lunedì 31 agosto 2009

Si allunga la lista di banche USA a rischio!


Come in quasi ogni fine settimana dall’inizio dell’anno, anche in quello appena trascorso la Federal Deposit Insurance Corporation e le altre autorità preposte al corretto funzionamento del settore bancario hanno disposto la chiusura di alcune banche, in questo caso nel numero di tre e, per fortuna, di dimensioni medio piccole, portando così a 84 il numero dei fallimenti bancari nei primi otto mesi del 2009, contro i 25 del 2008 e i 3 del 2007, l’anno nel quale ha preso il via la tempesta perfetta.

Come ha ricordato di recente Sheila Bair, presidentessa del FDIC, quello bancario è un settore che accusa in ritardo le difficoltà dell’economia, anche se, mai come nel caso di questa crisi finanziaria, tutto è iniziato nel settore del credito, anche se a causa dell’operatività di una branca particolare di attività quale la finanza più o meno strutturata, attività caratteristica delle Investment Banks e delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, ma il problema è che ora le banche sopravvissute ai problemi autogenerati devono fare i conti con la marea montante di insolvenze legate ai default delle famiglie e delle imprese.

Il primo a porre la questione dell’ondata di ritorno sulle banche dei guasti prodotti dalla recessione ufficialmente avviatasi negli Stati Uniti d’America nel dicembre del 2007 è stato il numero uno della Deutsche Bank, Joseph Ackermann, con una dichiarazione che avrebbe dovuto mandare a picco i titoli della sua e delle altre banche, cosa che non si è realizzata, almeno a vedere gli andamenti recenti delle quotazioni dei titoli della maggiori banche globali, anche per la ragione che operatori e investitori non le lasceranno fallire, come è invece accaduto per Lehman Brothers e per le altre 111 banche a stelle e strisce chiuse d’autorità.

Il problema è che la lista delle banche statunitensi a rischio secondo la stessa FDIC sono passate da 305 nel primo trimestre del 2009 a 416 nel secondo trimestre, un numero davvero preoccupante, ma ancor di più lo è l’incremento verificatosi in un lasso di tempo di appena tre mesi, per non parlare poi del fatto che la stessa lista è rigorosamente top secret, una circostanza che non fa dormire sonni tranquilli a tutti coloro che hanno depositi superiori a quella soglia di 250 mila dollari che vengono integralmente garantiti dall’organismo presieduto dalla Bair, che peraltro ha visto ridursi la sua dotazione a poco più di 10 miliardi di dollari, dopo averne persi 3,6 nel secondo trimestre dell’anno.

D’altra parte, quando il tasso di morosità sui mutui giunge al 13 per cento e quello sulle carte di credito è previsto portarsi a breve al 14 per cento, è evidente che le banche destinate ad andare incontro a un pericolo di difficoltà tendono a crescere, anche se è presto per dire quante tra esse siano destinate a chiudere i battenti e quante potranno sopravvivere grazie agli accantonamenti e alle riserve.

Quello che è certo è che i governi e le banche centrali hanno davvero raschiato il fondo del barile nella prima fase della tempesta perfetta, interventi che, peraltro, non sono stati assolutamente sufficienti a ridurre in maniera significativa l’altissima montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che ancora sono presenti al di sopra e al di sotto della linea di bilancio delle banche di tutto il mondo sussidiate con aiuti statali per migliaia di miliardi di dollari, il che sta a dire che quella che si apre in concomitanza con le dichiarazioni di prossima uscita dalla crisi, rischia di essere davvero una fase molto peggiore di quella che abbiamo vissuto dal 9 di agosto del 2007 a oggi.

sabato 29 agosto 2009

Dove è finita la fiducia dei consumatori!


Il calo del Consumer Confidence elaborato dall’Università del Michigan in agosto al livello più basso mai toccato,dal minimo segnato in marzo in concomitanza con i minimi segnati dai tre indici statunitensi ha rappresentato una doccia fredda per quanto si aspettavano il nono rialzo consecutivo del mercato azionario a stelle e strisce, anche perché già da qualche giorno operatori e investitori sembravano esitare di fronte alla tanta strada fatta in assenza di chiari e forti segnali di una inversione di tendenza dell’economia.

Un bell’articolo apparso nel web segnalava il rischio di dire che la crisi è già finita, non fosse altro che, al di là dei precedenti storici relativi al periodo intercorso tra il 1929 e il 1931, si tratta di una situazione già vissuta in questi due anni di tempesta perfetta, quando, dopo il crollo dell’ottobre 2008 sembrava che la situazione stesse migliorando, per poi precipitare nuovamente nel mese di marzo, periodo nel quale gli indici sprofondarono e le quotazioni di Citigroup e Bank of America, tanto per fare due esempi, toccarono livelli infimi e mai sperimentati in precedenza, per non parlare poi di quello che è accaduto alle azioni della General Motors o della Ford e a quelle di altre grandi compagnie operanti un po’ in tutti i settori.

Chiunque abbia una minima esperienza in materia di crisi finanziarie sa benissimo che quello da cui bisogna maggiormente guardarsi è la delusione rispetto alle promesse di miglioramento, perché sono quelle le fasi nelle quali anche coloro che, a torto o a ragione, avevano tenuto duro si lasciano prendere dal terrore maggiore per un investitore e che consiste nel fatto di trovarsi in mano titoli di poco o nessun valore, in particolare quando gli stessi quotavano in un passato recente decine di volte di più.

Il sondaggio dell’Università del Michigan è, tuttavia, leggermente migliore della prima lettura dedicata al mese di agosto, anche se credo francamente che buona parte di questo recupero rispetto al record negativo assoluto sia in buona parte legato alla grancassa suonata dagli ottimisti a un tanto al chilo, supportati nelle ultime settimane dal fior fiore dei banchieri centrali, ultimo in ordine di apparizione il Governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Group, Mario Draghi, che ha avuto l’occasione di parlare al meeting di Comunione e Liberazione in corso in quel di Rimini il giorno prima del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, e ha approfittato dell’occasione per dire, come già avevano fatto Bernspan e Trichet, che il peggio è passato anche se la ripresa tarderà un po’ a venire, il tutto condito dalla previsione che altre imprese chiuderanno i battenti e altri disoccupati si aggiungeranno a quelli che già vivono questa triste condizione, previsioni che non consentono di capire da quale parte verrà il supporto alla domanda effettiva.

Molto più duro, sia con gli economisti di professione che con i banchieri, è stato ieri Tremonti, che non si è limitato a dire che lo scoppio della tempesta perfetta era perfettamente prevedibile alla luce di quanto era accaduto negli anni e nei decenni precedenti, anche se era impossibile prevedere la data esatta dell’inizio della crisi, ma anche che quello che sta accadendo è che il denaro sta cambiando di tasca, con le perdite delle banche in buona misura ripianate grazie agli interventi massicci degli Stati e delle banche centrali, soldi che, direttamente o indirettamente, appartengono ai contribuenti, un trasferimento di rischi, al momento ancora di difficile quantificazione, che continua a non accompagnarsi con l’individuazione delle responsabilità in ordine al meltdown finanziario in corso

venerdì 28 agosto 2009

Goldman Sachs finisce sotto inchiesta!


Mentre il mercato sembra non essere in grado di prendere una direzione da ben due sedute, quella sostanzialmente flat di mercoledì e quella alquanto mista di ieri, inizia a montare il caso Goldman Sachs, aperto da un articolo di un’intera pagina del Wall Street Journal di lunedì scorso nel quale si metteva in luce una palese disparità di trattamento tra grandi clienti, ammessi ai briefing settimanali con gli analisti, e la restante parte della clientela della banca che deve accontentarsi dei rapporti ufficiali che sarebbero non sempre in linea con gli interessanti e spesso molto fruttuosi consigli di breve periodo che consentono a pochi privilegiati di approfittare delle ‘intuizioni’ in termini di trading comunicate loro a voce dal meglio del meglio degli addetti ai lavori direttamente impegnati nelle scommesse su tutto quanto è quotato nei mercati regolamentati, dalle azioni alle obbligazioni, dalle materie prime alle valute convertibili e chi più ne ha ne metta.

In attesa di una mossa da parte delle due principali Authorities, la Finra e la Securities and Exchange Commission, chiamate in causa dalle due redattrici del giornale finanziario più autorevole del pianeta e informate in anticipo della prossima pubblicazione dello stesso da parte di esponenti di Goldman, il primo a mettere sotto inchiesta la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs è stato il responsabile dell’autorità preposta alla sorveglianza dei mercati finanziari dello Stato del Massachussets, tal William Galdin, il quale ha deciso di vederci chiaro sul comportamento della banca al fine di valutare se lo stesso non abbia comportato svantaggi, se non danni, ai clienti esclusi da queste informazioni.

Come è a tutti noto, uno dei principali presupposti della concorrenza perfetta è dato proprio dall’assunto che gli operatori e gli investitori dispongano più o meno delle stesse informazioni, una previsione pressoché utopistica ma che gode di largo credito negli Stati Uniti d’America, uno dei primi paesi al mondo a dotarsi di una normativa alquanto stringente in materia di insider trading, una chimera che non ha molta più possibilità di realizzarsi dell’idea che prevede che si possa diventare ricchissimi partendo da attività quali quella di strillone di giornali o di fattorino di una qualsivoglia impresa, due idee forti che trovano raramente applicazione, ma che avevano resistito al sostanziale smantellamento dell’American Dream prodotto dalla tempesta perfetta entrata da qualche settimana nel suo terzo anno di vita.

Non sono assolutamente in grado di prevedere se, alla fine della fiera, si tratterà solo di una buccia di banana come titolavo una recente puntata del Diario della crisi finanziaria o se la cosa prenderà una piega più seria, anche se sono certo che molto dipenderà dall’atteggiamento che prenderà in proposito Obama, uno di cui si può dire tutto meno che non sia molto abile a intercettare gli umori di una pubblica opinione che da qualche tempo a questa parte interviene in modo alquanto attivo sui temi economici e finanziari, come si è visto nel caso del settore automobilistico e in quello dei bonus milionari pagati dalla stessa AIG che si era salvata dal fallimento solo grazie ad aiuti pubblici per centinaia di miliardi di dollari.

