domenica 31 agosto 2008

La brillante pensata di Corrado Passera su Alitalia rischia di essere copiata da Lehman Brothers e da altre banche globali!


La trovata di Corrado Passera sulla tecnicamente fallita Alitalia rischia proprio di fare scuola anche al di là dell’Oceano Atlantico, almeno se le notizie fatte sapientemente filtrare da Richard Flud, l’ultimo manager rimasto coraggiosamente sulla tolda di comando del piccolo ma antico vascello dell’investment banking statunitense che risponde al nome di Lehman Brothers troveranno nei prossimi giorni le più che prevedibili conferme.

Quale è stata la brillante pensata dell’ex enfante prodige della finanza italiana, un ex Mc Kinsey, ex top manager del Nuovo Banco Ambrosiano, ex numero uno operativo di Poste Italiane e, the last but not the least, Chief Executive Officer di Intesa già prima che questa si mangiasse in un boccone solo il solido San Paolo-IMI? Quella di dividere la compagnia di bandiera italiana in due, lasciando i debiti e le obbligazioni di ogni genere ad una bad company perfidamente affidata alle cure commissariali di un ex avversario di Berlusconi, l’ottimo Augusto Fantozzi, che, in realtà, essendo in quota Dini, è forse rientrato nelle grazie del mago di Arcore, mentre le attività in bonis di Alitalia verranno vendute, ad un prezzo di affezione e rigorosamente deciso dagli acquirenti, alla cordata dei comandanti di volo coraggiosi ancora una volta guidati da quel Colaninno Senior che già l’allora capo della merchant bank di Palazzo Chigi, l’unica, secondo il saggio e molto severo Guido Rossi a non parlare inglese, Massimo D’Alema ebbe ad etichettare come guida dei capitani coraggiosi all’epoca della prima scalata Telecom.

Non se se, come dicono autorevoli commentatori, questa sia la prima applicazione di una teoria economica, quella dell’economia sociale di mercato, tanto cara al per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, o se si tratti della solita patacca all’italiana, metodologia non studiata nei prestigiosi corsi post laurea del Mit, di Yale, di Harvard, di Princeton, di Oxford e di Cambridge né alla London School of Economics, ma che rappresenta forse più efficacemente l’ultima applicazione di metodi che trovarono buona espressione nei casi storici del capitalismo familiare italiano, seguace del mercato a parole ma molto vorace nell’approfittare della munificità dello Stato, via IRI, EFIM, EGAM, Cassa del Mezzogiorno, GEPI e chi più ne ha ne metta.

Apprezzo molto, come tutti i critici dell’economia neoliberista e mercatista, gli sforzi compiuti da Eugenio Scalfari, Massimo Giannini, Tito Boeri e gli svariati bocconiani doc che si sono pronunciati su questo presunto miracolo passeriano, cercando, bontà loro di trovare qualcosa da salvare in un qualcosa che forse solo la fervida mente di Enrico Cuccia, teorizzatore della pubblicizzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti o di quella splendida corbelleria che voleva che le azioni si pesassero e non si contassero (applicabile al mercato della Vucciria ma non ad un’economia che pretende di appartenere a pieno titolo al novero dei paesi maggiormente industrializzati, così come fecero a suo tempo di fronte alle operazioni messe in piedi dagli Agnelli per giungere al prezzo di vendita del pacchetto di azioni Fiat in mano alla libica Lafico o quelle più recenti per mantenere all’IFI-IFIL il controllo della Fiat, passando per i vari marchingegni escogitati in questi decenni per salvare il salvabile, costi quel che costi, poco importa se in spregio dei sacrosanti diritti dei creditori che mandano in bestia me almeno quanto vi mandano Guido Rossi!

So bene affermando queste cose di vivere in un Paese che spesso mette alla berlina chi denuncia le manomissioni delle più elementari regole del diritto italiano, di quello comunitario e di quello statunitense che, pur non applicabile da noi, rappresenta pure il quadro di regole della più grande nazione dell’occidente capitalistico, anche perché se ciò non fosse vero non si capirebbe lo sforzo di produzione di eccezioni a leggi preesistenti in cui si è prodotto un Consiglio dei Ministri riunito in fretta e furia alla fine del mese di Agosto, emanando un decreto legge che sarà materia di attento studio a Roma come a Bruxelles, così come sarà attentamente scrutinato dai nutriti studi legali delle principali compagnie aeree concorrenti della compagnia di bandierina Alitalia felicemente risanata.

Avendo scritto la puntata sinora di maggiore successo sia su questo blog che sui numerosi siti che hanno deciso di pubblicarla, dall’eloquente titolo “Quel che è meglio per Alitalia e per l’Italia”, non ritengo opportuno tornare sugli indubbi vantaggi presenti nel piano a suo tempo presentato da Air France, se non per dire che, da quello che emerge dal piano di Passera e Micciché, tra le due proposte non c’è davvero partita e che trovo offensiva per l’intelligenza ed il buon senso la comparazione berlusconiana tra i danni del piano presentato dall’Advisor Intesa-San Paolo ed il fallimento, perché il confronto andrebbe doverosamente fatto con la proposta francese che pagava un qualcosa per la compagnia, si accollava tutte le obbligazioni ed i debiti di varia natura e prevedeva meno di un terzo degli esuberi previsti dal nuovo piano.

Ma forse è meglio passare alla folgorazione, ammesso che abbia avuto il tempo di studiare la brillante soluzione passeriana del busillis Alitalia, che ha colto Richard Flud per risolvere gli altrettanto se non maggiori guai della sua Lehman e cioè quella di affibbiare ad una neonata bad company quanto di cattivo esiste in pancia alla banca d’investimento, che resterebbe così pulita, pulita per la delizia dei suoi molto arrabbiati azionisti che riceverebbero sì e no il 10-15 per cento di quella montagna di titoli, ma potrebbero, come ha suggerito l’ex Chief Economist Allen Sinai, ripartire daccapo con una banca certamente più piccola, ma altrettanto sicuramente più profittevole e sana di quanto lo sia ora.

Mutatis mutandis, si tratta più o meno della soluzione progettata dagli gnomi alla guida dell’extracomunitaria UBS, così come di quella che permise l’avvio dell’avventura del Nuovo Banco Ambrosiano cui contribuì brillantemente l’allora più giovane Passera, sotto la guida, ma guarda un po’, anche quella volta del sempre tormentato Professor Avvocato Giovanni Bazoli, così come di quelle perentoriamente ordinate, ma non eseguite, da un probabile scalatore alle due maggiori ma molto disastrate compagnie di assicurazione monoline, MBIA ed Ambac, così come sono certo che tante entità protagoniste del sempre più inquieto mercato finanziario globale seguiranno a breve soluzioni più o meno similari a quella partorita dalla fervida e certamente brillante mente di Corrado Passera e dei suoi più stretti collaboratori.

Apprendo dal Financial Times che Merrill Lynch avrebbe bruciato in pochi mesi un quarto circa dei 56 miliardi di dollari di profitti conseguiti in 36 anni, anche se mi preme avvertire i miei lettori che credo seriamente che nei prossimi mesi possa azzerarli completamente, se basta!

Trovo, peraltro, molto opportuna la dichiarazione, una volta tanto accomunante le nove sigle sindacali nove che ambiscono a rappresentare gli “attuali” dipendenti di Alitalia, sulla priorità di un attento esame del piano industriale, rispetto alla dolorosa individuazione quantitiva e qualitativa degli esuberi, un’affermazione in sé lapalissiana ma forse per Passera ed i suoi più stretti collaboratori non del tutto usuale!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 30 agosto 2008

Le insaziabili cicale statunitensi stanno veramente diventando delle sagge e molto risparmiose formiche!


Il piccolo sforzo richiesto nelle sue ultime puntate ai miei pochi ma affezionati lettori, rappresentato dal breve excursus sulle differenze tra l’informazione statistica cui sono abituati in Europa e la più ricca, ma un po’ particolare, messe di dati statistici messi a disposizione degli analisti statunitensi mi consente più agevolmente di affrontare la pessima notizia piombata ieri di prima ora su Wall Street e coincidente con il tracollo dei redditi personali in luglio e con un mini incremento dei consumi che, ove opportunamente depurato del particolarmente significativo impatto dei prezzi, denota un calo dello 0,4 per cento, pressoché quadruplo di quello già registrato in giugno.

La notizia ha letteralmente annichilito gli analisti, ma soprattutto gli economisti che lavorano nelle società di previsione, in quanto è evidente che un andamento simile non era stato assolutamente previsto, anche perché si tratta dei mesi sui quali doveva dispiegarsi appieno l’effetto di quell’alquanto dissennato fiscal restore deciso in modo del tutto bipartisan dal Congresso e benedetto dal duo Bush-Paulson, un’iniezione per complessivi 165 miliardi di dollari, 93 dei quali risultano materialmente pervenuti ai beneficiari entro il 15 di luglio.

Su questo veramente insensato intervento a pioggia, credo veramente di avere già detto tutto, ma non posso esimermi dal sottolineare come un impegno finanziario di questa o anche di inferiore portata avrebbe consentito di rinegoziare buona parte dei mutui più a rischio di insolvenza, come peraltro aveva detto già nel settembre del 2007 la brava responsabile dell’ente federale deputato ad occuparsi di questo argomento, una persona che, grazie anche al solido buon senso che caratterizza normalmente le donne, era andata direttamente al cuore del problema, che era, ed è, rappresentato dalla necessità di disinnescare le clausole contenute nei sub prime e nei micidiali ARM, mutui che garantiscono condizioni iniziali veramente irrisorie, ma che poi, passato questo periodo di grazia, prevedono rate anche multiple di quelle iniziali, non più supportate da quel costante rialzo del valore delle abitazioni verificatosi puntualmente sino a metà del 2007.

Non vorrei che passassero nel tritacarne della memoria le parole che ebbe a dire il cattivo Maestro Alan Greenspan in una storica audizione presso la Commissione bancaria del Senato degli Stati Uniti d’America, quando, con il solito modo sornione che lo caratterizzava, sussurrò agli estasiati senatori che chi non aveva rifinanziato il proprio mutuo aveva perso decine di migliaia di dollari, una vera e propria istigazione ad utilizzare quella che è stata la più significativa forma di finanziamento di consumi più o meno voluttuari che le banche di ogni ordine e grado proponevano ai loro clienti e che ha rappresentato una colonna portante del mito della crescita senza crisi, un mito che si è tristemente infranto l’estate dell’anno scorso sugli alti marosi della tempesta perfetta tuttora in corso.

Non vorrei essere nei panni dell’erede del Maestro, Bernspan, né in quelli dei suoi complici ancora in libertà ed ancora membri del federal Opne Market Committee, persone che, prese una per una, saranno anche brave e competenti, ma che, sottoposti alle energiche e persuasive pressioni degli inquilini dei grattacieli di Wall Street, hanno distrutto quel poco che restava della credibilità di quella Federal Reserve istituita soltanto nel 1913, sei anni dopo la prima tempesta perfetta, quella che nel 1907 fu disinnescata da quel pirata, ma molto competente, che rispondeva al nome di John Pierpoint Morgan, uno che salvò, non certo per motivi filantropici, baracca e burattini staccando assegni ai terrorizzati operatori che volevano chiudere in anticipo la borsa, assegni garantiti dal carico d’oro stivato nel transatlantico Lusitania già salpato da un porto inglese e diretto a New York!

