martedì 30 giugno 2009

Giulio Tremonti è stato costretto a ricoprire di velluto il pugno di ferro nei confronti delle banche italiane!


Fa davvero bene Massimo Giannini, direttore di Affari & Finanza e vice direttore del quotidiano La Repubblica che edita l’inserto finanziario settimanale, a enfatizzare nel suo editoriale di ieri la voce dal sen fuggita del per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che ha confessato di chiedersi, parafrasando la celeberrima frase di Bertolt Brecht, “se è un crimine maggiore fondare o rapinare una banca”, anche se il giovane e bravo giornalista non ci sta proprio a vedere l’accostamento un po’ brutale implicito nelle parole di Giulio, parole che autorizzerebbero chiunque a vedere “Alessandro Profumo come Renato Vallanzasca, Corrado Passera come Francis Turatelo. Altro che manager professionali. Piuttosto, rapinatori abituali”!

Che qualcosa vi sia di eccessivo nel giudizio che, notoriamente, Tremonti ha dei banchieri italiani e di quello stesso Governatore della Banca d’Italia, che ha, almeno agli occhi del Ministro, la colpa di godere di una inequivocabile stima internazionale, non sfugge neanche al suo alquanto ammaccato Premier, che ha dovuto riconoscere, nella conferenza stampa illustrativa dei provvedimenti assunti nell’ultimo Consiglio dei Ministri, di fare un po’ di fatica ad addolcire i propositi alquanto vendicativi di Giulio nei confronti di quei banchieri di prima fila, rei, ai suoi occhi, non solo di lesinare i finanziamenti alla piccola e media impresa, ma anche di tifare ancor oggi per l’alquanto disfatto centro-sinistra, o di gradire, in subordine, l’eventuale investitura di Mario Draghi e capo di un governo di salute pubblica.

La prima bozza del decreto legge fortemente voluto da Tremonti risentiva fortemente dello spirito vendicatore del ministro dell’Economia e avrebbe comportato per le banche italiane un danno difficilmente quantificabile, ma certamente nell’ordine delle decine di miliardi di euro annui, via abolizione tout court delle clausole sostitutive dell’abrogata commissione di massimo scoperto, riduzione drastica dei giorni di valuta su bonifici, assegni di conto corrente e assegni circolari, la previsione di una penale a carico delle banche lente nella surrogazione di un mutuo pari all’uno per cento per ogni mese o frazione di ritardo rispetto ai tempi stabiliti come normali dallo stesso decreto, nonché l’imposizione di una tassa del 6 per cento sulle plusvalenze legate al trading dell’oro, insomma, un vero e proprio salasso per i conti economici delle banche nostrane già orfane dell’un tempo consistente flusso di ricavi derivanti dal collocamento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata!

E’ per questi motivi che il gotha bancario italiano ha tirato un vero e proprio sospiro di sollievo dopo che le orecchie più disponibili del premier e di numerosi membri dell’Esecutivo alle pressioni dell’Associazione Bancaria Italiana e di numerosi banchieri intervenuti riservatamente in prima persona hanno colto il grido di dolore e sono riusciti, sia pure con grande fatica, a mitigare significativamente la nemesi di Giulio, prevedendo un tetto dello 0,50 per cento alle commissioni sostitutive della commissione di massimo scoperto e trasferendo la stessa misura, nonché le altre, ai tempi della trasformazione delle norme del disegno di legge prontamente varato, evitando così l’immediata operatività delle stesse intrinsecamente connessa allo strumento del decreto legge precedentemente previsto.

Va, tuttavia, detto che, anche nella sua versione edulcorata e rinviata di due mesi, le nuove previsioni rappresenteranno un a significativa riduzione dei ricavi bancari, solo in parte compensata da quel grazioso cadeaux, come lo ha definito Berlusconi, che prevede un innalzamento dallo 0,30 allo 0,50 per cento delle cosiddette sofferenze che potranno essere portate in detrazione fiscale.
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La condanna a 150 anni di carcere inflitta al finanziere Madoff è stata condita dal giudice dalla definizione dello schema di Ponzi da decine di miliardi di dollari come di una truffa diabolica, una definizione che non deve essere giudicata eccessiva, alla luce del fatto che ha contribuito a far evaporare quel residuo di fiducia dei risparmiatori e investitori nella trasparenza e l'eticità dei comportamenti nel mercato finanziario statunitense sopravvissuto dopo quanto è stato evidenziato dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso da poco meno di ventitrè mesi!

lunedì 29 giugno 2009

Il bue Tremonti e gli economisti asini!


Avendo da qualche tempo doppiato la boa delle seicento puntate del Diario della crisi finanziaria, inizio a interrogarmi seriamente sulla capienza del giornale di bordo della flotta finanziaria decimata dalla tempesta perfetta che, del tutto non richiesto, sto tenendo dal 4 settembre del 2007, anche perché ho calcolato che sarei oramai arrivato a qualche volume di discrete dimensioni, ove ovviamente esistesse un editore talmente pazzo da decidere che quest’avventura editoriale visitata circa 200 mila volte meriti di uscire dai confini del web per approdare nelle librerie.

Non ho alcune intenzione di proporre ai lettori nuove stime sulla durata della crisi, anche perché sono certo che dopo il secondo sarà tranquillamente festeggiato, il 9 agosto del 2010, anche il terzo anno di vita, a forza pressoché immutata, della tempesta perfetta, così come considererei un ottimo risultato assistere a qualche sprazzo di ripresa nel corso del 2011, anche se so benissimo che, sfumate le speranze di una ripresa entro la fine del presente anno, gli effetti sui conti delle maggiori entità protagoniste del mercato finanziario globale, stavolta determinate dalla crescita esponenziale dei default delle aziende industriali e di quelle appartenenti all’amplissimo settore dei servizi potrebbero essere tali da pregiudicare la ripresa in un congruo numero di anni a venire.

Mi preme, invece, dire qualcosa in relazione all’ennesima accusa rivolta dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, all’universo mondo degli economisti sfusi o intruppati in più o meno prestigiosi uffici studi, rei, senza eccezione alcuna, di non aver previsto per tempo l’arrivo della più grave crisi finanziaria che l’umanità abbia mai dovuto sopportare, un accusa mossa, peraltro, da un uomo che, seppure a fasi alterne, ha partecipato a pieno titolo ai numerosi vertici dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del G7/G8, ministri e governatori che hanno condiviso con i rispettivi leaders politici le misure di deregolamentazione selvaggia della finanza più o meno strutturata, senza che da lui stesso o da qualcuno dei suoi esimi colleghi sia mai venuta una critica rispetto a innovazioni regolamentari e legislative che ci hanno portato dritti, dritti sull’orlo di quel precipizio coraggiosamente segnalato dal numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss Kahn a metà del mese di ottobre del davvero orribile 2008!

Non vorrei rifugiarmi nella banalità dell’espressione che recita ‘il bue che dice cornuto all’asino’, ma credo che raramente una singola frase esprima in maniera così plastica l’assurda pretesa di Giulio di ergersi a moralizzatore di una categoria che se ha un torto è stato proprio quello di fare il possibile e anche l’impossibile per non disturbare i manovratori e i ‘regolatori’ mentre consentivano bellamente alle banche di ogni ordine e grado e alle altre principali entità protagoniste del mercato finanziario globale di produrre una montagna immensa di titoli della finanza strutturata, più o meno nascosti nelle immense pieghe dei loro bilanci, per non parlare poi della crescita abnorme di quelle vere e proprie armi di distruzione di ricchezza di massa che rispondono al nome di Credit Default Swaps.

Per quanto mi riguarda, è dalla seconda metà degli anni Ottanta che ho all’attivo centinaia di articoli apparsi su quotidiani, settimanali, mensili e periodici di varia cadenza che mettono in guardia dai rischi connessi ai concomitanti processi di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia, buona parte dei quali sono rintracciabili mediante una semplice inquiry su un buon motore di ricerca, ma credo proprio di non essere stato il solo economista non embedded a cercare di segnalare la tempesta perfetta allora più o meno prossima ventura!

domenica 28 giugno 2009

Ma è giusto che sia il solo Bernspan a stare sulla graticola del Senato? (terza e ultima parte)


Intendiamoci, Tim Geithner, almeno dal poco che sono riuscito a saperne, è davvero bravo, uno che è riuscito a soli trentasette anni a zittire Greenspan, Summers e i pezzi grossi dell’amministrazione Clinton e a convincerli che era proprio necessario stanziare a tambur battente 100 miliardi di dollari per lenire le ferite delle tigri asiatiche in piena crisi, una decisione che provocò non pochi mal di pancia in Congresso, ma che fu sostenuta lancia in resta dallo stesso Clinton che recitò come solo lui sapeva fare il copione propostogli dai big ma redatto in base alle idee del giovane e ancora quasi sconosciuto Geithner.

E’ strano che nessuno si sia mai chiesto come mai un giovane così brillante, di formazione davvero internazionale, si sia accontentato della relativamente paga di civil servant, prima al dicastero del tesoro e poi alla guida di una delle banche che compongono il sistema della riserva federale, mentre i suoi coetanei, molti dei quali molto meno dotati di lui, facevano soldi a palate in quelle investment banks o in quelle banche universali che gli avrebbero offerto qualsiasi posizione lui avesse richiesto e quasi a qualsiasi condizione.

Pur essendo indubitabilmente vero che Geithner non è l’unico al mondo a preferire il potere e il trattare da pari a pari con i numeri uno della finanza più o meno globale, basti pensare ai dieci anni trascorsi al Tesoro italiano da Mario Draghi nella qualità di direttore generale responsabile delle privatizzazione delle ex banche e industrie di Stato, ma è certamente strano che negli incarichi successivamente ricoperti da Tim nella sua oramai quasi ventennale sfolgorante carriera non si sia fatto nemmeno un nemico, al punto che la sua nomina a ministro è stata salutata con giubilo dai vertici delle entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, mentre i politici di entrambi gli schieramenti lo conoscevano troppo poco per contestare seriamente la decisione del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

E’ stato solo quando Geithner ha partorito una versione del piano di salvataggio quasi del tutto identica a quella a suo tempo proposta dal suo predecessore, o quando non ha contrastato efficacemente, e soprattutto in via preventiva, gli scandalosi bonus elargiti ai manager della disastrata e nazionalizzata AIG che l’ambizioso ministro del Tesoro se l’è vista un po’ brutta, ma in suo soccorso è intervenuto, per quattro o cinque volte in pochi giorni, il presidente in persona, un appoggio che deve essere stato seriamente ponderato da un politico giovane ma molto accorto come certamente è Obama, anche se, almeno secondo i commentatori più informati, qualcosa si deve essere rotto in quei giorni nel rapporto tra lo stesso Obama e quel gruppo di potere così determinante nella disfida per la nomination, mentre l’elezione Barack se l’è davvero guadagnata sul campo.

La difesa di Obama dell’operato di Bernspan, così come il suo appoggio alla riforma che attribuisce più ampi poteri sul sistema finanziario alla Federal Reserve possono esseri letti anche in quest’ottica, una sorta di riequilibrio tra il potere dei suoi più stretti consiglieri in materia economica e dello stesso ministro del Tesoro da un lato e della Fed e delle altre Authorities dall’altro, un riequilibrio che restituisce centralità al ruolo dell’inquilino della Casa Bianca e che potrebbe consentirgli di occuparsi maggiormente di quella riforma dell’assistenza sanitaria solennemente promessa in campagna elettorale, nonché delle tutt’altro che risolte emergenze legate all’occupazione, al persistente disastro nel settore immobiliare, smarcandosi così dall’accusa di continuità della linea Bush che gli viene rivolta dagli economisti più critici.

sabato 27 giugno 2009

Ma è giusto che sia il solo Bernspan a stare sulla graticola del Senato? (seconda parte)


Avevo lasciato ieri il solo Bernspan ad affrontare non solo le domanda incalzanti dei componenti della commissione bancaria del Senato, una solitudine dovuta all’uscita di scena degli altri due componenti del rinomato trio Bush-Paulson-Bernspan, due che, peraltro, avevano più che validi motivi per fare quello che hanno fatto nei primi diciassette mesi della tempesta perfetta, in particolare l’ex (?) investment banker Hank Paulson che i più malevoli pensano sia stato spedito alla guida del Tesoro dai suoi ex partners della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs proprio perché evitasse in ogni modo che il potere politico, di fronte al meltdown della finanza più o meno strutturata, decidesse di prendere misure in favore di Main Street e non di Wall Street, come invece è puntualmente accaduto.

