno.

Grazie anche alla legge Amato ed al ruolo svolto da Carlo Azeglio Ciampi, sembrava proprio che avessimo finalmente voltato pagina e che alla guida delle banche di ogni ordine e grado dovessero andare soltanto persone caratterizzate dalle doti che, con poche differenze rispetto a quando l’attività bancaria ha visto la luce qualche secolo fa, sono ritenute universalmente necessarie per garantire i depositanti sulla non secondaria circostanza che i loro risparmi siano al sicuro e che i prestiti vengano deliberati esclusivamente in base al merito creditizio del richiedente ed alle prospettive dell’attività economica dallo stesso gestita.

Si tratta, come è d’altra parte ovvio, di un’arte che richiede un training molto lungo e che, normalmente, prevede che il candidato a posizioni di vertice abbia maturato il maggior numero possibile di esperienze, oltre a disporre in partenza di una cultura specialistica non troppo disomogenea rispetto all’attività finanziaria e bancaria, il che non avveniva ai tempi della lottizzazione delle poltrone in un settore bancario che per almeno il settanta per cento era sotto il dominio diretto od indiretto dello Stato, ma che dovrebbe rappresentare un must quando si è giunti alla terza e forse decisiva fase di ristrutturazione del settore del credito.

Il problema vero è rappresentato dal fatto che nelle precedenti fasi del lungo e non ancora concluso processo di ristrutturazione, un processo che si è anche caratterizzato per concentrazioni che a loro volta sommavano insieme aggregazioni precedenti, come si è visto nel caso Intesa-San Paolo (dove di San Paolo è rimasto oramai poco più che il nome, privilegio volutamente non concesso alla acquisita in precedenza Banca Commerciale Italiana) ed in quello di Unicredit-Capitalia, i banchieri lottizzati sono stati sostituiti da uomini con esperienza nel settore della consulenza o in imprese del settore industriale o dei servizi, ma con poca o nessuna esperienza specifica nel settore creditizio.

E’ anche da questo vizio di origine che sono scaturiti processi e percorsi di aggregazione volti più a rispettare le autonomie delle entità, spesso fondazioni di origine bancaria, che avevano aderito al progetto di fusione, ma che erano riuscite ad imporre clausole non scritte volte a conservare il potere di influenza sull’azienda bancaria da loro conferite ad Intesa, ad Unicredit o allo stesso San Paolo di Torino quando questo era ancora un istituto aggregante e non, come poi è successo, aggregato, percorsi e processi i cui costi complessivi sono cifrabili in svariate decine di miliardi di euro e che hanno, giocoforza, portato verso i modelli attuali che peraltro non sono ancora quelli definitivi.

Tutto questo era possibile fino a che le banche andavano, per così dire, da sole, grazie alla permanenza della forma di mercato definita dal termine oligopolio collusivo e permanevano comportamenti di ‘cartello’ quali quelli sanzionati dalla Banca d’Italia con riferimento all’Associazione Amici della Banca o, sul piano più istituzionale, in quella sorta di stanza di compensazione dei rispettivi interessi rappresentata dall’Associazione Bancaria Italiana, ma è difficile che possa sopravvivere sotto gli alti marosi della tempesta perfetta e in presenza dell’approccio non del tutto amichevole del per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, uno che, ripresa la scrivania un tempo appartenuta a Quintino Sella, vi ha ricollocato il barattolo di pelati Cirio, emblematico segnale della lunghezza della sua memoria rispetto ai comportamenti tenuti nel recente passato da buona parte degli attuali presidenti ed amministratori delegati delle principali banche italiane!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

Bernspan svuota tutto il caricatore, Effe O Ixs si pente e l'Europa resta immobile!


Con una mossa davvero senza precedenti e che porta La Rederal Reserve su un terreno del tutto inesplorato nei 95 anni della sua storia, Bernspan e i suoi colleghi con diritto di voto nel Federal Open Market Committee hanno deciso ieri di portare i tassi sui Fed Funds all’interno di un range compreso tra lo zero e lo 0,25 per cento ed il tasso ufficiale di sconto dall’1,25 allo 0,50 per cento, una decisione che si accompagna ad un’analisi della situazione attuale dell’economia a stelle e strisce che non lascia davvero spazio all’immaginazione del lettore e che pare tratta dal giornale di bordo della tempesta perfetta oramai giunta nel suo diciannovesimo mese di vita.