Tornando alle cose di tutti i giorni, non desta sorpresa la seconda lettura del prodotto interno lordo a stelle e strisce (in flessione, invariata, dell’uno per cento), mentre desta qualche preoccupazione il fatto che la lista delle banche in difficoltà ha superato di una balzo quota 400, una preoccupazione accresciuta dalla contesuale notizia che il fondo che dovrebbe garantire i depositi bancari statunitensi, la Federal Deposit Insurance Corporation, ha visto la sua dotazione crollare del 20 per cento a poco più di 10 miliardi di dollari, avendone persi 3,7 nel secondo trimestre dell’anno.

giovedì 27 agosto 2009

Gli USA e l'equilibrio di sottoccupazione!


Il balzo in avanti delle vendite di nuove case in luglio, una crescita di poco meno del 10 per cento nei confronti di un dato di giugno rivisto al rialzo, unito al buon andamento degli ordini di beni durevoli nello stesso mese (+4,9 per cento, grazie in particolare al rimbalzo degli ordini di velivoli dopo il crollo registrato in giugno) avrebbero dovuto mettere le ali ai tre principali indici azionari di Wall Street, ma questo, almeno nelle prime ore di contrattazione non si è verificato, anzi gli indici hanno iniziato una cauta ma alquanto uniforme discesa, quasi gli operatori e gli investitori fossero stati presi da un attacco di vertigini e si stessero chiedendo come mai sono giunti ai massimi dell’anno.

Non ho né le competenze, né tanto meno la voglia di capire le determinanti ultime del comportamento delle due categorie sopra citate, anche perché ho l’impressione, condivisa dai pochi Dr. Doom ancora in circolazione, che buona parte del rally dell’orso in corso quasi ininterrottamente dalla metà del mese di marzo, se si fa eccezione per quella correzione di inizio estate prevista con anticipo in una molto gettonata puntata del Diario della crisi finanziaria, sia ancora opera di un numero relativamente ristretto di grandissimi investitori, in pratica quasi tutte le maggiori entità operanti nel mercato finanziario globale, non poche delle quali hanno scommesso sui propri e gli altrui titoli una parte rilevante dell’abbondante liquidità a costo zero se non anche una fetta più o meno rilevante degli ingenti fondi pubblici messi a loro disposizione nell’ambito del programma TARP.

D’altra parte, una lettura in controluce delle due notizie citate in apertura consente di comprendere come, in realtà, il piatto continui a piangere ai dati dello stesso mese dell’anno precedente, per non parlare del confronto con i dati precedenti all’avvio della tempesta perfetta, confronti che consentono di dire che il dato delle vendite di nuove case in luglio rappresenta meno di un terzo del picco registrato quattro anni orsono, mentre gli ordini di beni durevoli continuano a essere di un quarto più bassi di quelli registrati a luglio del 2008.

Ma il dato relativo al settore immobiliare risente non solo della prossima scadenza (settembre 2009) del maxi bonus fiscale disposto dall’amministrazione Obama e che è pari al 10 per cento dell’importo pagato, con un tetto posto a 8 mila dollari, ma anche del comportamento dei costruttori che hanno intelligentemente ridotto l’offerta, al fine di porre nuovamente la stessa in maggiore equilibrio con la domanda, senza parlare poi della politica aggressiva di sconti praticati e che spiega in buona parte la flessione di oltre il dieci per cento tra il prezzo mediano di luglio 2009 e quello rilevabile nello stesso mese del 2008.

Quello che sta avvenendo nel mercato immobiliare, nella produzione e negli ordinativi all’industria, il tasso di disoccupazione sia ufficiale che effettivo rappresenta un vero e proprio caso di scuola di quello che il mai troppo compianto John Maynard Keynes chiamava un equilibrio di sottoccupazione, un gioco di parole neanche troppo sottile che dava molto, ma molto fastidio agli economisti neoclassici, uno stato di fatto non certo brillante che avviene nonostante l’attivismo senza precedenti delle autorità monetarie e i ripetuti maxi piani di stimolo dell’economia messi in campo sia dalla precedente che dalla nuova amministrazione statunitense e che fa chiedere a tutti coloro che si ostinano a non arruolarsi nell’esercito degli ottimisti a ogni costo cosa avverrà quando l’economia americana dovrà riprendere a camminare sulle proprie gambe, ammesso e non concesso che sia credibile che qualcuno si assumerà la responsabilità di staccare le macchine!

mercoledì 26 agosto 2009

Una buccia di banana per Goldman Sachs?


Mentre i maggiori esponenti della finanza statunitense brindano alla riconferma di Bernspan alla guida della Federal Riserve e un indice molto attendibile sul mercato immobiliare a stelle e strisce segnala un incremento dei prezzi delle case dell'1,4 per cento rispetto a quelli registrati nel primo trimestre (ma del 15 per cento inferiori rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e del 30 per cento rispetto ai picchi del 2006), il Wall Street Journal, il vero giornale di bordo della flotta finanziaria alle prese con la tempesta perfetta, solleva una questione non da poco sul modo di operare della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, accusata di usare due pesi e due misure nei confronti dei suoi clienti, alcuni dei quali sono invitati alle riunioni settimanali nelle quali vengono discusse scelte in termini di trading, mentre quelli di minore importanza devono accontentarsi di quanto riportato nelle pubblicazioni ufficiali della banca.

Che i clienti di qualsivoglia azienda, sia essa appartenente al settore finanziario o a qualsivoglia comparto manifatturiero o dei servizi, siano per definizione tutti uguali, ma che ve ne sia sempre qualcuno più uguale degli altri, è cosa talmente risaputa che non meriterebbe cenno, né tanto meno il tempo e la fatica delle due brave redattrici del WSJ, ma vi sono almeno due stranezze nella vicenda che meritano di essere approfondite e che potrebbero rappresentare una vera e propria frana per Larry Blankfein e compagni.

Prima di entrare nel merito di questi lati non del tutto chiari, vorrei lanciare un appello per sapere se c’è qualcuno che ha visto negli ultimi tempi Hank Paulson, l’ex (?) numero uno di Goldman Sachs e per un soli tre anni (ma che anni!) ministro del Tesoro, un uomo che ha avuto davvero un grande peso nelle scelte più difficili dei primi diciotto mesi di vita della tempesta perfetta e che sembra davvero scomparso nel nulla dopo il passaggio delle consegne al suo successore, Tim Geithner, quasi avesse bisogno di una lunga parentesi vacanziera per riprendersi da tutti quei week end dedicati a risolvere una grana via l’altra.

La prima incongruenza sta nel fatto che i vertici di Goldman abbiano sentito il bisogno, nei giorni immediatamente precedenti la pubblicazione dell’articolo, di informare le autorità che dovrebbero vigilare e, nel caso, sanzionare eventuali suoi comportamenti scorretti, e cioè la Financial Industry Regulatory Authority (anche nota come Finra) e la Securities & Exchange Commission, della pubblicazione a breve dell’articolo, anche se va detto che è d’uso nel giornalismo americano, in particolare caso di importanti inchieste, di sentire l’opinione dei diretti interessati, una consuetudine molto consolidata che credo sia stata seguita anche in questo caso e che metterebbe a tacere gli eventuali malpensanti.

La seconda è,invece, rappresentata dalle differenze di visione di breve periodo emerse in queste riunioni tra alcuni clienti e i responsabili del trading di Goldman rispetto a quanto contenuto nei rapporti disponibili a tutta la clientela, un tema alquanto scottante alla luce del fatto che, scomparsa Lehman Brothers e ridimensionate drasticamente nella loro operatività Bear Stearns e Merrill Lynch(assorbite, rispettivamente da J.P. Morgan Chase e da Bank of America), i veri giocatori importanti in questo rischioso ma anche molto lucroso comparto di attività si sarebbero ridotti a cinque, una situazione di fatto che facilita, e di molto, l’autoavverarsi delle profezie dei big players, spesso ai danni dei medi e piccoli operatori che vengono spesso stritolati quando i grandi girano improvvisamente, e spesso tutti assieme, le loro posizioni, una situazione che chiarisce bene il motivo per il quale le due Authorities non abbiano escluso approfondimenti del caso!

Obama conferma Bernspan alla guida della Fed!


Nutrendo un sincero disprezzo per i pettegolezzi e le dietrologie, non ho voluto dare alcun conto dell’opinione di quanti hanno visto nelle recenti dichiarazioni ottimistiche di Bernspan sulla tempesta perfetta un tentativo neanche troppo mascherato di porre una seria ipoteca sulla sino a ieri alquanto dubbia sua riconferma al vertice del sistema della riserva federale, un incarico che non fa strettamente parte dello spoil system a stelle e strisce, ma per il quale la nuova amministrazione non aveva fatto mistero di avere più di un dubbio, ma tutto è oramai superato perché è giunta la notizia della decisione di Obama di confermare Bernspan nel suo incarico.

Che la campagna per la nomina si fosse realmente aperta lo testimoniano le bordate medianiche che hanno cercato in ogni modo di far abortire la candidatura alternativa più probabile, quella del capo dei consiglieri economici di Obama e già responsabile del dicastero del Tesoro ai tempi di Clinton, Larry Summers, un uomo che, assieme a Robert Rubin, porta una grande responsabilità nello smantellamento pressoché definitivo del sistema di regole approvate negli anni Trenta allo scopo di rimuovere le cause che avevano condotto al crollo del 1929 e alla successiva Grande Depressione, regole sicuramente datate e perfettibili, ma il cui brutale smantellamento ha favorito certamente il gonfiarsi senza precedenti delle bolle speculative che sono poi scoppiate a partire dalla seconda metà del 2007.

Ha avuto quindi ragione il professore di Princeton a forzare i tempi, anche perché era perfettamente consapevole del fatto che la nuova amministrazione tutto poteva permettersi meno che un’incertezza di oltre quattro mesi sull’identità di chi sarà, prima o poi chiamato, a tirare il freno a mano, smantellando nel contempo quel ruolo di supplenza del sistema bancario cui il sistema della riserva federale è stato costretto, per non parlare poi della fine dell’epoca della liquidità abbondantissima e a tasso zero.

Come ho avuto modo di dire in una precedente puntata del Diario della crisi finanziaria, il numero uno pro tempore della Federal Reserve ha rivendicato con forza il ruolo eccezionale svolto dall’istituzione da lui presieduta nel contrastare con tutti i mezzi l’avvitamento su se stesso del mercato finanziario statunitense, e di concerto con i suoi colleghi stranieri, che lo stesso avvenisse a livello globale, così come non ha fatto mistero dei non certo trascurabili rischi che minano lo scenario alquanto roseo da lui disegnato.