Ma perché è così importante il comportamento dei consumatori statunitensi? Ma per il semplicissimo motivo che, in un’economia come quella statunitense che ha finito sempre di più per somigliare ad un’immensa catena di Sant’Antonio, oltre due terzi del GDP sono attribuibili alle loro, più o meno sensate, decisioni di spesa, spesso effettuate attraverso lo zip zip di quelle micidiali armi letali rappresentate dalle loro carte di credito che un telepredicatore molto in voga fa distruggere da consumatori molto indebitati ed altrettanto pentiti tra il tripudio dei fedeli presenti e della moltitudine di quelli collegati via apparecchio televisivo o via web.

Come ricordava un molto diffuso quotidiano italiano, una di queste fedeli è rinata dopo avere distrutto la sua vita attraverso l’uso alquanto spregiudicato di ben cinquecento diverse tesserine di plastica, ottenute anche grazie alle aggressive politiche di marketing finanziario che da qualche tempo ascoltiamo anche nelle pubblicità che oramai fanno la parte del leone nell’advertising sui media di ogni genere e natura.

Lasciando per un attimo da parte i “consumatori anonimi” e le loro più o meno sincere conversioni sulla via dei valori salvici del risparmio, mi trovo costretto ad affrontare un'altra anomalia delle statistiche statunitensi e, cioè, quella della depurazione dell’inflazione osservata dai cosiddetti elementi volatili, rappresentati da quelle quisquiglie e pinzillacchere dei consumi energetici e di quelli alimentari, una trovata che forse può essere adatta per molto evoluti extraterrestri, ma è difficilmente applicabile, e tanto meno, secondo l’opinione di uno dei tanti premi Nobel per l’economia che insegnano negli Stati Uniti d’America, alle donne ed agli uomini in carne ed ossa, figuriamoci a volerla prendere in considerazione nel caso della specie più vorace di cavallette esistenti sul nostro pianeta: le consumatrici ed i consumatori made in USA!

Il problema è rappresentato dal fatto che, in margine al brutto dato su redditi e consumi personali diffuso ieri, anche operando questa alquanto originale depurazione, Bernspan ed i suoi complici assisi ai loro scranni del FOMC sono nei guai, in quanto sono nella spiacevole situazione di dovere spiegare per quale motivo i tassi a cui si finanziano presso gli sportelli o la discarica a cielo aperto per trasformare la spazzatura rappresentata dai titoli della finanza strutturata che nessuno vuole più in denaro contante da restituite comodamente ad 84 giorni data risultano oggi negativi, ove espressi in termini reali, per un valore che va dalle decine alle centinaia di punti base, a seconda che si usi l’inflazione vera o quella talmente depurata che non si sa a chi si riferisca, se agli abitanti della Terra o a quelli di Marte.

Apprendo solo ora che tra il luglio e l’agosto del 2006, l’appena insediato ministro del Tesoro statunitense, l’ineffabile Henry Paulson, fu messo in guardia da due dei suoi vice sui problemi che già allora affliggevano le due colonne semipubbliche dell’immenso settore del mortgage, Fannie Mae e Freddie Mac, e che l’investment bunker avrebbe prontamente replicato che, nei suoi lunghissimi anni al vertice della molto potente e certamente preveggente Goldman Sachs, non gli era mai capitato di perdere il sonno per le sorti di due istituzioni della cui solidità era più che certo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 29 agosto 2008

Istruzioni per l'uso delle statistiche economiche statunitensi


Dopo la buona notizia del secondo dato positivo consecutivo dell’indice che misura gli ordinativi di beni durevolinegli Stati Uniti d’America (+1,3 per cento su base mensile sia in giugno che in luglio) ieri è stata la volta della revisione al rialzo del dato sul Gross Domestic Product che, nella seconda delle tre letture previste per il secondo trimestre 2008, è stato portato dall’1,9 al 3,3 per cento annualizzato, una revisione in larga misura legata al balzo in avanti dell’export statunitense su cui mi sono ampiamente soffermato nella puntata di ieri.

Nelle 350 puntate del Diario della crisi finanziaria apparse a partire dal 4 settembre del 2007, mi sono più volte soffermato sulle particolarità che caratterizzano la ricca informazione di dati ed informazioni fornite dai vari enti pubblici e privati che consentono agli analisti ed agli operatori di avere un quadro molto dettagliato ed estremamente aggiornato di quella che resta l’economia principale del pianeta, una messe di dati che per quantità, dettaglio e cadenza non paragoni con quella di nessun altro paese industrializzato, ma che, in alcuni casi, richiedono delle avvertenze per l’uso utili ad evitare pericolosi fraintendimenti dell’informazione stessa, avvertenze che ritengo utile riprendere qui per quanti si fossero messi solo ora in ascolto del Diario.

Come ho già avuto modo di ricordare, una di queste particolarità riguarda proprio il dato fornito, mediante tre successive letture, del dato sulle variazioni del GDP, che vengono segnalate su base cosiddetta annualizzata, moltiplicando, cioè, l’incremento o il decremento sul trimestre precedente e poi moltiplicando per quattro, il che, nel caso del secondo trimestre dell’anno in corso, indica che la variazione rispetto al primo trimestre è stata dello 0,825 per cento, mentre la variazione evidenziata nel primo trimestre rispetto al quarto del 2007 era stata appena dello 0,225 per cento (l’altra anomalia statistica è rappresentata dal fatto che per quanto riguarda il valore delle vendite delle abitazioni, in luogo del prezzo medio, si adopera il prezzo mediano, che è poi quello al di sopra ed al di sotto del quale si pongono il 50 per cento superiore e quello inferiore).

Potrebbero sembrare solo delle inutili sottigliezze statistiche, ma vi assicuro che, se operate il confronto, come si fa all over the world, nei confronti del forte secondo trimestre dell’anno scorso, il risultato combia e di molto; ma, soffermandoci sul dato così come viene presentato, emergono delle perplessità di tipo più economico, perplessità per altro condivise, per una volta, dalla maggioranza dei commentatori e degli analisti, in quanto, a parte la già menzionata nettissima partecipazione al risultato complessivo rappresentata da un export trainato dall’infimo del dollaro se valutato su base trade weighte, va registrato il buon andamento dei consumi che segnalano un rialzo, sempre su base annualizzata, pari all’1,7 per cento.

Perché anche io ho delle perplessità sulla componente consumi del GDP nel trimestre esaminato? Ma per il semplice motivo che questa crescita non eccezionale né su base trimestrale (0,425 per cento), né su base annualizzata (1,7 per cento, appunto) ha risentito molto pesantemente di quel mega piano di restituzione fiscale indiscriminata che ha messo, in maggio, nelle tasche dei contribuenti 600 dollari a testa (1.200 per le famiglie in cui entrambi i coniugi dichiarino un reddito), una elargizione una tantum a pioggia che non ha risolto i problemi di chi è in difficoltà con il mutuo della casa o con il lavoro, o con tutti e due, mentre è stato un insensato, per quanto effimero, incentivo alla spesa per chi, e per fortuna sono tanti, che questi problemi, almeno per il momento, non ne ha.

Come usano dire gli statistici di professione, questo era veramente un caso di scuola per effettuare una sorta di tara opportuna del dato, in quanto non è possibile individuare la velocità di crociera dell’economia, proiettando la variazione trimestrale anche sui tre trimestri successivi, per il semplice motivo che, svanito l’effetto dei 165 miliardi di dollari insensatamente andati a tutti, le cose andranno come e peggio di come sono andate nel quarto trimestre 2007 e nel primo trimestre 2008, cioè male o peggio!

Ma passando dalle avvertenze sull’uso delle statistiche Usa alle questioni più calde legate al casinò a cielo aperto della finanza globale, quali,a solo titolo di esempio, la notizia riportata dal giornale di bordo della tempesta perfetta, quel Wall Street Journal che da oltre dodici mesi non ha sbagliato un colpo, che ci informa che è atteso per oggi l’annuncio del default della Contea di Jefferson in Alabama, con buona pace di MBIA , Ambac e le altre compagnie di assicurazione monoline che garantiscono i cosiddetti munibonds, ma che, almeno e segnatamente le prime due entità citate, hanno scelto insensatamente qualche anno fa di prestare garanzie anche nei confronti delle emissioni di titoli della finanza strutturata, quelli che, come tutti oramai ben sanno, nessuno, ma proprio nessuno vuole più.

Se consentissi i commenti a questo blog, sono certo che qualcuno si farebbe vivo per ricordarmi che, dagli inferi cui erano giunte solo qualche settimana fa, le azioni di MBIA ed Ambac, così come quelle delle altrettanto tecnicamente fallite Fannie e Freddie, sono balzate in avanti, giungendo a multipli dei minimi toccati, ma restando sempre a livelli compresi tra il 10 ed il 20 per cento dei massimi toccati nelle ultime 52 settimane.

Pur non avendo una risposta certa a questo, non sottovaluterei quell’impatto da calcio di rigore (scusate il gergo da dealing o trading room)esercitato dallo stupefacente provvedimento assunto da un redivivo Effe O Ixs (al secolo, Chistopher Cox, presidente della Securities and Exchange Commission) che ha stabilito alla metà di luglio che non era possibile per circa un mese operare vendite allo scoperto sulle principali diciannove entità operanti nel mercato finanziario statunitense, un provvedimento che ha reso certi i guadagni che si potevano realizzare acquistandole a quegli infimi livelli cui erano giunte, cosa che, peraltro, con ogni probabilità si sono precipitati a fare anche quei personaggi come David Einhorn ed i miliardari che operano sulla sua scia che a quegli infimi livelli le avevano fatte precipitare.

E’ proprio pensando alla misura, per fortuna soltanto temporanea, adottata da Effe O Ixs o all’appena citato piano di fiscal restore, per non parlare della dissennata gestione degli effetti della tempesta perfetta ad opera del duo Bernspan-Paulson che mi permetto di affermare che ha proprio ragione Barak Obama, quando, nel suo bellissimo discorso di accettazione della candidatura offertagli dal partito democratico per la corsa alla Casa Bianca, ha detto che otto anni di gestione repubblicana sono più che sufficienti e che sarebbe insensato, oltre che sbagliato, conferire a Mc Cain il terzo mandato dell’era di Bush Junior!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 28 agosto 2008

La fabbrica del formaggio verde continua a produrre a pieno ritmo!


Ieri, dopo tante amare sorprese, è giunta una notizia positiva dalla economia reale degli Stati Uniti d’America, in quanto in luglio, per il secondo mese consecutivo, l’indice che misura gli ordinativi di beni durevoli ha registrato un sensibile rialzo dell’1,3 per cento, incremento identico a quello rivisto per il mese di giugno che era stato in precedenza stimato in un già lusinghiero +0,8 per cento.

Una volta tanto pressoché unanime, il giudizio degli analisti su questo doppio rimbalzo degli ordinativi all’industria manifatturiera statunitense attribuisce al valore molto depresso del dollaro, ben testimoniato dall’andamento dell’indice trade weighted, che, almeno sino al rimbalzo alquanto drogato registrato di recente, vedeva lo squagliamento del biglietto verde nei confronti di tutte le valute, eccettuata solo la pizza di fango del Camerun cara ai comici della fortunata trasmissione Avanzi, che ha certamente contribuito al forte incremento dell’inflazione importata, ma ha fornito una spinta molto energica alle esportazioni di tutti quei prodotti nei quali le fabbriche americane mantengono una posizione competitiva, quali l’informatica “pesante”, l’aereonautica civile (beneficiata da un vero rimbalzo rispetto al relativo flop di giugno) e le tante altre produzioni che non sono state massicciamente delocalizzate nelle aree del mondo che spesso esportano prodotti prevalentemente made in USA anche se le lavorazioni finali sono effettuate in Asia, in Europa o in paesi appartenenti ad altri continenti.

