venerdì 31 luglio 2009

Lo sceriffo Cuomo svela gli altarini delle banche!


Mentre riprendono le montagne russe degli indici azionari sia al di qua che al di là dell'Oceano Atlantico, il procuratore fenerale di New York, Andrew Cuomo, ha deciso di stilare la lista dei bonus pagati nel corso del 2008 dalle principali banche destinatarie di ingenti finanziamenti pubblici che hanno evitato a molte di loro di fare la fine di Lehman Brothers, l'ex investment bank costretta a ricorrere alle procedure fallimentari a metà del mese di settembre dell'anno scorso.
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Ovviamente, nessun esponente o semplice portavoce delle nove banche statunitensi messe alla berlina dal nuovo sceriffo di New York è stato disponibile a commentare le cifre messe in bella fila dalla procura, anche perché è davvero imbarazzante, ad esempio, per Citigroup, la banca che ha ricevuto 45 miliardi di dollari ed è ora posseduta al 34 per cento dallo Stato, spiegare per quale motivo ha deciso di procedere al pagamento di premio da lameno un milione di dollari a 738 suoi dipendenti, mentre per 124 loro colleghi le cose sono andate ancora meglio, in quanto hanno ricevuto, nell'anno di disgrazia 2008, premi non inferiori ai 3 milioni di dollari, il tutto mentre la banca perdeva la bellezza di 18,7 miliardi di dollari.
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L'altra banca largamente beneficiata dal Tesoro tramite l'utilizzo dei 700 miliardi di dollari previsti dal TARP, Bank of America, ha pagato bonus per 3,3 miliardi di dollari ai suoi diretti dipendenti, mentre ha girato letteralmente la testa dall'altra parte in occasione del pagamento di bonus per 3,6 miliardi di dollari ad opera dei vertici della acquisita Merrill Lynch, il che vuol dire che a fronte dei 45 miliardi di dollari BofA ne ha regalati 6,9 ad alcune centinaia di manager, 172 dei quali suoi dipendenti diretti, mentre gli altri 696 erano ancora sul libro paga di Merrill Lynch.

Ma quello che deve essere apparso davvero curioso a Cuomo è l'ingiustizia patita dai manager di Bank of America che, pur avendo la loro banca chiuso il 2008 con un utile di 2,56 miliardi di dollari, hanno ricevuto meno dei manager di Merrill Lynche che di miliardi di dollari ne ha persi 27,61 nello stesso anno.

Nè il quadro cambia se passiamo a esaminare il caso della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, che ha corrisposto premi non inferiore al milione di dollari a poco meno di mille suoi dipendenti, o quello di J.P Morgan-Chase che di assegni da un milione in su ne ha staccati ben 1.626, mentre le due banche hanno segnalato duecento casi nei quali il bonus ha superato i 3 milioni di dollari.

Il presidente Obama ha incaricato Kenneth Feinberg di sovrintendere ai sistemi di compensation dei primi cento manager delle banche che hanno ricevuto finanziamenti pubblici, ma il povero Feinberg potrà farlo solo per il 2009 e non dovrebbe avere giurisdizione sulle banche che hanno restituito i finanziamenti pubblici ricevuti in precedenza, una fattispecie che riguarda tutte le banche previste nel rapporto di Cuomo, ad eccezione di Bank of America, Citigroup e Wells Fargo!

giovedì 30 luglio 2009

Regolatori statunitensi alla riscossa?


Proprio quando dal più che disastrato settore immobiliare statunitense inizia a giungere qualche flebile segnale di stabilizzazione, una raffica di trimestrali aziendali non proprio lusinghiere e alcuni dati relativi alle aspettative dei consumatori e all’economia reale spingono, per il secondo giorno consecutivo i listini azionari a stelle e strisce in ribasso, anche se è ancora evidente la presa di mani forti che intervengono quando inizia a profilarsi il peggio, interventi che non riescono più, come è accaduto in alcune sedute della settimana scorsa, a mutare il segno meno in segno più, ma che riescono comunque a contenere le perdite entro livelli accettabili.

Nella puntata di lunedì del Diario della crisi finanziaria, avevo già segnalato l’importanza dell’ottava in corso, in quanto, come potrebbe dire meglio di me un analista tecnico, era più che evidente che il mercato azionario stava nettamente ‘sforzando’ dopo che il Dow Jones aveva superato la soglia dei 9 mila punti e il ben più rappresentativo Standard & Poor’s 500 sembrava avere a portata di mano il ritorno nell’area dei 1.000 punti, soglie psicologiche sicuramente importanti, ma che assumevano ancor più significato alla luce di quei capitomboli dei due indici intervenuti tra la metà di giugno e la metà di luglio che avevano bruscamente interrotto la corsa dell’orso.

Il primo segnale di difficoltà è venuto dalla pessima trimestrale del gigante dell’informatica Microsoft, un titolo quotato al Dow Jones, ma che, per evidenti motivi, influenza moltissimo il Nasdaq, ma credo che il netto e alquanto imprevisto calo del Consumer Confidence in giugno, dopo la ben più modesta flessione di maggio che aveva interrotto un a breve serie positiva, segnalato martedì e il calo del 2,5 per cento degli ordini di beni durevoli nel mese di giugno, la più netta flessione registrata negli ultimi cinque mesi, reso noto ieri hanno influito ancora di più sull’umore degli operatori e degli investitori, che, in preda al cosiddetto senno del poi, iniziano a chiedersi le ragioni che hanno spinto gli indici così lontano dai minimi di metà marzo senza che fossero giunti reali segnali di miglioramento né dal fronte occupazionale, né da quello finanziario, mentre è difficile trovare qualcuno che ritenga veramente che si sia toccato il fondo nella crisi del settore immobiliare, residenziale o commerciale che sia!

Né ritengo che abbia contribuito a rasserenare il clima l’ennesimo segnale d’allarme lanciato dal Fondo Monetario Internazionale sulle perdite per le banche statunitensi e per quelle europee, una tegola da 440 miliardi di dollari destinata a colpire in particolar modo le maggiori banche statunitensi e quelle basate nel Regno Unito, ma che potrebbe lasciare segni visibili anche nei bilanci delle banche degli altri maggiori paesi europei.

Lasciando gli operatori e gli investitori a lambiccarsi il cervello per capire quale direzione prenderanno i listini azionari a stelle e strisce, penso sia il caso di segnalare un insolito attivismo delle Authorities statunitensi, con la Securities & Exchange Commission che si appresta a rendere definitive le norme introdotte a suo tempo per combattere le vendite allo scoperto, anche se solo venerdì scopriremo le innovazioni previste dalla stessa presidentessa Mary Shapiro, mentre sono oramai in corso le audizioni dei vari soggetti interessati da parte del CFTC, l’ente preposto a vigilare sui mercati futuri delle materie prime e delle derrate alimentari, che dovrà esprimersi sulla possibile riforma dell’operatività sul petrolio e le altre materie prime fortemente voluta dall’amministrazione Obama, ma altrettanto vigorosamente osteggiata dalle maggiori entità protagoniste del mercato finanziario globale!

mercoledì 29 luglio 2009

Il Fondo Monetario Internazionale lancia un nuovo allarme!


Il Fondo Monetario Internazionale e il suo numero uno, l’ex ministro socialista delle Finanze, Dominique Strauss Kahn, sembra non vogliano proprio saperne di unirsi al coro degli ottimisti a oltranza, quelli, per intenderci, che vedono germogli di ripresa sia nelle notizie positive che in quelle negative, un atteggiamento davvero poco cooperativo che sta destando seri malumori sia nel gotha finanziario che tra i governi e le banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, insofferenze e malumori che non sembrano turbare più di tanto l’enorme stuolo di economisti assiepati nel maestoso edificio in quel di Washington, D.C., ove ha sede l’istituzione nata in base agli accordi di Bretton Woods.

Malumori e irritazioni dei grandi della terra sono via, via cresciute a fronte dei continui aggiornamenti delle perdite delle istituzioni finanziarie e degli investitori istituzionali derivanti dal meltdown finanziario provocato dagli alti marosi della tempesta perfetta, una cifra passata dai 100 miliardi di dollari del settembre 2007 a una di oltre venti volte superiore contenuta nell’elaborato più recente, della fin troppo accurata ripartizione delle perdite stesse sia a livello regionale che per tipo di operatori, del tempismo dei rilasci dei rapporti alla vigilia degli appuntamenti internazionali più delicati, il tutto condito da conferenze stampa poco o per nulla coordinate con i documenti conclusivi dei summit che si stavano svolgendo in quel momento.

Per non parlare della cruciale questione relativa all’individuazione del momento in cui potrebbe avere inizio la tanto sospirata ripresa dell’economia, una data che i governi, i banchieri centrali e quelli posti a capo delle banche più o meno globali vorrebbero la più prossima possibile, possibilmente entro la fine dell’anno in corso, un’aspirazione che non trova sponda negli ostinati economisti del Fondo, che anzi, ad ogni aggiornamento dell’Economic Outlook, continuano a spostare la fatidica data in avanti.

Basterebbe, peraltro, incrociare le stime sulle perdite previste dal Fondo e quelle effettivamente contabilizzate dalle maggiori entità protagoniste del mercato finanziario globale per comprendere appieno gli effetti della sospensione del mark to market decretata alla fine dell’anno scorso dagli organismi regolatori pressati dalle decisioni prese a metà ottobre dai leaders del G20 riuniti a Washington, una discrasia che non potrà certo durare a lungo, non fosse altro che per la dimensione abnorme della polvere messa così frettolosamente sotto il tappeto!

Ma poiché è sempre vero che il diavolo fa le pentole ma difficilmente riesce a fare i coperchi, il recentissimo allarme contenuto nell’ennesimo rapporto del Fondo dedicato alle probabili insolvenze nel comparto delle carte di credito rischia di mettere davvero a nudo il persistente problema legato allo stato di salute presente e, soprattutto, futuro delle banche globali poste al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, per la semplice ragione che sono previste insolvenze pari al 14 per cento dell’outstanding negli Stati Uniti d’America, mentre in Europa ci si fermerebbe a un tasso di insolvenza del 7 per cento, percentuale che ha già superato il 9 per cento in Gran Bretagna, paese che ha peraltro un peso specifico considerevole in questo comparto di attività.

Tradotto in soldoni, le perdite stimate per gli USA sarebbero pari a 268 miliardi di dollari, in gran parte concentrate su quel numero ristretto di grandissime banche che fanno la parte del leone in quest’attività, mentre quelle europee dovrebbero perdere ‘solo’ 173 miliardi di dollari, anche se, come già detto, una parte rilevante di queste perdite sarebbero a carico delle banche britanniche!

martedì 28 luglio 2009

Un terzo di Citigroup va allo Stato!


Venerdì scorso, al termine di un’operazione avviata nei giorni precedenti, il Governo degli Stati Uniti d’America è entrato in possesso del 34 per cento delle azioni ordinarie del colosso creditizio Citigroup, una quota che potrebbe anche salire ulteriormente, visto che solo 25 dei 45 miliardi di dollari di aiuti pubblici sono stati trasformati in azioni ordinarie, mentre gli altri 20 miliardi erogati dal TARP restano ancora sotto la forma di preferred shares che, una volta convertite, porterebbero la quota di pertinenza dello Stato al di sopra del 50 per cento, un’eventualità che si è già verificata in Fannie Mae e Freddie Mac, nonché nella più che tecnicamente fallita AIG, la compagnia di assicurazione coinvolta alla grande nell’infernale meccanismo dei Credit Default Swaps.

Come ha osservato a suo tempo il Wall Street Journal, la conversione delle preferred shares in mano al Governo è servita come potente mezzo di persuasione (per essere esatti, la Bibbia della finanza mondiale paragonò le pressioni esercitate da Bernspan e Paulson a una pistola posta alla tempia dei fondi governativi arabi e asiatici coinvolti) per convincere gli alquanto riottosi detentori privati di titoli della specie o di prestiti obbligazionari a rinunciare agli elevati rendimenti garantiti per acquisire azioni ordinarie che renderanno esclusivamente in relazione all’andamento dei conti della banca.

Certo, vi è una bella differenza tra il trattamento riservato ai fondi governativi creditori di Citigroup rispetto a quello che è toccato in sorte ai poveri bondholders di Chrysler e General Motors, in quanto, almeno per molti di loro, l’investimento nelle obbligazioni delle due case automobilistiche rappresentava una quota molto significativa dei loro risparmi e il loro ritrovarsi azionisti forzati non favorirà certo la loro propensione a ripetere investimenti di tale genere.