Eppure, nel Dream Team obamiano vi è una persona che aveva certamente tutti i requisiti per venire nominato presidente del sistema della riserva federale, ruolo che aveva peraltro già ricoperto in passato, meritandosi il rispetto, forse anche il timore, degli uomini allora al vertice delle principali entità operanti nel mercato finanziario globale, un mercato che era allora molto diverso dall’attuale, anche se già iniziavano le spinte per giungere a quelle innovazioni che lo avrebbero radicalmente trasformato..

Quel rispetto, non certo amore o condivisione, Paul Volker dimostrò appieno di meritarli in occasione dello scontro che indusse il presidente repubblicano dell’epoca a non riconfermarlo e a preferirgli Alan Greenspan, l’uomo formatosi a Wall Street e che ha svolto un ruolo talmente attivo nella deregulation da mantenere il prestigioso incarico per diciannove anni, un record assoluto che fa il paio con quello di essere stato nominato e successivamente confermato da ben quattro presidenti!

lunedì 24 agosto 2009

Anche i ricchi piangono!


E’ davvero strano che in una giornata domenicale di questo torrido mese di agosto mi veda costretto a scegliere tra due argomenti altrettanto interessanti e altrettanto meritevoli di fare da tema alla odierna puntata del Diario della crisi finanziaria, una scelta che non me la sono sentita di fare, per cui parlerò brevemente di entrambi.

Nello stesso giorno nel quale Bernspan si produceva, complice un meeting di banchieri centrali in terra americana, nelle sue previsioni sulla ripresa prossima ventura, la Federal Deposit Insurance Corporation decideva, ovviamente a mercati chiusi, la chiusura della Guaranty Bank, una banca con sede ad Austin (Texas) con depositi per 12 miliardi di dollari e assets per 13 miliardi di dollari e con 162 filiali tra il Texas e la California, un fallimento che, per dimensioni, si pone immediatamente alle spalle di quello della Colonial Bank deciso la settimana precedente, con 20 miliardi di dollari di depositi, 22 di assets e 346 filiali operanti in cinque Stati.

In entrambi i casi, queste chiusure erano state accompagnate da quelle di altri istituti di minori dimensioni, portando il totale dei fallimenti bancari nei primi otto mesi del 2009, contro i 25 dell’anno scorso e i 3 del 2007, anche se siamo ancora ben lontani dalla vera e propria ecatombe di banche verificatasi nel corso del 1992 e dovuta alla crisi sistemica delle Saving & Loans statunitensi.

Al di là dell’ennesima emorragia di soldi pubblici, prudenzialmente stimati i 3 miliardi di dollari, quello che colpisce di più nella vicenda della Guaranty Bank è che a fare la parte del cavaliere bianco non è una banca statunitense di maggiori dimensioni, ma la BBVA Compass, affiliata americana del colosso creditizio spagnolo Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, che diviene così la quindicesima banca commerciale a stelle e strisce, con 600 filiali sparse tra la Florida e la California e con poco meno di 50 miliardi di dollari di depositi.

Si tratta del primo intervento di salvataggio di una banca statunitense effettuato da un gruppo bancario straniero, non del tutto a caso coincidente con una delle due maggiori banche spagnole, le stesse che hanno dimostrato nei fatti di dovere buona parte del loro eccellente stato di salute proprio al fatto di essersi tenuti alla larga dai titoli più tossici elaborati dagli apprendisti stregoni della finanza strutturata e che hanno anche per questo ottime chances di rafforzare la propria presenza negli Stati Uniti d’America a prezzi di vero saldo e negli Stati caratterizzati dalle maggiori percentuali di residenti di origine latino-americana.

L’altro argomento è rappresentato da un lungo reportage del New York Times sulla fine di quel processo trentennale di redistribuzione del reddito in terra statunitense e che è facilmente sintetizzabile nel passaggio da una quota del prodotto interno lordo riservata all’1 per cento della popolazione più ricco dal 9 per cento del 1977 al 23,5 per cento del 2007, un processo che sembrava destinato a durare in eterno ma che, pur non disponendo ancora delle accuratissime statistiche elaborate dall’IRS, il fisco statunitense, per il 2008, avrebbe subito una significativa battuta di arresto sia nel 2008 che nell’anno in corso, come dimostrano i dati di Forbes, di Cap Gemini e di altre fonti specializzate nel monitorare l’andamento dei patrimoni della parte più affluent della popolazione sia negli USA che nel resto del mondo, nonché il tracollo delle vendite di case da oltre due milioni di dollari e la vicenda personale di John McAfee, l’ex proprietario di una società specializzata negli antivirus, passato da 100 a soli 4 miliardi di dollari!

sabato 22 agosto 2009

Il diavolo si nasconde sempre nei dettagli!


L’ennesima esternazione fatta ieri da Bernspan è la migliore dimostrazione del detto che recita che quando il gioco si fa duro i duri entrano in campo e tutto si può dire del presidente del sistema della riserva federale meno che sia un mollaccione o un mite, come si ostinano a pensare quanti ebbero modo di frequentare quando, sotto il nome di Benjamin Bernanke, era ancora soltanto un professore del prestigioso ateneo di Princeton e, ironia della sorte, era considerato uno dei massimi esperti della storia delle precedenti crisi finanziarie.

Come è accaduto con precedenti suoi interventi e testimonianze di fronte alle commissioni bancarie del Senato o della Camera dei Rappresentanti, i titoli dei lanci di agenzia e, ne sono certo, anche quelli dei giornali in edicola oggi non rappresentano fedelmente le dichiarazioni di Bernspan, in particolare quei passaggi nei quali vengono enfatizzate le difficoltà a ottenere credito da parte di famiglie e imprese, così come quelli in cui afferma che quella che stiamo registrando è più una fase di stabilizzazione della caduta che il concreto profilarsi di un vero e proprio avvio di ripresa, una fase che difficilmente potrà avere luogo sino a che la domanda effettiva continuerà a languire e le famiglie americane si ostineranno in quella loro riscoperta di quella ferrea regola del pareggio del bilancio o delle virtù del risparmio, regola e virtù che, prima della tempesta perfetta, sembravano riguardare solo il resto degli abitanti del pianeta.

Ma tutte queste possono sembrare sofisticherie di chi non vuole arruolarsi nell’esercito degli ottimisti a ogni costo, a volte a un tanto al chilo, per la semplice ragione che i mercati, che siano quelli azionari, delle materie prime o quelli valutari non fa davvero molta differenza, ascoltano quello che desiderano più di tutto e, cioè, che tutto è destinato a salire e che le loro scommesse, anche quelle più azzardate, possono, prima o poi, realizzarsi!

Una delle parti più interessanti dell’intervento del numero uno del sistema della riserva federale e unico sopravvissuto (almeno sino alla scadenza del suo mandato all’inizio dell’anno prossimo) del rinomato trio Bush-Paulson.Bernspan è la ricostruzione del periodo orribile compreso tra il settembre del 2008 e la prima metà del mese di marzo del 2009, una ricostruzione cruda e sufficientemente veritiera della fase nella quale si è davvero rischiato il default sistemico della finanza globale, un’eventualità che, ovviamente, nessuno si augura, ma dalla quale sono state tratte ben poche lezioni, come è palesemente dimostrato dai comportamenti delle banche globali, in particolar modo dalle loro divisioni di Corporate & Investment Banking che, date molto prematuramente per spacciate, stanno tornando a contribuire, a volte in modo prevalente, ai conti economici delle rispettive entità di appartenenza.

Avendo dedicato più di una puntata del Diario della crisi finanziaria all’irrisolto problema del mercato immobiliare a stelle e strisce, non mi voglio sottrarre all’analisi del dato di ieri sulle vendite di case esistenti nel mese di luglio, vendite che hanno fatto registrare un balzo in avanti di oltre il 7 per cento, anche se, alquanto inspiegabilmente, non si è correlativamente ridotto lo stock di case invendute, esattamente pari a quello segnalato nel mese di giugno, così come non si è verificata alcun rimbalzo del prezzo mediano che continua a mantenersi di circa un sesto inferiore a quello del luglio del 2008, tutti elementi che fanno capire quanto stiano pesando le vendite all’asta e il beneficio fiscale straordinario di 8 mila dollari per coloro che acquistano per la prima volta una casa di abitazione, anche se, come nel caso delle dichiarazioni di Bernspan, è troppo forte la tentazione di limitarsi alla parte positiva della notizia, senza soffermarsi sui dettagli!

venerdì 21 agosto 2009

E' in arrivo una valanga di espropri di case!


I durissimi effetti della tempesta perfetta sull’economia reale, in particolare su occupazione e produzione industriale, stanno determinando nuovi record per le insolvenze e le procedure di foreclosure sui mutui immobiliari residenziali negli Stati Uniti d’America, una fattispecie che prende il nome di mortgage delinquencies e che, stando ai dati ufficiali sul secondo trimestre dell’anno in corso, riguarda oramai il 13 per cento dei mutui in essere, una mina da poco meno di 1.500 miliardi di dollari e che vede i ritardi nei pagamenti delle rate al 9 per cento, mentre le procedure di foreclosure sono giunte a toccare il 4 per cento dell’outstanding complessivo che dovrebbe aggirarsi tra i 10.500 e gli 11.000 miliardi di dollari, una cifra di non molto inferiore al prodotto interno lordo a stelle e strisce e che per quasi la metà fa capo alle nazionalizzate Fannie Mae e Freddie Mac.

Come è del tutto evidente, si tratta di dati realmente preoccupanti e che sono perfettamente in linea con le fosche previsioni del Fondo Monetario Internazionale sulle possibili perdite nell’altrettanto travagliato settore delle carte di credito, in particolare di quelle del tipo revolving, un’attività un tempo lucrosissima e caratterizzata da tassi di insolvenza davvero minimi, ma che dovrebbe registrare perdite pari al 14 per cento dell’outstanding complessivo, mentre sofferenze di entità percentuale non troppo inferiori a quelle relative ai mutui e alle carte di credito dovrebbero riguardare anche le altre molteplici forme di credito al consumo.

Ma quello che preoccupa davvero economisti e analisti è rappresentato dal fatto che la maggior parte dei mutui per i quali si registrano ritardi nei pagamenti o addirittura già entrati nella procedura che porta all’esproprio e alla successiva vendita all’asta dell’immobile sono mutui normali e a tasso fisso, quelli normalmente erogati solo a clientela con un buon punteggio sotto il profilo del merito creditizio, una tipologia di mutuo non caratterizzata dalle ‘trappole’ connesse a quei subprime o a quegli ARM che vedevano spesso moltiplicato l’importo della rata alla scadere del periodo biennale o triennale di grazia.