Non vi è dubbio che i recenti dati sull’occupazione, i prezzi al consumo e all’ingrosso, la produzione industriale, la vendita di nuove case ed i nuovi cantieri, solo per citare quelli di maggiore impatto sui già depressi umori degli operatori e degli analisti, abbiano esercitato un notevole ruolo nella decisione senza precedenti della banca centrale americana, portandola ad una mossa che, come ha ben detto un noto analista statunitense corrisponde a dire “e adesso cosa altro volete che noi facciamo?”, una mossa che azzera in modo inequivocabile i già ristretti margini di manovra dell’autorità monetaria.

Compiuta la missione sui tassi di interesse, Bernspan e compagni hanno anche voluto ricordare nel loro scarno ma molto eloquente comunicato emesso al termine della riunione di due giorni del FOMC che stanno utilizzando una larga varietà di strumenti quali l’acquisto di enormi ammontari di titoli della finanza strutturata dalle nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac, così come si sta adoperando per la rivitalizzazione del mercato delle Commercial Papers a beneficio delle aziende emittenti, che stanno seriamente pensando di sottoscrivere una parte della montagna di Treasury Bonds che Paulson oggi e Geithner domani saranno costretti a stampare, insomma che non stanno lasciando nulla di intentato pur di rivitalizzare l’economia, impedire i default a catena delle banche e che tutto ciò lo stanno facendo nell’ottica di rimettere sul terreno di una crescita sostenibile la locomotiva americana che, nel bene e nel male, continua a trainare il molto malmesso treno dell’economia e della finanza a livello globale.

Ovviamente, le maggiori banche basate negli Stati Uniti d’America hanno ieri ridotto in tempo pressoché reale il loro prime rate dal 4,0 al 3,25 per cento, anche se occorrerà attendere oggi per comprendere se hanno colto il segnale drammatico proveniente dalla Fed sull’assoluta necessità che riprendano a fidarsi un po’ di più l’una dell’altra, non fosse altro che per il ribadito ruolo di prestatore di ultima istanza che la Fed, il Tesoro e le altre istituzioni federali, con la benedizione del presidente uscente e di quello eletto, stanno realmente riempiendo di contenuti!

Il crollo quasi senza precedenti dell’indice che misura i prezzi al consumo nel mese di novembre, -1,7 per cento a livello mensile che porta il tendenziale annuo ad un ben misero +1,1 per cento, l’oltre mezzo milione di buste paga perse nello stesso mese, il drammatico calo a due cifre delle nuove case e dei cantieri aperti per realizzarle, il crollo dei prezzi delle materie prime, chiariscono anche a chi non ha occhi per vedere ed orecchie per intendere che, come giustamente ripete di continuo il presidente eletto Barack Obama, il peggio deve ancora venire, ma che questo non è certo il momento per restare a guardare con le mani in mano in attesa che giunga l’onda di piena, come purtroppo capita a i cittadini di Roma alle prese con le più che prevedibili bizze del Tevere e dell’Aniene.

Pur avendo scritto a più riprese che la politica di progressivo azzeramento dei tassi di interesse correva il rischio di replicare la situazione vissuta dal Giappone negli ultimi diciannove anni, mi vedo costretto, sulla base di quanto sta accadendo ed a partire dalla profonda differenza dei due modelli economici e sociali, a correggere il tiro e ad escludere quasi del tutto che possa realizzarsi negli Stati Uniti d’America la cosiddetta trappola della liquidità decritta a suo tempo dal mai troppo compianto John Maynard Keynes, in quanto penso che, come spesso è accaduto nei momenti di vera emergenza, i cittadini di questa nazione, al pari dei sudditi di Sua Maestà Britannica nel corso del secondo conflitto mondiale, sono davvero capaci di rimboccarsi le maniche evitando alla grande il rischio di piangersi addosso.

In una drammatica testimonianza, l’ineffabile Effe O Ixs (al secolo sempre Christopher Cox) ha detto ieri che la sua Securitie and Exchange Commission ha fallito per dieci anni circa nel tentativo di contrastare l’operato dell’ex presidente del Nasdaq Madoff, nonostante una precisa denuncia nel 1999 di un operatore che aveva lavorato per lui e che aveva fatto rilevare l’anomalia di rendimenti sempre alti e sempre uguali a dispetto della più che ovvia ciclicità della congiuntura, anche se il personaggio che deve solo all’amicizia di Bush Junior il suo incarico ha dimenticato di fare l’unica cosa che gli resta: dimettersi e chiedere scusa alle donne ed agli uomini americani per la sua inerzia continuata ed aggravata!