In numerose puntate del Diario della crisi finanziaria ho parlato dei profondi cambiamenti, anche culturali, prodotti dalla tempesta perfetta, cambiamenti che hanno toccato le stesse fondamenta dell’American Dream e che sono strettamente connesse al possesso di una casa indipendente, alla possibilità di cambiare lavoro e luogo di residenza, nonché la possibilità di mutare le proprie condizioni di origine grazie alle proprie capacità e al proprio impegno, ma credo che il cambiamento più radicale riguardi più in generale il rapporto tra lo Stato e il Mercato, un rapporto che, almeno per la maggioranza della opinione pubblica, doveva essere caratterizzato da una sempre minore invadenza del primo nei confronti dell’efficienza e dell’efficacia intrinsecamente connesse all’agire del secondo.

Il destino cinico e baro ha voluto che a decidere la nazionalizzazione delle due più importanti entità dell’immenso settore del mortgage a stelle e strisce fossero George W. Bush e l’ex (?) investment banker, Hank Paulson, coadiuvati da Bernspan e altri esponenti dell’establishment, tutte persone che nessuno potrà mai sospettare di avere mai nutrito alcuna simpatia non dico per il socialismo, ma neppure per una forma blanda di intervento dello Stato nell’economia, anche se va detto che, forse proprio per le loro radicate convinzioni liberiste, non hanno voluto in alcun modo, pur a fronte delle centinaia di miliardi di dollari di aiuti diretti e le migliaia di miliardi di interventi più o meno indiretti, di operare quella vera e propria nazionalizzazione delle principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense invocata da numerosi e autorevoli economisti, un’operazione che avrebbe consentito di controllare meglio l’utilizzo dei fondi ricevuti, accelerato la ristrutturazione delle entità in grado di essere risanate e i successivi e necessari processi di aggregazione propedeutici al ritorno, si spera con profitto, delle banche in mano ai privati!

lunedì 27 luglio 2009

Ben Bernanke spiega perché è stato costretto a trasformarsi in Benrspan!


Quella che si apre oggi è una settimana molto importante per capire quale direzione prenderanno i mercati dopo una serie positiva di dieci sedute a Wall Street che ha fatto seguito a una seria correzione iniziata a metà giugno ed esauritasi a metà del mese in corso, una serie positiva che ha consentito al Dow Jones di superare la soglia psicologica dei 9 mila punti, mentre il Nasdaq ha mancato il sorpasso di quella posta a 2 mila per la netta delusione rappresentata dai conti del quarto trimestre dell’anno fiscale di Microsoft, il gigante dell’informatica da tempo entrato nell’Olimpo del Dow Jones, ma le cui sorti influenzano in modo significativo le tante società del settore presenti nell’altro listino.

Poiché si tratta anche della settimana nella quale si dovrebbe capire se la maggioranza dei piccoli e medi detentori di bonds di CIT Group decideranno di accettare le condizioni loro proposte dalla holding bancaria, una condizione essenziale, dopo il deal da 3 miliardi di dollari raggiunto con i grandi creditori, per evitare quel ricorso alla protezione offerta dalla legge fallimentare che i vertici di CIT non si sentono ancora di escludere, un’incertezza che, assieme a una altra serie di ragioni, è alla base delle non esaltanti performance delle azioni delle principali banche statunitensi nelle ultime sedute della settimana scorsa.

Un’idea chiara della crucialità del passaggio che abbiamo di fronte a meno di due settimane dal compimento del secondo anno di vita della tempesta perfetta, la fornisce la davvero inusuale decisione del presidente del sistema della riserva federale di sottoporsi a un fuoco di fila di domande da parte dei cittadini di Kansas City, una significativa innovazione nel sistema comunicativo della Fed e che fa seguito all’altrettanto poco protocollare apparizione in marzo di Bernspan alla fortunata trasmissione televisiva Sixty Minutes, tutti segnali inequivocabili della volontà del presidente in scadenza all’inizio del prossimo anno di volersi unire allo sforzo comunicativo della nuova amministrazione sull’alquanto scottante tema della lunghissima crisi finanziaria e sui pesanti riflessi che la stessa sta avendo su redditi, investimenti, occupazione e conti pubblici negli Stati Uniti d’America e nel resto del pianeta.

Per la terza volta in un breve volgere di tempo, Bernspan è tornato a essere Ben Bernanke, il professore del prestigioso ateneo di Princeton che ha dedicato buona parte della sua vita allo studio delle crisi finanziarie del passato e che si è trovato catapultato al vertice della Federal Reserve poco prima che crollasse il castello di carta eretto con determinazione degna di miglior causa da Alan Greenspan e favorito dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia sviluppatisi nel corso di un lungo periodo che va dalla metà degli anni Ottanta alla cruciale estate del 2007.

Nel corso dell’incontro protrattosi ieri per oltre un’ora in un’aula molto affollata del municipio di Kansas City, Bernanke ha dichiarato di condividere il disgusto dei cittadini americani per le folli scommesse effettuate nel tempo dalle principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, ovviamente, di quello globale, un sentimento che lo avrebbe spinto anche a lasciar fallire alcune di queste grandi entità, ma che, turandosi il naso, ha favorito i salvataggi delle banche e delle compagnie di assicurazione perché non agire avrebbe provocato conseguenze davvero drammatiche per l’economia degli Stati Uniti e per quella globale, con il rischio concreto di passare alla storia come il presidente della Fed che aveva consentito una riedizione della Grande Depressione!

domenica 26 luglio 2009

Piccole banche USA falliscono!


Una delle caratteristiche distintive della tempesta perfetta nei suoi primi due anni di attività è rappresentata dal relativamente basso numero di banche statunitensi costrette a chiudere i battenti, un fenomeno in netta controtendenza rispetto a quanto si era verificato poco meno di venti anni orsono nel settore delle Saving & Loans, gli istituti di credito più o meno assimilabili a quelle che erano le nostre casse di risparmio, o in altre crisi finanziarie verificatesi nel secondo dopoguerra, crisi che, pur avendo un’intensità di gran lunga inferiore a quella attuale, provocavano una vera e propria morìa di banche di ogni ordine e grado.

Tra l’ecatombe di banche provocate dalle precedenti crisi e quelle acquisite nel corso del rilevante processo di concentrazione che ha riguardato il sistema creditizio statunitense, il numero delle banche a stelle e strisce si è pressoché dimezzato da oltre 14 mila a poco più di 7 mila, anche se va detto che processi analoghi hanno riguardato le banche britanniche e quelle degli altri grandi paesi membri dell’Unione europea, per non parlare di quello che è avvenuto in Giappone, un paese costretto da venti anni a convivere con una sostanziale recessione anche a causa del fatto che la perdurante crisi bancaria è stata affrontata in gran parte mediante processi di fusione e acquisizione che hanno portato alla creazione di banche di dimensioni gigantesche ma spesso ancora più deboli delle entità che avevano partecipato alla aggregazione.

L’attivismo senza precedenti del sistema della riserva federale e del Tesoro statunitense, per non parlare dell’azione estremamente incisiva della donna posta a capo della Federal Deposit Insurance Corporation, Sheila Bair, nonché l’inondazione di liquidità a tassi prossimi allo zero, sono tutti elementi che hanno contribuito a evitare l’effetto domino che avrebbe determinato la chiusura di centinaia se non di migliaia di banche, ma è altresì evidente che questa sorta di miracolo difficilmente è destinato a durare nel tempo, non fosse altro che l’oramai evidente rarefazione dei fondi a disposizione ha costretto Timothy Geithner non solo a non procedere al salvataggio con fondi pubblici di CIT, ma anche a chiarire che, d’ora in avanti, le soluzioni al possibile dissesto di un’entità finanziaria le dovranno trovare i diretti interessati, azionisti e creditori in primis, e non lo Stato!

Ma qualcosa sta cambiando anche nella contabilità dei default bancari statunitensi, in quanto con le sette chiusure annunciate venerdì scorso sale a 64 il numero delle banche americane rilevate, grazie al sostegno della FDIC, dall’inizio del 2009, un numero più che doppio rispetto a quello registrato nell’orribile 2008, anche se i 25 dissesti dell’anno scorso sono appesantiti dalla ingombrante presenza di Lehman Brothers, l’ex investment bank costretta da Bernspan e Paulson, nonché dai propri stessi errori, a fare ricorso alla protezione della legge fallimentare statunitense, una procedura dalla quale uscirà un giorno neanche troppo lontano e mantenendo lo storico nome, anche se non sarà che una pallidissima ombra della sola tra le Big Five che aveva osato sfidare la potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs.

Il ritorno al mercato promesso da Geithner e le alquanto fosche recenti profezie formulate da un Bernanke in uno dei rari momenti in cui non interpreta il ruolo di Bernspan indurrebbero a ritenere che potrebbe essere spedita in soffitta anche il too big to fails che, con la citata eccezione di Lehman, ha sinora guidato la mano della vecchia e della nuova amministrazione, anche se su questo mi permetto di suggerire una robusta dose di sano scetticismo ai lettori del Diario della crisi finanziaria!

sabato 25 luglio 2009

Per ora crescono i germogli di recessione!


Un calo del prodotto interno lordo del Regno Unito nel secondo trimestre poco meno che triplo rispetto alle aspettative degli analisti nel confronto con il trimestre precedente, ma anche il più forte su base annua dal 1955, ha costituito, secondo le prime valutazioni governative, uno shock del tutto inatteso, anche perché anche nelle isole britanniche andavano per la maggiore quanti si ostinavano, almeno sino a ieri, a vedere germogli di ripresa in ogni dato meno che pessimo, una moda molto diffusa sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e che, insieme al sempre più intenso operare delle cosiddette mani forti, ha determinato prima il rally dell’orso e, dopo una battuta d’arresto durata più o meno quattro settimane, ha spinto giovedì il Dow Jones a sfondare quota 9 mila e a raggiungere i massimi del 2009.

Per chi ama, come si dice a Roma, ‘riconsolarsi con l’aglietto’, si potrebbe anche fare notare che la flessione nel secondo trimestre del PIL britannico è stata inferiore a quella registrata nel confronto tra i dati del primo trimestre del 2009 e quelli dell’ultimo trimestre dell’anno precedente (anche se evidenti fattori di stagionalità sconsiglierebbero questo raffronto), ma trovo molto più significativa la previsione formulata a caldo da un esperto dell’ufficio nazionale di statistica che avverte che occorreranno almeno cinque anni perché il PIL pro capite torni, nel Regno Unito, ai livelli toccati prima della tempesta perfetta.

Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla confutazione delle tesi degli ottimisti a ogni costo per avere voglia di tornare sull’argomento rappresentato dall’esistenza o meno dei germogli di ripresa, anche se, come hanno sostenuto economisti insigniti del premio Nobel, nutro il fondato timore che gli ‘ottimisti in buona fede’ abbiano semplicemente scambiato per segnali di ripresa quella inevitabile ricostituzione delle scorte che doveva necessariamente fare seguito a una fase lunghissima di svuotamento dei magazzini, sia all’ingrosso che al dettaglio, che aveva fatto seguito a sua volta ai timori dell’autunno scorso sul possibile default sistemico del mercato finanziario globale.

Ciò che sta, purtroppo, emergendo è che, in assenza di segnali significativi di ripresa della domanda effettiva, la mera ricostituzione delle scorte non è sufficiente, da sola, a consentire quell’inversione di tendenza che richiede che i consumatori tornino a consumare, gli imprenditori riprendano a investire e gli investitori decidano di interrompere il loro oramai più che biennale sciopero degli acquisti dei titoli della finanza più o meno strutturata.

Ma credo sia il caso di parlare di quella particolarissima forma di ciclo delle scorte che sta avvenendo nelle borse valori di tutto il pianeta, un fenomeno che non presenta differenze particolari tra Wall Street, Londra, l’Europa continentale e l’Estremo Oriente, anche perché la maggior parte dei protagonisti sono caratterizzati da un’operatività più o meno globale e hanno iniziato, quasi all’unisono, a mettere fieno in cascina acquisendo azioni proprie o altrui a partire dai minimi toccati a metà dello scorso mese di marzo, una costituzione di posizioni lunghe tutt’altro che statiche e che hanno consentito di contribuire significativamente ai conti economici delle entità di appartenenza, aumentandone gli utili o riducendone le perdite.