Eh già, perché studi recenti hanno consentito di scoprire che una parte tutt’altro che marginale dell’export di qualità cinese, indiano, tedesco, così come quello proveniente da numerosi altri paesi caratterizzati da una solida posizione strutturale nei conti con l’estero, è caratterizzato da un contenuto di lavorazioni effettuate negli USA e poi assemblate nel paese di turno che va dal 20 all’80 per cento, il che conferma che l’apparente supinità che ha caratterizzato le diverse amministrazioni succedutesi negli ultimi venti anni negli Stati Uniti d’America nei confronti dei giganteschi volumi di export provenienti dal Giappone prima, dalla Cina e l’India poi, per non parlare dell’avanzo strutturale che caratterizza importanti paesi europei come la Germania e la Francia, un export che molto spesso generava lauti profitti per le multinazionali americane che, direttamente od indirettamente, controllano le aziende esportatrici di quei paesi o forniscono loro i semilavorati, per non parlare poi di quella vera e propria supremazia mondiale nel software ed in misura significativa dell’hardware, in buona parte dell’industria farmaceutica, ma anche in settori tradizionali come la siderurgia, la chimica fine e quella pesante e via discorrendo.

E’ certo tragicamente vero che da decenni l’industria stelle e strisce ha realizzato, o ha avuto larga parte, in quella divisione internazionale del lavoro che ha visto le lavorazioni più inquinanti e meno avanzate prendere la strada dell’Europa prima, del Giappone, delle tigri asiatiche e, infine, di quella che viene definita Cindia, una delocalizzazione che spesso ha visto lo smantellamento e la successiva riedificazione di acciaierie, raffinerie, impianti chimici, fabbriche di automobili un tempo operanti negli Stati Uniti d’America in tante altre nazioni del mondo, spesso accolte molto volentieri dai paesi destinatari di tali produzioni, in un processo che ha visto l’esportazione del lavoro più sporco verso aree che, tempo per tempo, avevano una sensibilità ambientale molto scarsa per il semplicissimo motivo che avevano un disperato bisogno dell’occupazione, dei redditi e delle tasse derivanti da quelle lavorazioni senza troppe storie importate.

Non so se Marcello De Cecco sottoscriverebbe oggi quanto ebbe a dire nei primi anni Settanta in un suo applauditissimo intervento alla Facoltà di Economia dell’Università di Napoli, quando, usando l’efficacissima formula della “fabbrica del formaggio verde”, spiegava le cose che ho appena ricordato, anche perché da giovane economista aveva avuto modo di vedere come il Piano Marshall fosse servito per dare un grande impulso all’export delle merci e dello stesso modello americano, ma anche ad acquisire una parte non marginale dell’industria manifatturiera di un’Europa che era stata teatro delle maggiori tragedie della seconda guerra mondiale che aveva, invece, e come era già accaduto nella prima di queste tragedie dell’umanità nel XX secolo, visto del tutto intatti i suoi opifici e visto prosperare quello che era ed in buona parte resta il motore dell’America, e, cioè, la sua florida, modernissima e molto sussidiata agricoltura, un settore dell’economia che vede sì e no un quattro per cento della popolazione impiegata, ma che continua ad assicurare livelli di produzione veramente eccezionali.

Tutto questo non sarebbe stato assolutamente possibile se le idee dell’allora ministro del Tesoro statunitense White non avessero prevalso su quelle dell’economista britannico John Maynard Keynes in quella Conferenza svoltasi in quel di Bretton Woods a conflitto non ancora concluso, una Conferenza che sancì l’avvento di quel dollar exchange standard che, in assenza di ogni forma di meccanismo riequilibratore degli squilibri strutturali, ha consentito la supremazia dell’economia degli Stati Uniti d’America e la sua veramente poco costosa acquisizione di parti importanti degli apparati produttivi europei e giapponesi che rappresentò il vero motore sussidiario dell’economia a stelle e strisce e diede un impulso senza precedenti alla creazione dei conglomerati multinazionali che traevano contemporaneamente profitto dai giganteschi flussi di export e di import che sempre più spesso facevano loro capo.

E’ molto difficile, d’altro canto, immaginare che l’unica potenza militare uscita vincitrice dal sanguinosissimo conflitto durato quasi sei anni, ma molti di meno per gli USA, avrebbe consentito gli export strutturali europei, giapponesi, coreani, cinesi ed indiani, così come la gigantesca riallocazione delle riserve valutarie a favore delle summenzionate nazioni, se non avesse avuto un più che cospicuo tornaconto da quella divisione internazionale del lavoro che le consentiva di guadagnare dai ciclici cambi di fronte dei surplus commerciali, poi divenuti un fenomeno a senso unico che ha visto le altre nazioni accettare con minore o maggiore grado di soddisfazione di vendere impianti e merci in cambio di biglietti di colore verde dal valore sempre più opinabile e sempre più incerto, surplus dei quali venivano accusati dal presidente o dal ministro del Tesoro USA di turno che volutamente ignorava che tutto questo alimentava i profitti di imprese saldamente basate in territori americano e che, finché reggeva il gigantesco bluff, era sufficiente stampare carta moneta per mantenere un tenore di vita dei cittadini statunitensi del tutto al di sopra dei loro meriti e del tutto indifferente a qualsivoglia ragione di giustizia sociale planetaria.

Tutto questo durò, incredibile a dirsi, ben venticinque anni, sino a che il nazionalista ed imprevedibile generale Charles De Gaulle non decise di andare a vedere il bluff americano e chiese ed ottenne che un miliardo di dollari si trasformasse in oro allo stupefacente valore di 35 dollari per oncia, costtringendo Richard Nixon ad abolire, il 15 agosto del 1971, quella convertibilità del dollaro in oro che del dollar exchange standard era il pilastro. Il resto, come si suol dire, è Storia!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 27 agosto 2008

La più che prevedibile sorte di Fannie, Freddie e Lehman Bros.!


Credo davvero che il balletto inscenato dagli analisti intorno alle tecnicamente fallite Fannie Mae e Freddie Mac rappresenti davvero uno dei punti più bassi raggiunto da una professione che pure non ha dato mostra nel passato più o meno recente di livelli accettabili di correttezza o di rispetto delle più elementari regole deontologiche.

Cosa sta accadendo da lunedì in quel di Wall Street è presto detto: di fronte alla segnalazione effettuata da J.P. Morgan-Chase alla Securities and Exchange Commission di dovere procedere a svalutazioni per 600 milioni di dollari su uno stock di perpetual preferred shares di Fannie e Freddie pari ad 1,2 miliardi di dollari, un warning che suona come una campana a morto per le altre banche di investimento e per quelle più o meno globali cui fa capo il resto dei titoli della specie, complessivamente ammontanti a 36 miliardi di dollari cui andrebbe applicata una svalutazione analoga a quella effettuata dalla banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di quelli di Rockfeller, i nostri ineffabili analisti non hanno trovato di meglio che suonare la grancassa sul buon esito di un asta di titoli a tre ed a sei mesi per 2 miliardi di dollari effettuata da Freddie Mac a rendimenti, peraltro, significativamente superiori a quelli previsti.

Tanto è bastato a queste perle di analisti per sostenere che oramai non vi è più bisogno di quell’intervento pubblico, in realtà un vero e proprio salvataggio, che gli stessi analisti avevano per settimane dato per certo, sino ad indicare lo scorso week end come la data in cui il ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, lo avrebbe annunciato, improvvisamente dimentiche del fatto che su scadenze più lunghe, Fannie e Freddie sono giunte a pagare anche tassi effettivi del 16 per cento, che nel solo mese di settembre andranno reperiti, via GSE a lunga scadenza, qualcosa come 225 miliardi di dollari che nessuno è ancora in grado di dire da chi potranno essere sottoscritti, per non parlare poi del più che raddoppio registrato da entrambe le entità nel tasso di mutuatari che si ostinano a non ripagare le rate dei propri mutui.

Non credo di essere troppo malizioso nel vedere in questa cortina fumogena che traspare da questi report ad un tanto al chilo lo zampino dell’attuale ministro del Tesoro statunitense, quell’Henry Paulson che, grazie alla lunga ed onorata militanza nella potente e molto preveggente Goldman Sachs, sa benissimo che non è certo questo il momento di far capire a quanti si ostinano a detenere azioni di Fannie e Freddie che si sta inesorabilmente avvicinando il momento in cui sarà costretto a tirare fuori dal cilindro l’ennesimo coniglio, una mossa che coinciderà con il pressoché totale azzeramento del valore già infimo delle azioni dei due pilastri del disastrato settore del mortgage a stelle e strisce.

Bisogna proprio dire che questo 2008 è veramente un anno bisesto, anno funesto per le Investment Banks e per le divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, in quanto dopo aver spesato sui rispettivi conti economici svalutazioni per svariate centinaia di miliardi di dollari, si sono ritrovate a dover riacquistare quanto avevano venduto nelle auction-term securities, una mazzata da 330 miliardi di dollari o giù di lì, mentre si trovano ora a dover svalutare almeno altri 18 miliardi soltanto per quelle perpetual preferred shares di Fannie e Freddie che erano state costrette a sottoscrivere alla luce della assoluta impossibilità per le due entità semipubbliche di procedere ad un aumento di capitale per via ordinaria, anche alla luce degli svariati flop che hanno caratterizzato gli aumenti di capitale di banche globali di ben diverso standing e certamente molto meno disastrate di F&F.

Poiché, come si suol dire, le disgrazie non vengono mai sole, la notizia della sempre più probabile ritirata della Korean Development Bank dall’intervento in soccorso di Lehman Brothers per la dichiarata contrarietà espressa dal governo coreano è stata certamente accolta con giubilo nell’esotico resort dal quale David Einhorn sta continuando imperterrito e del tutto impermeabile ai segnali che gli giungono dall’alto nella sua offensiva ribassista nei confronti di Lehman ed un numero imprecisato di altre entità protagoniste del mercato finanziario globale, anche perché ad aumentare il suo già rilevante volume di fuoco ha provveduto l’insensata mossa di Effe O Ixs che ha permesso a lui ed agli altri miliardari che si sono messi nella sua scia di realizzare immensi guadagni giocando al rialzo nel mese circa di durata del suo provvedimento che inibiva le vendite allo scoperto sulle principali diciannove entità elencate nella sua lista.

Sempre ieri, la Federal Deposit Insurance Corporation, l’ente federale che garantisce, sino ad un ammontare alquanto modesto, i depositi effettuati presso le banche statunitensi, ha reso noto che nel veramente orribile secondo trimestre del 2008 le banche a stelle e strisce hanno visto i loro profitti calare dell’86 per cento nei confronti dello stesso periodo dell’anno precedente, mentre, al netto delle nove banche già fallite, è giunto a 117 il numero delle banche operanti negli Stati Uniti d’America considerate dalla FDIC ufficialmente in difficoltà.

Non so quanto sia chiaro ai vertici dell’ente federale che rendere noto che un numero così elevato di banche non gode di buona salute, senza peraltro indicarne l’identità potrebbe provocare un deflusso di depositi, in particolare di quelli aventi un outstanding superiore al livello garantito, tale da fare impallidire quanto si è verificato l’estate scorsa nell’ormai celebre caso della poi nazionalizzata per disperazione Northern Rock, ma di tutto questo siatene pure certi che gli analisti a libro paga delle banche di ogni ordine e grado non avranno il tempo di occuparsi, impegnati come sono a scrivere quello che più conviene ai loro datori di lavoro!

Avendo dedicato parecchio spazio nelle ultime due puntate del Diario della crisi finanziaria al convegno estivo organizzato come ogni anno dalla Federal Reserve, non voglio passare sotto silenzio un accurato servizio che ci informa che, secondo gli alti papaveri della Fed, il livello dei tassi di interesse ufficiali non è affatto basso, quasi come se avere tassi di interesse reali negativi per 360 punti base nel caso del tasso sui Fed Funds o di 335 punti base nel caso del tasso ufficiale di sconto fosse una cosa normale.