Non vorrei dimenticare, nell’elenco di quanti sono riusciti a sottrarsi alle loro più o meno gravi responsabilità, dell’oramai celeberrimo Effe O Ixs, al secolo Christopher Cox, un sodale di vecchia data del clan Bush, inopinatamente messo alla guida della Securities & Exchange Commission, una delle Authority che, sotto la sua sonnolenta e molto disattenta guida, tutto ha fatto meno che evitare che accadesse quello che invece è puntualmente accaduto, un uomo che forse era stato scelto proprio per l’assoluta mancanza di competenze specifiche in materia e che si sarebbe completamente appoggiato ad Hank, visto dai più come il suggeritore occulto delle improvvide decisioni con le quali la Sec sterilizzò l’azione dei ribassisti, ma solo nei confronti delle 19 entità protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce, una mossa che ha fatto guadagnare di più David Einhorn e compagni del pur cospicuo malloppo che avevano accumulato nei mesi in cui avevano shortato lo scortabile!

Ma che dire dei luogotenenti prima in Goldman e poi al Tesoro di Paulson o di quell’ex alto dirigente di Goldman, poi divenuto presidente del New York Stock Exchange e, infine, chiamato, con un ingaggio da calciatore di lusso, come salvatore dell’alquanto decotta Merrill Lynch, quel John Thain che si è rivelato molto utile nel confezionamento del ‘pacco’ rifilato da Paulson e Bernspan al povero numero uno di Bank of America e che, quando il povero Lewis osò fare qualche obiezione e pretese almeno uno straccio di due diligence sui molto malmenssi conti della banca che pure stava pagando 50 miliardi di dollari (anche se carta contro carta), si unì ai due per convincerlo, con le buone e, pare, anche con le cattive, a fare il bravo ragazzo e a non farla troppo difficile con la storia dei diritti degli azionisti di Bofa.

Ma il personaggio che ha svolto il lavoro più ingrato e oscuro è certamente l’allora presidente della Fed di New York che, a dire dei bene informati, è stato il vero artefici dei salvataggi bancari realizzati in quei diciassette mesi, così come pare abbia avuto un ruolo tutt’altro che secondario nella improvvida decisione di fare fallire Lehman Brothers, quel Timothy Geithner, già distintosi, nei panni di dirigente, ai tempi dei ministri del Tesoro di Clinton, Robert Rubin e Larry Summers, e che è stato prescelto per diventare, nientepopodimeno, che il successore del povero Hank sulla potrona più alta del dicastero del Tesoro, una decisione che la dice davvero lunga sul carattere del tutto bipartisan del gruppo di potere che decise di scommettere, nella lunghissima corsa per la nomination a candidato del partito democratico per le presidenziali 2008, su un giovane senatore di Chicago che sembrò loro molto, ma molto più malleabile della ex first lady di Bill Clinton, Hillary Rhodam Clinton, una di cui tutto si può dire, meno che sarebbe potuta diventare plastilina nelle mani di vecchi marpioni come Rubin, Summers, Buffett e gli altri massimi esponenti di quello che, forse un po’ ingenuamente, è stato definito il Dream Team!

venerdì 26 giugno 2009

Giulio Tremonti versus Mario Draghi, l'ABI e i banchieri italiani!


Il Governatore della Banca d’Italia è persona troppo navigata e accorta per non prevedere il vespaio che avrebbero sollevato le sue previsioni sull’andamento del prodotto interno lordo nell’anno di disgrazia 2009, previsioni di un calo del 5 per cento del PIL prontamente riprese e rincarate dalla sin a poco tempo fa iperottimista presidentessa di Confindustria, Emma Marcegaglia, e istantaneamente rispedite al mittente dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che non ha mancato di ricordare a Mario Draghi la precedente stima di Via Nazionale che ipotizzava una contrazione della nostra economia di ‘appena’ il 2 per cento e che avrebbe posto il Belpaese tra i best performer nell’anno in corso.

Non vi è chi non abbia letto dietro l’esternazione del Governatore una mossa legata all’attuale fase di ‘sede vacante’ plasticamente testimoniata dall’utilizzo sempre più frequente in prima linea di un uomo abituato a operare dietro le quinte come il potentissimo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, non certo per la stima fornita sull’andamento del PIL che è perfettamente in linea, se non leggermente più ottimista, di quelle recentemente e autorevolmente fornite dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dall’OCSE, ma per la più che nota idiosincrasia berlusconiana e tremontiana nei confronti di predizioni che rischiano di trasformarsi più o meno ineluttabilmente in selfulling prophecies, una ipersensibilità che potrebbe anche avere un senso se sulle vicende economiche valesse la stessa assenza di informazione che la maggior parte dei media televisivi e una parte preponderante della carta stampata dedicano alle disavventure etiche e morali dell’attuale inquilino di palazzo Chigi.

Mi permetto, inoltre, di ipotizzare che l’uscita di Draghi (ma i Governatori un tempo non parlavano solo in occasione del sermone annuale in sede di assemblea e in occasione della giornata del Risparmio?) abbia molto a che fare con il recente scontro al calor bianco che ha visto Tremonti versus i banchieri italiani di ogni ordine e grado, uno scontro che non stupisce più di tanto alla luce della opinione di Giulio nei confronti dei reggitori pro tempore di gruppi creditizi e banche di varia dimensione, ma che stavolta è stata innescata da una frase alquanto infelice attribuita all’ex enfante prodige della finanza italiana e dominus operativo incontrastato di Intesa-San Paolo, Corrado Passera, reo agli occhi del Ministro, del mondo imprenditoriale e delle stesse un po’ distratte associazioni dei consumatori e risparmiatori/piccoli investitori di avere sostenuto che non può erogare le decine di miliardi di liquidità in eccesso nelle disponibilità della ‘sua’ banca per l’inconsistenza o l’assenza di programmi imprenditoriali meritevoli dell’attenzione sua e dei suoi più diretti collaboratori, quali l’ex capo del personale della Technicolor divenuto, dopo anni di sodalizio con Passera, Direttore Generale della Banca dei Territori, Francesco Micheli, e il potentissimo Gaetano Micciché che si occupa di quel che resta!

Forse ispirato dal quadro che il suo predecessore amava avere dietro le sue spalle, un San Sebastiano trafitto dalle frecce dei suoi persecutori, il banchiere centrale che il mondo a volte ci invidia ha volutamente attratto su di sé le ire dell’infuriato ministro che minacciava di dare nuovo impulso alle commissioni prefettizie e che metteva in discussione il giochetto appena realizzato dalle banche di ogni ordine e grado, attraverso la trasformazione delle abolite commissioni di massimo scoperto in balzelli aventi altra denominazione, ma considerati da Tremonti troppo simili a quelli che, motu proprio ma anche sotto la pressione di Confindustria e dalle altre associazioni imprenditoriali, aveva pensato di mandare definitivamente in soffitta, ignorando o fingendo di ignorare il vecchio detto che recita che ‘fatta la legge, trovato l’inganno’.

Ma è giusto che sia il solo Bernspan a stare sulla graticola del Senato? (prima parte)


Alla mossa inusuale fatta mercoledì dalla Banca Centrale Europea, l’ immissione di liquidità a un anno per oltre 440 miliardi di euro a favore delle banche operanti nell’area europea a fronte di titoli più o meno tossici della finanza strutturata ha risposto ieri il sistema della riserva federale statunitense con l’annuncio della riduzione del suo sforzo in sostituzione delle banche a stelle e strisce di ogni ordine e grado, un ruolo che, seppur necessario vista la prosecuzione dello stato di semicongelamento di mercati importanti quali quello delle Commercial Papers, ha posto la Fed in una posizione del tutto anomala nel pur variegato mondo delle banche centrali dei principali paesi industrializzati.

Certo, ieri Bernspan aveva tutti altri grilli per la testa, sottoposto come era a un vero e proprio fuoco di fila di domanda ostili da parte di esponenti del partito repubblicano nel corso della sua attesa audizione sulle presunte energiche pressioni da lui o da suoi stretti collaboratori esercitate nei confronti del numero uno della Bank of America, Kenneth Lewis, pressioni rese note dallo stesso Lewis in precedenti dichiarazioni e nel corso di un’audizione presso la stessa commissione del Senato che ieri ha messo sulla graticola quello che un tempo era un mite professore di storia economica presso il prestigioso ateneo di Princeton, ma che dal 2006 si è trasformato in una sorte di clone del suo predecessore e maestro, Alan Greenspan, l’uomo un tempo osannato dagli addetti ai lavori, ma che ora viene visto dai più come uno dei principali responsabili della tempesta perfetta ininterrottamente in corso dal 9 agosto del 2007!

Credo che, nel corso di questi lunghissimi e difficilissimi ventitré mesi, Bernspan abbia riflettuto molto sulla estrema relatività del tempo, anche perché sarà stato per lui molto, ma molto difficile mettere a confronto le decadi trascorse passeggiando per i vialetti per i vialetti del ‘suo’ ateneo insieme a colleghi e discepoli, con i tre anni trascorsi al vertice di quel sistema della riserva federale che aveva conosciuto in precedenza solo per una breve permanenza in una delle banche che compongono il sistema, quella di Philadelphia, un’esperienza che non ha lasciato grandi tracce e che non lo ha certamente reso il naturale successore del Maestro, del quale ha scimmiottato, e non sempre bene, l’attitudine a tenersi pervicacemente behind the curve, se non, addirittura, behind the market.

Certo, uno degli errori più gravi commessi dall’uomo che viene oggi fermamente difeso da Barack Obama e da Warren Buffett è stato quello di pensare che la riduzione a zero dei tassi e l’inondazione del mercato con migliaia di miliardi di dollari di liquidità fosse condizione necessaria e anche sufficiente per creare le premesse per una ripresa in tempi relativamente rapidi, scambiando nel più classico dei modi gli effetti con le cause, il che è particolarmente grave per uno studioso che ha dedicato la vita a studiare le crisi economiche e finanziarie del passato, esperienze spesso tragiche ma che hanno lasciato lezioni che Bernspan ha dimostrato di non comprendere, così come ha dimostrato di avere un’idea davvero vaga del contributo del mai troppo compianto John Maynard Keynes, un contributo forgiato proprio alla luce della tragica e non inevitabile esperienza della Grande Depressione.

L’uscita di scena contemporanea degli altri due corresponsabili della gestione della tempesta perfetta, l’ex ministro del Tesoro Hank Paulson e l’ex presidente George W. Bush, ha lasciato solo Bernspan,, ma nella puntata di domani del Diario della crisi finanziaria mi occuperò dell’ex presidente della Fed di New York e attuale ministro del Tesoro, Timothy Geithner.

giovedì 25 giugno 2009

La BCE cala un asso da oltre 440 miliardi!


Con una mossa senza precedenti per dimensione e duration dell’operazione, la Banca Centrale Europea ha immesso liquidità a un anno per oltre 440 miliardi di euro a favore delle banche operanti nell’area europea cui è stato, peraltro consentito di utilizzare come garanzia anche i titoli più o meno tossici della finanza strutturata che, in misura imprecisata, ancora sono presenti al di sopra o al di sotto della linea dei loro bilanci.

Pur trattandosi di una decisione in qualche modo preannunciata dallo stesso Trichet sin dal mese di maggio, non vi è dubbio che la stessa e le altre misure non convenzionali che seguiranno si inseriscono appieno nella sempre più aspra dialettica in corso tra i ministri finanziari e l’istituto di Francoforte sulle misure più appropriate per consentire un ritorno alla normalità nell’offerta di credito, una diatriba che vede gli alquanto neotemplari membri del Board della BCE chiedere ai governi di porre termine al deficit spendine e, anzi, a provvedere al più presto all’elaborazione di piani di rientro dai rapporti eccessivi raggiunti deficit/PIL e che si sono già tradotti e ancor più si tradurranno in veri e propri balzi in avanti del rapporto tra debito pubblico e PIL.