La delusione per i dati diffusi ieri da Microsoft, così come la mediocre performance della maggior parte delle società quotate, potrebbe rappresentare, per questi ‘scommettitori professionali’, il segnale che è giunta l’ora di girare le proprie posizioni!

venerdì 24 luglio 2009

A che punto è la tempesta perfetta!


Mentre la tempesta perfetta si appresta a compiere, tra poco più di due settimane, il suo secondo anno di vita (anche se non hanno torto quanti lo considerano già compiuto, facendola risalire alla chiusura dei due hedge funds facenti capo a Bear Stearns), gli analisti, gli economisti e gli investitori continuano a interrogarsi sul vero stato di salute delle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, non fosse altro che le davvero astronomiche cifre sugli impegni assunti dalle autorità monetarie statunitensi comunicate di recente al Congresso dall’autorità istituita per sorvegliare l’utilizzo del TARP risultano oramai multiple del PIL a stelle e strisce, una dimensione realmente impressionante anche se nessuno ipotizza che tali impegni siano destinati a tradursi in esborsi effettivi, anche perché gli stessi graverebbero per 80 mila dollari su ogni cittadino americano, infanti e ottuagenari compresi.


D’altra parte, il fatto che quell’immenso volume di impegni presi dal Tesoro USA e dal sistema della riserva federale è pressoché integralmente collateralizzato fa capire che la montagna dei titoli della finanza più o meno strutturata posti al di sopra e al di sotto della linea di bilancio delle maggiori banche statunitensi è parcheggiata nelle enormi discariche a cielo aperto gestite dalla Fed di New York e da altre importanti sue consorelle basate altrove, un parcheggio temporaneo che non ha eliminato il rischio per le banche altrettanto temporaneamente salvate dall’attività incessante delle donne e degli uomini alle dipendenze di Bernspan.

Come ho avuto modo di scrivere in questi giorni, chi si aspettava un segnale chiarificatore dai bilanci delle maggiori banche statunitensi, per la maggior parte di quelle europee occorrerà pazientare ancora un po’, è rimasto certamente deluso, non solo e non tanto per i risultati netti, quanto perché non si è affatto arrestata la pioggia di svalutazioni, accantonamenti e messe e perdita relativi alla parte più strettamente creditizia dell’attività bancaria, ma anche perché a nessuno è sfuggita la ripresa alla grande delle attività più rischiose, attività che hanno portato certamente buoni utili, ma che hanno determinato un’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche e non che rischia di congelare quei germogli di ripresa di cui tanto si parla negli ambienti governativi mentre sono ancora pressoché invisibili agli occhi dei comuni mortali.

Se questa è la situazione al di là dell’Oceano Atlantico, non si può certo dire che le cose siano più rosee sulla sponda europea, Isole britanniche ovviamente comprese, non fosse altro che perché gli impegni dei singoli paesi membri dell’Unione europea sono ancora molto più modesti di quelli messi in campo negli Stati Uniti d’America, mentre non sembra affatto che i rischi siano di minore entità, né che il leveraged ratio delle principali banche europee sia oggi a livelli più contenuti di quanto fosse prima della tempesta perfetta.

Per chi fosse interessato a un’analisi approfondita della situazione europea, sarebbe utile leggere un rapporto pubblicato dal sito Minianville il 20 di questo mese con il titolo European Banks on the Brink, un testo redatto da John Mauldin e corredato da un certo numero di tabelle estremamente interessanti che non è certamente adatto ai cuori deboli, cosa della quale è molto consapevole lo stesso autore che consiglia ai suoi lettori di bere una ‘bevanda per adulti’ prima di sottoporsi alla lettura del testo e delle tabelle, in particolare di quelle che riportano gli attuali valori del rapporto tra esposizione delle banche e patrimonio delle stesse o quelle relative al rapporto tra esposizione bancaria più titoli di Stato e prodotto interno lordo dei vari paesi!

giovedì 23 luglio 2009

Ma quelli delle banche USA sono profitti o perdite?


La stagione delle trimestrali a stelle e strisce si è arricchita ieri di nuove e importanti comunicazioni provenienti dal fronte delle banche, con la diffusione dei risultati relativi al secondo trimestre di Wells Fargo e della ex investment bank Morgan Stanley, risultati che non sono piaciuti molto agli investitori sia nel caso della prima che ha segnalato utili in forte crescita (ma anche una vera e propria esplosione dei non performing loans), sia in quello della seconda che ha comunicato una perdita di 1,2 miliardi di dollari, un risultato che mal si concilia con la decisione di restituire i 10 miliardi di dollari ricevuti dal TARP alla fine dell’anno scorso.

Rinviando i miei lettori alla recente puntata del Diario della crisi finanziaria nella quale, sin dal titolo, mi chiedevo se i profitti segnalati dalle principali banche statunitensi non fossero in realtà delle perdite, trovo molto disinvolto il modo seguito da Wells Fargo nel comunicare i propri risultati senza, come sarebbe doveroso, tenere conto del fatto che negli stessi, dal gennaio del 2009, sono inclusi anche i flussi di ricavi originati dall’acquisita Wachovia Bank, una banca che si collocava al quarto posto tra le banche ordinarie statunitensi, una commistione che non può certo considerarsi sanata con l’indicazione che il 40 per cento circa dei ricavi provengono dall’entità acquisita.

Ma questo sarebbe ancora un peccato veniale, in quanto considero molto più grave che, a fronte di un incremento del 50 per cento circa dei non performing loans accompagnato dalla previsione di un ulteriore deterioramento della qualità del credito nei mesi a venire fatta direttamente dal massimo responsabile dell’attività creditizia di Wells Fargo, i vertici della banca abbiano deciso di distribuire un utile tutt’altro che disprezzabile, invece di tenere ancora per un po’ a stecchetto gli azionisti in cambio di una maggiore pulizia del bilancio contestuale all’ulteriore rafforzamento delle poste di bilancio previste propri per far fronte a rischi futuri considerati pressoché certi da un’autorevole fonte interna.

Ma mentre nel caso di Wells Fargo siamo di fronte a, seppur opinabili, scelte relative ai criteri più o meno prudenziali nella rappresentazione dei fatti di bilancio, molto più gravi sono le perplessità rispetto alle stesse scelte gestionali assunte dai vertici di quella Morgan Stanley che, insieme alla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, è riuscita a sopravvivere alla scomparsa o alla confluenza in altre entità delle altre componenti dell’un tempo magico gruppo delle Big Five dell’investment banking statunitense, scelte che si traducono in un’intensificazione molto significativa di quell’attività di trading che è poi, in realtà, né più né meno che uno scommettere sull’andamento di indici azionari, materie prime, valute convertibili, un gioco che ha fruttato, anche grazie alla drastica riduzione del numero di partecipanti, a Morgan Stanley poco meno di un miliardo di dollari, ma che non è stato in grado di compensare i disastrosi effetti dell’esposizione della banca nel mortgage e delle sue attività creditizie più in generale.

E dire che Morgan Stanley aveva subito un attento scrutinio delle autorità monetarie che, anche sulla base dello stress test, autorità che avrebbero dovuto sconsigliare il frettoloso rimborso degli aiuti pubblici ricevuti, nonché inviare, seppure in via riservata, chiari segnali di insoddisfazione per il fatto che la trasformazione in holding bancaria verificatasi alla fine dello scorso anno non ha prodotto alcuna significativa modifica del modus operandi dell’entità in questione e della stessa Goldman Sachs, che, al pari delle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, continuano a giocare nello stesso identico modo seguito in passato!

mercoledì 22 luglio 2009

Bernspan si trasforma ancora in Bernanke!


Sono perfettamente d’accordo con gli analisti che sostenevano, prima che si avviasse la fase delle comunicazioni al mercato dei risultati conseguiti dalle società quotate statunitensi nel periodo che va da marzo a giugno, che i risultati certificati conseguiti dalle corporations di ogni ordine e grado nel secondo trimestre avrebbero costituito il vero banco di prova per le varie teorie ottimistiche che hanno contagiato buona parte di quell’establishment a stelle e strisce che vuole a tutti i costi credere che la ripresa possa avvenire ben prima di quanto previsto dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale o dall’OCSE.

Non avendo alcuna intenzione di tediare i miei lettori con dettagli statistici, mi limiterò a dire che non solo le società che presentano risultati inferiori a quelli dello stesso periodo dell’anno di disgrazia 2008 continuano a essere in larghissima prevalenza, ma anche che non si registrano variazioni nel preponderante peso percentuale di quelle che si ostinano a segnalare una flessione dei profitti se non delle vere e proprie perdite rispetto a quanto segnalato nel trimestre precedente.

L’assenza di una ripresa dei profitti è, peraltro, particolarmente grave ove si consideri che gli stessi, almeno in ultima analisi, non rappresentano che una differenza tra ricavi e costi, il che, alla luce dei feroci tagli quasi universalmente operati sia agli organici che ai costi di altra natura, si sarebbe dovuto tradurre in un balzo in avanti degli utili, balzo mancato per la semplice ragione che la domanda ha continuato a languire come se non di più di quanto già facesse in precedenza, un fenomeno ben evidenziato dai risultati resi noti ieri dalla Caterpillar, un calo degli utili del 66 per cento a fronte del taglio di poco meno di un quarto dell’organico rispetto alla consistenza al 31 dicembre dello scorso anno.

Ma l’evento clou della giornata di ieri era certamente rappresentato dall’intervento del presidente del sistema della riserva federale, un intervento che si inseriva nell’aspro dibattito in corso nei due rami del Congresso sulla proposta di Obama di conferire maggiori poteri alla Fed, pur attribuendo a una costituenda entità la responsabilità di tutelare la clientela rispetto ai comportamenti delle diverse entità operanti nel sistema finanziario statunitense.

Per la seconda volta in meno di un mese, Bernspan ha riassunto le sembianze di Ben Bernanke e ha gettato secchiate di acqua gelata sugli ardori degli ottimisti a oltranza, chiarendo che il tasso ufficiale di disoccupazione potrebbe superare la soglia psicologica del 10 per cento entro l’anno in corso per mantenersi a livelli molto elevati anche nel corso del 2010, una previsione che mal si concilia con la conferma della previsione che vede qualche esile segnale di ripresa nel secondo trimestre dell’anno in corso, una contraddizione amplificata dalla ribadita volontà di mantenere prossimi allo zero i tassi sui Fed Funds ancora a lungo.

Ma la parte dell’intervento del presidente della Fed che ha determinato una brusca inversione di rotta dei listini statunitensi è stata quella riservata allo stato di salute delle banche e delle altre entità finanziarie, in quanto Bernspan non se l’è proprio sentita di escludere che qualche banca importante possa essere ancora a rischio, una dichiarazione che non ha certo rasserenato l’animo degli investitori già scossi dal comunicato ufficiale di ieri di CIT Company che rendeva noto che la possibilità che la holding bancaria faccia ricorso alla protezione offerta dalla legge fallimentare non può affatto essere esclusa, nonostante il raggiungimento di un’importante intesa con i suoi maggiori creditori, un’intesa che prevedeva nuovi finanziamenti per 3 miliardi di dollari!

martedì 21 luglio 2009

Doppio messaggio di Geithner alle banche USA!


Esauritasi quasi del tutto la nuova ondata della tempesta perfetta iniziata a metà dello scorso mese di giugno e rientrata in coincidenza con le prime sedute della scorsa settimana, i corifei della ripresa sempre dietro l’angolo hanno nuovamente ripreso a intonare i loro mantra ispirati a un ottimismo alquanto di maniera, anche perché basta mettere ordinatamente in fila le criticità vecchie e nuove per comprendere agevolmente come nessuna di queste sia stata non dico risolta, ma neppure aggredita nelle sue cause più profonde, una constatazione forse amara ma che riguarda il persistente meltdown immobiliare, sia nel comparto residenziale che in quello commerciale, il settore del credito, in particolare nelle sue componenti meno volatili, per non parlare della produzione industriale e dell’occupazione, entrambi giunti a livelli così bassi come non se ne vedevano da decenni.

Poco importa agli analisti e ai commentatori più embedded che nel fine settimana siano state chiuse altre banche statunitensi, una chiusura di saracinesche che ha coinvolto entità basate in almeno tre Stati, o che la CIT Company, una finanziaria trasformatasi alla fine dello scorso anno in holding bancaria solo per ricevere 2,3 miliardi di dollari dal TARP, non fallirà soltanto perché i suoi maggiori creditori, Pimco in testa, hanno deciso di trasformare i bonds in loro possesso in una linea di credito a più lunga scadenza al non proprio amichevole tasso di interesse del 10,5 per cento, una condizione alquanto vessatoria e che la dice lunga sull’effettivo stato di salute di CIT che, almeno in teoria, sarebbe abilitata a rifornirsi di fondi offerti dal sistema della riserva federale a un tasso che oscilla tra lo zero e lo 0,25 per cento.