Viene un po’ tristezza nel volgere lo sguardo a quanto nel frattempo sta avvenendo, o meglio non avvenendo, in Europa, con i ventisette governi che continuano ostinatamente ad andare ognuno per la sua strada, una situazione talmente assurda che ha spinto il germanizzato Trichet ed i suoi neotemplari colleghi del board della banca centrale Europea, nonché numerosi governatori di banche centrali, tra i quali l’italiano Mario Draghi, ad invocare un di più di decisione in termini di misure anticicliche da parte degli esecutivi, così come una maggiore coordinazione dei massicci interventi adottati dai tre paesi che maggiormente si sono impegnati, almeno sulla carta.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 16 dicembre 2008

le sacrosante ragioni che impediscono di lasciare i topi a guardia del formaggio!


Si allunga a dismisura la lista delle vittime della truffa da 50 miliardi di dollari perpretata dall’ex presidente del Nasdaq e navigatore di lungo corso di Wall Street, Bernard L. Madoff, includendo, oltre al gotha bancario mondiale, anche enti di beneficenza, fondi pensione, fondi investimento, il più ricco senatore degli Stati Uniti d’America, singoli individui, per la maggior parte residenti in quel pensionato di lusso che è lo Stato della Florida, per importi che vanno dai 40 mila al milione di dollari, una lista talmente lunga, anche se, a quanto pare, incompleta, da fare ritenere che la stessa cifra astronomica annunciata, di per sé la maggiore truffa posta in essere da un singolo individuo, possa essere approssimata per difetto.

Ignoro del tutto gli effetti che potrà avere la decisione presa in tarda serata da un giudice federale che ha imposto la ‘protezione’ degli investitori danneggiati, pronunciamento peraltro venuto su istanza dell’ente che tale protezione dovrebbe accordare, né se la stessa è riferita alle sole persone fisiche ed agli enti benefici danneggiati dal certamente compassionevole Madoff o se è estesa anche alle istituzioni finanziarie di ogni ordine e grado ed agli investitori istituzionali che, al momento, insieme al Santander, alla Hong Kong Shanghai Banking Corporation, ad una banca svizzera, al Bilbao Vizcaya e a BNP Paribas, risultano essere i maggiori colpiti dalla replica ad un secolo di distanza del celeberrimo schema di Ponzi, un a suo modo geniale immigrato italiano che decise di arricchirsi applicando una versione neanche troppo evoluta dell’altrettanto nota catena di Sant’Antonio.

Quello che ha certamente maggiormente colpito l’immaginario degli investitori/risparmiatori ovunque basati è stato il fatto che le donne e gli uomini alle dipendenze dell’ineffabile Effe O Ixs (al secolo Christopher Cox, un fedele sodale di Bush Junior da questi premiato con la presidenza della Securities and Exchange Commission, una nomina che ricorda molto quella fatta a suo tempo da Giulio Andreotti quando decise di mettere un tal Pazzi, noto ai più come tenutario di sale cinematografiche, a capo della CONSOB, anche se va detto che costui non fece peggio dei molto titolati suoi predecessori e successori nel medesimo incarico) avevano ispezionato le attività di Medoff per ben due volte, rilevando al massimo delle pecche poco più che formali nelle sue intensissime attività di brokeraggio (la sua ditta individuale era, infatti, tra i primi cinque operatori per volumi del Nasdaq di cui non del tutto a caso divenne poi presidente).

Fece molto clamore nei mesi scorsi il giudizio alquanto sprezzante espresso dal per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sulla bozza di conclusioni illustrata a due voci dal presidente del Financial Stability Forum, Mario Draghi, e dal suo ex capo in Goldman Sachs e pro tempore ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America, Hank Paulson, nel corso della famosa cena delle beffe svoltasi nell’aprile scorso in quel di Washington, presenti un vero e proprio parterre de roi di banchieri e finanzieri operanti a livello più o meno globale e basati nei cinque continenti del nostro pianeta.