A essere colpiti, dunque, non sono più soltanto mutuatari caratterizzati da uno ‘score’ basso o bassissimo e che spesso erano stati contattati anche telefonicamente perché si sbrigassero a fare la loro parte nella realizzazione dell’American Dream, ma appartenenti alla classe media o alla cosiddetta aristocrazia operaia dell’industria automobilistica o di altri settori a forte sindacalizzazione, persone che non avrebbero mai immaginato di non potere pagare puntualmente le rate del mutuo per la semplice ragione che uno o più membri della famiglia hanno perso un posto di lavoro più o meno privilegiato e che ora devono tirare avanti con i soldi del sussidio di disoccupazione.

Pur essendo vero che non tutti coloro che sono in ritardo nei pagamenti si troveranno nella condizione di subire l’esproprio della propria casa di abitazione, è tuttavia impressionante che il 44 per cento delle procedure di esproprio non solo si concentrino in quattro Stati (Florida, California, Nevada e Arizona), ma che in due di essi, Florida e Nevada, il numero dei mutuatari che ritrova a vivere la procedura di foreclosure è pari, rispettivamente, al 12 e al 9 per cento, livelli che si pongono a tre e a oltre due volte il dato nazionale, una situazione che consente agevolmente di comprendere come mai in alcune contee dei due stati il prezzo mediano delle case sia sceso di oltre il cinquanta per cento, sino alivelli che superano davvero di pochissimo la spesa media sostenuta dalle banche per la procedura e che si aggira intorno ai 50 mila dollari!

giovedì 20 agosto 2009

UBS manda in soffitta il segreto bancario!


Dopo un lunghissimo braccio di ferro con il fisco statunitense, UBS, You & Us ha deciso di fornire i nominativi dei detentori statunitensi di oltre 4.400 conti presso sue filiali e affiliate poste al di fuori degli Stati Uniti d’America, una decisione che deve essere costata davvero molto al governo di Berna e ai vertici del colosso creditizio svizzero che, al pari delle altre banche della Confederazione elvetica, ha sempre fatto del rigoroso rispetto del segreto bancario un proprio carattere distintivo, un segreto dietro il quale si celano fenomeni di evasione fiscale, riciclaggio di denaro più o meno sporco, nonché i patrimoni di dittatori in carica o in dorato esilio.

La disponibilità di UBS a collaborare con il fisco le ha evitato ulteriori sanzioni rispetto ai 780 milioni già pagati, ma l’amministrazione Obama non ha alcuna intenzione di fermarsi qui, anche perché, stando a quanto riferisce il Wall Street Journal, sarebbero parecchi i contribuenti pentiti le cui dichiarazioni hanno consentito di stilare una sorta di elenco delle banche straniere più disponibili ad agevolare quanti volevano evadere il fisco, un elenco che vede UBS e altre tre banche svizzere affiancate ad altre sei importanti banche aventi sede in diversi paesi dell’Unione europea.

Per favorire ulteriori pentimenti, il governo statunitense ha deciso di varare misure premiali che potrebbero indurre numerosi evasori a collaborare, purché ovviamente non siano reticenti sui meccanismi utilizzati dai loro rispettivi partner bancari, che potrebbero risultare anche essere quelle banche statunitensi di maggiori dimensioni cui non difettano presenze estere, paradisi fiscali ovviamente inclusi.

D’altra parte, una delle poche novità positive derivanti dalla tempesta perfetta è rappresentata proprio dal diverso atteggiamento, o per meglio dire dalla diversa determinazione, dei leaders politici dei maggiori paesi industrializzati nei confronti dei paradisi fiscali, non fosse altro che per la semplicissima ragione che i governi da essi presieduti hanno un maledetto bisogno di mettere le mani perlomeno su una parte di quella montagna di denaro che una parte dei propri contribuenti si ostina a porre al riparo delle pretese delle rispettive agenzie delle entrate, un’esigenza di fare cassa, ma non solo, anche perché sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico si sente sempre di più la necessità di rispondere alla rabbia montante nei milioni di persone che hanno perso la casa o il lavoro, in non pochi casi entrambi!

Come ben sanno i lettori del Diario della crisi finanziaria, quella in corso è una battaglia senza esclusione di colpi, basti pensare all’utilizzo dei servizi segreti deciso dalla cancelliera di ferro tedesca, Angela Merkel, per mettere le mani, dietro lauto compenso all’ex dipendente di una banca, di una lunghissima lista di cittadini tedeschi e di altri paesi europei che avevano il vizio di portare i propri soldi in uno dei tanti sportelli bancari di cui pullula il microscopico principato del Liechtenstein, uno dei tanti stati e statarelli che traggono gran parte della loro ricchezza da questa concorrenza sleale sul piano fiscale, un’attività che, seppure in modi leggermente diversi, viene svolta anche da qualche paese membro dell’Unione europea.

L’attivismo governativo nel contrasto all’esportazione illecita dei capitali sta contagiando anche il governo italiano che, in attesa dell’entrata in funzione a metà di settembre dell’orrido scudo fiscale, sta mettendo il sale sulla coda a centinaia, se non a migliaia di contribuenti infedeli e che sono ben consapevoli che l’eventuale apertura di un procedimento di contestazione da parte del fisco vanificherebbe la possibilità di usufruire della comoda e poco onerosa sanatoria voluta da Tremonti.

mercoledì 19 agosto 2009

Prove tecniche di deflazione!


In questi poco meno di due anni da quando ho deciso di dare vita al Diario della crisi finanziaria, mi sono reso più volte conto di quanto, a volte, sia necessario anche su argomenti trattati nella puntata del giorno precedente, una necessità resa ancora più cogente dal fatto che quello di cui mi sono occupato ieri, così come farò oggi, è strettamente legato allo spauracchio maggiore per gli economisti di ogni scuola e orientamento e che è rappresentato dalla possibilità che si stia innescando quel processo di caduta generalizzata dei prezzi che prende il nome di deflazione, un rischio a lungo concretizzatosi nel corso della Grande Depressione e che, al di là del sollievo momentaneo per il portafogli dei consumatori, può avere effetti davvero catastrofici e rinviare a data da destinarsi la tanto sospirata ripresa.

Per avere un’idea della sensibilità degli operatori e degli investitori rispetto a questa questione, è sufficiente osservare la reazione quasi isterica dei mercati azionari di tutto il mondo, ma in particolare a quella materializzatasi a Wall Street, nell’ultima seduta della scorsa settimana e nella prima di quella in corso all’annuncio che l’indice dei prezzi al consumo aveva registrato variazioni negative su base annua sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, una flessione particolarmente significativa negli Stati Uniti d’America, con i prezzi del luglio 2007 inferiori del 2,1 per cento rispetto a quelli dello stesso mese dell’anno precedente.

Ma il dato relativo all’andamento dell’indice che misura i prezzi alla produzione negli USA comunicato ieri e sempre con riferimento al mese di luglio ha indicato una flessione sia su base mensile che annua molto più accentuata di quella segnalata dal Consumer Price Index (-0,9 e -6,8 per cento, rispettivamente), una flessione che, con riferimento alla sola variazione congiunturale, è risultata tripla rispetto alle previsioni degli analisti e che si è accompagnata a una nuova flessione nelle vendite di case di nuova costruzione e delle richieste di permessi edilizi, dati questi ultimi che vedono un piccolo recupero delle case individuali e un vero e proprio tracollo (-73 per cento) per quanto riguarda gli appartamenti.

Come spesso accade, i mercati azionari hanno cercato di recuperare parte del terreno perduto nelle due precedenti sedute, un fenomeno in parte legato alle ricoperture di posizioni scoperte, ma che rappresenta anche una sorta di esorcizzazione collettiva rispetto alla seconda conferma in pochi giorni della necessità dell’offerta di seguire una domanda tutt’altro che brillante, un fenomeno che resiste pure alla sterilizzazione delle componenti più volatili dell’indice e che sono rappresentati da prodotti energetici e alimentari.

Ma la notizia che fa più riflettere è quella relativa alla perdita record da 1,68 miliardi di dollari subita da CIT Group nel secondo trimestre dell’anno e comunicata sempre ieri alla Securities & Exchange Commission (quella stessa SEC che si sta affrettando a varare una nuova normativa sulle vendite allo scoperto), una perdita che va confrontata con quella di 2,02 miliardi di dollari registrata nello stesso trimestre del 2008, ma che era allora determinata dalla contabilizzazione di costi non ripetibili per 2,55 miliardi, il che, in altre parole, vuole dire che l’attività caratteristica di CIT è stata in rosso per 1,62 miliardi contro un utile modesto, ma pur sempre un utile, nel secondo trimestre dell’anno scorso, risultati che la dicono lunga sulle persistenti possibilità che la banca di riferimento dei dettaglianti e dei grossisti statunitensi potrebbe essere costretta a ricorrere a quella procedura fallimentare che sembrava evitata grazie alla recente ristrutturazione di parte del suo ingente debito!

martedì 18 agosto 2009

Mercati colpiti dal rischio deflazione!


Chi ha avuto modo di leggere le prime pagine dei quotidiani usciti il 14 e il 15 agosto si sarà accorto della ben diversa intonazione dei titoli e dei commenti dedicati alla tempesta perfetta in corso sui mercati finanziari da oltre due anni, in quanto, mentre alla vigilia di ferragosto era tutto un peana intonato allo scampato pericolo e ai frazionali recuperi trimestrali del PIL tedesco e di quello francese nel secondo trimestre, i toni e gli accenti cambiavano radicalmente il giorno successivo, a causa di chiari e inequivocabili segni di deflazione sia la di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, segno inequivocabile che all’appello della tanto sospirata ripresa continuano a essere assenti proprio quelli che dovrebbero esserne i protagonisti: i consumatori!

In diverse puntate del Diario della crisi finanziaria ho cercato di mettere in luce questa resistenza dei consumatori, in particolare di quelli statunitensi, a rispondere con entusiasmo alle sirene delle grandi catene di distribuzione che non sanno davvero più che cosa inventare per vendere, commercianti all’ingrosso e al dettaglio che, peraltro, sembrano non crederci più di tanto neanche loro, almeno a giudicare dal fatto che sono dieci mesi di fila che le scorte a ogni livello della catena della distribuzione continuano a calare e lo fanno anche nei mesi in cui vi è variazione positiva delle vendite, forse perché chi dovrebbe riempire i magazzini sa bene che questi sussulti sono dovuti alle sempre più aggressive campagne di saldi e sono quindi difficilmente replicabili.