Più di un brivido è corso per la schiena dei fruitori di media radiofonici e televisivi con sede al di fuori degli Stati Uniti d’America, perché in molti notiziari la notizia del possibile fallimento di CIT è stata data definendola Citi Group, un errore anche comprensibile vista la somiglianza degli acronimi, ma che ha fatto pensare che stesse fallendo una banca che ha un total assets che supera di enne volte i 75 miliardi di dollari della povera CIT, anche se va detto che ai finanziamenti di questa tutt’altro che trascurabile entità è legata la sopravvivenza del milione di grossisti e dettaglianti che la utilizzavano come la propria banca principale.

Al di là degli equivoci, la vicenda della CIT Company ha assunto un’importanza che va molto al di là delle sue dimensioni e delle stesse conseguenze derivanti dal suo, almeno fino alla tarda serata di domenica scorsa, scontato fallimento, in quanto è stata l’occasione per il nuovo ministro del Tesoro USA, Timothy Geithner, per dire che si voltava pagina rispetto agli interventi di ogni ordine e dimensione effettuati dal suo predecessore Hank Paulson e da Bernspan, un cambiamento di rotta che ha avuto il suo peso nell’ammorbidire i maggiori creditori di CIT che sapevano benissimo di avere tutto da perdere e ben poco da guadagnare costringendo i vertici della compagnia a varcare la soglia del tribunale fallimentare!

Poiché Geithner è giovane e ambizioso, non credo proprio che la nuova dottrina del Tesoro potrà non essere applicata alle banche di maggiori dimensioni, le stesse che, come già fecero nel caso di Lehman Brothers, stavano già chiudendo i rubinetti alla povera CIT, non distinguendo sempre tra finanziamenti e disponibilità proprie della entità concorrente depositate presso di loro, così come credo che Tim, ma da qualche giorno anche Larry Summers, stia mettendo in guardia il gotha bancario a stelle e strisce rispetto alla strana idea che un rimborso parziale dei finanziamenti pubblici ricevuti consenta loro di riprendere a distribuire bonus come e più di prima!

lunedì 20 luglio 2009

Ma cosa è davvero Goldman Sachs? (versione per stampa)


Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria ho dedicato ampio spazio all’analisi dei risultati relativi al secondo trimestre della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, così come ho cercato in numerose altre puntate di offrire ai miei lettori qualche informazione su questa entità che è davvero difficile inquadrare sia nel contesto delle oramai ex Investment Banks, sia nell’ampio e variegato panorama creditizio più o meno globale, anche perché, anche dopo la forzata trasformazione in holding bancaria soggetta alla vigilanza della Federal Reserve avvenuta nell’autunno dell’anno scorso, tutto si può dire meno che Goldman abbia cercato di mutare pelle trasformandosi, come qualcuno aveva molto ingenuamente previsto, di diventare un’entità più ‘normale’.

Come ho ripetutamente sottolineato, la maggior parte dei ricavi e degli utili di Goldman provengono dall’attività di posizionamento su quasi tutto quanto viene trattato sui mercati regolamentati, un’operatività che spazia dai prezzi futuri delle materie prime energetiche e non, le derrate alimentari, i tassi di interesse, le valute convertibili, gli indici azionari o le singole azioni, attività che, peraltro, svolge in quasi perfetta solitudine da quando sono scomparse dalla scena Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, la prima e la terza assorbite, rispettivamente, da J.P. Morgan Chase per un classico piatto di lenticchie, e da Bank of America, che, come è stato ampiamente e documentalmente dimostrato nelle aule del Congresso americano, è stata praticamente costretta da Bernspan e Paulson a pagare un prezzo stratosferico per un’entità tecnicamente più che fallita e a cui non è stato neppure consentito di fare nemmeno uno straccio di due diligence.

Per quanto riguarda, invece, la scomparsa dalla scena della banca un tempo appartenente ai fratelli Lehman, il discorso sarebbe troppo lungo per essere affrontato in questa sede e mi vedo costretto a rinviare i lettori alle numerose puntate specificamente dedicate ai retroscena di quel funesto avvenimento dopo il quale nulla più è stato come prima, un avvenimento che non è mai stato spiegato in modo comprensibile e razionale dall’ex (?) investment banker Hank Paulson, numero uno indiscusso di Goldman sino a quando ritenne, a metà del 2006, opportuno assumere l’incarico di ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America e che, in tale veste, non si oppose in alcun modo allo ‘strangolamento’ della banca guidata da Dick Fuld a opera delle maggiori banche a stelle e strisce che le negarono l’accesso ai propri depositi presso di loro e ne determinarono quel fallimento che minacciò seriamente, nel successivo mese di ottobre del 2008, di determinare un default sistemico a livello planetario dei diversi soggetti protagonisti del mercato finanziario, un rischio talmente concreto da indurre i paesi del G20 ad assumere con inedita prontezza e determinazione misure realmente senza precedenti.

Non voglio assolutamente con questo dire che Goldman Sachs sia rimasta l’unica entità a operare nel cosiddetto mercato delle scommesse, ma certamente che non deve più guardarsi le spalle da tre delle quattro concorrenti aventi l’expertise e lo standing per rendere meno certo l’esito delle sue mosse, una circostanza che è ulteriormente rafforzata dal fatto che Morgan Stanley, l’unica delle ex Big Five statunitensi sopravvissuta insieme a Goldman, sembra oramai muoversi esclusivamente sulla scia della sua maggiore concorrente, che, a sua volta, non sembra preoccuparsi troppo dell’operatività delle banche universali a vocazione più o meno globale, troppo occupate a pulire i propri bilanci e troppo timorose delle reazioni dei propri non più docili azionisti per lanciarsi in scommesse più o meno azzardate!

* * *

Se davvero la principale fonte di guadagni dei senior e junior partners di Goldman Sachs proviene dall’attività consistente nello scommettere sugli andamenti futuri di prezzi,indici, tassi e valute, è molto importante capire quanto le stesse abbiano le caratteristiche delle self fulfilling prophecies, cioè delle cosiddette profezie auto realizzantesi, che, a loro volta, sono rese possibili dalla forma che assume il mercato in cui si opera, dalla quantità e dal livello di informazioni di cui si dispone, dall’esperienza e preparazione delle persone direttamente impegnate, dalla qualità e dalla affidabilità del sistema informativo e operativo, nonché, the last but not the least dalle dimensioni e dal comportamento degli altri operatori.

Non è un mistero per nessuno che Goldman possiede, e alla grande, delle quattro condizioni esposte di sopra, così come correlativamente gode di una tale fama da indurre i competitors, che rappresentano la quinta condizione, ad assumere, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento cooperativo e non di contrasto, una fattispecie comportamentale particolarmente visibile nel mercato delle materie prime energetiche, con particolare riferimento a quello dove si determinano i prezzi presenti e futuri del greggio.

Dopo essere stata negata se non addirittura irrisa per decenni dai paesi produttori, dalle compagnie petrolifere e dai maggiori esperti del settore, la tesi che vede una larga prevalenza della componente speculativa nella determinazione del prezzo del petrolio è ora accettata e sostenuta proprio da coloro che così ostinatamente negavano che il prezzo fosse determinato da qualcosa di diverso dalla domanda e dalla offerta di questa importante materia prima, domanda e offerta a loro volta strettamente connesse alle diverse fasi del ciclo economico, anche se sulla base di un tasso di elasticità significativamente ridottosi a causa delle modificazioni strutturali intervenute nelle economie dei paesi maggiormente industrializzati negli oltre tre decenni trascorsi dal primo shock petrolifero.

Ma quanto è avvenuto tra il dicembre del 2007 e il luglio del 2008, quando, in piena tempesta perfetta e mentre il prodotto interno lordo statunitense iniziava a dare sempre più evidenti segnali di frenata, il prezzo del greggio infranse rapidamente tutti i record per poi portarsi al massimo storico di 147 dollari al barile, ha definitivamente chiarito come bastasse che tutti credessero possibile l’obiettivo dei 200 dollari entro la fine di quell’anno sostenuta dagli analisti di Goldman e rafforzata dalle previsioni miste ai desideri del numero uno della russa Gazprom per abbattere come birilli posti in fila i vari livelli un tempo giudicati inviolabili, una nuova corsa all’oro che vide in scia alle banche più o meno globali una massa sterminati di investitori più o meno istituzionali, tra i quali si distinsero anche molti fondi pensione, come il famoso Calpers, con la differenza che Goldman e le sue dirette concorrenti girarono per tempo le proprie posizioni, mentre la maggior parte degli altri investitori restarono intrappolati nella successiva discesa verticale dei prezzi del greggio innescata dalla reazione dei paesi produttori, Arabia Saudita in testa.

Ma quello che è accaduto tra la seconda metà del mese di marzo e la prima metà di quello di giugno dell’anno in corso, è stato davvero ancora più clamoroso, in quanto il quasi raddoppio del prezzo del greggio è intervenuto quando erano già noti i crolli dei PIL nel primo trimestre sia la di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e mentre si assisteva alla bruschissima frenata della crescita di Cina, India e dintorni, ma quel movimento al rialzo del prezzo del greggio era davvero indispensabile perché si potesse realizzare quella altrettanto incredibile corsa dell’orso sui mercati azionari!

* * *

Per avere un’idea vaga dei profitti derivanti dalle scommesse effettuate sui rialzi dei listini azionari verificatisi tra la metà di marzo e la metà di giugno dell’anno in corso, basta dare una scorsa ai grafici delle principali entità creditizie basate negli Stati Uniti d’America, a proposito dei quali mi limito a citare il passaggio dai 97 centesimi ai poco meno di 4 dollari nel caso di Citigroup o la poco meno che sestuplicazione dell’azione di Bank of America dal minimo di 2,50 ai qualcosa di più di 14 dollari, rialzi che traevano forza proprio dal segnale anticipatore della ripresa proveniente dal mercato delle materie prime energetiche, quello stesso segnale che ha fatto straparlare dei cosiddetti germogli verdi.

Comprendo pienamente l’imbarazzo dell’addetto stampa del nuovo inquilino della Casa Bianca di fronte alle domande sui successi di Goldman Sachs rivoltegli nel giorno in cui sono stati pubblicati i risultati del secondo trimestre, così come quello che avrebbe provato Obama se le stesse domanda gli fossero state fatte personalmente, in quanto buona parte di quei successi sono stati ottenuti esattamente con i metodi da lui, nonché dai suoi omologhi di Francia e Germania, fortemente censurati e da lui stesso indicati come una, se non la principale, delle cause che ci hanno condotti dritti, dritti nel meltdown finanziario ed economico attuale.

Il presidente dell’organismo incaricato di vigilare sugli strumenti derivati utilizzati per determinare i prezzi attuali e futuri delle derrate agricole ha appena dati il via a una serie di audizioni per capire se è il caso di estendere quei meccanismi di controllo che inchiodarono lo scomparso Raul Gardini per la sua operatività sulla soia anche ai futures e agli altri strumenti relativi al petrolio e alle altre materie prime energetiche, un ciclo di audizioni che durerà almeno due mesi e al termine del quale forse avremo la possibilità di capire se la nuova amministrazione intende realmente spuntare le unghie alla speculazione, un’eventualità nella quale ripongo ben poche speranze, ma che credo sarà molto legata al livello di pressione proveniente dall’opinione pubblica.