Tremonti non si limitò, infatti, a definire poco più che acqua calda le conclusioni provvisorie dell’organismo autorevolmente presieduto oramai da due anni dal Governatore della Banca d’Italia, ma affermò perentoriamente, in perfetta sintonia peraltro con il dottor Doom, alias Nouriel Roubini, che la situazione era sufficientemente grave perché si evitasse di “lasciare i topi a guardia del formaggio”, attribuendo così ai massimi gestori delle banche centrali quel tanto di responsabilità nel meltdown finanziario tuttora in corso che gli stessi pienamente meritano, nonché probabilmente sottintendo al passato professionale di molti di questi al vertice di banche di investimento, di banche commerciali o di entrambe, e qui l’elenco rischierebbe di essere troppo lungo per una singola puntata del Diario della crisi finanziaria.

Nel tentativo di evitare questo rischio, penso basti ricordare il noto passato professionale dei già citati Draghi e Paulson, quello di tre o quattro dei vice del ministro del Tesoro e successivamente dirottati a capo delle banche in via di salvataggio, quello dell’ex presidente del New York Stock Exchange, John Thain, dell’ex Goldman, poi ministro del Tesoro, poi nullafacente di lusso in Citigroup, Robert Rubin, dell’attuale presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, che forse si è germanizzato anche per far dimenticare alcuni suoi trascorsi alla guida di una importante banca francese, scusandomi con i tanti, come il governatore della banca centrale canadese ed altri che non reputo abbastanza importanti perché ne citi i trascorsi in Goldman e dintorni!

I comunicati ufficiali delle due banche italiane maggiormente coinvolte nella truffa di Madoff, Unicredit Group e Banco Popolare, mi hanno costretto a rivedere il primo testo della puntata di ieri nella quale mi limitavo a riportare le consistenti somme loro attribuite dalla solitamente molto informata agenzia di informazioni che porta il nome dell’attuale sindaco di New York, Michel Bloomberg, anche se faccio notare che lo stesso comunicato emesso da piazza Cordusio, quartier generale di Unicredit Group, cita i 75 milioni di esposizione diretta, ma glissa sulla quantificazione di quelle subite via la controllate a stelle e strisce Piooner, un difetto informativo di breve respiro rinvenibile anche nelle informazioni fornite a stretto giro di posta dall’istituto presieduto dal Dr. Carlo Fratta Pasini e guidato, dopo le improvvise dimissioni di Fabio Innocenzi, dall’ex amministratore della Banca Commerciale Italiana poi uscito da Intesa-San Paolo, Piergiorgio Saviotti, anche se credo che, essendo il tempo assolutamente galantuomo, della reale esposizione delle due banche citate e di altre di cui per ora non si parla ne sapremo di più nei prossimi giorni.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 15 dicembre 2008

L'affaire Madoff colpisce anche le banche italiane!


Come era facilmente prevedibile, la truffa da almeno 50 miliardi di dollari escogitata con non troppa originalità da uno dei maggiori broker di Wall Street, nonché ex presidente del Nasdaq, Bernard L. Madoff, rischia di avere conseguenze pesanti sui clienti ‘istituzionali’ che avevano ben pensato di affidare somme che vanno dalle decine di milioni di dollari sino ai 2,5 miliardi di euro del Banco di Santander guidato dal solitamente accorto Don Emilio Botin, passando per le perdite molto elevate di Unicredit Group e quelle non meglio precisate del Banco Popolare da poco affidato alle cure di un banchiere di lungo corso di scuola Comit quale Saviotti a causa delle improvvise dimissioni del consigliere delegato Fabio Innocenzi.

Sembra quasi un’amara ironia della sorte che, schivati pressoché indenni gli altissimi marosi della tempesta perfetta, la corazzata di Don Emilio si sia andata ad incagliare sulla riproduzione più classica del cosiddetto schema di Ponzi, dal nome di un immigrato italiano negli Stati Uniti d’America all’inizio del secolo scorso che rovinò 40 mila investitori intrappolati nella classica catena di Sant’Antonio, un meccanismo piramidale che, almeno sino all’inevitabile epilogo, consente di pagare rendimenti elevatissimi ai primi sottoscrittori utilizzando le stesse somme da questi versate al truffatore di turno.