Sarebbe peraltro alquanto difficile che il consumatore medio, anche quella variante estremamente sconsiderata e aggressiva rappresentate dalle cicale a stelle e strisce, possa decidere di cambiare atteggiamento in presenza di tassi di disoccupazione a livelli record, di un mercato immobiliare che continua ad avvitarsi su se stesso, di una restrizione del credito che colpisce in modo sempre più deciso sia le imprese che le famiglie, un cambiamento che, anzi, almeno stando ai dati statistici più recenti, sta diventando ancora più cauto ora che nei momenti peggiori della tempesta perfetta, come, a esempio, nell’ottobre del 2008 e nel marzo del 2009, i due mesi che hanno segnato i punti di minimo di questi due anni.

La vera novità sta nel fatto che di questa contraddizione tra le dichiarazioni degli ottimisti a un tanto al chilo e i comportamenti reali di imprese e famiglie sembrano essersene accorti anche coloro che operano nei mercati azionari, come è ben testimoniato dall’ultima seduta della settimana scorsa e da quella che ha aperto la presente ottava, una brusca inversione di rotta rispetto a quanto accaduto nelle sedute precedenti che avevano fatto segnare agli indici statunitensi i massimi di questo davvero strano 2009.

Devo dire per onestà intellettuale che anche nella giornata nella quale governanti e banchieri centrali si producevano in dichiarazioni molto ottimistiche non sono mancate voci, in molto casi autorevoli, fuori del coro, tra le quali credo sia giusto citare quella del premio Nobel per l’economia, Spence, che cercavano di mettere in guardia risparmiatori e investitori dal fare affidamento sia sulle variazioni congiunturale del prodotto interno lordo, sia sui rendiconti trimestrali delle banche globali che accompagnano risultati spesso brillanti in larga misura determinati dal trading e dalla ripresa della finanza strutturata a stati patrimoniali ancora in situazione di emergenza estrema, anche se so benissimo che toccherà a questi economisti la stessa sorte dei loro predecessori, nel migliore dei casi etichettati come Dottor Disgrazia, così come è del tutto evidente che i commenti di queste due giornate pesanti sui mercati borsistici parleranno di prese di beneficio e di storno in attesa di nuovi rimbalzi!

lunedì 17 agosto 2009

Ma cosa è davvero Goldman Sachs? (versione per stampa)


Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria ho dedicato ampio spazio all’analisi dei risultati relativi al secondo trimestre della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, così come ho cercato in numerose altre puntate di offrire ai miei lettori qualche informazione su questa entità che è davvero difficile inquadrare sia nel contesto delle oramai ex Investment Banks, sia nell’ampio e variegato panorama creditizio più o meno globale, anche perché, anche dopo la forzata trasformazione in holding bancaria soggetta alla vigilanza della Federal Reserve avvenuta nell’autunno dell’anno scorso, tutto si può dire meno che Goldman abbia cercato di mutare pelle trasformandosi, come qualcuno aveva molto ingenuamente previsto, di diventare un’entità più ‘normale’.

Come ho ripetutamente sottolineato, la maggior parte dei ricavi e degli utili di Goldman provengono dall’attività di posizionamento su quasi tutto quanto viene trattato sui mercati regolamentati, un’operatività che spazia dai prezzi futuri delle materie prime energetiche e non, le derrate alimentari, i tassi di interesse, le valute convertibili, gli indici azionari o le singole azioni, attività che, peraltro, svolge in quasi perfetta solitudine da quando sono scomparse dalla scena Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, la prima e la terza assorbite, rispettivamente, da J.P. Morgan Chase per un classico piatto di lenticchie, e da Bank of America, che, come è stato ampiamente e documentalmente dimostrato nelle aule del Congresso americano, è stata praticamente costretta da Bernspan e Paulson a pagare un prezzo stratosferico per un’entità tecnicamente più che fallita e a cui non è stato neppure consentito di fare nemmeno uno straccio di due diligence.

Per quanto riguarda, invece, la scomparsa dalla scena della banca un tempo appartenente ai fratelli Lehman, il discorso sarebbe troppo lungo per essere affrontato in questa sede e mi vedo costretto a rinviare i lettori alle numerose puntate specificamente dedicate ai retroscena di quel funesto avvenimento dopo il quale nulla più è stato come prima, un avvenimento che non è mai stato spiegato in modo comprensibile e razionale dall’ex (?) investment banker Hank Paulson, numero uno indiscusso di Goldman sino a quando ritenne, a metà del 2006, opportuno assumere l’incarico di ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America e che, in tale veste, non si oppose in alcun modo allo ‘strangolamento’ della banca guidata da Dick Fuld a opera delle maggiori banche a stelle e strisce che le negarono l’accesso ai propri depositi presso di loro e ne determinarono quel fallimento che minacciò seriamente, nel successivo mese di ottobre del 2008, di determinare un default sistemico a livello planetario dei diversi soggetti protagonisti del mercato finanziario, un rischio talmente concreto da indurre i paesi del G20 ad assumere con inedita prontezza e determinazione misure realmente senza precedenti.

Non voglio assolutamente con questo dire che Goldman Sachs sia rimasta l’unica entità a operare nel cosiddetto mercato delle scommesse, ma certamente che non deve più guardarsi le spalle da tre delle quattro concorrenti aventi l’expertise e lo standing per rendere meno certo l’esito delle sue mosse, una circostanza che è ulteriormente rafforzata dal fatto che Morgan Stanley, l’unica delle ex Big Five statunitensi sopravvissuta insieme a Goldman, sembra oramai muoversi esclusivamente sulla scia della sua maggiore concorrente, che, a sua volta, non sembra preoccuparsi troppo dell’operatività delle banche universali a vocazione più o meno globale, troppo occupate a pulire i propri bilanci e troppo timorose delle reazioni dei propri non più docili azionisti per lanciarsi in scommesse più o meno azzardate!
* * *
Se davvero la principale fonte di guadagni dei senior e junior partners di Goldman Sachs proviene dall’attività consistente nello scommettere sugli andamenti futuri di prezzi,indici, tassi e valute, è molto importante capire quanto le stesse abbiano le caratteristiche delle self fulfilling prophecies, cioè delle cosiddette profezie auto realizzantesi, che, a loro volta, sono rese possibili dalla forma che assume il mercato in cui si opera, dalla quantità e dal livello di informazioni di cui si dispone, dall’esperienza e preparazione delle persone direttamente impegnate, dalla qualità e dalla affidabilità del sistema informativo e operativo, nonché, the last but not the least dalle dimensioni e dal comportamento degli altri operatori.

Non è un mistero per nessuno che Goldman possiede, e alla grande, delle quattro condizioni esposte di sopra, così come correlativamente gode di una tale fama da indurre i competitors, che rappresentano la quinta condizione, ad assumere, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento cooperativo e non di contrasto, una fattispecie comportamentale particolarmente visibile nel mercato delle materie prime energetiche, con particolare riferimento a quello dove si determinano i prezzi presenti e futuri del greggio.

Dopo essere stata negata se non addirittura irrisa per decenni dai paesi produttori, dalle compagnie petrolifere e dai maggiori esperti del settore, la tesi che vede una larga prevalenza della componente speculativa nella determinazione del prezzo del petrolio è ora accettata e sostenuta proprio da coloro che così ostinatamente negavano che il prezzo fosse determinato da qualcosa di diverso dalla domanda e dalla offerta di questa importante materia prima, domanda e offerta a loro volta strettamente connesse alle diverse fasi del ciclo economico, anche se sulla base di un tasso di elasticità significativamente ridottosi a causa delle modificazioni strutturali intervenute nelle economie dei paesi maggiormente industrializzati negli oltre tre decenni trascorsi dal primo shock petrolifero.

Ma quanto è avvenuto tra il dicembre del 2007 e il luglio del 2008, quando, in piena tempesta perfetta e mentre il prodotto interno lordo statunitense iniziava a dare sempre più evidenti segnali di frenata, il prezzo del greggio infranse rapidamente tutti i record per poi portarsi al massimo storico di 147 dollari al barile, ha definitivamente chiarito come bastasse che tutti credessero possibile l’obiettivo dei 200 dollari entro la fine di quell’anno sostenuta dagli analisti di Goldman e rafforzata dalle previsioni miste ai desideri del numero uno della russa Gazprom per abbattere come birilli posti in fila i vari livelli un tempo giudicati inviolabili, una nuova corsa all’oro che vide in scia alle banche più o meno globali una massa sterminati di investitori più o meno istituzionali, tra i quali si distinsero anche molti fondi pensione, come il famoso Calpers, con la differenza che Goldman e le sue dirette concorrenti girarono per tempo le proprie posizioni, mentre la maggior parte degli altri investitori restarono intrappolati nella successiva discesa verticale dei prezzi del greggio innescata dalla reazione dei paesi produttori, Arabia Saudita in testa.

Ma quello che è accaduto tra la seconda metà del mese di marzo e la prima metà di quello di giugno dell’anno in corso, è stato davvero ancora più clamoroso, in quanto il quasi raddoppio del prezzo del greggio è intervenuto quando erano già noti i crolli dei PIL nel primo trimestre sia la di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e mentre si assisteva alla bruschissima frenata della crescita di Cina, India e dintorni, ma quel movimento al rialzo del prezzo del greggio era davvero indispensabile perché si potesse realizzare quella altrettanto incredibile corsa dell’orso sui mercati azionari!

* * *

Per avere un’idea vaga dei profitti derivanti dalle scommesse effettuate sui rialzi dei listini azionari verificatisi tra la metà di marzo e la metà di giugno dell’anno in corso, basta dare una scorsa ai grafici delle principali entità creditizie basate negli Stati Uniti d’America, a proposito dei quali mi limito a citare il passaggio dai 97 centesimi ai poco meno di 4 dollari nel caso di Citigroup o la poco meno che sestuplicazione dell’azione di Bank of America dal minimo di 2,50 ai qualcosa di più di 14 dollari, rialzi che traevano forza proprio dal segnale anticipatore della ripresa proveniente dal mercato delle materie prime energetiche, quello stesso segnale che ha fatto straparlare dei cosiddetti germogli verdi.