D’altro canto, è più che evidente che, avendo ormai chiaramente Bernspan ed i suoi complici, l’unico obiettivo di cercare di salvare il salvabile nel meltdown finanziario che sta facendo inevitabilmente seguito all’irrisolvibile problema di un ordinato smaltimento della montagna di titoli della finanza strutturata sfornati a pieno ritmo, almeno sino a qualche mese fa, dalle fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle banche più o meno globali, l’unica cosa che conta è mantenere al 2,25 per cento il biglietto di ingresso alla discarica a cielo aperto gestita dalla Fed di Ne York, l’unico luogo al mondo dove questa specie di titoli vengono ancora scambiati alla pari con denaro contante!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 26 agosto 2008

Fannie e Freddie ancora sulle montagne russe, mentre Effe O Ixs resta a guardare!


Nella puntata di ieri ho volutamente ignorato le colpe per le quali anche Effe O Ixs, l’ineffabile presidente della Securities and Exchange Commission, andrebbe trascinato, insieme al duo Bernspan ed Henry Paulson, andrebbe trascinato davanti ad un tribunale per i suoi comportamenti, ma ancor più per le sue più che evidenti omissioni, nel corso della tempesta perfetta ancora virulentemente in corso da più di dodici mesi.

Ebbene, basterebbe uno sguardo alle contrattazioni di ieri alla borsa più importante del mondo, quella di Wall Street, per comprendere l’ignavia dell’uomo che al secolo è noto come Christopher Cox, uno che assiste imperturbabile ad oscillazioni paurose quotidiane di titoli come quello di Fannie Mae e Freddie Mac che, in particolare nelle ultime settimane sono andate come se si trovassero su montagne russe letteralmente impazzite, salendo ieri impetuosamente dopo che J.P. Morgan-Chase è stata costretta a comunicare proprio alla Sec di avere una perdita mark to market di 600 milioni di dollari su uno stock di perpetual preffered shares di Fannie e di Freddie pari a 1,2 miliardi, perdita del cinquanta per cento che, ovviamente, riguarda tutti i sottoscrittori dei titoli della specie ( soltanto le banche detengono perpetual preferred shares per 36 miliardi di dollari, mentre non è noto l'ammontare posseduto dagli investitori istituzionali e dalle compagnie di assicurazione) emessi dalla gigantesca ma molto malandata entità semipubblica che tuttora rappresenta una colonna portante del settore del mortgage statunitense.

Si tratta di una notizia che, peraltro si accompagna alla alquanto ferale news dei giorni scorsi che denunciava come sui titoli a cinque anni piazzati da Fannie e Freddie gli investitori siano giunti a spuntare rendimenti effettivi nell’ordine del 16 per cento, un combinato disposto che chiarisce a chiunque sappia far di conto che ogni strada ordinaria di finanziamento per le due entità è di fatto o preclusa, come nel caso delle perpetual preferred shares (uno strumento utilissimo in una fase in cui il mercato risponde con una pernacchia ad ogni richiesta di aumento di capitale mediante l’emissione di azioni ordinarie) o divenuta talmente onerosa da sfasciare qualsivoglia gestione di tesoreria.

Il bello è che il rally di Fannie e Freddie avveniva mentre il Dow Jones perdeva 250 punti ed anche gli altri indici segnalavano forti perdite, una situazione nella quale anche le autorità preposte alla sorveglianza di mercati azionari meno evoluti di quello statunitense sarebbero intervenute per sospendere le contrattazioni sino a che non fosse stata chiarita la così evidente anomalia, anche perché non voglio pensare che dietro gli anomali rialzi vi siano informazioni riservate sul piano di salvataggio pubblico delle due entità, un piano che secondo molti analisti doveva essere annunciato nello scorso week end, ma che forse è stato ritenuto poco opportuno dopo quanto è emerso nel corso del seminario estivo annuale organizzato dalla Federal Reserve a Jackson, seminario che si è svolto nello stesso week end ed ha visto emergere parecchie perplessità rispetto alla gestione della politica monetaria statunitense, nonché forti critiche rispetto al salvataggio, a spese del contribuente, di Bear Stearns da parte di J.P. Morgan-Chase.

Quali che siano le cause dell’evidente anomalia segnalata, il mancato intervento da parte della Sec risulta particolarmente grave, anche perché fa seguito ad analoghe omissioni avvenute da quando la tempesta perfetta ha preso il suo avvio, questi dodici lunghi mesi che hanno visto innumerevoli casi di oscillazioni paurose su titoli quali quelli di Lehman Brothers, Citigroup, Merrill Lynch ed un buon numero di altre banche di investimento e banche più o meno globali, per non parlare di quanto è accaduto nel caso delle due maggiori compagnie di assicurazione monoline, MBIA ed Ambac, che sono giunte a perdere sino al 95 per cento rispetto ai massimi segnati negli ultimi due anni, attraverso variazioni quotidiane all’insù o all’ingiù che giungevano sino a livelli del 30-40 per cento.


Una delle ragioni alla base del forte rialzo delle quotazioni delle azioni di Freddie Mac, quelle di Fannie Mae sono state molto più contenute, starebbe nell’assorbimento da parte del mercato dei titoli a breve emessi da Freddie per 2 miliardi, anche se gli operatori hanno volutamente ignorato il fatto che, anche per scadenze comprese tra tre e sei mesi, gli acquirenti hanno spuntato rendimenti di gran lunga superiore a quelli offerti, mentre il problema vero è rappresentato dalla necessità di rimpiazzare, nel prossimo mese di settembre, GSE per oltre 250 miliardi di dollari e sarà allora che ne vedremo delle belle.

Nello stesso fine settimana che doveva vedere il salvataggio di Fannie e Freddie è fallita la nona banca statunitense, il che, anche si tratta della Columbus, una piccola banca, non rappresenta certo un segnale rassicurante sulla tenuta di quel tessuto di banche di medie e piccole dimensioni che, insieme alla miriade di finanziarie che hanno fatto simultaneamente ricorso l’estate scorsa alla protezione della legge fallimentare statunitense, rappresentavano spesso l’unico possibile ricorso al credito per gli americani che vivono in località di provincia, anche se non va mai dimenticato che la precedente crisi bancaria dei primissimi anni Novanta ha determinato il dimezzamento delle banche operanti negli USA, ridottesi da 14.500 a 7.200, un numero residuo che può anche apparire elevato, ma che è rappresentato in larga misura da piccolissime entità che molto difficilmente riusciranno a sopravvivere alla tempesta perfetta in corso, così come è molto difficile che la Federal Deposit Insurance Corporation potrà continuare a venire incontro alle richieste dei titolari di depositi che eccedono il limite molto basso previsto per la garanzia totale.

Sempre ieri, gli operatori non avevano fatto in tempo a felicitarsi per il rialzo del dato relativo alle vendite in luglio di case esistenti (+3,1 per cento) che è giunta loro una secchiata di acqua fredda rappresentata dal forte calo dei prezzi ai quali le vendite sono state realizzate e dal vero e proprio balzo in avanti dello stock di case invendute, che con 5 milioni di unità ha portato ad un massimo di tutti i tempi il numero di mesi (11,3) necessari per smaltire lo stock di case invendute sempre che il ritmo resti quello registrato a luglio.

Ma quello che ha colpito ancor di più gli analisti e gli operatori è rappresentato dall’abnorme crescita delle vendite di case all’asta a seguito delle procedure denominate foreclosure, un tipo di vendite che non ha certo aiutato a tenere alti i prezzi delle case e che ha rappresentato, secondo le stime di un analista, una percentuale delle vendite effettuate nel mese di luglio compresa tra il 33 ed il 40 per cento, ma, anche in questo caso, non va sottovalutato che buona parte delle 750 mila abitazioni entrate in possesso delle banche verranno messe all’asta nel prossimo mese di settembre, con l’effetto depressivo sui prezzi che è molto facile immaginare.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

lunedì 25 agosto 2008

Il convegno estivo della Fed si trasforma in un processo a Bernspan, Paulson ed Effe O Ixs!


Confesso molto tranquillamente che ignoravo del tutto l’esistenza di questo seminario estivo annuale organizzato dalla Federal Reserve a Jackson, località certamente amena del Wyoming, Stato noto per gli importanti tornei di pesca che ivi si svolgono, così come confesso altrettanto tranquillamente che avrei voluto essere una mosca per ascoltare indisturbato sia i discorsi introduttivi di Bernspan e Mario Draghi, rispettivamente numero uno della Fed e presidente del Financial Stability Forum, nonché quelli interventi di numerosi analisti ed accademici che hanno messo sotto accusa la politica seguita in questi dodici mesi di tempesta perfetta dalla Fed e dal Governo statunitense, viste come troppo vicine agli interessi di Wall Street, segnatamente a quelle del comparto finanziario, piuttosto che a quelle dell’economia intesa nel suo complesso e, soprattutto, il vero e proprio alzare le braccia di Bernspan e dei suoi complici del Federal Market Open Committee rispetto alla montante inflazione, giunta, sia con riferimento ai prezzi alla produzione che a quelli al consumo, a livelli mai visti da lungo tempo e che si accompagnano ai livelli veramente infimi toccati dai tassi ufficiali, con quello sui Fed Funds al 2 per cento ed il tasso ufficiale di sconto al 2,25 per cento.

Forse ci voleva proprio un docente della London School of Economics and Political Science, William Buiter (che, per inciso, insegna politica economica europea) per rompere il ghiaccio dopo i discorsi tenuti da Bernspan e da Mario Draghi, che in questa occasione devono avere in qualche modo confermato i sospetti avanzati dal ministro italiano dell’Economia sul fatto che non sia stato del tutto saggio affidare ai banchieri centrali il compito di analizzare le cause della tempesta perfetta ed individuare gli opportuni rimedi (resterà storica la frase che pressappoco diceva che fare così equivale a mettere i topi a guardia del formaggio), e l’europeizzato Buiter non ha deluso, dando voce all’insoddisfazione degli economisti e degli analisti per quella serie di misure adottate dalla Fed di concerto con il Tesoro statunitense e che sono state universalmente viste come una robusta stampella fornita alle Investment Banks ed alle banche più o meno globali, misure che hanno letteralmente dissolto le poche regole sopravvissute alla micidiale deregulation degli ultimi decenni e culminate nel salvataggio di Bear Stearns, vero preludio a quanto ci prepariamo a vedere nel complesso caso delle tecnicamente fallite Fannie Mae, Freddie Mac e Sallie Mae.

Ho scritto troppe volte che quelle sul fermo contrasto di ogni forma di moral hazard o sulla definitva messa in soffitta del concetto un po’ old economy del too big to fail rapprendano al più delle tavolette che Bernspan, Henry Paulson e l’ineffabile Effe O Ixs raccontano ai loro nipotini nelle fredde sere di inverno, ma che, quando le cose si mettono male, e stavolta sono messe davvero molto, ma molto male, l’unico obiettivo dei tre è quello di fare il possibile e l’impossibile per ridurre i danni per gli abitanti dei grattacieli di Wall Street, piuttosto che preoccuparsi di inezie quali la stabilità dei prezzi, la tutela dei risparmiatori/investitori, la messa al bando di agenzie di rating che sembrano un solo e gigantesco conflitto di interessi, la revoca della licenza all’esercizio del credito per entità straniere di colossali dimensioni che si sono prodotte in comportamenti, quali quelli imputati ad UBS, che non erano francamente immaginabili e che, a mio modesto avviso, erano tutt’altro che inevitabili.