A quanto pare, lo schema utilizzato assumeva le vesti di un hedge fund con sede nelle molto compiacenti Cayman Islands, per la precisione un hedge di hedge, un organismo che non è soggetto ad alcuna vigilanza, né tanto meno al rispetto di alcuna regola, situazione alquanto anomale ed assurda ma che è stata benedetta dal Financial Stability Forum anche allora presieduto dal Governatore della Banca d’Italia, ex direttore generale del Tesoro nonché alto esponente della potente e molto preveggente Goldman Sachs, Mario Draghi, un organismo che raggruppa il meglio del meglio dei cervelli dele principali banche centrali e che, nel giugno del 2007, poche settimane prima dello scoppio della tempesta perfetta, stabilì, al termine di una lunga istruttoria, che non vi era bisogno di regolamentare gli hedge funds, confidando, non si sa bene su quali basi, sulla capacità di questi organismi di autoregolamentarsi.

L’unica consolazione in questa allucinante vicenda che non contribuirà certo ad accrescere la fiducia degli invetitori/risparmiatori nei vari organismi di controllo e sui regolatori delle diverse entità operanti in quel casinò a cielo aperto che è oramai diventato il mercato finanziario globale è rappresentata dal fatto che, una volta tanto, a restare impigliati nella rete tesa dal certamente abile Madoff non sono gli appartenenti al parco buoi ma il fior fiore delle istituzioni finanziarie statunitensi, europee ed asiatiche, entità gestite dagli stessi responsabili della proliferazione dei prodotti più o meno tossici elaborati dai ben pagati apprendisti stregoni in forza alle fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle divisioni di Corporate & Investment banking delle banche più o meno globali.

Non potevano mancare nel ben selezionato mazzo un congruo numero di banche italiane di primo livello che pur non investendo la stessa cospicua cifra di Unicredit o quelle ancora da definire del Banco Popolare, hanno creduto nelle taumaturgiche doti di Madoff per importi che variano da decine a centinaia di milioni di euro ed i cui massimi esponenti dovranno ora vedersela con il poco paziente per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, come ho scritto più volte, stava solo aspettando il pretesto per passare dalle minacce neanche troppo velate ai fatti nei confronti di quei banchieri che non ha mai troppo amato e sono certo che stavolta sarà perfettamente in grado di vincere le resistenze del premier e del suo più fidato consigliere, Gianni Letta, che, un po’ per celia ed un po’ per non morire, sembravano ostili al progetto di Tremonti di mettere mani e piedi nei maggiori gruppi bancari italiani.

Sono molto curioso di sapere cosa diranno ora gli esegeti della diversità del sistema bancario italiano rispetto ai comportamenti delle ‘spregiudicate’ ed azzardose banche straniere, di fronte all’evidenza di una similarità di comportamento che vede accomunati i top manager di banche e compagnie di assicurazione basate al di là dell’oceano Atlantico con quelli basati altrove, Belpaese pienamente e tristemente incluso, una similitudine che si era già vista con le polizze che avevano come controparte la fallita Lehman Brothers e che hanno massicciamente riguardato anche i risparmiatori italiani, generando le più disparate risposte da parte delle entità che le avevano collocate presso la propria clientela!

D’altra parte, l’acquisizione della Banca Popolare Italiana un tempo gestita dal furbetto del quartierino Fiorani da parte della Popolare di Verona e Novara non ha certo portato fortuna al gruppo creditizio poi ribattezzato Banco Popolare, passato per gravi infortuni quali quello di Banca Italease di cui continua ad essere socio di riferimento e che, sotto la gestione di Massimo Faenza, ha prodotto danni economici e reputazionali gravissimi alle banche azioniste e che continua, dopo il brusco voltafaccia degli acquirenti tedeschi avvenuto qualche giorno fa, a restare una patata bollente tra le mani di Carlo Fratta Pasini e del nuovo consigliere delegato Saviotti, una situazione che viene ben riflessa dall’andamento della quotazione dell’azione che dai 22 euro dei tempi d’oro viene ora trattata nell’area dei quattro euro, una performance certamente molto peggiore di quella registrata dall’indice settoriale che pure non è stato di certo brillante nell’ultimo anno e mezzo.

Sempre parlando di patate bollenti, non lo è certamente da meno quella che è toccata all’oramai ex direttore generale di Intesa-San Paolo, Pietro Modiano, chiamato a sbrogliare la matassa rappresentata dalla Carlo Tassara di Romain Zaleski, un vero e proprio crocevia di partecipazioni strategiche per le banche italiane.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.