A difesa della posizione della BCE, è ieri intervenuto il membro italiano, Lorenzo Bini Smaghi, che ha cercato di riaffermare il primato dell’istituto erede dello ‘spirito della Bundesbank’ nelle questioni che riguardano il settore creditizio e finanziario nell’area dell’euro e anche nei prossimi dintorni, una posizione che mal si concilia con quella espressa pressoché in contemporanea dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che ha in sostanza detto che l’attività bancaria è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai banchieri, volutamente non distinguendo tra i banchieri ordinari e quelli centrali!

Serbando esatta memoria di quanto accadde il 9 agosto del 2007, quando un oscuro dirigente della BCE, lasciato solo dia membri del Board tutti in vacanza, si trovò a prendere la decisione della sua vita, inondando i congelati mercati interbancari con un getto di liquidità di una volta e mezzo superiore a quello irrorato alla riapertura dei mercati dopo l’11 settembre 2001, confesso che ieri più di un brivido mi è corso per la schiena leggendo il dispaccio di agenzia che comunicava che una somma poco meno che doppia, ma di durata quadrupla, veniva concessa alle banche europee convalescenti per le infreddature prese nel corso dei poco meno di ventitré mesi di tempesta perfetta, nonché per il fatto che il tutto si verifica quando si cominciano a sentire i primi effetti della nuova ondata che sta mettendo seriamente a rischio la corsa dell’orso iniziata dopo i minimi segnati nell’orribile mese di marzo dell’anno di disgrazia 2009.

Nel frattempo, sulla piazza newyorkese, andava in scena una nuova edizione di ‘Così è se vi pare’, protagonisti assoluti il secondo balzo in avanti dei beni durevoli in maggio che non so se sono gli stessi che stanno facendo la fortuna di un sito internet di aste cui si rivolgono quanti continuano a produrre per inerzia senza avere ordini in portafoglio e l’ennesimo tonfo delle vendite di case nuove di zecca, che sono calate, sempre nel mese di maggio e pur in presenza della ennesima e radicale revisione del dato relativo al mese precedente, con il risultato che, a livello peraltro annualizzato, di case nuove se ne vendono 442 mila (cioè meno di 37 mila nel mese in questione), mentre quando si era al picco del boom edilizio, e cioè nei primi mesi del 2006, di case nuove se ne vendevano oltre un milione, anche se questo non deve stupire se si pensa che è possibile acquistare una bella casa appena usata ad un prezzo mediano di oltre un quinto inferiore a quello che gli esosi e alquanto disperati costruttori chiedono per una casa appena realizzata!

mercoledì 24 giugno 2009

Corrado Passera aggiunge la beffa al danno!


Il previsto rimbalzo dal tonfo registrato lunedì sui mercati finanziari europei e su quello americano ieri non c’è stato, mentre i mercati asiatici non hanno potuto che replicare le perdite verificatesi il giorno prima sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, il che fornisce un robusto sell signal non solo a David Einhorn e a quel pugno di billionares uniti da oltre venti mesi nella loro nemesi ribassista su tutto quello che ha a che fare con il credito e la finanza, ma anche a quanti non vogliono vedere evaporare i guadagnati ricavati cavalcando la corsa dell’orso e stanno più o meno gradualmente alleggerendo le proprie posizioni.

D’altra parte, è mancato ieri l’atteso balzo in avanti delle vendite di case e esistenti a stelle e strisce, che hanno registrato un rialzo del 2,4 per cento solo grazie al drastico ridimensionamento del dato del mese precedente, mentre il prezzo mediano delle case ha compiuto un ulteriore avvicinamento al minimo assoluto previsto a 150 mila dollari, portandosi dai 180 mila dollari di aprile ai 173 mila di maggio, una flessione in larga parte dovuta al fatto che una casa su tre è stata venduta all’asta, fase conclusiva di quelle procedure di foreclosure che non accennano in alcun modo a registrare una battuta di arresto, il che fa ipotizzare che l’ipotizzato minimo potrebbe venire toccato già nei prossimi cinque-sei mesi e non nel lontanissimo 2011 previsto dall’accurato studio che ho segnalato qualche puntata fa.

Un amico e collega di vecchia data di Bernspan, il professor Mark Gertler, docente di economia alla New York University, ha tenuto ieri una conferenza in quel di Washington, uno speech che si è svolto proprio mentre Bernspan e i suoi colleghi del Federal Open Market Committee si riunivano in conclave e nel corso del quale Gertler ha escluso alquanto categoricamente che la Fed possa adottare politiche restrittive già nell’autunno prossimo venturo, sostenendo al contempo di non vedere rischi di inflazione in futuro prevedibile, mentre si è dichiarato estremamente preoccupato per la prospettiva di una lunga serie di trimestri nei quali la produzione industriale potrebbe mantenersi sugli attuali e alquanto depressi livelli sia per il calo della domanda che per le crescenti difficoltà di finanziamento incontrate dalle imprese a causa del sempre più vistoso credit crunch operato dalle banche di ogni ordine e grado.

In una recente apparizione televisiva, il Dr. Doom, al secolo Nouriel Roubini, aveva con la solita precisione messo in fila tre ordini di ragioni per escludere l’ipotesi di quella ripresa prossima ventura tanto cara agli analisti e agli economisti embedded, un’analisi ad altissimo tasso di buonsenso e in buona parte confermata dal professor Gertler, peraltro suo collega di facoltà, in particolare con riferimento alla preoccupazione da entrambi condivisa sul delicatissimo tema dell’offerta di credito.

Ad aggiungere la beffa al danno, l’ex enfante prodige della finanza italiana e incontrastato numero uno operativo di Intesa-San Paolo, Corrado Passera, ha dichiarato di disporre di alcune decine di miliardi di euro, ma di non sapere proprio a chi darli a causa della presunta inconsistenza dei programmi presentati dai clienti della sua banca, una dichiarazione che ha provocato una più che prevedibile levata di scudi da parte imprenditoriale e delle associazioni dei risparmiatori, nonché una pronta staffilata da parte del per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che non ha esitato che per uscire dalla crisi tutto bisogna fare a eccezione di quello che stanno facendo i banchieri, anche se, per carità di Patria, ha evitato di chiarire se si riferisse ai banchieri italiani o a quelli operanti all over the world!

martedì 23 giugno 2009

La fine della corsa dell'orso fa fallire la scommessa sul petrolio di Goldman Sachs!


Per il secondo lunedì consecutivo, Wall Street e le principali piazze finanziarie europee hanno invertito bruscamente la rotta, rendendo del tutto vano lo sforzo compiuto dalle piazze asiatiche, in particolare da quella di Hong Kong, che avevano cercato di dare un’intonazione positiva all’ottava e di gettarsi dietro le spalle la battuta d’arresto segnata nella settimana precedente sui principali mercati azionari del pianeta.

A guidare la brusca ritirata sono state come al solito le entità protagoniste del mercato finanziario globale, che, stavolta senza particolari eccezioni, hanno registrato perdite significative e sono costrette sempre più a fare i conti con i problemi irrisolti messi a nudo da una tempesta perfetta cui mancano poco più di otto settimane per festeggiare il suo secondo compleanno con l’archiviazione della corsa dell’orso che tanto aveva scaldato i cuori degli analisti e degli economisti più embedded alle logiche del capitalismo finanziario e che oggi vedono a portata di mano la rottura verso il basso della soglia degli 8 mila punti del Dow Jones, un possibile test di quella posta a 1.500 punti per il Nasdaq, mentre il ben più significativo Standard & Poor’s 500 si è gia portato ieri, a metà seduta, al di sotto della soglia dei 900 punti.

L’inversione di tendenza iniziata il 15 di questo mese si sta, dunque, dimostrando molto più incisiva di quanto si potesse ritenere nelle prime sedute della scorsa ottava, confermando quanto fossero profonde le cause che mi avevano spinte a preconizzare l’arrivo di una nuova e più devastante ondata della tempesta perfetta in una serie di tre puntate significativamente intitolate “Avviso ai naviganti nella tempesta perfetta!” e in quella del 15 giugno dal titolo “Naviganti avvisati, mezzo salvati”, cause che vanno ad aggiungersi a quelle individuate nella puntata del 4 settembre del 2007 che ha dato il via all’avventura editoriale del Diario della crisi finanziaria e che non sono altro che i contraccolpi, a volte drammatici, della crisi della domanda effettiva in larga misura provocata dalla diminuzione della propensione al consumo e dal correlativo aumento della propensione al risparmio, una riduzione della domanda che non riesce a impedire quell’escalation delle sofferenze e delle insolvenze che è più difficile per le banche nascondere sotto il tappeto come si sta cercando disperatamente di fare con i titoli più o meno tossici della finanza strutturata!

Tra i tanti lasciti della corsa dell’orso sarà in un prossimo futuro annoverata la fallita scommessa della potente e ancor più preveggente Goldman Sachs sul prezzo futuro del petrolio, una ripetizione in tono minore di quanto è avvenuto nel 2008, ma che stavolta stentava a decollare per la sempre più palese della domanda dell’oro nero e delle altre materie prime legata ai vistosi cali del prodotto interno lordo nei principali paesi industrializzati, nonché alla forte contrazione della crescita in Cina e in India, una scommessa che ha contribuito non poco ai risultati di Goldman nel primo trimestre e nei primi due mesi del secondo dell’anno di disgrazia 2009, ma che rischia ora di tradursi in un drammatico boomerang per i conti della ex investment bank che non riesce in alcun modo a decidersi a essere quella banca commerciale che pure si è impegnata solennemente a essere nel settembre del 2008.

Purtroppo la fine della corsa insensata del greggio è stata determinata non dall’intervento dei governi e delle autorità monetarie, ma dalle sempre più depresse previsioni rese note in questi giorni dalla World Bank e dal fuoco di sbarramento dei principali paesi produttori che hanno chiarito, al di là di ogni ragionevole dubbio, che non gradiscono il ritorno alla volatilità dei prezzi sul mercato petrolifero, chiarendo che sono interessati più alla stabilità che a ritorni di breve periodo.

lunedì 22 giugno 2009

Quanto 'soffrono' le banche più o meno globali nella tempesta perfetta?


Il brusco capovolgimento meteorologico che ha guastato la celebrazione del solstizio d’estate nel Belpaese dal quale scrivo si intona molto bene con le secchiate d’acqua gelata che stanno spegnendo progressivamente gli entusiasmi alquanto sospetti che hanno prodotto, in buona parte a partire dal nulla, la corsa dell’orso o il rimbalzo del coniglio morto, un fine corsa largamente annunciato da quanti hanno cercato di spiegare che le disavventure delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale difficilmente sarebbero terminate a fronte di un tasso medio di disoccupazione ufficiale che a livello mondiale già oscilla intorno al 10 per cento (quello reale è, purtroppo, molto più elevato), di un livello della produzione industriale tra il 10 e il 20 per cento inferiore ai massimi segnati nella prima metà del 2007, di un meltdown immobiliare statunitense che dovrebbe toccare una flessione dei prezzi di poco inferiore al 50 per cento entro i prossimi 24 mesi, prima di tornare, nel 2012, a livelli simili, per difetto, a quelli alquanto depressi toccati nel maggio dell’ennesimo anno di disgrazia 2009, non fosse altro che per il lapalissiano fatto che questi fenomeni si tradurranno ineluttabilmente in un aumento delle sofferenze bancarie superiore a quello previsto nello scenario peggiore dei recenti stress tests effettivamente eseguiti sulle 19 principali entità operanti nel mercato finanziario a stelle e strisce e di quelli simulati per le banche operanti altrove.

L’altra faccia della medaglia, ahimé altrettanto sgradevole della prima, riguarda i conti dei prossimi 12-16 trimestri delle aziende non finanziarie presenti e operanti nei cinque continenti, conti che, in particolare sotto il non secondario profilo della redditività netta, non potranno che essere pesantemente influenzati dalla flessione della propensione al consumo e dalla contestuale crescita del suo complemento a cento rappresentato dalla propensione al risparmio legata al crescente onere rappresentato dal servizio del debito privato, una ricomposizione oramai sotto gli occhi di tutti e che avviene, peraltro, mentre è in corso un fenomeno drammatico di crowding out tra titoli rappresentativi del debito pubblico e quelli rappresentativi del debito delle aziende finanziarie e non finanziarie, il tutto mentre è in corso una feroce competizione per il piazzamento degli stessi titoli pubblici che prevede un turn over annuo cifrabile in migliaia di miliardi di dollari per non meno di un triennio, una competizione che non può che provocare un ulteriore innalzamento dei già elevati differenziali attualmente esistenti tra i diversi emittenti sovrani.

La giusta attenzione ai livelli crescenti del tasso di insolvenza presente nel mercato immobiliare, sia nel comparto residenziale che in quello relativo agli immobili destinati a scopi diversi, ha distolto gli analisti dalla vera e propria impennata registrata nell’amplissimo settore del credito al consumo, sia con riferimento ai prestiti finalizzati all’acquisto di beni durevoli e semidurevoli, sia con riferimento a quello non finalizzato e alimentato dal costante zip zip della carte di credito, in particolare di quello alimentato dalle cosiddette carte di credito revolving, una disattenzione che sta venendo meno anche grazie alla scoperta che il tasso di insolvenza dei debitori della specie facenti capo al colosso Bank of America è oramai giunto al livello stratosferico del 12,5 per cento, mentre, pur segnalando valori percentuali più contenuti, è in crescita esponenziale nella maggior parte delle concorrenti della banca gestita da Kenneth Lewis.

Il numero odierno del supplemento finanziario del quotidiano La Repubblica mette in risalto il fortissimo fenomeno di concentrazione dell’indebitamento delle imprese italiane a carico dei due principali gruppi creditizi, un fenomeno che va di pari passo con quello relativo alla rilevantissima quota di Intesa-San Paolo e di Unicredit Group sui crediti erogati nei paesi dell’Europa dell’Est!

domenica 21 giugno 2009

Una nuova profezia per il 2012!


In uno dei siti statunitensi che frequento quotidianamente, è apparsa una approfondita analisi sulle prospettive del settore immobiliare a stelle e strisce nel prossimo triennio basata sulla rilevante base di dati che fornisce la materia prima per l’indice S&P’s Case Schiller, un indice che ha visto la luce nel 1967 e fornisce mensilmente informazioni molto accurate su quel vero e proprio meltdown immobiliare in corso da metà del 2006 e che ha preceduto di poco meno di un anno la tempesta perfetta che si appresta fra poco meno di due mesi a compiere il suo secondo anno di vita.

Sarà perché l’orizzonte previsivo dell’analisi si estende sino alla fine del 2012, un anno che ha molto a che fare con previsioni e profezie da qualche migliaio di anni, sarà perché viene resa nota quando anche gli economisti e gli analisti più embedded non sanno più che pesci pigliare, ma ho letto con grande attenzione il frutto della fatica dei cinque autori che per Business Week hanno redatto “Where Housing Will Be in 2012” e lo ritengo un utile tassello a supporto dei miei recenti avvisi ai naviganti nella tempesta perfetta, nei quali ho cercato di mettere in guardia risparmiatori e piccoli investitori rispetto alla prossima e più devastante ondata della tempesta perfetta, avvisi pubblicati ben prima che se ne vedessero, da lunedì scorso, le prime avvisaglie.

Risparmio ai miei lettori le tecnicalità utilizzate dagli autori, anche perché credo che sia molto più interessante segnalare il minimo del prezzo mediano previsto rispetto all’ultimo dato disponibile che lo cifrava in maggio a 180 mila dollari (più del 30 per cento in meno rispetto ai massimi toccati nei primi mesi del 2006), un minimo che viene collocato a 150 mila dollari e che dovrebbe essere toccato nel prossimo biennio, una previsione che la dice lunga sulla durata ipotizzabile della recessione in corso, così come sull’impatto che potrebbe avere sui conti prossimi venturi delle principali entità protagoniste del mercato finanziario, in particolare di quella Bank of America che, dopo l’acquisizione di Countrywide, si ritrova nella molto scomoda posizione di regina incontrastata del mortgage statunitense.

Ma trovo ancora più interessante la previsione che vede lo stesso prezzo mediano di un’abitazione individuale portarsi, in un punto imprecisato del 2012 e dopo un notevole recupero dal livello minimo, a 179 mila dollari, cioè mille dollari meno del depresso livello attuale, un livello che ha portato il valore di una parte rilevante delle abitazioni a non coprire più il valore del rifinanziamento del mutuo e, in non pochi casi, anche di quello delle stesso mutuo principale!

Per avere un’idea della vera e propria schizofrenia imperante in quell’immenso casinò a cielo aperto che è diventato quello che un tempo era considerato il magico mondo della finanza, è sufficiente pensare alla fretta con la quale i vertici di dieci banche americane, tra le quali la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs, Morgan Stanley e la banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di Rockefeller, hanno ripagato i 68 miliardi di dollari ricevuti negli ultimi tre mesi del 2008 dal fondo di salvataggio inventato da Hank Paulson, una scelta che peserà molto sui conti del secondo trimestre, ma che consentirà ai top manager delle stesse di riprendere a distribuirsi quei ricchi premi e cotillions cui avevano dovuto rinunciare l’anno scorso e dei quali sentono maledettamente la mancanza, non paghi degli stipendi milionari che percepiscono come parte fissa della retribuzione, una scelta che i loro colleghi di Citigroup e Bank of America non possono permettersi di fare per il semplice motivo che i colossi da loro guidati hanno davvero i piedi di argilla, una metafora per non dire che sono tecnicamente falliti, anche se, come è oramai a tutti noto, sono davvero troppo grandi per essere lasciate fallire.

sabato 20 giugno 2009

Geithner partorisce una riforma finta!


Come spesso accade, non solo nel corso di una tempesta perfetta che si appresta a celebrare il suo secondo compleanno, la montagna delle chiacchiere sulla indilazionabile riforma del mercato finanziario statunitense ha partorito il più classico dei topolini, una pseudo riforma che prevede, tra l’altro, di dare maggiori poteri a quello stesso sistema della riserva federale che avrebbe, stando almeno alla testimonianza giurata del numero uno operativo di Bank of America, Kenneth Lewis, forzato la mano all’intero Board of Directors di BofA perché acquistasse Merrill Lynch senza fare troppe storie e, soprattutto, senza indagare troppo sulla davvero pessima qualità degli assets della ex investment bank che Bernspan e Paulson avevano impacchettato per loro, il tutto nella stessa notte nella quale i due decisero, senza pensarci nemmeno troppo, di lasciare fallire la banca che un tempo apparteneva ai fratelli Lehman.

Non voglio assolutamente sottovalutare lo sforzo compiuto da Timothy Geithner e i suoi più stretti collaboratori, ma credo proprio che il notissimo avvocato d’affari che ha rifiutato di fare parte del gruppo di cinque vice al nuovo ministro del Tesoro finirà proprio per avere ragione nel suo vaticinio sulla sostanziale uguaglianza tra il modo di operare di Wall Street in futuro rispetto alle modalità alquanto scellerate che ci hanno portati dritti, dritti al punto in cui siamo, riecheggiando, ovviamente a modo suo, quanto ebbe a scrivere Tomasi di Lampedusa nel suo più celebre romanzo quando affermava, cito a memoria, che è necessario che tutto cambi, affinché nulla, in realtà, muti davvero!

Con la lucidità che contraddistingue i grandi anche quando stanno per celebrare il proprio centesimo anno di vita, Paul Samuelson, economista e premio Nobel nel lontano 1970, mostra di apprezzare lo sforzo regolatore della nuova amministrazione, ma mette in guardia Obama dal fuoco di sbarramento lobbistico che banche, compagnie di assicurazioni e le altre entità protagoniste del mercato finanziario a stelle e strisce foraggeranno alla grande, un’ipotesi che condivido appieno e che costituisce la seconda ragione per la quale mi risparmio la lettura di quel testo di 88 pagine che Tim sta perorando con tutto se stesso, ma che, da ex presidente della Fed di New York, sa benissimo che assomiglierà ben poco al testo che, prima o poi, verrà licenziato dai due rami di un Congresso di cui si può dire tutto meno che sia insensibile alle buone ragioni di Big Finale, Big Pharma, Big Tabacco, Big Oil e di tutte le altre Big che vi vengono in mente, una sensibilità del tutto bipartisan, come è stato dimostrato giovedì in Senato con quell’addolcimento della riforma del sistema sanitario che ha mandato istantaneamente e non casualmente alle stelle i titoli del settore assicurativo e di quello sanitario, azioni a lungo penalizzate proprio dalla relativa incisività del provvedimento originario.

Nel frattempo, è stato finalmente arrestato dalle donne e dagli uomini del FBI il miliardario finanziare Stanford, uomo saggiamente munito di un doppio passaporto e che e ieri è comparso davanti a un giudice federale per rispondere di una truffa da otto miliardi di dollari per titoli emessi off shore e che, secondo quanto sostenutola dalla Securities & Exchange Commission, non erano poi così sicuri come dicevano le eleganti brochures sottoposte ai numerosi clienti che li avevano sottoscritti, un arresto avvenuto mesi dopo l’emissione del mandato di cattura, un tempo certamente sufficiente per dirottare in luoghi sicuri come Hong Kong e Singapore (luoghi noti per l’abitudine dei giudici locali di rispedire al mittente le noiose richieste di rogatoria) le disponibilità che avrebbero consentito agli alquanto disperati investitori truffati di recuperare in tutto o in parte il presunto maltolto!

venerdì 19 giugno 2009

Naviganti avvisati, mezzi salvati!


Ho dedicato più di una puntata consecutiva del Diario della crisi finanziaria allo scopo di mettere in guardia i miei lettori rispetto alla concreta possibilità di una nuova e ancor più devastante ondata della tempesta perfetta (vedi “Avviso ai naviganti nella tempesta perfetta”, parte prima, seconda e terza), collocando la maggior possibilità di realizzazione dell’evento tra le seconda metà di giugno e la prima metà di luglio non per doti medianiche che certamente non possiedo, ma semplicemente perché stavano evidentemente giungendo al pettine i nodi irrisolti che ho elencato nelle tre puntate citate.

Soltanto martedì scorso, mentre era in corso la seconda seduta consecutiva significativamente negativa a Wall Street e un po’ in tutti i mercati azionari del pianeta, è apparsa una lunga analisi della CNBC che ha fatto definitivamente giustizia di quel rally dell’orso (o rimbalzo del coniglio morto) durato meno di tre mesi e che, complici analisti e giornalisti embedded, era stato volutamente spacciato per quello che non era e, cioé, un movimento anticipatorio di quella ripresa che dall’autunno del 2007 viene vista dietro ogni angolo da ministri economici e banchieri centrali alquanto disperati.

Pur non volendo annoiare i miei lettori con le spiegazioni molto tecniche riportate nell’approfondimento della CNBC, mi permetto sommessamente di osservare che le stesse erano vere sia in aprile che in maggio, così come nella prima decade di giugno, in quanto basate su evidenze dell’analisi tecnica che chiarivano sin dall’inizio che quel recupero dai minimi toccati nell’orribile mese di marzo si inserivano pienamente in un trend che continuava a essere ribassista, non fosse altro che per il confronto con i massimi toccati nel lontano mese di ottobre dell’anno di disgrazia 2008!

Ma il vero pessimo segnale per le già fosche prospettive della seconda metà del 2009 è giunta dalla decisione del Tesoro britannico di affidare alle cure di un gruppo di banche, all’uopo tra loro sindacate, un’emissione di titoli di stato di ammontare non stratosferico, una mossa del tutto inedita e che la dice davvero lunga sulle preoccupazioni nutrite dal governo di Sua Maestà britannica e da quelli degli altri paesi maggiormente industrializzati per la disponibilità degli investitori ad assorbire gli enormi ammontari di titoli necessari a far fronte alla crescita rapidissima dei fabbisogni pubblici.