Comprendo pienamente l’imbarazzo dell’addetto stampa del nuovo inquilino della Casa Bianca di fronte alle domande sui successi di Goldman Sachs rivoltegli nel giorno in cui sono stati pubblicati i risultati del secondo trimestre, così come quello che avrebbe provato Obama se le stesse domanda gli fossero state fatte personalmente, in quanto buona parte di quei successi sono stati ottenuti esattamente con i metodi da lui, nonché dai suoi omologhi di Francia e Germania, fortemente censurati e da lui stesso indicati come una, se non la principale, delle cause che ci hanno condotti dritti, dritti nel meltdown finanziario ed economico attuale.

Il presidente dell’organismo incaricato di vigilare sugli strumenti derivati utilizzati per determinare i prezzi attuali e futuri delle derrate agricole ha appena dati il via a una serie di audizioni per capire se è il caso di estendere quei meccanismi di controllo che inchiodarono lo scomparso Raul Gardini per la sua operatività sulla soia anche ai futures e agli altri strumenti relativi al petrolio e alle altre materie prime energetiche, un ciclo di audizioni che durerà almeno due mesi e al termine del quale forse avremo la possibilità di capire se la nuova amministrazione intende realmente spuntare le unghie alla speculazione, un’eventualità nella quale ripongo ben poche speranze, ma che credo sarà molto legata al livello di pressione proveniente dall’opinione pubblica.

Non vi è dubbio che Goldman disponga di tutte le condizioni che rendono possibile operare con successo nel mercato delle scommesse, condizioni che ho sommariamente indicato nella puntata precedente, in quanto non solo dispone dei migliori specialisti e della migliore strumentazione disponibili, ma è anche dotata di sistemi, procedure e informazioni, tutti elementi sui quali vigilano i due Chief Operating Officer dei quali si è molto opportunamente dotata, ma è altrettanto certo che, oltre a queste condizioni indispensabili, Goldman Sachs dispone di un fattore di successo aggiuntivo che coincide nella rete di relazioni di alto e altissimo livello che le viene universalmente riconosciuto, una rete di relazioni forse unica al mondo e che viene coltivata con la massima attenzione e cura.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno il fatto che un grande numero di persone che si sono formate e sono cresciute professionalmente in Goldman abbiano successivamente ricoperto importanti incarichi sia nel settore pubblico che in quello privato, così come è altrettanto noto che numerosi esponenti di primo piano della politica a stelle e strisce o di quella operante nei cinque continenti siano poi stati arruolati, senza i cento colloqui riservati ai normali candidati all’assunzione, a livelli più o meno elevati della banca, alcuni con contratti prevedenti l’impegno a tempo pieno, mentre ad altri sono stati riservati più o meno dorati contratti di consulenza, un sistema che ha reso quelle di Goldman Sachs delle porte girevoli dalle quali una parte dei potenti del pianeta entra e esce abitualmente e che rende elevatissima la qualità delle informazioni.

* * *

La vasta e fittissima rete di relazioni intessuta negli ultimi decenni da Goldman Sachs nei cinque continenti ha raggiunto negli ultimi tempi dimensioni inedite e tali da consentirle, forse unico caso tra le pur potentissime multinazionali della finanza e dell’industria, una capacità di influenza tale da non rendere del tutto ipotetica o fantasiosa l’idea che sia finita per essere una sorta di luogo di compensazione di interessi tra di loro apparentemente contraddittori, così come si presta a essere un’istituzione molto più efficace e rapida nel suo agire di consessi quali la commissione trilaterale o il gruppo Bildberg che, al confronto, finiscono per assomigliare di più a raduni di ex alunni di scuole prestigiose ed esclusive che a quella sorta di governo planetario cui vorrebbero più o meno dichiaratamente assomigliare.

Per fare qualche piccolo esempio della capacità che la banca statunitense ha di condizionare o, quanto meno, di influenzare le scelte dei governi e delle autorità monetarie in patria e altrove nel mondo, mi soffermerò brevemente sul caso italiano, sulla rete di riferimento di Goldman negli USA nei poco meno di due anni trascorsi dall’avvio della tempesta perfetta e nella davvero emblematica vicenda del salvataggio della AIG, chiarendo sin d’ora che si tratta solo di squarci, a volte casuali, di un velo molto fitto che avvolge l’operatività complessiva della banca.

Per quanto riguarda l’Italia, non è un mistero l’attribuzione di una consulenza prima a Romano Prodi e poi a Gianni Letta, in entrambi i casi quando i due erano liberi da impegni di Governo, mentre ancora più emblematica è la parentesi svolta da Mario Draghi al vertice della presenza di Goldman in Europa e nel comitato esecutivo globale della banca, una parentesi che si è collocata tra la fine del suo impegno decennale come Direttore Generale del ministero del Tesoro con delega sulle privatizzazioni e che si è conclusa con la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia e alla successiva assunzione della guida di quel Financial Stability Forum, poi allargatosi e trasformatosi in Financial Stability Group, cui è stata affidata dal G8 e dal G20 la riscrittura delle regole da applicare alla finanza globale, ma è altrettanto nota la presenza diretta o in via consulenziale di uomini Goldman sia nei governi presieduti da Prodi che in quelli guidati da Berlusconi.

Per dare un’idea della presenza di Goldman nell’amministrazione USA, anche in questo caso senza differenza alcuna tra amministrazioni democratiche e repubblicane, non basterebbe un libro, per cui mi limiterò a citare il caso degli ex ministri del Tesoro Robert Rubin e Hank Paulson (nonché di tre dei quattro vice di quest’ultimo), dell’ex presidente del New York Stock Exchange e poi esecutore testamentario di Merrill Lynch, John Thain, così come non si contano gli ex uomini di vertice di Goldman passati a guidare le principali banche e compagnie di assicurazione statunitensi o alla guida delle presenze statunitensi di banche e compagnie di assicurazioni basate altrove.

Mentre nulla si sa di come trascorra le sue giornate il ‘soldato’ Paulson dopo la fine del suo intensissimo impegno al vertice del dicastero del Tesoro, molto si discute sulla sua decisione di porre al vertice della di fatto nazionalizzata AIG Edward Liddy, un uomo che ha percorso quasi tutti i gradini della scala gerarchica in Goldman Sachs e che da poco si godeva una meritata pensione dopo aver guidato una compagnia di assicurazione e che non ha potuto esimersi dall’accettare la richiesta pressante di Hank in cambio di uno stipendio da un dollaro l’anno, ma che già sta meditando l’uscita dopo aver garantito in poche settimane il rimborso pressoché integrale in favore delle banche statunitensi e straniere, Goldman ovviamente in testa, che hanno ricevuto buona parte dei 180 miliardi di dollari ricevuti da quel TARP fortemente voluto dallo stesso Paulson.

domenica 16 agosto 2009

Avviso ai naviganti nella tempesta perfetta! (versione per stampa)

Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America che aveva inglobato quella Merrill Lynch su cui avevano puntato in due riprese i gestori del fondo, veniamo ora a sapere che anche il fondo posseduto al 100 per cento dall’emirato di Abu Dhabi ha deciso di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva in gran quantità e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute, una mossa che ha mandato a picco l’azione della banca britannica che, proprio grazie all’aiuto del fondo di Abu Dhabi e ad altri provvidenziali apporti aveva evitato l’onta dei maxi aiuti pubblici e la nazionalizzazione di fatto subita da Royal Bank of Scotland, da Northern Rock e da altre importanti entità protagoniste del mercato finanziario britannico, forse il più colpito dalle sempre più alte ondate della tempesta perfetta che tra cinque giorni entrerà nel suo ventitreesimo mese di vita, mentre non vi sono più dubbi che il 9 agosto festeggerà, ancora in piena attività, il suo secondo compleanno.

Ma devo dire che vi è stata una notizia che mi ha colpito di più per la sua forza evocativa ed è quella della chiusura di due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori, una notizia che mi ha ricordato il primo segnale della crisi finanziaria in arrivo nel giugno di due anni orsono, quando fallirono due hedge funds facenti capo all’orso di Stearns, il tutto mentre il potentissimo numero uno di Bear Stearns trascorreva, come è emerso da precise ricostruzioni giornalistiche, le sue giornate tra il campo di golf e accanite partite a poker, entrambe attività nelle quali Jimmy E. Cayne eccelleva davvero, mentre penso proprio che, come Chairman e Chief Executive Officer della investment bank finita in dote per un piatto di lenticchie alla banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di Duke Rockefeller, verrà ricordato come uno dei tanti che hanno trasformato l’un tempo mitico mondo della finanza in un immenso casinò a cielo aperto.

L’uscita in perdita o con profitto dall’investimento nelle banche da parte dei fondi governativi arabi e cinesi, i nuovi e inquietanti scricchiolii provenienti dal mercato finanziario statunitense e l’ignominiosa e imprevista esclusione dell’azione di Citigroup da quel Dow Jones Industrials nel quale primeggiava da quando, dodici anni orsono, David Weill coronò il suo sogno di creare il primo vero supermarket del credito apportando Travellers in Citibank, che di suo aveva già acquisito Smith Barney, e creando quella Citicorp che qualche anno dopo, garantendosi un posto nel Board of Directors e una pensione milionaria, lasciò alle cure di quel Chuck Prince III allontanato quando il colosso creditizio statunitense con proiezione del tutto globale era di fato tecnicamente fallito, sono tutti segnali che mi confermano nella mia previsione di una nuova e più alta ondata delle tempesta perfetta che dovrebbe abbattersi sul mercato finanziario globale tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, un’ondata che farà definitivamente giustizia di quel davvero poco credibile rally dell’orso o di quel rimbalzo del coniglio morto che tanto inchiostro ha fatto scorrere nelle penne dei giornalisti e degli ‘esperti’ embedded agli interessi di Wall Street e dintorni!

Non appassionandomi particolarmente delle vicende borsistiche, mi tocca comunque notare che dei segnali sopra ricordati se ne devono essere accorti in molti, almeno a giudicare dall’andamento dei listini azionari di ieri, che, sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, hanno innescato una brusca retromarcia, con una pioggia di ordini di vendita che ha particolarmente colpito le diverse entità protagoniste del mercato finanziario, anche perché anche il più modesto degli investitori non vuole essere secondo nella fuga a questi organismi che sono deputati a far fruttare al meglio i soldi dei loro rispettivi governi, una mission che normalmente hanno svolto benissimo, almeno prima di avventurarsi, novelli capitani coraggiosi, tra i sempre più alti marosi della tempesta perfetta, convinti di fare ottimi affari con le banche e le compagnie di assicurazione dei paesi maggiormente industrializzati giunte, a loro avviso, a minimi dai quali non avrebbero potuto che allontanarsi in direzione positiva.