Non vorrei che, sotto un vero e proprio fuoco di fila di un informazione che è quasi un eufemismo definire embedded e di analisti a libro paga delle principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, nonché di uno stuolo di economisti ad un tanto al chilo, dimenticassimo quali e quante sono state le anomalie evidenziate dal comportamento di Bernspan, del banchiere di investimento di lungo corso prestato in un momento molto opportuno alla politica, Henry Paulson e di quella sorta di smemorato di Collegno che da mesi appello come di Effe O Ixs!

Poiché mai come in una fase turbolenta come è l’attuale è vero che repetita iuvant, mi permetto di fare un breve elenco di queste anomalie, iniziate con il vero e proprio panic cutting che ha colto bernspan ed i suoi complici del FOMC, l’apertura di quella e propria discarica per accogliere i titoli della finanza strutturata al valore facciale dando in cambio denaro buono, il via libera all’accesso a questo anomalo sportello anche dei camion provenienti da quelle Investment Banks che, in base alle regole attuali, non sono affatto vigilate dalla Fed, un salvataggio a carico del contribuente di una Investment Banks da parte della banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di quelli di Rockfeller (J.P. Morgan-Chase) e via discorrendo.

Alle mosse un po’ scomposte ed al di fuori delle previsioni di legge e regolamentari esistenti da parte di Bernspan hanno fatto da contrappunto quelle ascrivibili all’ex numero uno di Goldman Sachs, assurto nel giugno del 2006 alla massima responsabilità del dicastero del Tesoro statunitense, Henry Paulson, che, un po’ per celia un po’ per non morire, ottenne di avere come vice due suoi ex collaboratori in Goldman, un’elenco alquanto lungo che inizia con la strana riunione da lui indetta in un torrido fine settimana di settembre dello scorso anno con trenta banchieri per trovare qualcuno talmente disperato da aderire ad una sua idea, il Master Enhance Liquidity Conduit, varata con fanfare e squilli di tromba e poi abortita in soli tre mesi, per passare per le molteplici dichiarazioni sulla luce sempre più vicina alla fine del tunnel che hanno portato a zero la sua residua credibilità, per giungere al suo apporto determinate all’incredibile salvataggio dell’orso di Stearns, ai progetti ancora coperti per quelli delle entità semipubbliche impegnate nel comparto del mortgage e, the last but not the least, un faraonico programma di revisione degli organismi preposti alla vigilanza sulle svariate entità operanti nel mercato finanziario a stelle e strisce che, per unanime ammissione dei protagonisti, avrebbe impegnato il Congresso per almeno tre legislature!

Eppure, l’uomo che per così lungo tempo ha ricoperto le cariche di Chairman e di Chief Executive Officer della potente e molto preveggente Goldman Sachs disponeva di informazioni certamente molto più puntuali e dettagliate di quelle a disposizione del mite professore di economia dell’ateneo di Princeton letteralmente catapultato al vertice della Fed dopo diciannove anni di gestione disinvolta del Maestro Alan Greenspan, quel Benjamin Bernanke rapidamente trasformatosi in Bernspan, e Paulson le aveva talmente che la sua banca risulta essere l’unica ad effettuare un selvaggio processo di deleverage sin dal lontano mese di settembre del 2006, attraverso la vendita di montagne di titoli della finanza strutturata alle inconsapevoli concorrenti, ai fondi di investimento, ai fondi pensione, agli hedge funds, alle altre banche di investimento, alle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, alle compagnie di assicurazione e chi più ne ha ne metta.

Di Effe O Ixs (al secolo Christopher Cox, numero uno della Securities and Exchange Commission) mi rifiuto di parlare, anche perché basterebbe ricordare il particolare dello smantellamento del dipartimento che avrebbe dovuto prevenire le crisi nel settore bancario e la frettolosa, recente assunzione di duecento persone a botto già avvenuto per capire di che pasta è fatto l’uomo!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

domenica 24 agosto 2008

Per Bernspan e Draghi la tempesta perfetta durerà ancora a lungo!


I discorsi tenuti da Bernspan, Mario Draghi ed il fermo warning inviato a quattro banche globali dall’ente preposto alla vigilanza sul mercato finanziario britannico, la FSA, daranno molto da pensare in questo ennesimo week end di lavoro ai top bankers operanti al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, anche se ieri il mercato si è riconsolato con l’aglietto della previsione di una possibile minore inflazione statunitense nel 2009 formulata da Bernspan per dare vita ad un rally di non eccezionale entità, anche perché gli analisti che si sono soffermati sul resto del discorso hanno provveduto a gettare secchiate di acqua gelida sui facili entusiasmi degli operatori che non vedevano l’ora di rafforzarsi nella loro convinzione che la loro Fed non li avrebbe traditi alzando, come dovrebbe assolutamente fare, i tassi ufficiali ormai largamente negativi ove espressi in termini reali.

Non occupandomi assolutamente della sempre più evidente schizofrenia dei mercati, sono molto più interessato a quanto hanno detto nell’abituale meeting estivo organizzato dalla Federal Reserve, un Bernspan che per poche ore ha riassunto l’identità del professor Benjamin Bernanke, noto studioso del prestigioso ateneo di Princeton e considerato il massimo esperto delle crisi finanziarie del passato, ed il professor Mario Draghi, un uomo che, pur ricoprendo contemporaneamente il ruolo di Governatore della Banca d’Italia e quello di presidente del Financial Stability Forum, non ha sinora dato segno di soffrire della sindrome di sdoppiamento della personalità che caratterizza, invece, l’attuale numero uno della Fed.

Come hanno notato gli economisti molto più di quanto abbiano avuto voglia e forse capacità gli irruenti e molto nervosi operatori, entrambi i banchieri centrali hanno sottolineato l’inusualità e l’estrema virulenza della tempesta perfetta in corso ad oltre dodici mesi dal suo avvio, una crisi che non avrà, né potrebbe ragionevolmente avere, esiti indolori sul sistema finanziario globale e sulle entità che a vario titolo ne sono protagoniste, effetti collaterali talmente preoccupanti che condizionano e condizioneranno anche nel futuro prevedibile la politica monetaria, anche se i due appartengono a due differenti scuole di pensiero e di azione, quella americana, tutta protesa a salvare il salvabile in quel di Wall Street, e quella europea ben testimoniata da una BCE il cui presidente ed i cui membri alquanto neotemplari del board non riescono a dormire sonni tranquilli in assenza di una distanza di sicurezza tra il tasso di intervento ed il tasso tendenziale di inflazione.

Questo non significa che, come presidente del FSF, Draghi non comprenda le ragioni che spingono Bernspan ed i suoi complici operanti nel Federal Open Market Committee a fare il possibile e l’impossibile per evitare un default sistemico del sistema finanziario statunitense, adottando una serie di misure del tutto innovative della prassi consolidata e spingendosi a dare una robusta mano anche a quelle banche di investimento non sottoposte, almeno per ora, alla sua vigilanza, rinviando sine die i proclami di facciata sulla ferma persecuzione dei comportamenti che denotano un evidente moral hazard o la messa in soffitta del ben poco liberista principio che stabilisce che non è possibile lasciare fallire chi è caratterizzato da dimensioni troppo rilevanti.

Certo, Draghi non ha rinunciato a tenere la sua lezioncina sul principio che la ferma azione di contrasto nei confronti dell’inflazione attraverso una ferma e decisa politica monetaria rappresenta il miglior contributo alla stabilità del sistema finanziario, così come non ha evitato di enunciare che, anche sulla base delle raccomandazioni e delle conseguenti misure regolamentari previste da quel rapporto finale che il comitato di saggi da lui presieduto ha completato ma non ancora ufficialmente presentato, nel futuro avremo un miglior prezzamento del rischio ed un minor livello di leverage rispetto ai multipli folli rispetto al capitale abituali negli anni e nei decenni passati.

Ma poiché il nostro è uomo di mondo ed ha conosciuto dall’interno della più grande Investment Bank del mondo, Goldman Sachs, il grande casinò a cielo aperto che è oramai divenuto il mondo della finanza, non può che comprendere e persino accettare il principio del primum vivere deinde filosofari, un principio che è rimasto pressoché immutato dall’impero romano del passato a quello americano del presente e del futuro, ma, insieme a Bernspan ed agli altri loro colleghi a capo delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, non può che incrociare le dita e sperare che i riottosi e molto riluttanti investitori tornino a fidarsi di quelle banche più o meno globali che, nel frattempo, insistono a non fidarsi l’una dell’altra.

Preoccupa molto la lettera inviata dall’FSA, l’ente preposto alla vigilanza sulle varie entità operanti nel mercato finanziario britannico, a Merrill Lynch, Lehman Brothers, Morgan Stanley e Credit Suisse per metterle in guardia dal tagliare il personale anche nelle attività di back office, in particolare in quelle che svolgono un’indispensabile funzione di controllo nei confronti di quanto avviene nella prima linea operativa, anche perché, in base ad accurate ispezioni effettuate in questi ultimi mesi, è emerso che il livello di questi controlli è gia valutato come non sempre soddisfacente dallo stesso FSA.

Si è appreso ieri che anche Merrill Lynch ha accettato di sottoscrivere un accordo con la Securities and Exchange Commission che prevede l’obbligo per la banca di investimento di riacquistare i titoli venduti agli investitori istituzionali ed ai risparmiatori/investitori nelle ormai famigerate auction-term securities svoltesi sino alla fine del mese di febbraio di questo veramente orribile 2008 per un importo che va dai 10 ai 12 miliardi di dollari ed a pagare una multa di 125 mila miliardi di dollari ai vari Stati che avevano fatto ricorso alla SEC, mentre, come nel caso delle sette banche che hanno già aderito ad accordi similari, non è chiaro se i diversi procuratori distrettuali lasceranno cadere le imputazioni penali a carico dei responsabili delle diverse banche di investimento e banche più o meno globali coinvolte in questo affare da 330 miliardi di dollari e se saranno o meno soggetti a sanzioni pecuniarie da parte della stessa SEC.

Mentre questo, come tutti i fine settimana che il cielo manderà in terra nel prossimo futuro potrebbe rappresentare il momento buono per trovare una soluzione a carico dei contribuenti per le disastrate Fannie Mae e Freddie Mac e, dopo il fermo rifiuto opposto dall’interpellato Warren Buffett, semba tramontare l’ipotesi di una partecipazione da parte di investitori privati al salvataggio delle due entità semipubbliche, l’ipotesi di un acquisto di Lehman Brothers da parte della Korea Development Bank ha tenuto banco venerdì sul mercato azionari statunitense, spingendo le molto depresse quotazioni della più piccola ma molto blasonata Investment Bank verso un rialzo a due cifre che poi si è ridotto in chiusura ad un molto più modesto 4 per cento, peraltro ulteriormente limito nell’after hours, anche perché, in una fase così turbolenta, solo un annuncio ufficiale da parte coreana sarebbe in grado di fugare i dubbi sulla fattibilità dell’operazione che segue di poche ore il rifiuto da parte di investitori istituzionali dello stesso paese asiatico a sostenere finaziariamente la stessa Lehman.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

sabato 23 agosto 2008

E' meglio ascoltare il guru Sinai!


Per chi non ha avuto modo di conoscere Allen Sinai, storico Chief Economist di Lehman Brothers per lungo tempo, ma poi messosi in proprio con una sua società di previsioni, credo proprio che potrebbe legittimamente derubricare le sue molto pessimistiche valutazioni in relazione alla tempesta perfetta in corso come una delle tante facili profezie fatte quando le cose vanno, come purtroppo sta accadendo, realmente male.

Avendo seguito attentamente il suo lavoro, almeno per quanto è possibile per chi non ha la fortuna di essere cliente della sua Decision Economic Inc., devo, invece, dire che la lettura della sua intervista apparsa sul quotidiano La Repubblica di giovedì 21 ha prodotto su di me un notevole effetto, in quanto Sinai ha detto con relativa tranquillità che 1) non vi è speranza alcuna che Fannie Mae e Freddie Mac possano proseguire la loro attività come public company e 2) che una grande istituzione finanziaria è destinata a fallire nei prossimi mesi, ma che per quanto gli consta questa non sarà Lehman Brothers, due importanti affermazioni delle quali, da par suo, fornisce una spiegazione che considero alquanto convincente.

Per quanto riguarda le due disastrate entità semipubbliche, ma regolarmente quotate e le cui azioni sono, al momento, esclusivamente in mano ad azionisti istituzionali e semplici investitori/risparmiatori, Sinai spiega che gli abnormi livelli di debt/capital ratio che fanno gridare allo scandalo nel caso delle quattro superstiti Investment Banks statunitensi e che pochi mesi orsono e prima del selvaggio processo di deleverage messo in atto da tutte e quattro le entità si aggiravano intorno al livello di 30 a 1, sono stati superati alla grande da Fannie e Freddie, che, viste come fossero un’unica entità, sono giunte ad un livello che vede i 5.200 miliardi di indebitamento porsi a 65 volte gli 83,2 miliardi di dollari di capitale cumulato, un dato che rende veramente risibile la recente testimonianza del numero uno di Fannie davanti all’apposita commissione del Congresso USA e nella quale il nostro ha avuto la faccia tosta di dire che il livello del capitale è più che adeguato.

Il guru americano indica nell’intervento pubblico nel capitale di Fannie e Freddie la soluzione più probabile, anche se sorvola sul piccolo particolare che tale intervento non può che prevedere l’amara precondizione dell’azzeramento più o meno totale del valore residuo delle azioni attualmente in mano a quelli che più che azionisti sembrano incalliti frequentatori del tavolo della roulette o del black jack (si consideri soltanto che il valore residuo delle due azioni oscilla attorno al 5 per cento del massimo degli ultimi due anni), il che pone a sua volta le condizioni per un selvaggio sell off prima che suoni, ovviamente in un week end (e, quindi, a mercati rigorosamente chiusi), la campana che annuncia la fine della corsa!

Ovviamente, il cambio in corsa della composizione dell’azionariato di Fannie e Freddie (ma perché nessuno si occupa della povera Sallie Mae, più piccola è vero, ma veramente essenziale per gli studenti universitari statunitensi?) avverrà in una data ed a condizioni che sono note soltanto al ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, che sarà pure uomo d’onore, ma proviene sempre, come il sottosegretario non ancora piazzato sulla tolda di comando di qualche banca, dal mondo dell’investment banking e che, pur non rivelando soggettivamente alcun segreto d’ufficio, è ampiamente prevedibile dagli esperti delle banche più o meno globali, molto meno dai semplici risparmiatori/investitori, il che pone inevitabilmente un altro dei problemi messi drammaticamente in luce dalla crisi finanziaria in corso e che è rappresentato dalla totale disparità di informazioni, strumentistica e know how tra i giocatori di professione ed i turisti di quel grande casinò a cielo aperto che è oramai diventato il mondo della finanza.

Ma siccome raramente il diavolo è in grado di fare i coperchi insieme alle classiche pentole, nessuno, neanche uno dei guru più ascoltati a Wall Street come Sinai indubitabilmente è, è in grado di dire come saranno gestiti i 5.200 miliardi di indebitamento delle due entità, in larga misura rappresentati da quei GSE che solo una sorta di superstizione ha reso analoghi ai Treasury Bonds, a dispetto della piccola differenza rappresentata dall’assenza, per i GSE, della garanzia statale, garanzia che non può essere loro, sic et simpliciter, estesa, per il semplice motivo che, negli Stati Uniti d’America, esiste un limite costituzionale al livello dell’indebitamento, limite che il Congresso ha da non molto elevato a quei 9 mila miliardi di dollari che già dovrebbero essere superati alla luce dell’andamento veramente disastroso dei conti pubblici federali, per non parlare di quelli dei singoli Stati, delle Contee, dei municipi e delle tante entità facenti capo alle tre macro realtà.

Certo, un’iniezione di capitale di 100-200 miliardi di dollari renderebbe più agevole la gestione dello stock del debito, così come potrebbe favorire una netta riduzione dei tassi sui certificati a cinque anni che sono giunti all’incredibile livello del 16 per cento, anche se sarebbe molto più opportuno un progetto che veda grandi investitori privati, inclusi quelli istituzionali, che dovrebbero sentire la necessità di supportare un tassello così importante del mortgage statunitense, vera colonna portante dell’American Dream! (ma, interpellato, Warren Buffett ha già detto no)

I miei pochi ma affezionati lettori mi scuseranno se mi appassionerò di più alla seconda delle affermazioni di Allen Sinai, anche perché riguarda la sopravvivenza della piccola ma molto blasonata casa di investimenti per la quale ha lavorato così bene e così a lungo, premettendo subito che non mi ha sfiorato nemmeno per un istante l’idea che il suo ottimismo fosse legato a questioni di affezione o, peggio, di portafoglio, anche perché non solo credo nella sua integrità, ma per la molto più banale ragione che la sopravvivenza della sua società attuale è strettamente legata a quella reputazione che Sinai ha saputo pazientemente costruire e consolidare attraverso le molto travagliate vicende dell’economia e della finanza statunitensi e globali.

Sinai scommette sulla sopravvivenza di una Lehman molto, ma molto ridimensionata e che accetti di tornare a quello che è stato il suo core business, rinunciando alle gestioni patrimoniali ed a tutte quelle attività che hanno portato all’inferno le Investment Banks e le divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali ed io credo che questo potrebbe anche essere possibile, sempre che l’attuale capitano del molto malandato vascello, Richard Flud, abbia la capacità, il coraggio e quel pizzico di spregiudicatezza necessari per consentire ala sua banca di sopravvivere e non affondare miseramente spezzata dagli altissimi marosi della tempesta perfetta in corso.

Resta, ahinoi, la previsione di Sinai che comunque almeno una grande istituzione finanziaria globale debba soccombere, anche se sull’identità di questa banca moritura il nostro molto prudentemente non si pronuncia e lascia a noi l’arduo busillis!.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

venerdì 22 agosto 2008

Lehman Brothers colpita dal fuoco amico!


Non conosce soste, né interventi di peacekeeping la guerra per banche negli Stati Uniti d’America, una guerra combattuta a suon di reports redatti dagli analisti a libro paga delle Investment Banks e delle banche più o meno globali e che vede tra le più attive in questo tipo di operazioni che si potrebbero definire di fuoco amico la potente e molto preveggente Goldman Sachs che ha sciolto uno dei suoi uomini di punta, il quale all’inizio di questa settimana ha colpito ed affondato in un solo giorno, nell’ordine, Lehman Brothers, Citigroup, Merrill Lynch e J.P. Morgan-Chase, ossia quattro delle sue principali concorrenti.

Chi ha avuto la fortuna di leggere il testo della ormai storica conference call che è costata il posto alla brava e preparata Chief Financial Officer di Lehman, Erin Callan (per sua fortuna, ma soprattutto per i suoi meriti, prontamente approdata nel relativamente porto sicuro di Credit Suisse- First Boston), ricorderà certamente che le domande più insidiose le vennero proprio dall’analista di Goldman, domande che, peraltro, denotavano quanto il bravo analista fosse interno all’intensissimo lavoro di deleverage avviato nella sua banca di investimenti quasi un anno prima dell’avvio della tempesta perfetta, difficilmente, altrimenti, sarebbe stato così efficace nell’evidenziare le contraddizioni della ricostruzione fatta da Erin del gigantesco alleggerimento del portafoglio di Lehman a costi relativamente modesti rispetto a quelli sostenuti da UBS ed altre banche globali impegnate a liberarsi di zavorra di analoga qualità.

Se si vuole, una delle cause della lunghezza e persistenza della tempesta perfetta risiede proprio nella ridicola costruzione di muraglie cinesi tra le diverse attività operative delle banche globali, ma anche della fragilità delle pareti divisorie che dovrebbero garantire l’effettiva autonomia di attività come la ricerca economica e, appunto, quella volta a fornire alla clientela giudizi tempestivi, affidabili e neutrali sullo stato di salute delle principali entità operanti nel mercato finanziario globale, un’attività che, come la moglie di Cesare, deve apparire e non solo essere assolutamente immune da sospetti di rispondere ad interessi che non siano quelli di una corretta rappresentazione degli aspetti positivi e di quelli negativi presenti e prospettici delle entità finanziarie esaminate.

Certo, sarebbe difficile aspettarsi dagli analisti a libro paga delle banche più o meno globali un comportamento irreprensibile sotto il profilo etico e deontologico dopo la certo non esaltante performance delle società di rating propriamente dette, per non parlare di quella fornita, a suo tempo, dalla multinazionale della revisione Arthur Andersen che, però, pagò con la sua scomparsa il fio delle sue vere o presunte malefatte, anche perché non risulta che né Moody’s, né Standard & Poor’s siano state, almeno sinora, chiamate a rispondere della pur palese commistione tra l’attività di rating e quella di consulenza prestate, contemporaneamente, all’emittente di titoli di turno.

D’altra parte, la derubricazione dall’agenda dei sette grandi del pianeta (scrivo sette perché ritengo che molto difficilmente la Russia, dopo quanto sta avvenendo in questi giorni in quel di Georgia, sarà invitata a partecipare ai futuri summit) dell’attesissimo rapporto finale del Financial Stability Forum, ma, soprattutto, delle 65 raccomandazioni esposte da Mario Draghi, Henry Paulson e Bernspan nella oramai storica cena delle beffe del Gotha finanziario mondiale svoltasi a margine dei lavori delle assemblee dell’International Monetary Fund e della World Bank, le due colonne dell’ordine economico internazionale scaturito da quella conferenza di Bretton Woods che, avvenendo a secondo conflitto mondiale ancora in corso, non poté che subire la posizione degli Stati Uniti d’America che erano pur sempre gli azionisti di maggioranza della coalizione impegnata a fermare la minaccia rappresentata dalla Germania nazista e dall’espansionismo giapponese in larga parte dell’Asia.

Anche se mercoledì abbiamo potuto assistere ad uno scatto di orgoglio della principale vittima dell’analista di Goldman Sachs, Lehman Brothers (che, peraltro, ha operato in buona ed ampia compagnia), che è riuscita ad andare in piena controtendenza rispetto al meltdown in corso nel settore finanziario statunitense, mettendo a segno un sensibile rialzo della quotazione dell’azione che, purtroppo, non consente a nessuno di farsi soverchie illusioni sulle sue possibilità di sopravvivenza come entità autonoma, con buona pace di quel combattente che risponde al nome di Richard Flud, letteralmente legato al timone del suo vascello oramai sommerso dai sempre più alti marosi della tempesta perfetta in corso!

Restando nel campo delle entità finanziarie maggiormente sospettate di prossimo, prevedibile, se non inevitabile, default, non credo sia da interpretare l’oramai sempre più evidente liquefazione delle azioni di Fannie Mae e Freddie Mac nelle ultime sedute, soprattutto alla luce del fatto che, tra i valori di chiusura di mercoledì e quelli segnati appena due giorni prima, manca all’appello più del 50 per cento del valore dell’azione di Fannie Mae, mentre la perdita ascrivibile all’azione di Freddie Mac è soltanto di poco inferiore.

Quello che mi ha colpito maggiormente, però, non è tanto che le due gigantesche entità semipubbliche stiano quotando ad un valore di poco al di sopra del 5 per cento del massimo toccato negli ultime due anni, o, come notano i siti americani, ai minimi degli ultimi diciotto anni, prima cioè che iniziassero a formarsi le varie bolle speculative favorite dai vari big bang finanziari e dala sempre più spinta deregolamentazione, quanto la notizia che riferisce che Fannie Mae sta aprendo due uffici locali in Florida e California al precipuo scopo di smaltire le 54 mila abitazioni di cui è entrata in possesso a causa delle procedure di foreclosure avviate nei confronti dei mutuatari sparsi in tutti gli States, ma particolarmente nei due Stati dove sono previste le aperture degli uffici, che sono poi proprio le due aree del Paese nelle quali le quotazioni delle case erano state più gonfiate dalla bolla immobiliare formatasi in precedenza e che ora segnalano flessioni del valore delle abitazioni che vanno dal 30 al 50 per cento.

Cosa accadrà in settembre, quando andrà all’asta una buona parte delle 750 mila abitazioni delle quali le banche di ogni ordine e rango sono entrate, con loro non grande giubilo, in possesso, spesso case lasciate in fretta e con tanta furia dai precedenti proprietari colpiti dalle foreclosure (molte sono letteralmente distrutte all’interno, mentre in altre sembra che i precedenti abitanti siano fuggiti per una scossa di terremoto, lasciando la tavola da stiro aperta con i panni sopra), anche perché si tratta di un quinto circa delle case messe attualmente in vendita negli Stati Uniti d’America, con un effetto depressivo sui già molto depressi prezzi realmente realizzati che non è difficile immaginare e che si accompagna ad un costo medio che le banche sostengono per escutere le loro garanzie che si aggira sui 50 mila dollari.

Non è, quindi, un caso se mi sono trovato ad esprimere un giudizio molto lusinghiero sul progetto, prontamente abortito, della responsabile federale che suggeriva di aiutare, nello stesso interesse delle banche, la maggior parte dei mutuatari, mediante un’opportuna rinegoziazione dei mutui!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

giovedì 21 agosto 2008

Il meltdown di Fannie Mae e Freddie Mac rinvia la resa dei conti su Lehman Brothers!


Una raffica di reports su Lehman Brothers da parte delle maggiori concorrenti ed una conferenza dai toni molto cupi, ma supportata da forti e valide argomentazioni, tenuta dall’ex Chief Economist dell’International Monetary Fund, non hanno certo aiutato a rasserenare il clima venato di forti preoccupazioni per le sorti della più piccola ma blasonata Investment Bank statunitense, alla cui guida è oramai rimasto soltanto Richard Flud, l’uomo che ha rimosso in modo fulmineo la precedente Chief Financial Officer ed il Chief Operating Officer, rei soltanto di aver cercato di rappresentare in modo onesto il difficile percorso di deleverage intrapreso da Lehman all’indomani dell’avvio della tempesta perfetta, impedendo di fatto alla brava e preparata Erin Callan di svelare alcuni dettagli nella conference call che avrebbe accompagnato i dati del secondo trimestre 2008 e che si sarebbe svolta soltanto pochi giorni dopo la precedente.

Senza più alibi per la sua guida molto ondivaga, Flud si sta muovendo in un modo che preoccupa molto gli analisti delle maggiori case di investimento, così come quelli a libro paga delle maggiori banche globali, anche perché è oramai perfettamente chiaro a loro, ma a questo punto anche al mercato, quale è il costo necessario per sbolognare quella roba alquanto tossica (la definizione è dell’attuale CEO di Merrill Lynch, John Thain, nella più volte citata intervista rilasciata a mary Bartiromo della CNBC) e credo proprio che non basterà frazionare la vendita tra più acquirenti, in quanto le locuste che si sono candidate all’acquisto dei poco meno di 30 miliardi di dollari al valore nominale di titoli della finanza strutturata non sono proprio dei benefattori disposti a pagare qualcosa dei più dei 22 centesimi per dollaro spuntati dopo defatiganti trattative da un duro come Thain in occasione della recente vendita di un analogo importo di CDO.

Quello che colpisce è che nessuno si stia prendendo la briga di calcolare quanti titoli della finanza strutturata stiano uscendo dai forzieri apparentemente senza fondo delle maggiori banche statunitensi e globali, quanti siano parcheggiati presso l’amplissima discarica gestita dalle donne e dagli uomini della Fed di New York (l’unico posto al mondo dove siano ancora valutati al 100 per cento), quanti siano stati svalutati e quanti siano ancora parcheggiati al di fuori dei conti delle banche e custoditi in appositi contenitori.

Ma quello che veramente manca è una stima anche soltanto approssimativa sugli ammontari di titoli nela disponibilità, si fa per dire, dei fondi di investimento, dei fondi pensione, nelle mostruose per dimensione divisioni finanza delle compagnie di assicurazione, ma soprattutto una suddivisione per area geografica che dia modo di capire, a prescindere dalla origination, le dimensioni delle fette di questa immensa torta dal sapore sempre più sgradevole e dall’aroma non proprio gradito al fine olfatto dei sensibilissimi investitori.

Quella dei top bankers delle banche globali appare, inoltre, come una sorta di moderna fatica di Sisifo, in quanto, grazie all’ostinazione dei procuratori di vari distretti giudiziari statunitensi, validamente supportati dalle donne e dagli uomini del Federal Bureau of Investigations, nonché di un vero e proprio stuolo di organismi federali e statali deputati al controllo delle varie componenti del mercato finanziario statunitense e di un non meglio precisato numero di gole profonde, le banche si stanno vedendo costrette a riacquistare un ammontare di titoli di dimensioni pressoché analoghe al volume complessivo di svalutazioni e messe a perdita faticosamente e dolorosamente realizzate in questi lunghissimi e travagliatissimi dodici mesi e spicci trascorsi dall’ormai storico 9 agosto del 2007, il giorno che vide il blocco totale della liquidità sul non certo secondario mercato interbancario europeo e la maxi immissione di liquidità da parte della BCE prima e dalle altre banche centrali poi, un aiuto al mercato che non è mai stato interrotto nei dodici mesi successivi.

Come ben sanno i miei pochi ma affezionati lettori (lo vedo dalle accurate statistiche gentilmente fornitemi dal servizio Analytics del mio provider Google), la questione del molto deteriorato clima di fiducia esistente tra le banche che si contendono il mercato finanziario globale rappresenta una questione cruciale che spiega in larga misura la persistenza e la virulenza di quella crisi finanziario che si è conquistata sul campo l’appellativo di tempesta perfetta e che le ha consentito di surclassare alla grande quella verificatasi nel 1907.

Avendo diffusamente parlato della grave crisi di Lehman Brothers, non voglio sottrarmi ad una possibile obiezione che qualcuno tra i più attenti tra i miei lettori potrebbe farmi se non avessi inibito i commenti su quanto scrivo in questo blog e che è rappresentata dalla notizia apparsa in questi giorni sull’acquisto di 9,5 milioni di azioni di Lehman effettuato da quel George Soros da me eletto, insieme al Leone di Omaha, Warren Buffett, come stelle di riferimento nella navigazione tra gli alti marosi della tempesta perfetta.

Non avendo alcuna pretesa di giudicare le decisioni di Soros, mi permetto di notare sommessamente che, nel mese di giugno, la quotazione di Lehman Bros. Si era riportata sul minimo toccato a febbraio a seguito di rumors provenienti da Singapore e che avevano determinato un calo verticale dell’azione del 50 per cento circa, un livello da cui aveva recuperato significativamente sino a tornare intorno ai 40 dollari, il che chiarisce perché il ritorno intorno ai 20 dollari verificatosi in giungo rappresentasse, per una vecchia volpe come Soros, l’occasione per una piccola scommessa che, ove si fosse rivelata azzeccata, gli avrebbe consentito di passare delle belle vacanze o di fare qualche altra opera di beneficenza!

Quello che veramente inizia ad inquietare gli analisti e gli operatori è invece i livello molto elevato raggiunto dagli interessi che le diverse grandi entità operanti nel mercato finanziario globale sono costrette a pagare per ottenere il denaro, un livello che è giunto a valori veramente elevatissimi per quanto riguarda le preferred shares che stanno consentendo rendimenti effettivi del 16 per cento nel caso di Freddie Mac, ma che si pongono appena al di sotto di quel livello per le altre banche di investimento o per le banche più o meno globali che sono state costrette in questi ultimi dodici mesi a fare ampio ricorso a questo tipo di emissioni, alla luce delle più che evidenti difficoltà incontrate nell’effettuare aumenti di capitale per via ordinaria, aumenti peraltro fortemente avversati dagli azionisti che temono come la peste l’effetto diluitivo derivante da tali operazioni, nonché il fatto che, come è accaduto nel caso dell’aumento di Socgen e di molti altri colossi creditizi, il prezzo richiesto si ponga spesso molto al di sotto di quello di mercato, finendo spesso per anticipare una tendenza che poi quasi invariabilmente si è tramutata nel livello delle quotazioni effettive, ove ovviamente non siano giunte a livelli anche molto inferiori.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

mercoledì 20 agosto 2008

Tanto alla fine paga sempre Pantalone!


Le fortissime preoccupazioni nutrite dagli analisti e dagli operatori per le sorti di Fannie Mae, Freddie Mac e Lehman Brothers non sono svanite con la notte seguita al tracollo delle quotazioni delle tre importanti protagoniste del mercato finanziario statunitense, anche perché la strada delle due entità semipubbliche fondamentali per il funzionamento del settore del mortgage a stelle e strisce sembra oramai tracciata, mentre per la più piccola delle Investment Banks sembra proprio avvicinarsi a quella ora della verità che il navigato numero uno Richard Flud ha cercato in tutti i modi di procrastinare.

Come viene ammesso dalla quasi generalità dei commentatori, il sempre più probabile salvataggio di Fannie e Freddie da parte del Tesoro USA non avverrà senza condizioni, la prima delle quali è il preventivo azzeramento o quasi del valore residuo delle azioni ancora in mano a qualche distratto che non si è proprio reso conto di quanto stava avvenendo negli ultimi mesi, periodo alquanto drammatico e che ha visto il valore delle azioni delle due società ridursi al 10 per cento circa del massimo toccato nelle ultime 52 settimane, né credo potrebbe servire a qualcosa intentare una class action contro il comportamento disinvolto dell’ineffabile Effe O Ixs che, ricordatosi repentinamente di essere il capo della Securities and Exchange Commission, ha emanato un provvedimento che ha dato agli azionisti di Fannie e Freddie l’illusione che il peggio fosse ormai alle spalle e che avrebbero potuto riprendersi almeno parte del loro investimento.

Purtroppo, coloro che si aggirano per i mercati non sembrano solo essere del tutto all’oscuro della storia più remota delle crisi finanziarie, quali, ad esempio, la tempesta perfetta del 1907 o il crollo verticale del mercato azionario nel 1929, ma dimostrano di non avere appreso neppure le lezioni molto più recenti fornite dalla dilettantesca gestione del caso Northern Rock o dalla sinora irrisolta questione del salvataggio delle due medie banche tedesche travolte dalla prima ondata della tempesta perfetta tuttora virulentemente in corso, la più preoccupante delle quali è rappresentata dalla constatazione che, alla fine, tutti i salvataggi compiuti sono stati realizzati a carico dei contribuenti, incluso quello di Bear Stearns che non strenne mai avvenuto senza il finanziamento da 30 miliardi di dollari effettuato dalla Federal Reserve che se ne è anche assunta il relativo rischio.

D’altra parte, è oramai chiaro anche ai ciechi che le più volte reiterate affermazioni che prevedevano una ferma punizione dei responsabili del moral hazard o quella relativa al fatto che il too big too fail aveva oramai fatto il suo tempo non erano in realtà che tavolette buone per addormentare i nipotini di Bernspan e di Henry Paulson, anche perché non sfugge a nessuno che un fallimento repentino e senza paracadute dell’orso di Stearns, di Lehman Bros. o di Merrill Lynch avrebbe effetti veramente devastanti alla luce della sempre più stretta interrelazione esistente tra le banche globali di tutto il mondo, mentre lasciare al loro destino Fannie e Freddie, così come MBIA ed Ambac, renderebbero le notizie alquanto drammatiche rese note ieri sullo stato del mercato immobiliare solo delle piacevoli sorprese rispetto allo scenario che molto prevedibilmente ci troveremmo davanti ove tali default si materializzassero.

Ma la notizia di ieri sul vero e proprio balzo in avanti dei prezzi all’ingrosso che, con un +1,2 per cento, registrano il maggior rialzo degli ultimi ventisette anni e rendono sempre più urgente quella stretta sui tassi di interesse ufficiali che Bernspan ed i suoi complici stanno cercando in ogni modo di rinviare, quasi come se la contemporanea crescita annualizzata del Consumer Price Index alla velocità del 5,6 per cento l’anno potesse essere come quegli oggetti un po’ sgradevoli che i padroni di casa cercano di spingere con un piede sotto il tappeto che troneggia in ogni salotto buono che si rispetti.

Credo proprio che il povero Fisher resterà deluso anche nella prossima riunione della Fed, anche perché deve farsi una ragione dell’essere uno dei pochi membri del Federal Open Market Committee a continuare a credere di far parte di una vera banca centrale e non di una centrale operativa che sta lavorando da un anno 24 ore su 24 e sette giorni su sette per cercare di porre un qualche rimedio ad disastro contemporaneo dei titoli della finanza strutturata, causa ed effetto del meltdown immobiliare, il tutto mentre il petrolio e le altre materie prime viaggiano ormai sull’ottovolante!

Ma da dove nasce tanta ostinazione in quello che un tempo era noto per essere un mite docente di economia della prestigiosa Università di Princeton, dedito, come è noto, allo studio proprio delle crisi finanziarie del passato, ma tutto ciò avveniva prima che restasse folgorato ai piedi del maestro Greenspan che ebbe un ruolo rilevante nella scelta del suo successore fatta da Bush, cosa ha trasformato lo stimato professor Benjamin Bernanke nel joker Bernspan, quasi rinnovellando l’ambiguo ed oscuro rapporto esistente tra i dottor Jekill e mister Hyde?

Credo proprio che in tale metamorfosi abbiano pesato la scarsa esperienza da banchiere centrale, non surrogabile con un anno di esperienza alla guida dalla Fed di Philadelphia, ma soprattutto l’assoluta non esperienza dal vivo di quel vero e proprio casinò all’aperto in cui si era trasformato nel corso degli ultimi venticinque anni, ma in particolare negli ultimi tredici, il mondo della finanza, che, da aspetto complementare ed a tratti alquanto negletto dell’attività creditizia, aveva finito per sussumere sotto di sé quasi ogni aspetto della tradizionale attività di intermediazione, in un processo che, auspici gli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Banks o delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, nel quale si cercava di trasformare il piombo degli assets nell’oro dei titoli della finanza strutturata nei quali gli stessi venivano miscelati sino a perdere ogni nozione degli ingredienti!

Non se ne abbia a male, professor Bernanke, ma credo proprio che sarebbe molto difficile pretendere da lei quel livello di conoscenza analitica del quale sono spesso sprovvisti coloro che, almeno sul piano nominale, sono chiamati a presiedere ed a guidare i colossi recentemente creati nel mercato finanziario statunitense e, più in generale, in quello globale, un livello di conoscenza che spesso non era neppure appannaggio dei cosiddetti capi delle CIB che pure erano chiamati, assieme ai loro Chief Operating Officer a garantire la esattezza elle informazioni che confluivano nel conto economico e nello stato patrimoniale delle banche delle quali, spesso altrettanto nominalmente, facevano parte.

Quando tornerà a passeggiare per gli ameni vialetti della sua Università, avrà sicuramente molto tempo per riflettere su quanto non le è stato detto dall’uomo che le sedeva spesso al fianco, quell’Henry Paulson così opportunamente assurto due anni orsono al dicastero del Tesoro degli Stati Uniti d’America, un uomo che, per la lunga sua esperienza al vertice di Goldman Sachs, un’idea di quanto stava accadendo doveva pure avercela!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.

martedì 19 agosto 2008

Chi salverà Fannie Mae e Freddie Mac?


La difficoltà delle Investment banks e delle banche commerciali più o meno globali di fare i conti con la “zavorra” rappresentata dai titoli della finanza strutturata ancora pesantemente sul loro groppone ha determinato un vero e proprio tracollo del comparto finanziario della borsa statunitense, con flessioni delle quotazioni estremamente significative per le prime otto entità delle due specie considerate, ma ancora più pesanti per le alquanto disastrate Fannie Mae e Freddie Mac per le quali oramai gli operatori e gli analisti non vedono altra strada che quella di un salvataggio che non può che assumere le caratteristiche di una nazionalizzazione palese o mascherata.

Ovviamente, qualunque sia la soluzione che verrà adottata agli sventurati azionisti vecchie nuovi delle due entità semipubbliche chiamate a rendere possibile, oggi, grazie al provvedimento bipartisan appena licenziato dal Congresso con la benedizione di Bush, per un importo ancora maggiore che si pone di poco al di sopra dei 600 mila dollari, resterà in mano poco più di un pugno di mosche, il che era già chiarissimo prima della metà di luglio, ma che non si è tradotto nella più che prevedibile liquefazione delle relative quotazioni solo per la mossa ben poco ortodossa di Effe O Ixs volta essenzialmente a proteggere Fannie Mae e Freddie Mac, anche se, per rendere meno spudorata l’operazione, si era deciso di estendere ad altre diciassette entità finanziarie statunitensi e qualche banca straniera la diga contro l’ondata ribassista i corso.

Come ho avuto modo di chiarire nei giorni scorsi, l’aspetto più incredibile della decisione della Securities and Exchange Commission è stato rappresentato dal fatto che ha dato bellamente modo a David Einhorn ed al nutrito drappello di miliardari che gli si sono messi in scia di divenire rialzisti alla velocità della luce, lucrando sui più che certi e clamorosi rialzi che avrebbero riguardato le quotazioni delle azioni delle entità finanziarie proditoriamente sottratte alla furia del mercato, fornendo così agli stessi un maggior volume di fuoco quando, come si è puntualmente verificato, il provvedimento sarebbe alfine decaduto e senza troppi rimpianti da parte degli infuriati operatori che giurano di non avere mai visto nulla di simile nella, almeno per alcuni di loro, lunga ed onorata carriera.

Con l’inflazione ormai alle stelle ed i tassi di interesse ufficiali letteralmente alle stalle, non si tratta più di discutere sul se la Federal Reserve, seppur molto obtorto collo, alzerà i tassi, ma solo di quando una simile eventualità avrà a concretizzarsi, anche perché sono certo che Bernspan ed i suoi complici non vedono l’ora di fare bella figura con poco, fingendo di fare la faccia feroce nei confronti delle Investment Banks e delle maggiori banche commerciali statunitensi, che certamente nutrono al momento preoccupazioni molto più grosse e di tutt’altro genere, come ben testimoniato dal povero Richard Flud di Lehman Brothers che sa benissimo che difficilmente spunterà per i 29 miliardi di titoli della finanza strutturata che ha messo in vendita qualcosa di più dei 22 centesimi per dollaro ricavati dal suo collega Thain di Merrill Lynch che, poche settimane orsono, ha deciso di aprire le danze accettando un simile prezzo, subendo, per di più, l’onta di vedersi costretto a finanziare l’acquirente ed a fornirgli, per soprammercato, un solido paracadute ove le cose andassero peggio di quanto previsto.

E’ molto strano che nessuno, ma proprio nessuno, osi chiedere come mai gli stessi titoli che vengono venduti a prezzi di assoluto saldo continuino ad essere accettati pressoché alla pari nella ampia discarica a cielo aperto provvidenzialmente tenuta ancora aperta dalle donne e dagli uomini della Fed di New York e posti a “garanzia” di prestiti la cui durata è stata altrettanto provvidenzialmente portata ad 84 giorni.

Non scommetterei un soldo bucato sulla sopravvivenza di Flud al micidiale uno-due rappresentato dal certo esito della sua svendita ed dall’altrettanto certo esito delle sempre più imperiose richieste avanzate dallo sceriffo Cuomo e da uno stuolo di procuratori distrettuali, richieste volte a costringere anche Lehman, come tutte le altre banche americane e straniere coinvolte, a restituire ai loro clienti i 330 miliardi di dollari pagati per la carta straccia loro venduta nelle auction-term securities terminate solo all’inizio di marzo per la semplice ragione che il relativo mercato era divenuto del tutto illiquido, eventualità ben nota ai ben informati che se ne erano prontamente liberati, come era peraltro accaduto nell’estate del 2007 con gli hedge funds facenti capo alla poi defunta Bear Stearns.

Nelle precedenti due puntate, ho cercato di mettere in luce le ambasce nelle quali si dibattono le Investment Banks e le banche più o meno globali poste al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, anche se temo che tutto questo discutere di modelli, di salvataggi/nazionalizzazioni molto poco probabili, così come le mosse sempre più scomposte del duo Bernspan-Paulson non rappresentino che una densa cortina fumogena volta a distrarre l’attenzione del pubblico pagante dal vero problema che, oggi come un anno fa, continua a d essere rappresentato da quella sorta di ricerca del Santo Graal che rischia di rivelarsi altrettanto infruttuosa di quanto lo fu la ricerca dei cavalieri della tavola rotonda, in quanto ritengo molto improbabile che esista qualcuno disposto a farsi avanti per smaltire l’enorme montagna di titoli della finanza strutturata che è stata appena scalfita dalle centinaia di miliardi di dollari di svalutazioni e messe a perdita effettuati dalle banche di ogni ordine e rango.

Non sono assolutamente in grado di prevedere quando i bravi e disciplinati risparmiatori statunitensi smetteranno di fidarsi delle panzane ad un tanto al chilo allegramente propinate loro dai banchieri, dal governo e dagli alquanto distratti regolatori e decideranno di mettersi in fila davanti agli sportelli per riportare l’outstanding del loro deposito all’ammontare coperto dalla Federal Deposit Insurance Corporation, anche perché è difficile credere che sarà possibile trovare soluzioni accomodanti quando dalla decina di banchette finite a zampe all’aria si dovesse passare ai possibili default di banche di grandi, se non grandissime, dimensioni.

Non voglio, peraltro, credere alle voci incontrollate circolanti su blog e siti poco ortodossi che sostengono che, in realtà, il fenomeno è già iniziato in sordina da parte di quanti hanno o pensano di avere già capito come andrà a finire e cercano di non restare senza sedia quando l’orchestra finirà all’improvviso di suonare!

Come ben sanno i miei pochi ma affezionati lettori, non presto molta attenzione all’andamento delle borse di tutto il mondo, in quanto ritengo che una crisi di liquidità quale quella pressoché ininterrottamente in corso dal 9 agosto dello scorso anno sfoghi di più su altri ed a volte insospettabili versanti, ma non riesco a restare indifferente al tracollo delle quotazioni di ieri di Fannie Mae e Freddie Mac, giunte a perdere un quarto del loro valore in una sola seduta!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno, informando che gli stessi sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.