D’altra parte, lo sforamento mondiale di tutti i vincoli posti al rapporto deficit/PIL e a quello che dovrebbe esistere tra lo stock del debito pubblico e il flusso della ricchezza prodotta annualmente da ciascun paese, sia quelli stringenti previsti dalle regole del trattato di Maastricht in ambito europeo, sia quelli non codificati ma impliciti nelle scelte strategiche del Giappone e degli Stati Uniti d’America, non lasciano davvero prevedere nulla di buono sulla non certo marginale questione dell’equilibrio tra offerta di titoli rappresentativi del debito pubblico e relativa domanda da parte di investitori, una questione che è stata per ora sovrastata da sempre più forte richiesta di sicurezza da parte degli investitori e dei risparmiatori, ma che non potrà che portare, prima o poi, all’inevitabile aumento del prezzo del servizio del debito, per non parlare poi dei rischi inflazionistici connessi alla strada alternativa, particolarmente seguita dal sistema della riserva federale statunitense, e che consiste nello stampare moneta.

giovedì 18 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta (versione per stampa)


Come i più attenti e assidui tra i miei lettori avranno notato, ho deciso di rendere più agili le puntate del Diario della crisi finanziaria, riducendo di circa un terzo lo spazio che mi ero prefissato quando, oltre seicento puntate fa, ho dato il via a questa avventura editoriale che è per me, allo stesso tempo, croce e delizia, una vera sfida rispetto alle mie tendenze più o meno karmiche, per non parlare di quella insensata decisione di mantenere a tutti i costi una cadenza quotidiana che volutamente non tiene conto né dei week end, né delle feste più o meno comandate.

Poiché sono in partenza per la prima breve vacanza dall’estate del 2007, dovrò fare ricorso alla programmazione anticipata delle puntate, ma, volendo fare di necessità virtù, vorrei approfittarne per fare il punto della situazione nei sistemi finanziari maggiormente colpiti dal meltdown dei valori rappresentativi della ricchezza, un’opportunità che difficilmente si ripeterà quando la cronaca della prossima ondata della tempesta perfetta, da me prevista nell’arco delle prossime due-quattro settimane, riprenderà necessariamente il sopravvento sulle ricostruzioni più o meno storiche.

Anche per ricollegarmi alla puntata di ieri, partirò dal Regno Unito, una nazione che ha subito un impatto quasi devastante sin dalle prime ondate della tempesta perfetta, non solo e non tanto per aver rivissuto, dopo centosessantasei anni, l’assalto agli sportelli di una banca, la successivamente nazionalizzata Northern Rock, ma anche perché, forse anche a causa del molto originale sistema di vigilanza, ha richiesto un intervento estremamente energico da parte del Governo, un intervento che si è tradotto in qualche forzata concentrazione e in una forte presenza dello Stato in ben due delle quattro maggiori banche, la Lloyds Bank e la Royal Bank of Scotland, mentre la Hong Kong Shanghai Banking Corporation e la Barclays tentano ancora, non sempre brillantemente, di cavarsela da sole (per la seconda, è utile vedere la puntata di ieri).

Chiunque abbia un po’ di memoria del drastico processo di ristrutturazione dell’industria finanziaria britannica negli ultimi decenni del secolo scorso, ricorderà che, al pari di quanto avvenne nel settore industriale, anche in quello dell’investment banking si realizzò la vendita di quasi tutte le banche della specie che vennero entusiasticamente acquisite da banche basate in Europa, Svizzera ovviamente compresa, negli USA e persino in Oriente, una decisione presa quasi all’unisono e in larga misura legata alla trasformazione delle principali banche commerciali in vere e proprie banche universali, una tendenza largamente mutuata da quanto stava avvenendo nel frattempo negli States e che venne solo più tardi mutuata anche dalle banche del Vecchio Continente e che è tra le principali cause della tempesta perfetta che si appresta a breve a compiere il suo secondo anno di vita.

Il recente successo dell’aumento di capitale della Lloyds e la contestuale decisione presa dalla stessa banca di iniziare la restituzione di parte dei 18 miliardi di sterline ricevuti dallo Stato, un successo che ha reso ancora più amara l’esperienza precedentemente vissuta dalla Royal Bank of Scotland consente di intuire che la banca colpita dalla cosiddetta “maledizione di Groenick” per la partecipazione, assieme al Santander e a Fortis, alla sventurata contro OPA sull’ABN AMRO fortemente voluta dalla rivale Barclays potrebbe finire in dote alla stessa Lloyd o a qualche altra delle banche britanniche che riusciranno a sopravvivere più o meno indenni alla crisi finanziaria, non esclusa, e sarebbe davvero una nemesi, l’antagonista Barclays, mentre nessuno è in grado di dire quale sarà la sorte di Northern Rock, anche se tutto questo tocca le prospettive del sistema finanziario britannico che non può essere esaminato separatamente dalla crisi politica e della quale parlerò più diffusamente nella puntata di domani.
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L’ipotesi che, alla fine della fiera, resteranno solo tre grandi banche nel paese attualmente governato da Gordon Brown per conto di Sua Maestà Elisabetta II è non solo molto probabile, ma molto in linea con quanto è avvenuto nei principali paesi membri dell’Unione europea, paesi come la Germania, la Francia e alla Spagna, che, pur caratterizzati da una pletora di banche e banchette pubbliche e private, vedono l’attività bancaria concentrata su due o al massimo tre grandissimi gruppi caratterizzati come banche universali a operatività più o meno globale, una situazione non molto dissimile da quella italiana, anche se da noi, accanto ai due gruppi principali, esistono ancora almeno quattro gruppi di rilevanti dimensioni, ma che, molto probabilmente, vivranno ulteriori fasi di concentrazioni in un futuro prossimo venturo.

Così come non vi è dubbio che la posizione anomala del sistema britannico su diversi aspetti della vita economica e sociale abbia subìto serissimi colpi dalla tempesta perfetta, anomalie che riguardano sia il controllo bipartito sul sistema finanziario, sia la pervicace auto esclusione dalla moneta unica europea, una scelta certamente popolare tra i sudditi di Sua Maestà, ma che ha reso necessario un di più di iniziativa da parte del premier per evitare a una nazione con una storia importante e una collocazione geopolitica perlomeno strabica di finire affondato sotto gli strali della speculazione, un’esperienza già vissuta nel 1992, quando la sterlina, in compagnia della lira italiana, furono costrette a svalutare drasticamente e a uscire dal sistema monetario europeo allora vigente.

Pur considerando gli indubbi meriti dello sparigliamento effettuato nel momento certamente peggiore della tempesta perfetta da un Gordon Brown quasi profetico e che si dice fosse stato ispirato da un banchiere pentito, un’azione determinata e atal punto efficace da far modificare in corsa il piano Paulson e spingere i leaders politici dei principali paesi europei a garantire il garantibile, non vi è tuttavia dubbio che il sorprendentemente recupero del leader laburista si sia fermato di fronte alla scelta di spingersi fino in fondo, anteponendo, come a suo tempo fece Helmut Kohl, l’ingresso nell’euro alla sua stessa sorte politica, un’idea che lo ha certamente sfiorato, ma che è stata rapidamente accantonata in favore della sua innata e indiscussa predisposizione al piccolo cabotaggio, una scelta, o per meglio dire una non scelta, che rischia, anche a vedere i risultati disastrosi del suo partito nelle recenti elezioni per il Parlamento europeo, di condannarlo a quella sicura sconfitta alle prossime elezioni politiche, una malasorte per sé e i suoi che avrebbe anche potuto evitare rischiando il tutto per tutto!

E dire che lo stesso cinicissimo mercato dei cambi aveva scommesso su tale possibilità, fino a spingere la sterlina a una propedeutica quasi parità con l’euro, così come ha fatto in fretta a ricredersi, riposizionando la valuta britannica nell’orbita di quel dollaro destinato a un destino non troppo dissimile da quello di questo primo ministro di Sua Maestà che ha avuto tra le mani il biglietto vincente della lotteria e lo ha buttato via il giorno prima dell’estrazione.

Una nazione sempre più industrializzata e con la velleità di essere la principale piazza finanziaria europea quasi certamente tramontata rischia davvero di finire per trasformarsi nella Cenerentola d’Europa, sempre che non venga in mente ai sempre più litigiosi partners dell’Unione che la pervicacia britannica nell’esercitare l’opting out prevede l’esclusione dallo stesso sodalizio europeo, un’ipotesi affatto remota e che aprirebbe prospettive ancora più inquietanti e che renderebbe sempre più largo il canale della Manica.
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Vi sono molte più somiglianze di quanto possa apparire a prima vista tra la situazione del mercato finanziario francese e quella che caratterizza il sistema finanziario tedesco, in entrambi i sistemi, infatti coesistono grandi banche a carattere globale con realtà cooperativistiche nel caso francese e pubbliche, seppure a carattere regionale, in quello tedesco, una distinzione che non è solo dimensionale, ma che prevede una divisione del lavoro che, fatte salve alcune e anche tragiche eccezioni, è stata sostanzialmente rispettata sino a oggi.

Un’altra forte analogia tra i due sistemi finanziari è data dalla presenza delle compagnie di assicurazione nel capitale delle banche, una presenza a volte discreta, a volte determinante come è stato nel caso della tedesca Dresdner, sino a poco tempo fa vero e proprio braccio bancario dell’Allianz e poi da questa ceduta alla Commerzbank, un’acquisizione pagata a caro prezzo dalla banca acquirente, al punto da rendere necessario un forte intervento statale, mentre l’Allianz, oltre a liberarsi di una patata davvero bollente, ha ottenuto un significativo pacchetto azionario della stessa Commerzbank, che, salvo sorprese, è destinata a sopravvivere ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, non fosse altro che per il fatto di non essere caratterizzata da un leverete ratio come quello che ancor oggi caratterizza il colosso Deutsche Bank.

Per quanto divenuta meno rilevante dopo l’ingresso del governo belga e di quello lussemburghese a seguito dell’acquisizione delle attività bancarie di Fortis in quelle due nazioni, la presenza del gruppo assicurativo Axa in BNP Paribas resta senz’altro significativa, così come quella di altre compagnie in altre importanti banche francesi, presenze, al pari di quelle esistenti in Germania, che contribuiscono a spiegare il peso molto più che proporzionale delle entità finanziarie di questi due paesi sulla torta complessiva rappresentata dalle attività finanziarie europee, un peso certamente superiore al cinquanta per cento e che ha consentito ricavi di tutto rispetto almeno sino alla prima metà del 2007, quando, come per incanto, l’oro ha cominciato a trasmutarsi in piombo nelle ali sia delle banche che delle compagnie di assicurazioni tedesche e francesi, così come nelle non episodiche joint ventures, quali la molto travagliata Dexia.

Trattandosi di due realtà nazionali che hanno vissuto processi di concentrazione notevolissimi nell’ambito del settore finanziario, la prima difficoltà emerse sin dall’avvio della tempesta perfetta è stato proprio quello dimensionale, non essendo assolutamente ipotizzabile, ad esempio, una fusione tra le prime due grandi banche tedesche, così come, nel caso della Francia, l’unica operazione di concentrazione realizzabile è stato quello tra il sistema delle casse di risparmio e quelle delle banche cooperative, un’entità alla guida del quale è stato mandato un fedelissimo di Sarkozy, così come un suo ex collaboratore è stato spedito in fretta e furia a occuparsi della molto disastrata Dexia.

Scartata l’ipotesi della ulteriore crescita dimensionale, non resta in fondo a Nicolas Sarkozy e ad Angela Merkel che incrociare le dita e augurarsi che gli interventi dirigisti messi in atto possano aiutare le maggiori entità protagoniste dei rispettivi mercati finanziari a completare l’opera di pulizia degli asset più o meno tossici presenti al di sopra e al di sotto della linea dei loro bilanci, così come non resta che sperare che non scoppino insieme le sempre più vistose contraddizioni presenti in quei new comers dell’Unione europea caratterizzati da rilevanti presenze di entità finanziarie tedesche e francesi, insomma, come avrebbe detto Eduardo De Filippo, è proprio vero che “adda passà a nuttata”!
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Prima di affrontare l’esame dello stato dell’arte nell’industria finanziaria in Italia e Spagna, gli ultimi due grandi mercati finanziari europei che avevo in animo di trattare, è il caso di approfondire la questione rappresentata dalla cosiddetta spada di Damocle pendente sul capo delle principali entità finanziarie europee, che è poi rappresentata dalla tenuta prospettica dei paesi un tempo facenti parte dell’area di influenza sovietica e che sono già divenuti membri dell’Unione europea o sono in lista di attesa per esservi ammessi, paesi che, come ricordavo in coda alla puntata di ieri, sono stati di fatto colonizzati dalle banche tedesche e austriache, ma anche da quelle francesi, italiane e britanniche, che hanno acquisito quote di mercato rilevanti in Polonia, in Ungheria, in Bulgaria, nella repubblica Ceca e in quella Slovacca, nelle repubbliche baltiche, in Ucraina, in Russia e in molte repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nei paesi della ex Jugolavia, in Turchia e in numerosi paesi dell’Africa Settentrionale.

Da quando è risultato evidente che non era possibile raggiungere un’intesa tra i maggiori paesi europei, causa il fermo veto posto dalla Germania, su un sistema automatico di intervento, ma che si sarebbe proceduto solo caso per caso e solo dopo l’eventuale fallimento o palese insufficienza degli interventi previsti a carico del Fondo Monetario Internazionale o di analoghi organismi finanziari sovranazionali presenti nell’area europea, un fitto velo di silenzio è sceso sulla reale situazione dei sistemi finanziari dei paesi sopra menzionati, un’opacità legata all’inadeguatezza dei sistemi statistici esistenti in quelle nazioni e che costringe gli analisti specializzati a fare del loro meglio per informare i quartier generali delle principali banche e compagnie di assicurazioni europee sulla situazione contingente e prospettica delle economie di paesi che devono buona parte del loro sviluppo agli interventi non coordinati provenienti dai loro fratelli maggiori europei.

Non sono così ingenuo da non immaginare che buona parte delle informazioni, spesso quelle più significative, pervengono alle entità protagoniste del mercato finanziario europeo grazie alle attenzioni che i servizi di intelligence dei paesi maggiormente esposti dedicano a queste aree sino a poco tempo fa caratterizzate da tassi di sviluppo notevoli, ma che ora, fatta eccezione per una Polonia ‘apparentemente’ in controtendenza, stanno regredendo vistosamente e per le quali non è assolutamente escluso il ripetersi di situazioni come quella che ha mandato in default l’Islanda, paese extracomunitario che vantava uno dei più elevati dati di PIL pro capite, un’eventualità che mette, ovviamente, fortemente a rischio gli stock di debito sovrano detenuti direttamente o indirettamente dalle banche europee presenti.

Come è oramai universalmente noto, pur non essendo assenti interessi economici e finanziari extraeuropei, non vi è dubbio alcuno che l’eventuale default di uno o più di questi paesi ricadrebbe in misura prevalente sulle sei o sette nazioni che hanno di fatto adottato le realtà rappresentative di quest’area geograficamente così vasta del continente europeo, interventi che non hanno riguardato solo le maggiori entità finanziarie locali, ma anche realtà industriali, aziende di pubblica utilità e quelle operanti nel crescente settore dei servizi, interventi che, purtroppo, non sempre sono stati effettuati per applicare in queste realtà emergenti le migliori best pratiche e gli standard sia di qualità che sociali prevalenti nei paesi finanziatori, una triste realtà che riguarda più o meno tutti i settori di intervento, ma che è drammaticamente vera in quello delle attività finanziarie che ha rappresentato per la maggior parte dei soggetti stranieri la possibilità di ricreare forme di mercato di oligopolio collusivo difficilmente praticabili nelle rispettive patrie e che ora rischiano di trasformarsi in un vero e proprio boomerang per le case madri!
*
Le questioni affrontate nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria apprestano una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta nell’ambito dell’area europea, un rischio ulteriore e difficilmente quantificabile che fa il paio con la lentezza con la quale le maggiori banche europee, i bracci armati finanziari delle compagnie di assicurazione e gli investitori istituzionali basati nell’area hanno compreso le vere ragioni che spingevano la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs e il colosso creditizio extracomunitario UBS, You & Us, a vendere tutto il vendibile delle rispettive montagne di titoli della finanza più o meno strutturata in loro possesso, una maxi svendita iniziata nel mese di settembre del 2006 e terminata soltanto tra febbraio e marzo dell’anno successivo, quando l’ex (?) investment banker Hank Paulson ha sentito la necessità, dopo otto mesi di permanenza sulla poltrona più alta del dicastero del Tesoro a stelle e strisce, di lanciare un warning alle banche statunitensi e a quelle più o meno globali sul rischio crescente di una crisi finanziaria, un evento che si materializzò platealmente il 9 agosto dello stesso anno con quel blocco totale della liquidità interbancaria che segnò l’avvio della tempesta perfetta.

Un altro elemento differenziale attiene maggiormente alle technicalities operative proprie delle attività di Corporate & Investment Banking nella fase di massimo sviluppo delle medesime attività, un aspetto che intendo trattare in questa sede solo di sfuggita, ma che ha molto a che fare con i sistemi di controllo interno, di risk management e di attendibilità dei sistemi informativi, tutte attività che vengono svolte da una figura quale quella del Chief Operating Officer, spesso solo nominalisticamente mutuata dalle maggiori banche europee, in particolar modo da quelle italiane, una sottovalutazione della centralità del ruolo di questa figura accompagnata da una scarsa attenzione al fatto che, a esempio, in un’entità come Goldman Sachs di COO ne esistono ben due e percepivano, proprio nel cruciale 2007, 70 milioni di dollari di compensation complessiva, una cifra di poco inferiore a quella percepita dal Chairman e Chief Executive Officer, Larry Blankfein, e e ampiamente superiore a quella percepita nello stesso anno dal Chief Financial Officer e vero salvatore di Goldman, David Viniar, un aspetto che forse dirà poco agli addetti ai lavori, ma che non sfugge a chi sa che in pochi ambiti di attività la retribuzione è una proxy attendibile dell’importanza e della delicatezza del ruolo svolto come nell’investment banking!

Se è vero che le banche europee, e segnatamente quelle italiane, presentano una base di raccolta da clientela che le rende relativamente meno vulnerabili ai sommovimenti sui mercati interbancari, non vi è dubbio che la struttura dell’asset & liabilities si è, negli ultimi anni precedenti allo scoppio della tempesta perfetta, profondamente modificata e non certo sul piano di una maggiore stabilità, per non parlare poi del profilo di rischio, che come ricorda sempre il Governatore della Banca d’Italia sono di vari tipi, non escluso e certamente non ultimo per importanza, quello che prende il nome di rischio reputazionale, una tipologia di rischio che è strettamente correlato alla cruciale questione della fiducia dei risparmiatori e degli investitori, quella stessa fiducia che è forse l’elemento maggiormente assente in questa fase e che è all’origine del più persistente e ostinato sciopero degli investimenti mai intervenuto almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale!

Una parte delle differenze esposte di sopra tra il mercato finanziario statunitense e quello europeo sono, in realtà, alla base delle analisi che vedono la concreta possibilità che, quando la tempesta perfetta deciderà finalmente di placarsi, il cumulo di macerie e l’entità assoluta delle perdite potrebbero essere di dimensioni più rilevanti nel Vecchio Continente di quanto lo saranno negli stessi Stati Uniti d’America che, pure, di questa crisi portano il maggior carico di responsabilità.
*
Che le due maggiori banche spagnole, il Bilbao Vizcaya e il Banco de Santander, abbiano sofferto molto, ma molto meno delle altre grandi banche europee delle conseguenze della tempesta perfetta oramai da qualche tempo entrata nel suo ventitreesimo mese di vita, è un fatto difficilmente discutibile e che ha le sue ragioni in un complesso di fattori che vanno dalla maggiore rigidità delle regole di vigilanza esistenti in Spagna, dalla estrema prudenza nella presenza nella finanza strutturata, nel forte radicamento in America latina, ma, soprattutto, nella gestione estremamente centralizzata del processo decisionale esistente in entrambi i due mega gruppi creditizi spagnoli, una caratteristica quasi unica al mondo e largamente dovuta al fatto che, al di là della formale esistenza sia degli organi collegiali che di quella pletora di comitati e sottocomitati, in entrambe le banche le decisioni vere vengono prese da una persona nel caso del Santander e da due al massimo in quello del Bilbao.

E’, tuttavia, a tutti noto che lo scivolone del Santander sul caso Madoff è costato parecchio a Don Emilio Botin, vero padre padrone di un Santander del quale non possiede in realtà che una piccola quota azionaria, sia perché ne ha incrinato quell’immagine di successo alla quale Botin tiene in modo quasi maniacale, sia perché gli ha impedito di coronare il suo sogno di archiviare l’orribile 2008 con i previsti 10 miliardi di euro di utile netto, il che gli avrebbe consentito l’accesso di diritto agli annali dei banchieri di maggior successo e avrebbe definitivamente mandato in soffitta quegli atteggiamenti di scetticismo più o meno aperto che ancora albergano nei circoli più esclusivi del mondo bancario che conta rispetto alla sua persona, alla sua banca e ai suoi strettissimi legami con l’Opus Dei.

Eppure, Don Emilio era stato l’unico a sfuggire alla maledizione di Groenick, l’ex numero uno di ABN AMRO che fece il possibile e l’impossibile per sfuggire all’assedio congiunto della Royal Bank of Scotland, di Fortis e dello stesso Santander, decidendo, anche in questo caso molto rapidamente e in perfetta solitudine, di rivendere la preda italiana di sua spettanza, la Banca Antonveneta, per ben 9 miliardi di euro al Monte dei Paschi di Siena, ottenendo pure di vendere ad altri e separatamente l’ex istituto di credito speciale che di Antonveneta era parte integrante, con il risultato da guadagnare 3 miliardi di euro nel volgere di pochi giorni, una somma certamente rilevante ma che coincide quasi millimetricamente con le perdite subite dai suoi migliori clienti caduti nello schema di Ponzi dell’oramai mitico ex presidente del Nasdaq, perdite che sono sicuro pagherà la banca di Don Emilio anche nell’esercizio 2009 come in larga misura è stato fatto in quello dell’anno precedente.

Non avrei voluto essere nei panni dei suoi massimi dirigenti nell’incontro che Botin ama tenere ogni domenica sera nella sua residenza privata la volta che iniziò a emergere la truffa ordita da Madoff e il di cui relativo alla clientela del Santander, ma credo che questa esperienza eserciterà un’influenza positiva sul molto irascibile banchiere spagnolo.

Così come accadde a suo tempo ai due massimi esponenti del Bilbao nel corso della crisi asiatica del 1997, quando, come ebbe modo di raccontare non ricordo se il presidente o l’amministratore delegato, di fronte alle rassicurazioni udite nel corso dell’assemblea annuale del Fondo Monetario Internazionale, i due si guardarono negli occhi e decisero di liquidare nel più breve tempo possibile tutte le posizioni inerenti l’area asiatica, una decisione della quale i due non ebbero mai a pentirsi e che evitò perdite miliardarie alla banca basca.
*
Come i più attenti tra i miei lettori avranno notato, ho volutamente lasciato l’Italia in coda ai numerosi casi nazionali esaminati nelle puntate precedenti di questa serie dedicata a cercare di capire quali saranno le caratteristiche più o meno innovative del sistema finanziario europeo e quali le conseguenze principali della tempesta perfetta che festeggerà tra poco meno di due mesi il suo secondo compleanno, una scelta che non ha niente a che fare con le tesi molto ottimistiche avanzate sia a livello governativo che a quello dei diretti interessati e che vedono una relativa maggiore stabilità e solidità delle nostre banche, una tesi, a dire dei suoi sostenitori, supportata dalla sostanziale arretratezza delle nostre banche e che non vedrebbe sostanziali differenze tra i maggiori gruppi creditizi basati in Italia e le banche di minori se non infime dimensioni.

Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alla confutazione di simili tesi, raccogliendone alcune in un articolo uscito nel numero di settembre del 2008 della rivista Lavoro Italiano, mentre dell’argomento mi sono occupato nuovamente nelle puntate del ciclo intitolato “Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi”, il che mi consente di non soffermarmi ulteriormente su questo argomento, se non per dire che, almeno con riferimento alle prime sei o sette banche nostrane, non vedo tanto un sottrarsi alle operazioni della finanza più o meno strutturata, quanto un ritardo nella realizzazione di quei necessari sistemi di controllo interno e di quelli necessari a una valutazione sufficientemente sofisticata dei rischi, ma di tutti i rischi, elementi che costituiscono il loro vero tallone di Achille e che avranno conseguenze che potranno essere correttamente valutate soltanto essendo in possesso dei necessari elementi valutativi, il che, per ora, semplicemente non è!

Quando ho affrontato una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta in Europa ho elencato diversi fattori che saranno suonati alle orecchie dei nostri principali banchieri come un “De te fabula narratur”, non fosse altro che quella sorta di rischio sistemico rappresentato dai paesi dell’Europa dell’Est, dalla Russia e da alcune delle repubbliche un tempo facenti parte dell’Unione Sovietica, dalla Turchia e da paesi posti nell’area del Nord Africa e in quella del medio oriente coinvolge appieno almeno Unicredit Group e Intesa-San Paolo, con l’aggravante per il gruppo guidato dall’ex enfante prodige della finanza italiana, Alerssandro Profumo, derivante dal più che raddoppio della presenza in queste aree determinata dalla acquisizione della tedesca HVB e della sua controllata Bank Austria, successivamente divenuta la subholding di controllo di tutte le presenze del Gruppo di Piazza Cordusio nella maggior parte dei paesi di sopra ricordati.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno che dei 150 miliardi di euro di esposizione complessiva del sistema bancario italiano prudenzialmente stimati dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso di una sua recente audizione parlamentare, una parte molto consistente faccia capo proprio ai due gruppi bancari che si contendono la leadership nel nostro paese, mentre sarebbero molto più modeste le quote in carico alle altre tre-quattro banche facenti capo del gruppo di testa, così come non è un mistero il coinvolgimento affatto marginale di Unicredit Group, sempre via Bank Austria, nello schema di Ponzi di Madoff, o altre grane, stavolta via Pioneer e l’attività della divisione di investment banking, nelle quali il gruppo italiano è stato coinvolto e che hanno portato a una riduzione programmata di tale segmento di operatività, nonché al ridimensionamento degli organici, un insieme di questioni che, forse, avrebbe richiesto maggiori accantonamenti prudenziali di quanti ne siano stati effettuati sia nel quarto trimestre dell’anno scorso che nel primo trimestre di quest’anno.
*
Pur non sottovalutando le differenze tra i rischi elencati nella puntata precedentemente con riferimento a Unicredit Group e quelli inseriti nelle pieghe del bilancio di Intesa-San Paolo, non vi è dubbio, non di meno, che la patata bollente dei finanziamenti a rischio nei numerosi paesi non coperti da garanzie dei rispettivi governi non si troppo dissimile in entrambi i casi, così come i rischi intrinseci a un’attività finanziaria svolta dai Passera’s Boys in modo non troppo dissimile da quello che non troppa fortuna ha portato agli uomini della finanza operanti alle dipendenze di Profumo.

Trattandosi di due gruppi oltremodo cresciuti e i guai dei quali vengono opportunamente riflessi in quotazioni di borsa che, seppur distanti dai minimi assoluti, si presentano ancora molto, ma molto distanti dalle vette toccate in concomitanza con quelle fulminee operazioni di consolidamento che hanno portato i primi quattro gruppi creditizi a ridursi a due, potrei anche fermarmi qui, anche perché sono portato a ritenere che qualcosa di molto più interessante avverrà ai piani immediatamente più bassi del sistema bancario italiano, tra quelle otto banche che completano i primi dieci posti in graduatoria e che, per ragioni della più diversa specie e natura, sembrano non riuscire a capire cosa vorranno fare da grandi.

Pur esprimendo sempre pieno rispetto per quanto ritiene al riguardo il Governatore della Banca d’Italia, penso, tuttavia, che potrebbe anche non trascorrere l’intero 2009 senza che nell’ampio segmento rappresentato dalle banche popolari si muova foglia, una supposta immobilità che non tiene conto delle rispettive fragilità di alcune tra le principali banche della categoria, una condizione non del tutto appropriata quando si è sottoposti ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, anche se sono certo che, ove avvenissero, eventuali operazioni di concentrazione verrebbero sempre opportunamente, seppur in modo discreto e informale, sottoposte al vaglio attento delle autorità monetarie.

Premetto anche che una eventuale aggregazione che avesse a perno il martoriato Banco Popolare opportunamente affidato alle sagge cure di un banchiere di lungo corso di scuola Banca Commerciale Italiana, quale certamente è Piergiorgio Saviotti, non potrà che essere effettuata che con una realtà guidata con criteri del tutto privatistici e che disponga di più che adeguati ratio patrimoniali!

Così come credo che non sarà proprio possibile lasciare trascorrere un intero semestre senza porre attenzione, se non mano, a quell’alquanto scottante dossier intitolato al Monte dei Paschi di Siena e alla fondazione omonima che ne resta azionista di maggioranza assoluta, un dossier probabilmente seguito con maggiore attenzione dal per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che dal Governatore.

Né penso che, al proposito, sia sfuggito ad alcuno il vero senso della lunghissima intervista concessa non troppo tempo fa dal presidente della fondazione Cariplo e al contempo massimo esponente dell’ACRI e uomo di punta del mondo delle fondazioni nel capitale di Cassa SpA, Giuseppe Guzzetti, un’intervista che potrebbe essere agevolmente riassunta in un ‘chi sbaglia paga (fosse anche una fondazione di origine bancaria) e i cocci sono suoi’, opportunamente affiancato dalla rivendicazione orgogliosa di aver mantenuto l’investimento in Intesa-San Paolo addirittura al di sotto del limite previsto dalle norme!

mercoledì 17 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta (ottava e ultima parte)


Pur non sottovalutando le differenze tra i rischi elencati nella puntata precedentemente con riferimento a Unicredit Group e quelli inseriti nelle pieghe del bilancio di Intesa-San Paolo, non vi è dubbio, non di meno, che la patata bollente dei finanziamenti a rischio nei numerosi paesi non coperti da garanzie dei rispettivi governi non si troppo dissimile in entrambi i casi, così come i rischi intrinseci a un’attività finanziaria svolta dai Passera’s Boys in modo non troppo dissimile da quello che non troppa fortuna ha portato agli uomini della finanza operanti alle dipendenze di Profumo.

Trattandosi di due gruppi oltremodo cresciuti e i guai dei quali vengono opportunamente riflessi in quotazioni di borsa che, seppur distanti dai minimi assoluti, si presentano ancora molto, ma molto distanti dalle vette toccate in concomitanza con quelle fulminee operazioni di consolidamento che hanno portato i primi quattro gruppi creditizi a ridursi a due, potrei anche fermarmi qui, anche perché sono portato a ritenere che qualcosa di molto più interessante avverrà ai piani immediatamente più bassi del sistema bancario italiano, tra quelle otto banche che completano i primi dieci posti in graduatoria e che, per ragioni della più diversa specie e natura, sembrano non riuscire a capire cosa vorranno fare da grandi.

Pur esprimendo sempre pieno rispetto per quanto ritiene al riguardo il Governatore della Banca d’Italia, penso, tuttavia, che potrebbe anche non trascorrere l’intero 2009 senza che nell’ampio segmento rappresentato dalle banche popolari si muova foglia, una supposta immobilità che non tiene conto delle rispettive fragilità di alcune tra le principali banche della categoria, una condizione non del tutto appropriata quando si è sottoposti ai sempre più alti marosi della tempesta perfetta, anche se sono certo che, ove avvenissero, eventuali operazioni di concentrazione verrebbero sempre opportunamente, seppur in modo discreto e informale, sottoposte al vaglio attento delle autorità monetarie.

Premetto anche che una eventuale aggregazione che avesse a perno il martoriato Banco Popolare opportunamente affidato alle sagge cure di un banchiere di lungo corso di scuola Banca Commerciale Italiana, quale certamente è Piergiorgio Saviotti, non potrà che essere effettuata che con una realtà guidata con criteri del tutto privatistici e che disponga di più che adeguati ratio patrimoniali!

Così come credo che non sarà proprio possibile lasciare trascorrere un intero semestre senza porre attenzione, se non mano, a quell’alquanto scottante dossier intitolato al Monte dei Paschi di Siena e alla fondazione omonima che ne resta azionista di maggioranza assoluta, un dossier probabilmente seguito con maggiore attenzione dal per la terza volta ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che dal Governatore.

Né penso che, al proposito, sia sfuggito ad alcuno il vero senso della lunghissima intervista concessa non troppo tempo fa dal presidente della fondazione Cariplo e al contempo massimo esponente dell’ACRI e uomo di punta del mondo delle fondazioni nel capitale di Cassa SpA, Giuseppe Guzzetti, un’intervista che potrebbe essere agevolmente riassunta in un ‘chi sbaglia paga (fosse anche una fondazione di origine bancaria) e i cocci sono suoi’, opportunamente affiancato dalla rivendicazione orgogliosa di aver mantenuto l’investimento in Intesa-San Paolo addirittura al di sotto del limite previsto dalle norme!

martedì 16 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la temepsta perfetta (settima parte)


Come i più attenti tra i miei lettori avranno notato, ho volutamente lasciato l’Italia in coda ai numerosi casi nazionali esaminati nelle puntate precedenti di questa serie dedicata a cercare di capire quali saranno le caratteristiche più o meno innovative del sistema finanziario europeo e quali le conseguenze principali della tempesta perfetta che festeggerà tra poco meno di due mesi il suo secondo compleanno, una scelta che non ha niente a che fare con le tesi molto ottimistiche avanzate sia a livello governativo che a quello dei diretti interessati e che vedono una relativa maggiore stabilità e solidità delle nostre banche, una tesi, a dire dei suoi sostenitori, supportata dalla sostanziale arretratezza delle nostre banche e che non vedrebbe sostanziali differenze tra i maggiori gruppi creditizi basati in Italia e le banche di minori se non infime dimensioni.

Ho dedicato diverse puntate del Diario della crisi finanziaria alla confutazione di simili tesi, raccogliendone alcune in un articolo uscito nel numero di settembre del 2008 della rivista Lavoro Italiano, mentre dell’argomento mi sono occupato nuovamente nelle puntate del ciclo intitolato “Le conseguenze economiche di Silvio Berlusconi”, il che mi consente di non soffermarmi ulteriormente su questo argomento, se non per dire che, almeno con riferimento alle prime sei o sette banche nostrane, non vedo tanto un sottrarsi alle operazioni della finanza più o meno strutturata, quanto un ritardo nella realizzazione di quei necessari sistemi di controllo interno e di quelli necessari a una valutazione sufficientemente sofisticata dei rischi, ma di tutti i rischi, elementi che costituiscono il loro vero tallone di Achille e che avranno conseguenze che potranno essere correttamente valutate soltanto essendo in possesso dei necessari elementi valutativi, il che, per ora, semplicemente non è!

Quando ho affrontato una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta in Europa ho elencato diversi fattori che saranno suonati alle orecchie dei nostri principali banchieri come un “De te fabula narratur”, non fosse altro che quella sorta di rischio sistemico rappresentato dai paesi dell’Europa dell’Est, dalla Russia e da alcune delle repubbliche un tempo facenti parte dell’Unione Sovietica, dalla Turchia e da paesi posti nell’area del Nord Africa e in quella del medio oriente coinvolge appieno almeno Unicredit Group e Intesa-San Paolo, con l’aggravante per il gruppo guidato dall’ex enfante prodige della finanza italiana, Alerssandro Profumo, derivante dal più che raddoppio della presenza in queste aree determinata dalla acquisizione della tedesca HVB e della sua controllata Bank Austria, successivamente divenuta la subholding di controllo di tutte le presenze del Gruppo di Piazza Cordusio nella maggior parte dei paesi di sopra ricordati.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno che dei 150 miliardi di euro di esposizione complessiva del sistema bancario italiano prudenzialmente stimati dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso di una sua recente audizione parlamentare, una parte molto consistente faccia capo proprio ai due gruppi bancari che si contendono la leadership nel nostro paese, mentre sarebbero molto più modeste le quote in carico alle altre tre-quattro banche facenti capo del gruppo di testa, così come non è un mistero il coinvolgimento affatto marginale di Unicredit Group, sempre via Bank Austria, nello schema di Ponzi di Madoff, o altre grane, stavolta via Pioneer e l’attività della divisione di investment banking, nelle quali il gruppo italiano è stato coinvolto e che hanno portato a una riduzione programmata di tale segmento di operatività, nonché al ridimensionamento degli organici, un insieme di questioni che, forse, avrebbe richiesto maggiori accantonamenti prudenziali di quanti ne siano stati effettuati sia nel quarto trimestre dell’anno scorso che nel primo trimestre di quest’anno.

lunedì 15 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta (sesta parte)


Che le due maggiori banche spagnole, il Bilbao Vizcaya e il Banco de Santander, abbiano sofferto molto, ma molto meno delle altre grandi banche europee delle conseguenze della tempesta perfetta oramai da qualche tempo entrata nel suo ventitreesimo mese di vita, è un fatto difficilmente discutibile e che ha le sue ragioni in un complesso di fattori che vanno dalla maggiore rigidità delle regole di vigilanza esistenti in Spagna, dalla estrema prudenza nella presenza nella finanza strutturata, nel forte radicamento in America latina, ma, soprattutto, nella gestione estremamente centralizzata del processo decisionale esistente in entrambi i due mega gruppi creditizi spagnoli, una caratteristica quasi unica al mondo e largamente dovuta al fatto che, al di là della formale esistenza sia degli organi collegiali che di quella pletora di comitati e sottocomitati, in entrambe le banche le decisioni vere vengono prese da una persona nel caso del Santander e da due al massimo in quello del Bilbao.

E’, tuttavia, a tutti noto che lo scivolone del Santander sul caso Madoff è costato parecchio a Don Emilio Botin, vero padre padrone di un Santander del quale non possiede in realtà che una piccola quota azionaria, sia perché ne ha incrinato quell’immagine di successo alla quale Botin tiene in modo quasi maniacale, sia perché gli ha impedito di coronare il suo sogno di archiviare l’orribile 2008 con i previsti 10 miliardi di euro di utile netto, il che gli avrebbe consentito l’accesso di diritto agli annali dei banchieri di maggior successo e avrebbe definitivamente mandato in soffitta quegli atteggiamenti di scetticismo più o meno aperto che ancora albergano nei circoli più esclusivi del mondo bancario che conta rispetto alla sua persona, alla sua banca e ai suoi strettissimi legami con l’Opus Dei.

Eppure, Don Emilio era stato l’unico a sfuggire alla maledizione di Groenick, l’ex numero uno di ABN AMRO che fece il possibile e l’impossibile per sfuggire all’assedio congiunto della Royal Bank of Scotland, di Fortis e dello stesso Santander, decidendo, anche in questo caso molto rapidamente e in perfetta solitudine, di rivendere la preda italiana di sua spettanza, la Banca Antonveneta, per ben 9 miliardi di euro al Monte dei Paschi di Siena, ottenendo pure di vendere ad altri e separatamente l’ex istituto di credito speciale che di Antonveneta era parte integrante, con il risultato da guadagnare 3 miliardi di euro nel volgere di pochi giorni, una somma certamente rilevante ma che coincide quasi millimetricamente con le perdite subite dai suoi migliori clienti caduti nello schema di Ponzi dell’oramai mitico ex presidente del Nasdaq, perdite che sono sicuro pagherà la banca di Don Emilio anche nell’esercizio 2009 come in larga misura è stato fatto in quello dell’anno precedente.

Non avrei voluto essere nei panni dei suoi massimi dirigenti nell’incontro che Botin ama tenere ogni domenica sera nella sua residenza privata la volta che iniziò a emergere la truffa ordita da Madoff e il di cui relativo alla clientela del Santander, ma credo che questa esperienza eserciterà un’influenza positiva sul molto irascibile banchiere spagnolo.

Così come accadde a suo tempo ai due massimi esponenti del Bilbao nel corso della crisi asiatica del 1997, quando, come ebbe modo di raccontare non ricordo se il presidente o l’amministratore delegato, di fronte alle rassicurazioni udite nel corso dell’assemblea annuale del Fondo Monetario Internazionale, i due si guardarono negli occhi e decisero di liquidare nel più breve tempo possibile tutte le posizioni inerenti l’area asiatica, una decisione della quale i due non ebbero mai a pentirsi e che evitò perdite miliardarie alla banca basca.

domenica 14 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta (quinta parte)


Le questioni affrontate nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria apprestano una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta nell’ambito dell’area europea, un rischio ulteriore e difficilmente quantificabile che fa il paio con la lentezza con la quale le maggiori banche europee, i bracci armati finanziari delle compagnie di assicurazione e gli investitori istituzionali basati nell’area hanno compreso le vere ragioni che spingevano la potente e ancor più preveggente Goldman Sachs e il colosso creditizio extracomunitario UBS, You & Us, a vendere tutto il vendibile delle rispettive montagne di titoli della finanza più o meno strutturata in loro possesso, una maxi svendita iniziata nel mese di settembre del 2006 e terminata soltanto tra febbraio e marzo dell’anno successivo, quando l’ex (?) investment banker Hank Paulson ha sentito la necessità, dopo otto mesi di permanenza sulla poltrona più alta del dicastero del Tesoro a stelle e strisce, di lanciare un warning alle banche statunitensi e a quelle più o meno globali sul rischio crescente di una crisi finanziaria, un evento che si materializzò platealmente il 9 agosto dello stesso anno con quel blocco totale della liquidità interbancaria che segnò l’avvio della tempesta perfetta.

Un altro elemento differenziale attiene maggiormente alle technicalities operative proprie delle attività di Corporate & Investment Banking nella fase di massimo sviluppo delle medesime attività, un aspetto che intendo trattare in questa sede solo di sfuggita, ma che ha molto a che fare con i sistemi di controllo interno, di risk management e di attendibilità dei sistemi informativi, tutte attività che vengono svolte da una figura quale quella del Chief Operating Officer, spesso solo nominalisticamente mutuata dalle maggiori banche europee, in particolar modo da quelle italiane, una sottovalutazione della centralità del ruolo di questa figura accompagnata da una scarsa attenzione al fatto che, a esempio, in un’entità come Goldman Sachs di COO ne esistono ben due e percepivano, proprio nel cruciale 2007, 70 milioni di dollari di compensation complessiva, una cifra di poco inferiore a quella percepita dal Chairman e Chief Executive Officer, Larry Blankfein, e e ampiamente superiore a quella percepita nello stesso anno dal Chief Financial Officer e vero salvatore di Goldman, David Viniar, un aspetto che forse dirà poco agli addetti ai lavori, ma che non sfugge a chi sa che in pochi ambiti di attività la retribuzione è una proxy attendibile dell’importanza e della delicatezza del ruolo svolto come nell’investment banking!

Se è vero che le banche europee, e segnatamente quelle italiane, presentano una base di raccolta da clientela che le rende relativamente meno vulnerabili ai sommovimenti sui mercati interbancari, non vi è dubbio che la struttura dell’asset & liabilities si è, negli ultimi anni precedenti allo scoppio della tempesta perfetta, profondamente modificata e non certo sul piano di una maggiore stabilità, per non parlare poi del profilo di rischio, che come ricorda sempre il Governatore della Banca d’Italia sono di vari tipi, non escluso e certamente non ultimo per importanza, quello che prende il nome di rischio reputazionale, una tipologia di rischio che è strettamente correlato alla cruciale questione della fiducia dei risparmiatori e degli investitori, quella stessa fiducia che è forse l’elemento maggiormente assente in questa fase e che è all’origine del più persistente e ostinato sciopero degli investimenti mai intervenuto almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale!

Una parte delle differenze esposte di sopra tra il mercato finanziario statunitense e quello europeo sono, in realtà, alla base delle analisi che vedono la concreta possibilità che, quando la tempesta perfetta deciderà finalmente di placarsi, il cumulo di macerie e l’entità assoluta delle perdite potrebbero essere di dimensioni più rilevanti nel Vecchio Continente di quanto lo saranno negli stessi Stati Uniti d’America che, pure, di questa crisi portano il maggior carico di responsabilità.

sabato 13 giugno 2009

Come sarà il mercato finanziario europeo dopo la tempesta perfetta (quarta parte)


Prima di affrontare l’esame dello stato dell’arte nell’industria finanziaria in Italia e Spagna, gli ultimi due grandi mercati finanziari europei che avevo in animo di trattare, è il caso di approfondire la questione rappresentata dalla cosiddetta spada di Damocle pendente sul capo delle principali entità finanziarie europee, che è poi rappresentata dalla tenuta prospettica dei paesi un tempo facenti parte dell’area di influenza sovietica e che sono già divenuti membri dell’Unione europea o sono in lista di attesa per esservi ammessi, paesi che, come ricordavo in coda alla puntata di ieri, sono stati di fatto colonizzati dalle banche tedesche e austriache, ma anche da quelle francesi, italiane e britanniche, che hanno acquisito quote di mercato rilevanti in Polonia, in Ungheria, in Bulgaria, nella repubblica Ceca e in quella Slovacca, nelle repubbliche baltiche, in Ucraina, in Russia e in molte repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nei paesi della ex Jugolavia, in Turchia e in numerosi paesi dell’Africa Settentrionale.

Da quando è risultato evidente che non era possibile raggiungere un’intesa tra i maggiori paesi europei, causa il fermo veto posto dalla Germania, su un sistema automatico di intervento, ma che si sarebbe proceduto solo caso per caso e solo dopo l’eventuale fallimento o palese insufficienza degli interventi previsti a carico del Fondo Monetario Internazionale o di analoghi organismi finanziari sovranazionali presenti nell’area europea, un fitto velo di silenzio è sceso sulla reale situazione dei sistemi finanziari dei paesi sopra menzionati, un’opacità legata all’inadeguatezza dei sistemi statistici esistenti in quelle nazioni e che costringe gli analisti specializzati a fare del loro meglio per informare i quartier generali delle principali banche e compagnie di assicurazioni europee sulla situazione contingente e prospettica delle economie di paesi che devono buona parte del loro sviluppo agli interventi non coordinati provenienti dai loro fratelli maggiori europei.

Non sono così ingenuo da non immaginare che buona parte delle informazioni, spesso quelle più significative, pervengono alle entità protagoniste del mercato finanziario europeo grazie alle attenzioni che i servizi di intelligence dei paesi maggiormente esposti dedicano a queste aree sino a poco tempo fa caratterizzate da tassi di sviluppo notevoli, ma che ora, fatta eccezione per una Polonia ‘apparentemente’ in controtendenza, stanno regredendo vistosamente e per le quali non è assolutamente escluso il ripetersi di situazioni come quella che ha mandato in default l’Islanda, paese extracomunitario che vantava uno dei più elevati dati di PIL pro capite, un’eventualità che mette, ovviamente, fortemente a rischio gli stock di debito sovrano detenuti direttamente o indirettamente dalle banche europee presenti.

Come è oramai universalmente noto, pur non essendo assenti interessi economici e finanziari extraeuropei, non vi è dubbio alcuno che l’eventuale default di uno o più di questi paesi ricadrebbe in misura prevalente sulle sei o sette nazioni che hanno di fatto adottato le realtà rappresentative di quest’area geograficamente così vasta del continente europeo, interventi che non hanno riguardato solo le maggiori entità finanziarie locali, ma anche realtà industriali, aziende di pubblica utilità e quelle operanti nel crescente settore dei servizi, interventi che, purtroppo, non sempre sono stati effettuati per applicare in queste realtà emergenti le migliori best pratiche e gli standard sia di qualità che sociali prevalenti nei paesi finanziatori, una triste realtà che riguarda più o meno tutti i settori di intervento, ma che è drammaticamente vera in quello delle attività finanziarie che ha rappresentato per la maggior parte dei soggetti stranieri la possibilità di ricreare forme di mercato di oligopolio collusivo difficilmente praticabili nelle rispettive patrie e che ora rischiano di trasformarsi in un vero e proprio boomerang per le case madri!