Non mi soffermo sull’ennesimo giochetto statistico che mostra gli ordini di beni durevoli statunitensi in rimbalzo dello 0,7 per cento nel mese di maggio, un rimbalzo stavolta esclusivamente dovuto a una drastica revisione del calo di aprile, passato dallo 0,9 all’1,9 per cento e che chiarisce perfettamente come il dato si situi largamente al di sotto di quello relativo al mese di marzo, giochetti sui quali avevo opportunamente messo in guardia i lettori del Diario della crisi finanziaria e che fanno il paio con le previsioni degli analisti che sono sempre più spesso improntate a una visione pessimistica del dato prossimo venturo e che finisce per valorizzare oltre misura anche il dato più negativo ed enfatizzare con la gran cassa quelli moderatamente positivi; non posso non sottolineare, inoltre, che, al netto degli ordini di velivoli (un dato che rappresenta, secondo gli esperti, una proxy più efficace del reale andamento degli ordini,), la domanda di nuovi beni durevoli è scesa in maggio del 2,4 per cento, un tonfo perfettamente in linea con quello verificatosi nel mese di aprile.

Non vi è dubbio, inoltre, che il prossimo Non Farm Payrolls, difficilmente si porrà al di sotto di un nuovo saldo negativo delle buste paga in maggio di mezzo milione, come anticipato da due attendibili sondaggi effettuati da istituti privati che rendono nota una perdita di posti di lavoro compresa tra i 525 e i 532 mila, anche se è evidente che questa ennesima emorragia di posti di lavoro nel settore privato potrebbe essere addolcita dalle assunzioni pubbliche previste dal mega piano di rilancio dell’economia proposto da Obama e approvato mesi orsono dal Congresso.

Appare davvero singolare, in una situazione chiaramente recessiva come l’attuale, l’appello rivolto da Bernspan alla nuova amministrazione e al Congresso perché inizino a predisporre un valido piano di rientro dal deficit stellare previsto per l’anno in corso e, presumibilmente, anche per quello prossimo venturo!

I governi dei paesi maggiormente industrializzati, i banchieri centrali e i regolatori di ogni ordine e grado continuano a chiedere agli investitori istituzionali e ai risparmiatori/investitori di dimenticare quanto è accaduto in questi ventidue mesi seguiti al blocco totale della liquidità sui mercati interbancari di tutto il mondo, quel fenomeno che era solo un effetto, seppur inedito e gravissimo, di quanto era avvenuto negli venticinque anni che avevano preceduto quel oramai famoso e fatidico 9 agosto del 2007, due decadi e mezzo dominate dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione globalizzazione e deregolamentazione selvaggia che hanno finito per produrre una montagna di titoli della finanza più o meno strutturata che è prudenzialmente stimata in un ammontare facciale di 50-70 mila miliardi di dollari e che si è accompagnata con una crescita esponenziale del mercato dei derivati, ma, in particolare negli ultimi anni di quel periodo ha visto uno sviluppo abnorme di quelle vere e proprie armi di distruzione di ricchezza rappresentati dai Credit Default Swaps, nati come pacifica arma di difesa rispetto alla possibilità di fallimento di una controparte più o meno indebitata e finiti per diventare un’arena infuocata di scommesse che vedeva davvero tutti contro tutti.

Questo pressing si è affatto ancora più determinato, assumendo a tratti toni anche minacciosi, da quando si è avviato il ritiro in ordine sparso dei fondi governativi, in particolare di quelli arabi e asiatici, dalle alquanto sconsiderate avventure a sostegno delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, avventure dettate sì da considerazioni geopolitiche e dall’interesse dei governi proprietari dei sopra menzionati fondi di sostenere le nazioni che per decenni hanno rappresentato i mercati di sbocco di quote crescenti di export prima giapponesi, poi delle cosiddette tigri asiatiche e di Cindia (Cina e India), nonché di volumi sempre più rilevanti di petrolio, gas e altre materie prime provenienti dai paesi dell’Opec, dalla Russia, dall’Africa e dall’America Latina.

Ma poiché nessuno è fesso, in particolare nel sempre più cruento mondo degli affari, i gestori di questi fondi avevano valutato che i valori toccati dalle azioni delle banche e delle compagnie di assicurazione statunitensi ed europee nel davvero orribile mese di ottobre del 2008, a un mese di distanza dal fallimento di Lehman Brothers, dalla nazionalizzazione di AIG e dal salvataggio in extremis di Merrill Lynch e a soli tre mesi dalla decisione del famigerato trio Bush-Paulson-Bernspan di nazionalizzare le diverse entità semi pubbliche che svolgevano e svolgono un ruolo determinante nell’immenso mercato dei mutui immobiliari, un mercato nel quale le varie Fannie Mae e Freddie Mac garantivano quasi la metà degli 11 mila miliardi di dollari totali, ebbene i solitamente accorti gestori dei fondi governativi arabi e asiatici ritenevano che tali valori rappresentassero dei minimi assoluti e in larga misura determinati dal timore di un default sistemico che le decisioni del G20/G21 di garantire pressoché integralmente i depositi bancari e varare altre misure a carattere eccezionale avevano in qualche modo sventato, una visione che rendeva un proficuo business gli investimenti in Citigroup, Merrill Lynch, Barclays, Hong Kong Shanghai Banking Corporation e nella miriade di altre entità protagoniste del mercato finanziario globale!

Purtroppo per loro, e per tutti noi, la messa sul tappeto di risorse per complessivi dieci-quindicimila miliardi di dollari da parte dei governi rappresentati nel summit ottobrino di Washington non è servita a fermare i sempre più alti marosi della tempesta perfetta che, anzi, ha spazzato con un’altra e più alta ondata i mercati azionari dell’intero pianeta nel ancor più terribile mese di marzo, il mese nel corso del quale le due banche maggiormente beneficate dai fondi del TARP per 90 miliardi di dollari complessivi e di aiuti del sistema della riserva federale per centinaia di miliardi di dollari subirono l’onta di andare sotto la soglia di un dollaro nel caso di Citigroup e di quello dei due dollari nel caso di quella Bank of America che si era fatta carico dei disastri aziendali di Countrywide, Washington Mutual e Merrill Lynch, mentre la AIG faceva da bancomat miliardario per la miriade di banche statunitensi ed europee che portarono all’incasso quei CDS nei quali la sventurata compagnia di assicurazione a stelle e strisce aveva deciso di fare da controparte, una decisione che, secondo il nuovo inquilino della Casa Bianca, l’aveva di fatto trasformata in un immenso hedge fund.

Scottati duramente, e in qualche caso più volte, i gestori dei fondi governativi arabi e asiatici sono stati duramente richiamati all’ordine dai loro mandatari, i governi appunto dei rispettivi paesi, e hanno dovuto elaborare in fretta e furia exit strategies solo in parte favorite dalla successiva corsa dell’orso che sembra evaporare in questi giorni anche a causa delle massicce vendite effettuate da Temasek e dal fondo governativo di Abu Dhabi, vendite a volte in pesante perdita, a volte in attivo, ma che rappresentano, secondo i soliti bene o benissimo informati, soltanto la punta di un iceberg di dimensioni difficilmente calcolabili, anche perché le nuove strategie dei gestori non avrebbero soltanto a oggetto le azioni o le obbligazioni delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, ma anche una gestione maggiormente diversificata di quelle migliaia di miliardi in Treasury Bonds e Treasury Bills di proprietà dei fondi o facenti la parte del leone nelle riserve valutarie dei rispettivi paesi di appartenenza (per avere un’idea, si pensi che la sola Cina ha in portafoglio titoli di stato statunitensi per poco meno di 800 miliardi di dollari).

Un segnale inequivocabile di questo sommovimento appena agli inizi è rappresentato dal nuovo vigore mostrato dall’euro e dallo yen che, nonostante gli strenui sforzi della Banca Centrale Europea e dalla Bank of Japan, hanno recuperato due terzi circa del terreno perduto nel corso di quel bimestre aprile-maggio dell’anno in corso, un periodo che verrà certamente ricordato dagli storici della tempesta perfetta come la fase di un vero e proprio inganno orchestrato da commentatori, giornalisti ed esperti del tutto embedded alle logiche del capitalismo finanziario, un coro davvero assordante e contro il quale poco o nulla hanno potuto i pochi Dr Doom e le Cassandre!
skip to main skip to sidebar
Come scrivevo nelle due puntate precedenti di questo mio avviso ai naviganti nella tempesta perfetta, di fronte ai minacciosi segnali provenienti dai ritiri di importanti investimenti effettuati dai fondi governativi arabi ed asiatici nel primo anno e mezzo della tempesta perfetta, i governi dei paesi maggiormente industrializzati, i banchieri centrali e i regolatori di ogni ordine e grado continuano a chiedere agli investitori istituzionali e ai risparmiatori/investitori di tornare a fare il proprio dovere, cosa che ostinatamente si sono rifiutati di far sin da due mesi prima dell’avvio della crisi finanziaria ancora altrettanto ostinatamente in corso da ventidue mesi, il che ci dice che lo sciopero degli investimenti sarebbe iniziato, in effetti, addirittura nel giugno del 2007, lo stesso mese nel quale l’orso di Stearns congelò e mise poi in liquidazione due suoi hedge funds.

Impegnati come sono a raccogliere sul mercato adesioni alle sempre più massicce emissioni di titoli di stato volti a coprire i buchi crescenti creati nei bilanci pubblici da interventi senza precedenti in favore delle diverse entità protagoniste del mercato finanziario e delle industrie sempre più in affanno, governi e banche centrali devono ora misurarsi con l’incognita del comportamento in materia dei fondi governativi arabi ed asiatici, nonché con lo sforzo sempre più massiccio svolto da quei paesi in termini di ricomposizione sia sul piano valutario che di rischio emittente, quello stesso sforzo che non pochi problemi aveva creato nel 2007 e nel 2008 al Tesoro statunitense e che aveva spinto l’euro sino a 1,60 dollari e aveva fatto sprofondare lo stesso dollaro sino alla davvero miserevole soglia degli 85 yen, una fase che ha vissuto una momentanea tregua solo nel bimestre aprile-maggio in concomitanza con la più che sospetta corsa dell’orso dei listini azionari statunitensi ed europei.