Non vi è dubbio che Goldman disponga di tutte le condizioni che rendono possibile operare con successo nel mercato delle scommesse, condizioni che ho sommariamente indicato nella puntata precedente, in quanto non solo dispone dei migliori specialisti e della migliore strumentazione disponibili, ma è anche dotata di sistemi, procedure e informazioni, tutti elementi sui quali vigilano i due Chief Operating Officer dei quali si è molto opportunamente dotata, ma è altrettanto certo che, oltre a queste condizioni indispensabili, Goldman Sachs dispone di un fattore di successo aggiuntivo che coincide nella rete di relazioni di alto e altissimo livello che le viene universalmente riconosciuto, una rete di relazioni forse unica al mondo e che viene coltivata con la massima attenzione e cura.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno il fatto che un grande numero di persone che si sono formate e sono cresciute professionalmente in Goldman abbiano successivamente ricoperto importanti incarichi sia nel settore pubblico che in quello privato, così come è altrettanto noto che numerosi esponenti di primo piano della politica a stelle e strisce o di quella operante nei cinque continenti siano poi stati arruolati, senza i cento colloqui riservati ai normali candidati all’assunzione, a livelli più o meno elevati della banca, alcuni con contratti prevedenti l’impegno a tempo pieno, mentre ad altri sono stati riservati più o meno dorati contratti di consulenza, un sistema che ha reso quelle di Goldman Sachs delle porte girevoli dalle quali una parte dei potenti del pianeta entra e esce abitualmente e che rende elevatissima la qualità delle informazioni.

* * *

La vasta e fittissima rete di relazioni intessuta negli ultimi decenni da Goldman Sachs nei cinque continenti ha raggiunto negli ultimi tempi dimensioni inedite e tali da consentirle, forse unico caso tra le pur potentissime multinazionali della finanza e dell’industria, una capacità di influenza tale da non rendere del tutto ipotetica o fantasiosa l’idea che sia finita per essere una sorta di luogo di compensazione di interessi tra di loro apparentemente contraddittori, così come si presta a essere un’istituzione molto più efficace e rapida nel suo agire di consessi quali la commissione trilaterale o il gruppo Bildberg che, al confronto, finiscono per assomigliare di più a raduni di ex alunni di scuole prestigiose ed esclusive che a quella sorta di governo planetario cui vorrebbero più o meno dichiaratamente assomigliare.

Per fare qualche piccolo esempio della capacità che la banca statunitense ha di condizionare o, quanto meno, di influenzare le scelte dei governi e delle autorità monetarie in patria e altrove nel mondo, mi soffermerò brevemente sul caso italiano, sulla rete di riferimento di Goldman negli USA nei poco meno di due anni trascorsi dall’avvio della tempesta perfetta e nella davvero emblematica vicenda del salvataggio della AIG, chiarendo sin d’ora che si tratta solo di squarci, a volte casuali, di un velo molto fitto che avvolge l’operatività complessiva della banca.

Per quanto riguarda l’Italia, non è un mistero l’attribuzione di una consulenza prima a Romano Prodi e poi a Gianni Letta, in entrambi i casi quando i due erano liberi da impegni di Governo, mentre ancora più emblematica è la parentesi svolta da Mario Draghi al vertice della presenza di Goldman in Europa e nel comitato esecutivo globale della banca, una parentesi che si è collocata tra la fine del suo impegno decennale come Direttore Generale del ministero del Tesoro con delega sulle privatizzazioni e che si è conclusa con la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia e alla successiva assunzione della guida di quel Financial Stability Forum, poi allargatosi e trasformatosi in Financial Stability Group, cui è stata affidata dal G8 e dal G20 la riscrittura delle regole da applicare alla finanza globale, ma è altrettanto nota la presenza diretta o in via consulenziale di uomini Goldman sia nei governi presieduti da Prodi che in quelli guidati da Berlusconi.

Per dare un’idea della presenza di Goldman nell’amministrazione USA, anche in questo caso senza differenza alcuna tra amministrazioni democratiche e repubblicane, non basterebbe un libro, per cui mi limiterò a citare il caso degli ex ministri del Tesoro Robert Rubin e Hank Paulson (nonché di tre dei quattro vice di quest’ultimo), dell’ex presidente del New York Stock Exchange e poi esecutore testamentario di Merrill Lynch, John Thain, così come non si contano gli ex uomini di vertice di Goldman passati a guidare le principali banche e compagnie di assicurazione statunitensi o alla guida delle presenze statunitensi di banche e compagnie di assicurazioni basate altrove.

Mentre nulla si sa di come trascorra le sue giornate il ‘soldato’ Paulson dopo la fine del suo intensissimo impegno al vertice del dicastero del Tesoro, molto si discute sulla sua decisione di porre al vertice della di fatto nazionalizzata AIG Edward Liddy, un uomo che ha percorso quasi tutti i gradini della scala gerarchica in Goldman Sachs e che da poco si godeva una meritata pensione dopo aver guidato una compagnia di assicurazione e che non ha potuto esimersi dall’accettare la richiesta pressante di Hank in cambio di uno stipendio da un dollaro l’anno, ma che già sta meditando l’uscita dopo aver garantito in poche settimane il rimborso pressoché integrale in favore delle banche statunitensi e straniere, Goldman ovviamente in testa, che hanno ricevuto buona parte dei 180 miliardi di dollari ricevuti da quel TARP fortemente voluto dallo stesso Paulson.

domenica 19 luglio 2009

Ma cosa è davvero Goldman Sachs? (quarta e ultima parte)


La vasta e fittissima rete di relazioni intessuta negli ultimi decenni da Goldman Sachs nei cinque continenti ha raggiunto negli ultimi tempi dimensioni inedite e tali da consentirle, forse unico caso tra le pur potentissime multinazionali della finanza e dell’industria, una capacità di influenza tale da non rendere del tutto ipotetica o fantasiosa l’idea che sia finita per essere una sorta di luogo di compensazione di interessi tra di loro apparentemente contraddittori, così come si presta a essere un’istituzione molto più efficace e rapida nel suo agire di consessi quali la commissione trilaterale o il gruppo Bildberg che, al confronto, finiscono per assomigliare di più a raduni di ex alunni di scuole prestigiose ed esclusive che a quella sorta di governo planetario cui vorrebbero più o meno dichiaratamente assomigliare.

Per fare qualche piccolo esempio della capacità che la banca statunitense ha di condizionare o, quanto meno, di influenzare le scelte dei governi e delle autorità monetarie in patria e altrove nel mondo, mi soffermerò brevemente sul caso italiano, sulla rete di riferimento di Goldman negli USA nei poco meno di due anni trascorsi dall’avvio della tempesta perfetta e nella davvero emblematica vicenda del salvataggio della AIG, chiarendo sin d’ora che si tratta solo di squarci, a volte casuali, di un velo molto fitto che avvolge l’operatività complessiva della banca.

Per quanto riguarda l’Italia, non è un mistero l’attribuzione di una consulenza prima a Romano Prodi e poi a Gianni Letta, in entrambi i casi quando i due erano liberi da impegni di Governo, mentre ancora più emblematica è la parentesi svolta da Mario Draghi al vertice della presenza di Goldman in Europa e nel comitato esecutivo globale della banca, una parentesi che si è collocata tra la fine del suo impegno decennale come Direttore Generale del ministero del Tesoro con delega sulle privatizzazioni e che si è conclusa con la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia e alla successiva assunzione della guida di quel Financial Stability Forum, poi allargatosi e trasformatosi in Financial Stability Group, cui è stata affidata dal G8 e dal G20 la riscrittura delle regole da applicare alla finanza globale, ma è altrettanto nota la presenza diretta o in via consulenziale di uomini Goldman sia nei governi presieduti da Prodi che in quelli guidati da Berlusconi.

Per dare un’idea della presenza di Goldman nell’amministrazione USA, anche in questo caso senza differenza alcuna tra amministrazioni democratiche e repubblicane, non basterebbe un libro, per cui mi limiterò a citare il caso degli ex ministri del Tesoro Robert Rubin e Hank Paulson (nonché di tre dei quattro vice di quest’ultimo), dell’ex presidente del New York Stock Exchange e poi esecutore testamentario di Merrill Lynch, John Thain, così come non si contano gli ex uomini di vertice di Goldman passati a guidare le principali banche e compagnie di assicurazione statunitensi o alla guida delle presenze statunitensi di banche e compagnie di assicurazioni basate altrove.

Mentre nulla si sa di come trascorra le sue giornate il ‘soldato’ Paulson dopo la fine del suo intensissimo impegno al vertice del dicastero del Tesoro, molto si discute sulla sua decisione di porre al vertice della di fatto nazionalizzata AIG Edward Liddy, un uomo che ha percorso quasi tutti i gradini della scala gerarchica in Goldman Sachs e che da poco si godeva una meritata pensione dopo aver guidato una compagnia di assicurazione e che non ha potuto esimersi dall’accettare la richiesta pressante di Hank in cambio di uno stipendio da un dollaro l’anno, ma che già sta meditando l’uscita dopo aver garantito in poche settimane il rimborso pressoché integrale in favore delle banche statunitensi e straniere, Goldman ovviamente in testa, che hanno ricevuto buona parte dei 180 miliardi di dollari ricevuti da quel TARP fortemente voluto dallo stesso Paulson.

sabato 18 luglio 2009

Ma cosa è davvero Goldman Sachs? (terza parte)


Per avere un’idea vaga dei profitti derivanti dalle scommesse effettuate sui rialzi dei listini azionari verificatisi tra la metà di marzo e la metà di giugno dell’anno in corso, basta dare una scorsa ai grafici delle principali entità creditizie basate negli Stati Uniti d’America, a proposito dei quali mi limito a citare il passaggio dai 97 centesimi ai poco meno di 4 dollari nel caso di Citigroup o la poco meno che sestuplicazione dell’azione di Bank of America dal minimo di 2,50 ai qualcosa di più di 14 dollari, rialzi che traevano forza proprio dal segnale anticipatore della ripresa proveniente dal mercato delle materie prime energetiche, quello stesso segnale che ha fatto straparlare dei cosiddetti germogli verdi.

Comprendo pienamente l’imbarazzo dell’addetto stampa del nuovo inquilino della Casa Bianca di fronte alle domande sui successi di Goldman Sachs rivoltegli nel giorno in cui sono stati pubblicati i risultati del secondo trimestre, così come quello che avrebbe provato Obama se le stesse domanda gli fossero state fatte personalmente, in quanto buona parte di quei successi sono stati ottenuti esattamente con i metodi da lui, nonché dai suoi omologhi di Francia e Germania, fortemente censurati e da lui stesso indicati come una, se non la principale, delle cause che ci hanno condotti dritti, dritti nel meltdown finanziario ed economico attuale.

Il presidente dell’organismo incaricato di vigilare sugli strumenti derivati utilizzati per determinare i prezzi attuali e futuri delle derrate agricole ha appena dati il via a una serie di audizioni per capire se è il caso di estendere quei meccanismi di controllo che inchiodarono lo scomparso Raul Gardini per la sua operatività sulla soia anche ai futures e agli altri strumenti relativi al petrolio e alle altre materie prime energetiche, un ciclo di audizioni che durerà almeno due mesi e al termine del quale forse avremo la possibilità di capire se la nuova amministrazione intende realmente spuntare le unghie alla speculazione, un’eventualità nella quale ripongo ben poche speranze, ma che credo sarà molto legata al livello di pressione proveniente dall’opinione pubblica.

Non vi è dubbio che Goldman disponga di tutte le condizioni che rendono possibile operare con successo nel mercato delle scommesse, condizioni che ho sommariamente indicato nella puntata precedente, in quanto non solo dispone dei migliori specialisti e della migliore strumentazione disponibili, ma è anche dotata di sistemi, procedure e informazioni, tutti elementi sui quali vigilano i due Chief Operating Officer dei quali si è molto opportunamente dotata, ma è altrettanto certo che, oltre a queste condizioni indispensabili, Goldman Sachs dispone di un fattore di successo aggiuntivo che coincide nella rete di relazioni di alto e altissimo livello che le viene universalmente riconosciuto, una rete di relazioni forse unica al mondo e che viene coltivata con la massima attenzione e cura.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno il fatto che un grande numero di persone che si sono formate e sono cresciute professionalmente in Goldman abbiano successivamente ricoperto importanti incarichi sia nel settore pubblico che in quello privato, così come è altrettanto noto che numerosi esponenti di primo piano della politica a stelle e strisce o di quella operante nei cinque continenti siano poi stati arruolati, senza i cento colloqui riservati ai normali candidati all’assunzione, a livelli più o meno elevati della banca, alcuni con contratti prevedenti l’impegno a tempo pieno, mentre ad altri sono stati riservati più o meno dorati contratti di consulenza, un sistema che ha reso quelle di Goldman Sachs delle porte girevoli dalle quali una parte dei potenti del pianeta entra e esce abitualmente e che rende elevatissima la qualità delle informazioni.

venerdì 17 luglio 2009

Ma cosa è davvero Goldman Sachs? (seconda parte)


Se davvero la principale fonte di guadagni dei senior e junior partners di Goldman Sachs proviene dall’attività consistente nello scommettere sugli andamenti futuri di prezzi,indici, tassi e valute, è molto importante capire quanto le stesse abbiano le caratteristiche delle self fulfilling prophecies, cioè delle cosiddette profezie auto realizzantesi, che, a loro volta, sono rese possibili dalla forma che assume il mercato in cui si opera, dalla quantità e dal livello di informazioni di cui si dispone, dall’esperienza e preparazione delle persone direttamente impegnate, dalla qualità e dalla affidabilità del sistema informativo e operativo, nonché, the last but not the least dalle dimensioni e dal comportamento degli altri operatori.

Non è un mistero per nessuno che Goldman possiede, e alla grande, delle quattro condizioni esposte di sopra, così come correlativamente gode di una tale fama da indurre i competitors, che rappresentano la quinta condizione, ad assumere, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento cooperativo e non di contrasto, una fattispecie comportamentale particolarmente visibile nel mercato delle materie prime energetiche, con particolare riferimento a quello dove si determinano i prezzi presenti e futuri del greggio.

Dopo essere stata negata se non addirittura irrisa per decenni dai paesi produttori, dalle compagnie petrolifere e dai maggiori esperti del settore, la tesi che vede una larga prevalenza della componente speculativa nella determinazione del prezzo del petrolio è ora accettata e sostenuta proprio da coloro che così ostinatamente negavano che il prezzo fosse determinato da qualcosa di diverso dalla domanda e dalla offerta di questa importante materia prima, domanda e offerta a loro volta strettamente connesse alle diverse fasi del ciclo economico, anche se sulla base di un tasso di elasticità significativamente ridottosi a causa delle modificazioni strutturali intervenute nelle economie dei paesi maggiormente industrializzati negli oltre tre decenni trascorsi dal primo shock petrolifero.

Ma quanto è avvenuto tra il dicembre del 2007 e il luglio del 2008, quando, in piena tempesta perfetta e mentre il prodotto interno lordo statunitense iniziava a dare sempre più evidenti segnali di frenata, il prezzo del greggio infranse rapidamente tutti i record per poi portarsi al massimo storico di 147 dollari al barile, ha definitivamente chiarito come bastasse che tutti credessero possibile l’obiettivo dei 200 dollari entro la fine di quell’anno sostenuta dagli analisti di Goldman e rafforzata dalle previsioni miste ai desideri del numero uno della russa Gazprom per abbattere come birilli posti in fila i vari livelli un tempo giudicati inviolabili, una nuova corsa all’oro che vide in scia alle banche più o meno globali una massa sterminati di investitori più o meno istituzionali, tra i quali si distinsero anche molti fondi pensione, come il famoso Calpers, con la differenza che Goldman e le sue dirette concorrenti girarono per tempo le proprie posizioni, mentre la maggior parte degli altri investitori restarono intrappolati nella successiva discesa verticale dei prezzi del greggio innescata dalla reazione dei paesi produttori, Arabia Saudita in testa.

Ma quello che è accaduto tra la seconda metà del mese di marzo e la prima metà di quello di giugno dell’anno in corso, è stato davvero ancora più clamoroso, in quanto il quasi raddoppio del prezzo del greggio è intervenuto quando erano già noti i crolli dei PIL nel primo trimestre sia la di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e mentre si assisteva alla bruschissima frenata della crescita di Cina, India e dintorni, ma quel movimento al rialzo del prezzo del greggio era davvero indispensabile perché si potesse realizzare quella altrettanto incredibile corsa dell’orso sui mercati azionari!

giovedì 16 luglio 2009

Ma cosa è davvero Goldman Sachs? (prima parte)


Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria ho dedicato ampio spazio all’analisi dei risultati relativi al secondo trimestre della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, così come ho cercato in numerose altre puntate di offrire ai miei lettori qualche informazione su questa entità che è davvero difficile inquadrare sia nel contesto delle oramai ex Investment Banks, sia nell’ampio e variegato panorama creditizio più o meno globale, anche perché, anche dopo la forzata trasformazione in holding bancaria soggetta alla vigilanza della Federal Reserve avvenuta nell’autunno dell’anno scorso, tutto si può dire meno che Goldman abbia cercato di mutare pelle trasformandosi, come qualcuno aveva molto ingenuamente previsto, di diventare un’entità più ‘normale’.

Come ho ripetutamente sottolineato, la maggior parte dei ricavi e degli utili di Goldman provengono dall’attività di posizionamento su quasi tutto quanto viene trattato sui mercati regolamentati, un’operatività che spazia dai prezzi futuri delle materie prime energetiche e non, le derrate alimentari, i tassi di interesse, le valute convertibili, gli indici azionari o le singole azioni, attività che, peraltro, svolge in quasi perfetta solitudine da quando sono scomparse dalla scena Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, la prima e la terza assorbite, rispettivamente, da J.P. Morgan Chase per un classico piatto di lenticchie, e da Bank of America, che, come è stato ampiamente e documentalmente dimostrato nelle aule del Congresso americano, è stata praticamente costretta da Bernspan e Paulson a pagare un prezzo stratosferico per un’entità tecnicamente più che fallita e a cui non è stato neppure consentito di fare nemmeno uno straccio di due diligence.

Per quanto riguarda, invece, la scomparsa dalla scena della banca un tempo appartenente ai fratelli Lehman, il discorso sarebbe troppo lungo per essere affrontato in questa sede e mi vedo costretto a rinviare i lettori alle numerose puntate specificamente dedicate ai retroscena di quel funesto avvenimento dopo il quale nulla più è stato come prima, un avvenimento che non è mai stato spiegato in modo comprensibile e razionale dall’ex (?) investment banker Hank Paulson, numero uno indiscusso di Goldman sino a quando ritenne, a metà del 2006, opportuno assumere l’incarico di ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America e che, in tale veste, non si oppose in alcun modo allo ‘strangolamento’ della banca guidata da Dick Fuld a opera delle maggiori banche a stelle e strisce che le negarono l’accesso ai propri depositi presso di loro e ne determinarono quel fallimento che minacciò seriamente, nel successivo mese di ottobre del 2008, di determinare un default sistemico a livello planetario dei diversi soggetti protagonisti del mercato finanziario, un rischio talmente concreto da indurre i paesi del G20 ad assumere con inedita prontezza e determinazione misure realmente senza precedenti.

Non voglio assolutamente con questo dire che Goldman Sachs sia rimasta l’unica entità a operare nel cosiddetto mercato delle scommesse, ma certamente che non deve più guardarsi le spalle da tre delle quattro concorrenti aventi l’expertise e lo standing per rendere meno certo l’esito delle sue mosse, una circostanza che è ulteriormente rafforzata dal fatto che Morgan Stanley, l’unica delle ex Big Five statunitensi sopravvissuta insieme a Goldman, sembra oramai muoversi esclusivamente sulla scia della sua maggiore concorrente, che, a sua volta, non sembra preoccuparsi troppo dell’operatività delle banche universali a vocazione più o meno globale, troppo occupate a pulire i propri bilanci e troppo timorose delle reazioni dei propri non più docili azionisti per lanciarsi in scommesse più o meno azzardate!

mercoledì 15 luglio 2009

Goldman Sachs fa felici azionisti e partners!


Mentre i francesi festeggiavano ieri il duecentoventesimo anniversario della presa della Bastiglia, l’evento che diede il via alla rivoluzione francese, anche ai piani alti della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs sono state stappate bottiglie di champagne per festeggiare i positivi risultati nel secondo trimestre dell’anno in corso, il secondo rendiconto a cadenza normale rilasciato da quando l’ex banca di investimenti ha accettato di trasformarsi in una holding bancaria posta sotto la diretta vigilanza del sistema della riserva federale, un’innovazione che le ha indubbiamente portato bene visto che entrambi i trimestri si sono chiusi in utile e quello in esame segnala utili superiori del 33 per cento rispetto al trimestre chiuso al 31 maggio del 2008.

Ma ancora più felici sono indubbiamente i partners di Goldman che hanno udito dalla viva voce del Chief Financial Officer, David Viniar, che sono stati accantonati, nei tre mesi chiusi al 30 giugno, 6,65 miliardi di dollari per essere destinati a bonus e gratifiche di vario genere, una cifra che, secondo proiezioni ispirata alla dovuta cautela, porteranno la torta complessiva a una dimensione superiore ai 20 miliardi di dollari previsti in precedenza e faranno sì che, in media, ogni dipendente della banca guadagnerà 900 mila dollari, in luogo dei ‘soli’ 700 mila dollari precedentemente previsti.

Senza scomodare il pollo di Trilussa, è evidente che la distribuzione dei ricchi premi e cotillions sarà alquanto ineguale, basti pensare che, con riferimento all’esercizio 2007, 100 milioni andarono al presidente e amministratore delegato, Larry Blankfein, 70 milioni di dollari cadauno ai due Chief Operating Officer, 56 milioni al sopra menzionato David Viniar e somme appena inferiori ai vari capi dipartimento, anche se va detto che difficilmente qualche dipendente porterà a casa meno di 200 mila dollari cui si aggiungono un ottimo sistema previdenziale e una polizza sanitaria che prevede davvero tutto, compresa la copertura integrale di tutte le spese che il dipendente dovesse sostenere nel caso decida di cambiare il proprio sesso.

Non so proprio cosa penseranno quanti si stanno azzuffando sui sistemi di compensation & benefit utilizzati nelle principali entità protagoniste del mercato finanziario globale, apprendendo che l’utile distribuito agli azionisti nel secondo trimestre sarà di appena 2,7 miliardi di dollari, una cifra certamente ragguardevole ma che è meno della metà di quanto è stato accantonato per gli indispensabili bonus, un raffronto che chiarisce inequivocabilmente quale sia la scala di valori e di priorità vigente in Goldman e dintorni, così come spiega la fretta che ha spinto qualunque banca statunitense ne avesse la possibilità a restituire di corsa i soldi ricevuti dal TARP, una fretta legata al fatto che il nuovo zar degli stipendi nominato da Obama avrà l’ultima parola sui bonus dei primi cento dirigenti di qualsiasi entità abbia ricevuto finanziamenti pubblici!

Come era già accaduto nel corso del primo trimestre, la maggior parte degli utili vengono dalla cosiddetta attività di trading, quell’attività che consiste essenzialmente nel fare scommesse sull’andamento degli indici azionari, delle materie prime, dei tassi di interesse, dei cambi e di qualunque cosa sia valutabile, un attività che ha prodotto nello scorso trimestre tre quarti degli utili di Goldman e che nel secondo ha raddoppiato i ricavi conseguiti l’anno precedente, mentre l’attività bancaria vera e propria ha prodotto il 15 per cento dei ricavi in meno rispetto a quelli realizzati nel primo trimestre, mentre ha gravato sui conti un costo di poco meno di mezzo miliardo di dollari legato alla sopramenzionata decisione di restituire anzitempo al Tesoro i dieci miliardi di dollari ricevuti alla fine del 2008.

martedì 14 luglio 2009

Il giudice Gold si piega ai voleri di Geithner!


Non nutrivo grandi dubbi sulla decisione che il giudice Alan S. Gold, il magistrato del distretto di Miami che si è trovato tra le mani la patata bollente dello spallonaggio organizzato dal colosso creditizio UBS, You & Us in favore di 52 mila suoi clienti americani desiderosi di mettere complessivamente svariati miliardi di dollari al riparo dalle mire del fisco a stelle e strisce, avrebbe preso in relazione alla mozione congiunta dei governi degli Stati Uniti d’America, della Confederazione elvetica e della stessa UBS per posporre l’audizione dei funzionari del fisco alla data del 3 agosto, una richiesta motivata dalla necessità di disporre di più tempo per giungere a una soluzione del contenzioso che minacciava di innescare una serie di espropri a catena sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, mentre la banca elvetica rischiava seriamente di perdere la possibilità di continuare a operare nel mercato statunitense.

Non che il povero Gold (omen nomen) non si sia meritato sul campo la fama di essere uno davvero tosto, una caratteristica personale certamente aiutata dal fatto di avere a disposizione la pistola fumante fornitagli dalla attiva collaborazione di un ex dirigente di UBS in terra americana, un manager che ha dimostrato di avere poco da invidiare ai più noti pentiti della malavita organizzata, ma non è neppure ipotizzabile che decidesse di mettersi di traverso rispetto alla richiesta di dilazione avanzata direttamente dal Governo del suo paese, una pressione per lui certamente più significativa del pressing proveniente da Berna e dintorni, anche perché sa benissimo che, nella migliore delle ipotesi, la banca svizzera è destinata a pagare una multa di non meno di 5 miliardi di dollari, una multa storica in larga misura dovuta al suo operato e che sono certo che il buon Alan sarà molto fiero di raccontare ai suoi nipotini.

Purtroppo, al di là dell’epilogo più o meno sanguinoso per la banca che è attualmente vicepresieduta dallo svizzero-canadese Serge Marchionne, il Chief Executive Officer al contempo della FIAT e della New Chrysler, ma anche il top manager che ha rifiutato di avere un impegno più diretto alla guida di UBS, della quale è comunque membro del comitato esecutivo, oltre che, come dicevo di sopra vice presidente, la vicenda che vede coinvolta la banca svizzera si inserisce, come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria a pieno titolo nella guerra senza quartiere dichiarata dai governi dei maggiori paesi industrializzati nei confronti di quanti, stati, statarelli, banche più o meno globali, rendono facile la sottrazione di immense risorse alla più o meno equa contribuzione alle sempre più vuote casse delle nazioni ove quei redditi vengono realizzati, una guerra nella quale Obama, Brown, Sarkozy e Frau Merkel stanno mostrando una determinazione davvero inconsueta, ma perfettamente comprensibile alla luce del fatto che i loro elettori stanno mostrando da tempo il pollice verso nei confronti dei riciclatori di denaro più o meno sporco motivati da un odio maggiore per i reati commessi dai cosiddetti colletti bianchi che per quelli ascrivibili alla criminalità più o meno organizzata!

E’ bastata che una nota analista esperta del settore bancario esprimesse un parere lusinghiero sulle sorti della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs e una valutazione meno negativa su quelle di Bank of America per interrompere il crollo in corso da due settimane almeno della maggior parte delle azioni delle banche a stelle e strisce, anche se mi è bastato dare una scorsa alle anticipazioni del rapporto per scoprire che si tratta di poco più che un’abile cortina fumogena per distrarre il mercato dalle conseguenze del sempre più probabile fallimento di CIT, l’entità trasformatasi in holding bancaria solo per ricevere 2,3 miliardi di dollari dal TARP e che non si sa ancora se verrà salvata da qualche altra banca in condizioni di salute più floride.

lunedì 13 luglio 2009

Come finirà la guerra tra gli USA e l'UBS!


Con una procedura alquanto inusuale il Governo degli Stati Uniti d’America ha chiesto al giudice che sta indagando sull’evasione fiscale organizzata dal colosso extracomunitario UBS, You & US, una causa che vede un ex dirigente della UBS come attivo collaboratore di giustizia e che ha provocato la richiesta ufficiale da parte del fisco americano di poter ottenere una lista di 52 mila contribuenti infedeli che avrebbero utilizzato i servizi della banca elvetica per sottrarre svariati miliardi di dollari all’imposizione fiscale.

Nel documento, le autorità federali chiedono di posporre al 3 agosto prossimo l’audizione in aula dei rappresentanti del fisco statunitense prevista per oggi, motivando la richiesta con la necessità di disporre di maggiore tempo per raggiungere un’intesa tra i due governi, intesa necessaria visto che entrambi gli Stati hanno minacciato di procedere a procedure di sequestro miliardarie, a danno della UBS negli Usa e di disponibilità delle banche statunitensi operanti in Svizzera da parte del governo di Berna.

Mentre ancora nulla si sa della decisione del giudice di Miami, questo episodio si inserisce nella più ampia azione di contrasto messa in atto dai governi dei maggiori paesi industrializzati nei confronti dello sport più in voga tra i ricchi di tutto il mondo, uno sport largamente favorito non solo dai cosiddetti paradisi fiscali, ma anche da paesi come la Svizzera, l’Austria, Hong Kong, e Singapore, mentre non si contano le nazioni che cercano di attrarre imprese straniere mediante pratiche di vero e proprio dumping fiscale.

In questa azione di contrasto non si va, peraltro molto per il sottile, come è stato ben dimostrato dall’azione dei servizi segreti della Germania che hanno pagato svariati milioni di euro per ottenere da un ex dipendente di una banca del principato del Liechtenstein una lunga lista di clienti stranieri che avevano omesso di segnalare l’esportazione dei rispettivi capitali, un’operazione che ha consentito al fisco tedesco di rientrare in possesso di imposte per miliardi di euro, nonché di spedire in carcere una discreta quantità di evasori, con l’aggiunta di una distribuzione di liste di presunti evasori non tedeschi ai rispettivi governi!

Ma Frau Merkel non si è limitata a benedire l’operato delle sue barbe finte, ma ha anche intrapreso ben poco diplomatiche visite in paesi sospettati di dilettarsi nelle stesse pratiche, quali, a solo titolo di esempio, il principato di Monaco, e sta, d’intesa con Nicolas Sarkozy, esercitando una ferma pressione nei confronti di quei paesi che si trovano ad avere all’interno dei rispettivi territori entità sovrane in odore di essere dei terminali del riciclaggio internazionale del denaro frutto di attività di criminalità economica o di criminalità più o meno organizzata, un pressing che ha iniziato a dare i suoi primi frutti con la decisione britannica di riappropriarsi di due statarelli, con la scoperta a ripetizione di scandali nei dintorni di San Marino, anche se ancora nessuno osa ficcare il naso nelle misteriosissime attività dell’Istituto per le Opere di Religione insediato nel territorio della Città del Vaticano.

Ma Frau Merkel e Messieur Sarkozy, così come tutti i loro colleghi dell’Unione europea, sanno benissimo che la maggior parte delle grandi banche basate nei loro paesi sono presenti in forze nei paradisi fiscali, così come sono perfettamente consapevoli che la maggior parte degli evasori non ha avuto spesso neanche l’incomodo di recarsi di persona nei luoghi, a volte esotici, dove riposa il loro denaro!

domenica 12 luglio 2009

A che punto è la notte!


Avevo riservato qualche considerazione sul passaggio al G8 delle cosiddette regole globali per la finanza nella puntata di oggi, ma ho rinunciato volentieri dopo aver letto l’interessantissimo articolo redatto dal Prof. Alessandro Penati dedicato allo stesso argomento e pubblicato dal quotidiano La Repubblica, considerazioni alquanto amare e veritiere che sottoscrivo integralmente e alle quali rinvio volentieri i miei lettori.

Così come condivido appieno l’opinione di Frau Merkel sull’eccessiva frequenza di vertici internazionali, riunioni a geometria variabile e più o meno pubblici che stanno sottoponendo i leaders politici, i ministri economici e i massimi esponenti delle banche centrali a un surmenage di impegni ai quali raramente fa riscontro la soddisfazione di aver deciso qualcosa di veramente importante, mentre è certamente fortissima la frustrazione di aver trascorso ben tre giorni impegnati nell’ennesima riunione proprio mentre la tempesta perfetta si esibiva in una nuova ondata a poco meno di due anni dal suo avvio il 9 agosto del 2007!

Lasciando volentieri i primi ministri e i capi di Stato alle loro ambasce più o meno compensate dai privilegi derivanti dal loro status, vorrei, invece, concentrarmi sull’analisi dei primi effetti dell’ondata da me prevista ai primi del mese di giugno, anche perché sta rivelandosi molto più lunga del previsto e ancora lontana dall’aver dispiegato tutto il suo potenziale distruttivo, pur avendo mandato in soffitta le speranze di quanti, più o meno in buona fede, ritenevano che la corsa dell’orso sarebbe continuata almeno sino alla fine del mese di giugno e che la stessa sarebbe stata prodromica di una ripresa dell’economia globale sin dai primi mesi dell’autunno prossimo venturo.

Pur non dedicando abitualmente molta attenzione agli indici di borsa nel Diario della crisi finanziaria, penso sia opportuno fare il punto sulla corsa del gambero cui stiamo assistendo oramai da qualche settimana, un arretramento pressoché generalizzato rispetto ai massimi della fase avviatasi dopo il tonfo di marzo e che, seppur tra spinte contrastanti, vede il rappresentativo Standard & Poor’s 500 nuovamente nell’area degli 800 punti, mentre sembra prossimo il test della soglia posta a 8 mila punti da parte del Dow Jones Industrials che, come è noto, ospita parecchi titoli considerati relativamente immuni agli effetti dell’attuale difficile congiuntura e nel quale non sono più presenti, per necessità o per scelta, né l’azione di quella General Motors che venerdì scorso ha partorito per scissione la New GM, né quella della Citigroup da poco orfana del suo presidente e già suo direttore finanziario.

Al di là di qualche spunto evidenziatosi nell’ultima seduta della scorsa ottava, il settore più colpito da questa corsa a ritroso è risultato indubbiamente quello finanziario, afflitto dall’affollamento al di sopra e al di sotto della linea di bilancio di titoli più o meno tossici della finanza strutturata che ancora non si sa se e a quale prezzo verranno rilevati dalle entità miste tra pubblico e privato previste dal piano di Timothy Geithner, un ritardo aggravato dal fatto che, a quanto risulta da un accurato studio reso noto dall’Associated Press, la maggior parte dei nuovi finanziamenti erogati dalle banche statunitensi è destinato a impedire che falliscano aziende originanti attività immobiliari che fanno da collaterale agli stessi titoli ancora presenti nei bilanci delle stesse banche, un raddoppio, per così dire, della scommessa originaria che non promette davvero nulla di buono per il futuro, così come poco di buono promette il vertiginoso calo dei rendimenti dei Treasury Bonds decennali che in poche settimane sono passati da poco meno di 4 punti percentuali di yeald a tre punti e un quarto, una flessione che è l’effetto speculare di una ripresa considerevole dei loro corsi!

sabato 11 luglio 2009

Mentre General Motors risorge dalle sue ceneri, AIG chiede il permesso di pagare altri bonus!


Sono davvero curioso di sapere quale sarà la risposta della nuova autorità nominata da Barack Obama per sovrintendere ai sistemi di compensation & benefit nelle entità finanziarie e non destinatarie degli aiuti pubblici previsti dal TARP alla richiesta preventiva rivolta dai vertici della tecnicamente strafallita compagnia di assicurazione AIG che vorrebbe erogare la settimana prossima quel che resta del programma di bonus per 480 milioni di dollari relativi al 2008, una richiesta che non sarebbe dovuta, ma che risulta più che opportuna alla luce dello sconcerto creato nell’opinione pubblica e ai piani alti della politica a stelle e strisce per la prima tranche da 180 milioni di dollari pagati nello scorso mese di dicembre.

Già, perché Kenneth Feinberg, questo è il nome di quello che la stampa statunitense chiama il nuovo zar incaricato di decidere sui piani di incentivazione, ma anche sulla parte fissa del ‘salario’, dei primi cento manager delle entità in questione, per la maggior parte banche e compagnie di assicurazione, sarebbe competente, in base alle previsioni di legge, solo per quanto dovrebbe essere erogato con riferimento all’anno in corso e agli esercizi futuri, ovviamente fino a quando le entità in questione non avranno restituito alle autorità federali tutto quanto hanno ricevuto sino, come si suol dire, all’ultimo penny, ma quella vecchia volpe di Edward Liddy, il nuovo numero uno di AIG, è persona troppo accorta per mettere nuovamente sé stesso e la compagnia che attualmente gestisce alla prevedibilissima gogna mediatica.

Il problema è rappresentato dal fatto che, non più tardi di qualche giorno fa, l’altrettanto malandato colosso creditizio Citigroup ha decretato che, una volta restituiti i 180 miliardi di dollari ricevuti, per ora, da AIG, il valore della suddetta compagnia dovrebbe essere pari a zero, se non addirittura negativo, un verdetto che spiega in parte perché, dopo aver accorpato venti vecchie azioni in una per evitare di tornare sotto la quotazione di un dollaro, il titolo non ha fatto che scendere a rotta di collo, portandosi all’equivalente di 45 centesimi, che è quanto si ottiene dividendo i 9 dollari e rotti della azione pesante per venti!

Come ricordavo nei giorni scorsi, una delle motivazioni alla base della fretta con la quale Goldman Sachs, J.P. Morgan-Chase, Morgan Stanley e altre banche hanno ripagato il Tesoro USA, o promesso di farlo entro l’anno, è legata proprio alla insopprimibile desiderio di riprendere allegramente nella distribuzione dei bonus, già previsti in 20 miliardi di dollari nel caso di Goldman e in 14 miliardi per Morgan Stanley, mentre un fitto velo di nebbia circonda l’entità della torta che si spartiranno Jamie Dimon e i suoi colleghi operanti nella banca dei nipotini di John Pierpoint Morgan e di Duke Rockefeller, un ritorno al passato che suscita grande invidia nei loro colleghi di Citi e Bank of America che non sanno proprio quando riusciranno a restituire quei poco meno di 100 miliardi di dollari ricevuti a più riprese dal TARP.

Nel frattempo, pare proprio che anche la new General Motors stia per emergere, come ha già fatto a suo tempo la Chrysler in salsa FIAT, dal purgatorio della legge fallimentare statunitense e poco importa se sarà un’azienda molto più piccola del colosso che era dopo aver vinto la prima crisi dovuta alla concorrenza strenua delle marche straniere, in particolare di quelle giapponesi, così come è da rilevare con piacere che la nuova General Motors promette di considerare la sfida ecologica non più un rischio quanto un’opportunità, giurando, peraltro, che si tratta di una scelta convinte e strategica e non di un escamotage per captare la benevolenza della nuova amministrazione che punta tanto sulla Green Economy!

venerdì 10 luglio 2009

Anche per il leone di Omaha, Warren Buffett, adesso serve un altro piano!


Dopo i leaders degli otto maggiori paesi industrializzati, riuniti in quel dell’Aquila in un alquanto surreale riunione del G8 che ieri si è allargata a G14, anche il Leone di Omaha, Warren Buffett, si dice convinto che servirà proprio un secondo stimolo alla molto malmessa economia a stelle e strisce (in realtà, si tratterebbe del quarto, includendo, come è doveroso, le due maxi elargizioni disposte a suo tempo da George W. Bush), una convinzione che sta diventando piuttosto generalizzata sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, senza che nessuno senta però il bisogno di spiegare perché sia necessario procedere a nuovi e presumibilmente massicci interventi pubblici mentre non sono ancora stati utilizzati i 787 miliardi di dollari stanziati nell’ottobre dell’anno scorso a valere sul 2009 e il 2010.

Non voglio infierire, ma non posso esimermi dall’aggiungere che essendo, almeno secondo la maggior parte dei proponenti la nuova pioggia di aiuti pubblici, il peggio della tempesta perfetta oramai alle spalle, i governi e le banche centrali, in particolare quel sistema della riserva federale che ha fatto in questi ventitré mesi di tutto e di più, non si siedano tranquillamente sulla riva del fiume a vedere i risultati dei loro sforzi assolutamente senza precedenti e che, tra somme impiegate e impegni, superano largamente i 20 mila miliardi di dollari!

Mi stupisce che, dopo le legnate prese in questi poco meno di due anni, i decision makers del pianeta non abbiano ancora capito che non vi è nulla di peggio che fare discorsi del genere, non fosse altro che per il semplicissimo motivo che gli stessi inducono gli operatori e gli investitori, soprattutto quelli più anziani e per questo un po’ più esperti, a pensare che vi sia sotto qualcosa che è noto ai vertici politici ed economici, ma che non può essere divulgato attraverso i normali mezzi di comunicazione perché innescherebbe ondate di panic selling.

Spero almeno che Buffett abbia approfittato degli ultimi scampoli della corsa dell’orso per esercitare le opzioni per 5 miliardi di dollari che gli consentivano di acquisire azioni della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs al prezzo di 115 dollari per azione, conseguendo, almeno ai corsi toccati una settimana fa, un guadagno del 30 e rotti per cento, realizzati, per di più, nell’arco di soli nove mesi e che sarebbe musica per le orecchie di quei tanti piccoli investitori che continuano a credere nelle sue virtù taumaturgiche, ma che sono reduci da un anno che non è stato dei più felici per il valore delle loro quote nella Berkshire.

Come scrivevo nella puntata di ieri del Diario della crisi finanziaria, il prezzo del petrolio non ha perso molto tempo a sfondare l’importantissima soglia psicologica dei 60 dollari al barile e si è portato poco al di sopra dei 59 dollari, in calo di poco meno del 20 per cento nel giro di poco più di una settimana, una brusca inversione di tendenza in quello che forse resta il mercato più speculativo del mondo e che potrebbe, proprio per il prevalere delle posizioni finanziarie rispetto a quelle industriali, innescare un vero e proprio si salvi chi può, come del resto è accaduto nell’estate del 2008 poco dopo che era stato toccato il massimo storico a 147 dollari al barile.

Il licenziamento del Chief Financial Officer di Citigroup e presidente di Citi Holdings, Gary Crittenden, potrebbe precedere di poco l’uscita più annunciata dell’anno, quella del Chief Executive Officer, Vikram Pandit, un banchiere che aveva acceso molte speranze quando prese il posto del povero Chuck Price III, ma che da mesi era definito dai bene informati sulle intenzioni del Tesoro e della Casa Bianca un ‘dead man walking’!

giovedì 9 luglio 2009

Il G8 seppellisce la corsa dell'orso!


A meno di ventiquattro ore dalla loro diffusione attraverso autorevoli media statunitensi, le voci di un possibile secondo piano di stimolo dell’economia a stelle e strisce hanno trovato ieri conferma in quel di Coppito, nei pressi de L’Aquila, la città abruzzese colpita il 6 aprile da un forte sisma nella quale si stanno svolgendo i lavori dei capi di Stato e di governo degli otto paesi più importanti del pianeta che sembrerebbero proprio convergere, come riportato da un apposito documento, sulla necessità di fornire nuovi stimoli all’economia, anche alla luce delle nuove stime degli economisti del Fondo Monetario Internazionale che rinviano le speranze di ripresa a non prima della seconda metà del 2010.

Come era accaduto martedì, anche ieri gli operatori asiatici, europei e statunitensi hanno reagito a queste secchiate di acqua gelida sulle residue speranze di una ripresa già nella fase terminale dell’anno in corso precipitandosi a capitalizzare i guadagni conseguiti in quella corsa dell’orso oramai definitivamente tramontata, anche se si tratta di capital gains molto più modesti di quelli che sarebbero stati possibili prima dell’inversione di tendenza verificatasi a cavallo della metà del mese di giugno, un’inversione prevista nelle tre puntate del Diario della crisi finanziaria intitolate “Avviso ai naviganti nella tempesta perfetta!” e apparse da venerdì 4 a sabato 6 giugno e raccolte per poter essere stampate domenica 7 giugno, nelle quali indicavo le cause che rendevano possibile una nuova ondata della tempesta perfetta, ondata che collocavo temporalmente nelle quattro settimane comprese tra la metà di giugno e quella del mese successivo.

Come risulterà chiaro a quanti decidessero di tornare a quelle puntate, non ho dovuto fare appello a capacità profetiche per prevedere la nuova ondata, in quanto gli elementi da me disposti in fila erano sotto gli occhi di chiunque avesse occhi prevedere e orecchie per intendere, così come considero poco più di una coincidenza il fatto di avere indicato l’inversione di tendenza proprio in quel 15 giugno che si è rivelato poi essere proprio il punto di svolta di quella corsa dell’orso basata sul nulla, né più né meno di quanto si è verificato solo un po’ più tardi per l’altrettanto incredibile corsa al rialzo delle quotazioni del greggio, rialzo, ma lo si è scoperto solo di recente in occasione delle nuove stime dell’organismo internazionale che si occupa dell’energia, più o meno coevo a un cedimento della domanda giornaliera di greggio rispetto ai picchi del 2008 stimabile in poco meno di sette milioni di barili al giorno!

Non vi è nulla di più temibile delle speranze frustrate degli investitori e poco importa se le stesse erano state alimentate alquanto ad arte da economisti ed esperti embedded ai desiderata di Wall Street e dintorni, un timore che va diffondendosi tra gli esperti più attenti alla loro reputazione e che ora si spingono a prevedere anche la possibilità di toccare minimi addirittura inferiori rispetto agli infimi livelli toccati nel mese di marzo, quando, solo per citare qualche esempio, l’azione di Citigroup si spinse sino al di sotto della soglia di un dollaro e quella di Bank of America navigò per un po’ nell’area dei due dollari, mentre Chrysler e General Motors non avevano ancora conosciuto l’onta del fallimento più o meno pilotato e i rispettivi bondholders non avevano ancora subito la tosatura cui sono stati successivamente sottoposti.

Apprendo dalla lettura di un articolo di Federico Rampini apparso su La Repubblica di ieri, che Goldman Sachs prevede di distribuire 20 miliardi di dollari di bonus ai propri dipendenti, mentre quelli di Morgan Stanley dovranno ‘accontentarsi’ di soli 14 miliardi, ma, come recita un vecchio adagio, suggerirei agli interessati di non dir quattro se non lo hanno proprio nel sacco!

Tremonti porge un ramoscello d'ulivo alle banche italiane e propone loro un 'nuovo inizio'!


Evidentemente rinfrancato dopo le fatiche collegate alla stesura del suo ‘libro dei sogni’, ieri il per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, ha svolto un breve ma intenso intervento all’assemblea annuale dell’Associazione Bancaria Italiana, un intervento che ha preso le mosse da una sua interpretazione del termine ebraico shabbat e si è concluso con le parole di Franklin Delano Roosevelt nel pieno della Grande Depressione che afflisse per poco meno di un quindicennio gli Stati Uniti d’America, ma, e forse soprattutto, un intervento nel quale Tremonti ha offerto un ramoscello d’ulivo a quegli stessi banchieri italiani che non aveva mancato di fustigare in tutte e tre le sue esperienze al dicastero di Via XX Settembre, ma mai con la virulenza mostrata in questi ultimi mesi.

Ma cosa ha detto di così nuovo Tremonti? Sempre citando la Bibbia, ha invitato le banche a quello che ha definito un “nuovo inizio” nel sempre difficile rapporto esistente tra creditori e debitori, un rapporto che, peraltro, si complica e non poco quando una crisi finanziaria di inedite proporzioni e i suoi micidiali effetti sull’economia reale, inducono i primi a dubitare della lealtà e delle intenzioni dei secondi, uno stato delle cose che il ministro dell’Economia conosce benissimo e che gli viene rammentato pressoché quotidianamente da quegli osservatori regionali costituiti nelle prefetture che a loro volta raccolgono i cori delle lamentazioni degli imprenditori ubicati nelle varie province che compongono la regione.

Nello stesso giorno nel quale gli esperti del Fondo Monetario Internazionale rendono note le loro nuove previsioni sull’andamento del prodotto interno lordo italiano, visto in ribasso del 5,1 per cento in luogo della stima di aprile che prevedeva un calo del ‘solo’ 4,4 per cento, Tremonti ha deciso di rinfoderare almeno per un giorno la sciabola e di offrire ai banchieri e alla loro associazione di categoria un patto a tre, Governo-banche-imprese, che dovrebbe venire condito, ma solo a verifiche puntigliosamente effettuate, in importanti concessioni sul piano dell’alleggerimento del carico fiscale attualmente applicato alle banche e nell’impegno a premere nelle sedi internazionali per una modifica di alcune previsioni contenute nell’attuale dispositivo dello IAS 39 e di alcuni aspetti di Basilea II in linea con i desiderata più volte formulati sia dai singoli banchieri che dall’ABI, il tutto accompagnato da ulteriori aiuti pubblici volti a una più adeguata capitalizzazione delle banche stesse, aiuti che, almeno stavolta, non dovrebbero contenere quelle clausole che sono risultate così indigeste ai potenziali beneficiari in occasione della prima versione dei cosiddetti Tremonti Bonds.

In cambio, Tremonti chiede alle banche di effettuare, seppure in modo selettivo, una moratoria delle scadenze più prossime che stanno impedendo, alla luce dell’eccezionalità della situazione, anche alle aziende sane sotto il profilo industriale di mantenere puntualmente i propri impegni con banche e fornitori, una situazione che, non gestita al meglio, potrebbe anche portare a una serie di fallimenti a catena dagli esiti imprevedibili sulle ancora molto gracili prospettive di una ripresa prossima ventura, una sciagurata eventualità che finirebbe comunque per scaricarsi sui conti delle banche e innescherebbe uno schema di gioco non cooperativo tra le stesse che finirebbe inevitabilmente per peggiorare ulteriormente la già difficile situazione.

L’altra novità emersa ieri è stata la complementarietà dell’intervento del Governatore della Banca d’Italia rispetto a quello pronunciato da Tremonti, indizio, seppur labile, di una preventiva concertazione tra i due, come già avvenuto di recente in sede internazionale.