Come ricorderanno i più assidui tra i lettori del Diario della crisi finanziaria, mi ero visto costretto qualche mese orsono a rivedere radicalmente le previsioni sui cambi fatte alla fine del 2008, una revisione che vedeva per la prima volta l’ipotesi di un euro scambiato contro due dollari, mentre prevedevo un deprezzamento molto più modesto del dollaro che, grazie all’attivismo presumibile del Giappone, non avrebbe dovuto portarsi al di sotto della soglia dei 75 yen, mentre è del tutto impossibile prevedere cosa faranno le autorità monetarie cinesi rispetto all’annoso problema della sopravvalutazione dello yuan, mentre ho dovuto ribadire la previsione di un prezzo del petrolio oscillante di poco intorno ai 50 dollari al barile, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che, ove si realizzassero i targets previsti sui cambi, questo valore dovrebbe tenere conto dello squagliamento ipotizzato per la valuta statunitense, una valutazione, questa, che collima perfettamente con quella molto più autorevolmente avanzata di recente dallo sceicco Yamani, nella sua veste di presidente del più autorevole centro di studi sul petrolio e rafforzata dalla sua ventennale esperienza al vertice dell’OPEC, mentre, fossi nei panni degli analisti al soldo della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs non sottovaluterei affatto il significato del viaggio di Obama in medio oriente in corso in questi giorni, tappa saudita inclusa!

Ma la domanda alla quale difficilmente i leaders politici e le autorità monetarie dei paesi maggiormente industrializzati risponderanno è la seguente: per quale motivo gli investitori istituzionalie quelli in carne e ossa dovrebbero separarsi dal loro denaro dopo il vero e proprio bagno di sangue dagli stessi subito a causa della loro palese incapacità, se non della palese assenza di volontà, a tenere sotto controllo quelle stesse entità protagoniste del mercato finanziario globale che hanno, secondo i presidenti della repubblica francese e di quella tedesca, trasformato l’un tempo magico mondo della finanza in un immenso casinò a cielo aperto?

Non voglio tornare sull’alquanto miserevole sorte toccata a quanti, individui, fondi pensione o fondi d’investimento, avevano a suo tempo sottoscritto le obbligazioni emesse dalla General Motors e dalla Chrysler e ai quali è stato offerto o un decimo di quanto sborsato in denaro o la partecipazione alle nuove e non del tutto credibili avventure delle nuove entità che vedranno la luce dopo l’ignominioso passaggio attraverso le previsioni della legge fallimentare statunitense alle quali, a poco tempo di distanza, hanno entrambe dovuto fare ricorso, ad onta degli aiuti per decine di miliardi di dollari dalle stesse ricevuti dallo Zio Sam!

Non si tratta soltanto del netto ridimensionamento della ricchezza dei primi mille ricchi del pianeta, efficacemente fotografato dalla classifica annuale redatta dalla rivista specializzata Forbes, ma della ragionevole certezza che una qualsivoglia entità emittente titoli rappresentativi del suo debito sia tenuta a onorare in tutto o in larga parte le proprie obbligazioni, una preoccupazione che non pare molto condivisa dalle autorità politiche e da quelle monetarie che pure, almeno a parole, si sgolano letteralmente per indurre chi è già stato scottato a riprovarci, non fosse altro che per un più o meno sano patriottismo, un sentimento che, almeno stando ai neoliberisti che hanno dominato la scena fino all’avvio della tempesta perfetta, non dovrebbe avere alcuna cittadinanza quando si tratta di investimenti.

Il problema vero è rappresentato dal fallimento completo dello sforzo solennemente annunciato negli innumerevoli vertici dei paesi maggiormente industrializzati, uno sforzo volto a creare nuove e più affidabili regole alle quali si sarebbero dovute attenere le entità a diverso titolo operanti nel mercato finanziario globale, con particolare riferimento allo scottante tema del leverage ratio, giunto sino a cinquanta volte i mezzi propri in colossi creditizi del calibro di Deutsche Bank, ma al di sopra delle trenta volte non solo in quelle che un tempo venivano definite banche di investimento, ma anche nelle cosiddette banche universali che, dopo l’abbattimento degli ultimi paletti legislativi avvenuto verso la fine degli anni Novanta, hanno contribuito a creare quel sistema finanziario parallelo e scarsamente conosciuto che ha prodotto il meltdow attuale!

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog.

sabato 15 agosto 2009

Quanto durerà la recessione? (versione per stampa)


Se qualcuno, attratto dal titolo un po’ intrigante, pensasse di trovare in questa e nelle successive puntate del Diario della crisi finanziaria una risposta puntuale all’interrogativo che angoscia governi, banche centrali e parti sociali di tutto il mondo farebbe bene a non proseguire nella lettura, perché su questo, come su tanti altri argomenti, non fornirò altro che valutazioni a partire da quel po’ che so della finanza e dell’economia a livello globale, dalle mie esperienze professionali e dalla mia volontaria esperienza di tenutario del giornale di bordo della flotta del genere umano ampiamente squassata dagli alti marosi di una tempesta perfetta che non accenna a scemare di intensità da quando, il 9 agosto del 2007, ha preso il suo via a causa di un davvero inedito blocco della liquidità sul mercato interbancario.

Accingendomi all’impresa di fornire comunque qualche indicazione temporale, utilizzerò come riferimento metodologico quello che ho capito dell’approccio seguito dal mai troppo compianto John Maynard Keynes, forse l’unico essere senziente ad aver tratto qualche insegnamento da quell’immenso processo di distruzione di ricchezza che fu la Grande Depressione, una fase di durata nettamente superiore ai dieci anni e che venne, al di là di alcune meritorie intuizioni personali di qualche uomo politico, gestita in un modo davvero dissennato e che produsse danni certamente superiori a quelli che le vere cause del crollo borsistico dell’ottobre del 1929 e l’ignoranza quasi assoluta della componente psicologica nell’agire economico avrebbero prodotte senza alcun intervento esterno!

Scusandomi in anticipo per la lunghezza delle premesse metodologiche, mi vedo costretto a chiarire il senso della da me più volte ripetuta affermazione sull’utilizzo come stelle polari nell’orientarmi nella tempesta perfetta di due persone così diverse tra loro per storia, cultura ed esperienze professionali quali Warren Buffett, classico esempio di self made man americano che, a differenza di molti neomiliardari, non ha perso la determinazione, la sagacia e il buon senso iniziali, e George Soros, una persona di assoluto successo nella previsione dei fenomeni economici, ma che la psicologia dell’investitore medio la apprese alla durissima scuola delle persecuzioni razziali in Europa nel suo paese d’origine occupato dai nazisti, una scelta che confermo, anche se la ho allargata di recente ad un gruppo più ampio di persone che attorno a loro si è aggregata in questi mesi e che ha deciso di puntare sul giovane senatore dello Stato dell’Illinois, Barack Obama, come l’uomo in grado di consentire un radicale processo di ristrutturazione dell’economia e della finanza a stelle e strisce, presupposto indispensabile per giungere ad una risposta coordinata dei maggiori paesi industrializzati alle cause profonde che ci hanno portati a questo disastro (un gruppo che ho descritto nelle diverse puntate dedicate a quello che ho definito il patto ‘segreto’ da loro stretto con Obama nella fase più calda delle primarie del partito democratico).

Credo non sfugga ad alcuno di quanti seguono con un sufficiente grado di attenzione l’evoluzione della crisi finanziaria e della dolorosa recessione economica da questa indotta l’assoluta insensatezza delle politiche seguite dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, così come dal sistema della riserva federale e dalle altre banche centrali, nel periodo che va dall’avvio della tempesta perfetta a quello spartiacque della stessa rappresentato dalla decisione di lasciare fallire Lehman Brothers a metà del mese di settembre del 2008, una scelta quest’ultima che sarà certamente studiata quando quello che stiamo vivendo sarà finalmente divenuta Storia e che ha determinato una situazione di tale gravità da fare ritenere a persone investite di responsabilità istituzionali a livello sovranazionale che l’intero sistema finanziario globale potesse collassate nel successivo mese di ottobre, ove i governi e le autorità monetarie del G20/G21 non avessero preso le decisioni che vennero poi assunte nel corso del davvero drammatico summit svoltosi in quei giorni.

Non vi è dubbio alcuno che i colossali piani di salvataggio degli interi sistemi finanziari nazionali partorite in quel vertice e confermate successivamente a livello di parte dell’Unione europea, nonché riprodotte nei ripetuti piani del governo giapponese e di quello cinese siano stati fortemente condizionati dalle incaute e in qualche caso folli scelte assunte in precedenza dal trio Bush-Paulson-Bernspan, nonché dalla relativa inerzia dei governi degli altri maggiori paesi avanzati, i quali, a torto o a ragione, ritenevano che gli Stati Uniti d’America avessero la responsabilità di trovare la soluzione del problema, non fosse altro per avere in larghissima misura provocato la tempesta perfetta stessa, un ragionamento che, al netto dell’evidente contenuto di verità, dimostrava una assoluta miopia nei confronti dell’assoluta interconnessione provocata dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia ai quali nessuno dei leaders politici europei e asiatici si era realmente opposto!

Come spesso accade, la fretta di trovare una soluzione quale che fosse portò, in quelle davvero drammatiche giornate di ottobre (chissà perché gran parte dei fenomeni destinati a sconvolgere questo pianeta si addensano in questo mese?) dell’anno scorso, pur evitando il rischio del collasso immediato del sistema finanziario globale, hanno da un lato favorito l’acuirsi del contagio della crisi alla cosiddetta economia reale, ma, dall’altro, hanno lasciato scoperti un gran numero di sistemi creditizi e finanziari di numerosi paesi da poco membri dell’Unione europea o candidati a entrarvi, nonché di numerosissimi paesi dell’Asia, della totalità dei paesi africani e di quelli dell’America Centrale e Meridionale, un palmare esempio di coperta corta cui si è cercato di mettere una pezza nei successivi summit con impegni più o meno esigibili e con un maxi finanziamento, in parte effettivo e in maggior misura da realizzare, delle scarse risorse del Fondo Monetario Internazionale, definitivamente assurto al ruolo di prestatore di ultima istanza di quella parte del mondo dichiaratamente incapace di provvedere da sé. Ed è proprio da queste contraddizioni che prenderò le mosse domani per affrontare l’interrogativo riportato nel titolo.

Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.

Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!

Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.

Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!

Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.

Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!

Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.

Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano, un gruppo formato dai maggiori conoscitori esistenti dei fenomeni che ho cercato di descrivere di sopra, è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ sull’ultimo scorcio del 2008 e sull’intero 2009, operando una drammatizzazione dell’immediato strettamente unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una pressoché certa ripresa sin dai primi mesi del 2010, ma di questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.

Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.

Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.

Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.

L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!

Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.

Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.

Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.

Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog