lunedì 31 marzo 2008

Who's the next?


Una veloce scorsa ai credit default swaps, un indicatore molto efficace di come il mercato vede la solidità e le prospettive di una entità, che si tratti di una investment bank, di una banca ordinaria (ma ne esistono ancora?), di una compagnia di assicurazione, di un’entità pubblica o di un’impresa industriale, consente di scoprire che, forse, i rumors e le voci che vedono Lehman Brothers o Merrill Lynch fare a breve la fine dell’orso di Stearns sono tutt’altro che campate in aria, in quanto i livelli, rispettivamente, di 271 e di 280 sono giustificabili, per entità così rilevanti, sono quando si è alla frutta e, cioè, un attimo solo prima di portare i libri in tribunale, cosa, peraltro, almeno negli States, in grado di fornire quello stesso grado di protezione di cui stanno godendo le circa ottanta entità operanti nel mortgage che hanno fatto ricorso alla legge fallimentare statunitense da agosto ad oggi.

Per non lasciare troppo sole le due investment bank, è utile ricordare che, sempre in base ai CDS, non se la passano affatto bene neanche Morgan Stanley (188), Citigroup (168,8) e Goldman Sachs (146), mentre è molto istruttivo scoprire, nella tabella pubblicata a pagina 9 dell’inserto economico del corriere della Sera di oggi, che, prima di andare a zampe all’aria, il credit default swap di Bear Stearns era “solo” a 179, mentre è schizzato a 760 solo poche ore prima del salvataggio operato dalla Federal Reserve attraverso il suo nuovo braccio operativo rappresentato dalla investment bank che raccoglie l’eredità dei nipotini del mitico J.P. Morgan e del fondatore della casata dei Rockfeller, un uomo che per decenni è stato incontrastato faro degli atlantici di tutto il mondo occidentale.

D’altra parte, questo rozzo indicatore non fa altro che misurare la temperatura della febbre dei mercati, costituendo, al contempo, una derivata prima di quel tremendo sentimento che è la paura e di quella altra brutta bestia rappresentata dall’ignoranza, due bestie immancabili in ogni crisi finanziaria degna di questo nome, ma che diventano perfide e pessime consigliere quando, come è attualmente il caso, siamo tutti esposti agli alti marosi della tempesta perfetta innescata dai comportamenti dei decision makers delle investment banks e delle altrettanto letali divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, ovunque queste ultime siano basate.

Così come non è un caso che la temperatura stia ulteriormente salendo anche in Europa, ed è solo di magra consolazione che a farne le spese siano l’extracomunitaria UBS (137, ma protetta da un ratio di capitalizzazione, il Tier 1, pari ancora ad un solido 9) ed un’entità appartenente ad una nazione, la Gran Bretagna, che si tiene pervicacemente ed ostinatamente al di fuori dell’area forse salvifica dell’euro, quale è la Royal Bank of Scotland (127, ma con un Tier 1 a livelli talmente modesti da fare un po’ paura quale è l’attuale 3,3), due banche che si candidano a pieno titolo al gioco che sta impazzando all’ombra del wall ed un po’ ovunque nel mondo e che consiste nello scoprire quale sarà la prossima vittima in ordine di tempo della tempesta perfetta.

Nel frattempo, l’ottimo Mario Draghi, dopo un conclave a porte chiuse che ha visto rinchiusi per oltre 48 ore, non si sa se con o senza pause, i suoi titolati colleghi del Financial Stability Forum, organismo che il giovane Governatore della Banca d’Italia autorevolmente presiede da tempo, ha finalmente benedetto il rapporto finale sulle cause dell’attuale crisi finanziaria, ma, soprattutto sulle ricette per uscirne, rapporto che, come a suo tempo promesso, verrà consegnato al prossimo vertice del G7 vhe si terrà a metà di questo mese, in significativa contemporanea con le assemblee annuali di quel Fondo Monetario Internazionale e di quella Banca Mondiale, la cui costituzione fu decisa già nel corso dei lavori della Conferenza di Bretton Woods, ed i cui vertici e strapagati esperti hanno oramai gettato alle ortiche la tonaca penitenziale ed indefessamente monetarista indossata quando le crisi riguardavano il Sud del mondo, per vestire i più comodi panni di salvatori dei responsabili del moral hazard a spese, si intende, dei poveri contribuenti situati all over the world.

Dell’importante rapporto di Draghi e Company non è dato, ovviamente, di sapere nulla che non siano le informazioni fatte filtrare ad arte dalla stampa maggiormente fidata, ad opera dei giornalisti più embedded disponibili su di un mercato sul quale, come usava dire Luigi XIV, non tramonta davvero mai il Sole, anche perché molte delle misure proposte sono già, o lo saranno a breve, in corso di attuazione, nella speranza di restituire una sorta di credibilità alle istituzioni che dovrebbero vigilare sul corretto funzionamento del mercato finanziario locale o globale e nei confronti dei quali assistiamo ormai da tempo alla più grave lack of confidence mai registrata dalla crisi del 1929.

Ma l’obiettivo vero di Mario Draghi, così come quello di Jean Claude Trichet, di Henry Paulson, dello screditato King della BoE, dell’ancora da reperire Governatore della Bank of Japan e dei loro colleghi di tutto il pianeta è, in realtà, quello di convincere i terrorizzati gestori dei fondi pensione, dei fondi di investimento e gli altri investitori istituzionali a smetterla con il loro prolungato ed alquanto compatto sciopero degli investimenti, sperando che, con regole certamente più severe ed efficaci della gruviera di norme e regolamenti attualmente vigenti, siano disponibili, e con loro l’essenziale parco buoi, a sottoscrivere almeno una parte della montagna di carta precedentemente prodotta proprio dai responsabili dell’azzardo morale.

Il problema sta tutto qua, in quanto risulta difficile credere che esistano in circolazione gonzi e sprovveduti che non richiedano, quanto meno, che, in luogo della cartaccia esistente, vengano offerti titoli emessi da entità realmente a prova di bomba e che gli stessi offrano condizioni e garanzie tale da far dimenticare le troppe “sole” ricevute in passato, il che, almeno allo stato, sembra difficile possa avvenire.

Resto in trepida attesa di quel primo pacchetto di misure e di riforme che, dopo il diluvio di anticipazioni pilotate apparse su tutti i media nello scorso week end, dovrebbe essere solennemente annunciato dal solito Henry Paulson, l’uomo che veramente visse due volte, la prima come indiscusso, strapagato e longevo boss di Goldman Sachs e la seconda al vertice del più importante dicastero del più importante governo di quella che è, e almeno per un po’, resterà la più grande nazione del mondo, sia in termini militari, che politici ed economici.
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AVVISO AI LETTORI
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Ricordo che il video che riporta integralmente il mio intervento al convegno sulla crisi finanziari ed i suoi effetti sociali è liberamente disponibile sul sito di Free Lance International Press http://www.flipnew.org/ nella sezione video, alla voce videoinformazione.

domenica 30 marzo 2008

Alla fine le perdite delle banche, delle investment banks e delle CIB verranno completamente addossate ai contribuenti


Non c’è da stupirsi se l’ottima Associated Press, graziosamente ricevuto in anteprima, come dicevo ieri, il dettagliato ed ambizioso progetto di ben 22 pagine (e si tratta solo dell’Executive Summary) con il quale il ministro del Tesoro statunitense, Henry Paulson, con il pieno consenso del presidente Bush e un provvisorio via libera dei maggiori esponenti del partito democratico, pensa di colmare i vuoti legislativi, regolatori e di vigilanza sui diversi soggetti che operano nei mercati finanziari, stia procedendo progressivamente a svelare i dettagli del piano stesso, forse anche per non guastare la festa al potente ministro, ormai vecchia conoscenza dei miei pochi lettori, che annuncerà pubblicamente il frutto delle sue fatiche in un, a questo punto attesissimo, discorso che terrà, in orario e luogo per ora ignoti, nella giornata di lunedì.

La pubblicazione a rate è stata guastata dalle anticipazioni che altri protagonisti dell’informazione economica, evidentemente a loro volta destinatari di più o meno dettagliate anticipazioni provenienti dall’entourage dell’ex potente banchiere di affari e di investimento, hanno messo in rete ed in stampa non appena hanno capito che l’AP non rispettava il gentlemen agreement che normalmente impedisce ai destinatari di questi “regali” da parte del potente di turno di rendere noto in anticipo quanto lo stesso potente annuncerà successivamente e spesso in pompa magna.

Lasciando da parte le tecnicalità del mondo dell’informazione, economica e non, credo sia utile comprendere meglio le linee guida del progetto di radicale riforma dei poteri regolatori e di vigilanza attribuiti, nelle intenzioni di Paulson e di Bush, alle diverse entità chiamate ad assicura il corretto funzionamento del mercato finanziario statunitense che, come non mi stanco di ripetere, era, è e continuerà per lungo tempo ad essere la colonna portante dell’immenso mercato finanziario globale, entrambi attualmente alquanto sommersi dagli alti marosi della tempesta perfetta in corso.

Per chi ha qualche nozione delle tecniche del Planning Programming and Budgeting System (PPBS) o dello Zero Base Budgeting (ZBB), non risulterà strana la struttura modulare del progetto, che, partendo da una soluzione dall’impatto non rilevante e passando attraverso un progetto intermedio, giunge infine a delineare la riforma desiderata dai suoi estensori in tutte le sue caratteristiche ed il suo splendore.

Quindi, comune a tutte e tre le formulazioni, è l’affermazione della maggiore centralità della Federal Reserve del fidato Bernspan, che non si limiterà ad estendere alle investment banks ed alle case di brokeraggio le stesse previsioni in materia di vigilanza e di requisiti patrimoniali annessi previsti per le banche commerciali, ma avrà il potere di agire preventivamente contro tutti quei protagonisti della vita economica statunitense il cui operato possa rappresentare una seria minaccia per il corretto svolgimento o, addirittura, per la sopravvivenza dello stesso mercato finanziario statunitense.

Si tratta, forse è meglio dire si tratterebbe, di una svolta epocale e del, seppur tardivo, riconoscimento ufficiale del fatto che l’attività finanziaria dei maggiori conglomerati industriali statunitensi è da lungo tempo diventata di proporzioni mostruose, giungendo in non pochi né marginali casi, a sovrastare, in termini di contribuzione al risultato netto complessivo del conglomerato industriale stesso, le performance del core business iniziale, un contributo largamente favorito da quella sempre più diffusa esternalizzazione del rischio finanziario inizialmente assunto che solo il Governo statunitense, la Fed, la Sec e chi più ne ha ne metta si ostinavano a non vedere.

Al di là della formulazione che il progetto di Paulson avrà dopo aver passato il severo scrutinio del Congresso statunitense e l’attività hobbistica, negli Stati Uniti lecita e quasi trasparente, quello che è certo è che lo svelamento dei nessi quasi inestricabili esistenti tra le attività finanziarie e quelle industriali, via finanziamento spinto dei consumi di beni durevoli e non durevoli, è ormai giunto prepotentemente sul tavolo, così come è probabile che, alla luce del rischio sempre più concreto di giungere al meltdown del mercato, le stesse opposizioni saranno mitigate da quella voglia prepotente di pubblicizzazione delle perdite che appare ormai inarrestabile.

Pur essendo meno rilevante, la stessa abolizione dell’entità federale incaricata di vigilare sulle casse di risparmio (che da sole richiesero un financial bailout per 400 miliardi di dollari tra il 1990 ed il 1991, quando Bush era la vertice di una di queste entità basata nel natio Texas) e delle banche aventi natura mutualistica che verrebbero d’ora in avanti affidate alle poco amorevoli cure dell’Office of the Comptroller of Currency non rappresenta un passaggio di poco momento, un passaggio che sarebbe ancora più significativo se passasse la linea dura proposta dal partito democratico che le vorrebbe ricondurre direttamente sotto la vigilanza della Fed.

Così come non sarebbe di scarsa rilevanza la fusione proposta nel progetto della organismo che si occupa delle entità che operano nell’immenso mercato dei derivati sulle commodities (quella Commodity Futures Trading Commission che tanti dolori provocò al povero Raul Gardini quando tentò il celeberrimo colpo sulla soia), una entità destinata a scomparire nel più ampio corpo della Securities and Exchange Commission, che già regola e vigila i mercati azionari, sia in versione di scambi fisici che via derivati.

Non paghi di avere messo, e tutto di un colpo, tanta carne al fuoco che sembra di trovarsi nel ranch dei Bush a Crawford (Texas), il duo Bush-Paulson (l’ordine, per carità, è solo alfabetico), sempre più evidentemente stufi della scarsa reattività dei mercati finanziari alle tante misure annunciate in questi lunghi mesi di tempesta perfetta da entità che sembrano conoscere solo l’antico gioco denominato “to beggar my neighbour”, avrebbe deciso anche di creare un organismo federale incaricato di vigilare e regolare le attività dell’importantissimo comparto assicurativo, attualmente sotto la tutela di uffici dipendenti dalle autorità dei singoli stati federali.

Non paghi di tante fatiche, i nostri eroi vorrebbero anche che venisse istituita una Mortgage Origination Commission che avrebbe la mission di evitare, per il futuro si intende, gli abusi segnalati in questi mesi e sui quali stanno attivamente indagando singoli magistrati ed uno squadrone di uomini e donne del Federal Bureau of Investigations che sembra trarre molto giovamento dalle tecniche affinate nella lotta alla mafia ed al terrorismo internazionale.

sabato 29 marzo 2008

Bush e Paulson chiudono la stalla della finanza quando i buoi sono ormai scappati


Ricevuto in anticipo un dettagliato progetto di 22 pagine, l’ottima Associated Press ha diffuso ieri in tarda serata la notizia che Il ministro del Tesoro Henry Paulson, con il pieno consenso del presidente Bush e un provvisorio via libera dei maggiori esponenti del partito democratico, avrebbe deciso di spingere a fondo l’acceleratore su una profonda revisione del sistema regolatorio e di vigilanza sui diversi soggetti che operano nei mercati finanziari, progetto che lo stesso Paulson, ormai vecchia conoscenza dei miei pochi lettori, annuncerà pubblicamente in un discorso che terrà nella giornata di lunedì.

A seguito delle anticipazioni della AP, che si è limitata a rendere nota l’intenzione dell’amministrazione USA di affermare la centralità della Federal Reserve nella vigilanza dei soggetti bancari, che siano banche commerciali, banche di investimento o soggetti finanziari operanti nel settore del mortgage, nonché l’intenzione di affidare all’Office of Comptroller of Currency, che si occupa delle banche, anche i compiti attualmente svolti dal Office of Thrift Supervision e quindi avrà poteri anche sulle casse di risparmio e sulle banche cooperative, si è scatenata, da parte delle altre agenzie e dei giornali statunitensi, la caccia agli altri importanti particolari contenuti nel documento di Paulson, con particolare riferimento a presunti poteri attribuiti alla Fed in relazione anche a soggetti non bancari.

Evidentemente stufi della scarsa reattività dei mercati finanziari alle tante misure annunciate, alcune, per fortuna, rapidamente abortite, dalla strana coppia rappresentata da un ex importante banchiere d’investimento e di affari, quale certamente Paulson è, ed un presidente pro tempore degli Stati Uniti d’America che le Thrift Institutions le conosce bene, in quanto fu coinvolto nei fallimenti a catena delle Saving and Loans banks negli anni Novanta, che richiese un mega financial bailout che costò 400 miliardi di dollari alla collettività, lo stesso duo ha deciso di rimettere mano ad un sistema regolatorio che, affidato ad una molteplicità di soggetti poco coordinati tra di loro, fa evidentemente acqua da tutte le parti, giungendo all’assurdo che le Big Four, la quinta è ormai defunta, possono chiedere ingenti fondi alla Fed in cambio della spazzatura rappresentata dai titoli della finanza strutturata dalle stesse generati, senza dover sottostare alle stesse maggiormente stringenti regole cui sono da sempre sottoposte le banche commerciali.

Trovo molto saggia l’opinione dell’importante esponente del partito democratico che, pur dando il citato e provvisorio via libera, sostiene la necessità di giungere all’individuazione di un solo soggetto, con ogni probabilità individuato nella Fed, cui attribuire tutti i compiti di vigilanza e regolazione della pletora di soggetti operanti nel mare magnum del mercato finanziario statunitense, vera colonna portante di quello che usiamo chiamare mercato finanziario globale, così come sono certo che tale saggia opinione non verrà mai presa seriamente in considerazione dalla strana coppia Bush-Paulson, né da quegli esponenti del complesso economico e finanziario che sono, in realtà, i veri sostenitori dei due ed i veri detentori della stanza dei bottoni dell’ex maggioranza repubblica, che però ancora dispone del fondamentale diritto di veto nei confronti delle leggi scomode partorite dalla maggioranza parlamentare attualmente detenuta dagli esponenti del partito dell’asinello democratico, che tutti i pronostici vedono come vincitore dell’aspra campagna per le presidenziali e saldamente in testa nelle previsioni per il rinnovo del Congresso e di parte del Senato.

Il problema, tuttavia, è che anche queste, pur necessarie se non indispensabili modifiche al sistema regolatorio e di vigilanza tardivamente proposte da Paulson e benedette da un sempre più spaventato Bush, giungono quando la frittata è ormai ampiamente fatta e si è con ogni probabilità anche molto raffreddata, o, per usare un’altra efficace metafora, i nostri due cow boys chiudono le porte della stalla quando ormai i buoi sono ampiamente scappati e sono ormai lontani.

La minaccia che il più potente ministro del Tesoro della più potente nazione del mondo ha rivolto ai suoi ex colleghi (ma non si diceva che una volta abate, sempre abate) e cioè quella del loro doveroso assoggettamento alle stesse più rigide regole da sempre subite dalle rivali banche commerciali, non risolve, infatti, quel dilemma che da oltre sette mesi ripeto come fosse un mantra salvifico: chi sarà in grado di farsi carico di quella cartaccia che nessuno ormai vuole più e che vale, secondo una stima prudenziale se non minimale e, ovviamente, a valore facciale, tra i 25 ed i 30 mila miliardi di dollari?

Non vi è ispezione dei solitamente distratti ispettori di bernspan o di quelli,a loro volta non proprio dei fulmini di guerra, della Securities and Exchange Commission che possa far tornare l’acqua ormai sparsa su tutto il pavimento e farla tornare nelle condutture, peraltro molto intasate, dalle quali è uscita, non vi è regolamentazione ferrea di quello che gli apprendistati stregoni delle fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle CIB possono fare o non fare che possa far tornare la fiducia e l’appetito in e per quei titoli che troppe volte hanno scottato le dita dei gestori di fondi pensione, di fondi investimento, per non parlare di quelle molto sensibili appartenenti ai comuni mortali, proprio di quelli che hanno il tremendo vizio, una volta scottatisi le dita con l’acqua bollente, di ostinarsi ad avere poi paura anche dell’acqua tiepida, se non di quella fredda.

Nel corso del recente convegno sulla crisi finanziaria ed i suoi effetti sociali cui ho partecipato, ho avuto modo di assistere ad uno scontro al calor bianco tra un noto economista, il professor Paolo Leon, ed una sua collega che è, a torto o a ragione, è considerata la madre di tutte le recenti riforme delle pensioni, la professoressa Elsa Fornero, uno scontro scatenato dall’evidente avversione della professoressa per la richiesta di certezze che le lavoratrici ed i lavoratori in relazione ai trattamenti pensionistici per loro previsti, voglia di certezza che la nostra ritiene un elemento di rigidità, scatenando una vivace reazione del battagliero Leon che si è visto costretto a difendere il modello italiano (TFR, metodo di calcolo certo della pensione e via discorrendo), discussione che ha tirato in ballo anche il molto british e solitamente compassato professor Luigi Spaventa, insomma solo per poco non sono volati i microfoni.

Purtroppo per i miei pochi lettori, il cineoperatore volontario che ha avuto la bontà, anche per il vincolo dovuto alla comune appartenenza alla Frre Lance International Press, di garantire le riprese del mio intervento (disponibile in versione integrale nella sezione video del sito http://www.flipnews.org/) non era interessato agli schiamazzi accademici che non ha ripreso pur essendo presente, ma vi assicuro che si è trattato di uno spettacolo molto interessante e che resterà per sempre impresso nella mia memoria.

venerdì 28 marzo 2008

Tutti in fila alla discarica di Bernspan


Come non mi stancherò mai di ripetere, se c’è una persona informata dei fatti in relazione alla tempesta perfetta, questi è proprio Henry Paulson, brillante banchiere d’affari di lungo corso, prestato dal giugno 2006 alla politica, in quanto è pro tempore il ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America, dopo essere stato per lunghissimo tempo l’indiscusso numero uno, accorpava, infatti, la poltrona di Chairman e quella di CEO di Goldman Sachs, ed era talmente vulcanico negli anni ruggenti della finanza facile da rendere necessaria la presenza in Goldman non di uno, sebbene addirittura di due Chief Operating Officer, due persone, a loro volta, talmente sovraffaticate da rendere necessaria una compensation complessiva molto elevata, che ha toccato, nell’orrido 2007, un livello che sfiora i 70 milioni di dollari per ciascuno, una retribuzione ben superiore a quella riservata al pur bravissimo e preveggente David Viniar, che, però, di questa regina indiscussa delle CIB delle CIB, è soltanto il CFO.

Ebbene, le dure, quasi impietose, parole espresse da Paulson davanti ad una commissione del Congresso statunitense che non so più se definire inquieta o furiosamente arrabbiata per il meltdown del settore immobiliare e per la peristente tempesta perfetta sui mercati finanziari statunitensi e globali, hanno anticipato di poche ore la più grande applicazione dello sportello-discarica della Federal Reserve da parte dei suoi ex colleghi posti ai vertici delle Investment Banks statunitensi, i quali non hanno avuto timore alcuno nel portare la loro carta straccia agli uomini di Bernspan, ricevendone in cambio sonanti titoli del Tesoro USA per ben 75 miliardi in un solo giorno allo stratosferico tasso dello 0,33 per cento, anche se gli sventurati ne avevano chiesti 86 di miliardi e sempre di dollari.

Molti, io compreso, si erano stupiti per la promessa che suonava molto come una minaccia sul prossimo assoggettamento delle Big Five, ormai tristemente diventate Big Four, agli stessi “rigori” in termini di vigilanza cui sono da sempre assoggettate le commercial banks statunitensi da parte della Fed, ma, alle orecchie esercitate ed attente dei banchieri di investimento e di affari queste apparentemente dure parole sono suonate come una musica, in quanto più che la durezza di Bernspan e complici temono molto di più il ben più severo giudizio dei mercati che, solo ieri, stava per ridurre il loro numero addirittura a tre, a causa di rumors e voci sempre più insistenti sulle difficoltà in cui si troverebbe, sempre per ragioni di liquidità, Lehman Brothers.

A questi operatori diventati improvvisamente più che sospettosi, infatti, non sono bastate la raffica di dichiarazioni della impavida portavoce della prestigiosa casa di investimenti, né quelle provenienti direttamente dai vertici della casa, in quanto, dopo essere tonfata del 10 per cento in pochi minuti ed aver recuperato la metà delle perdite nelle ore successive, l’azione ha desolatamente chiuso in flessione di poco meno del 9 per cento, tornando poi, nelle tese ore dell’after hours, a sfiorare nuovamente il livello di perdite registrato nella mattinata, mentre gli stessi operatori, per non sapere né leggere né scrivere, hanno bastonato in modo equanime l’intero comparto finanziario, credo proprio nessuno escluso.

Per chi l’avesse persa, segnalo nuovamente l’avvincente e comprensiva intervista della solita Maria Bartiromo, una che in quanto a embedded non è seconda a nessuno ed è, anzi, secondo le solite malelingue anche molto involved anche sul piano strettamente personale al punto da finire anche, e da protagonista, sulle riviste specializzate in gossip sentimentali, alla disperata CFO di Lehman, l’eroica Erin Callan, eloquentemente intitolata “Back from ugly monday”, un’intervista nelle quale troverete la risposta alla domanda sul perché queste donne e questi uomini devono essere così tanto remunerati: provate voi a fare quello che fanno loro e a dormire tranquillamente la notte!

C’è, purtroppo, una semplice domanda che la brava e spigliata Maria si guarda bene dal fare alla desolata Erin ed è la seguente: che differenza c’è, in termini di solidità patrimoniale, di leverage e, soprattutto, di montagna di titoli della finanza strutturata, tra la sua banca e l’orso di Stearns che ha appena stirato le gambe ed è finito nella maggiormente solide braccia dei nipotini delle casate dei Morgan e dei Rockfeller a prezzi, pur dopo la quintuplicazione della risibile offerta iniziale, da vero saldo?

Dopo aver appreso ieri da Wally, vezzeggiativo molto usato all’ombra del Wall per definire l’informatissimo, quasi preveggente, Wall Street Journal, che ben 49 hedge funds sono andati a zampe all’aria nel 2007, mandando in fumo poco meno di 19 miliardi di dollari, abbiamo appreso ieri da Thomson Financial che, nel primo trimestre del 2008, il settore del Merger & Acquisition è tonfato esattamente di un terzo in termini di volume rispetto allo stesso periodo del 2007, mentre nel solo settore delle acquisizioni il calo è stato del 77 per cento, flessione spiegata dagli espertissimi di Thomson, udite, udite!, per la difficoltà dei private equity, ma non solo loro, nel trovare denaro facile ed a buon mercato, come era facile in un recente passato alle nostre alquanto desolate ed a rischio povere locuste, abituate ad acquisizioni multimiliardarie senza mai metterci un soldo del loro.

Che dire della conferma giunta, sempre ieri, della striminzita crescita del PNL statunitense nel quarto trimestre del 2007, inchiodato allo 0,6 per cento annualizzato già reso noto un mese fa, se non che, da una analisi frettolosa delle componenti, scopriamo che vi è stata una vera e propria distruzione di ricchezza, che ha pesato poco meno del 2 per cento, legata alla gestione delle scorte di prodotti desolatamente invenduti, mentre l’inflazione core si è portata dal 2 per cento della prima lettura al 2,5 per cento della seconda, con buona pace dei tassi di Bernspan, ormai al di sotto dell’inflazione core di 25 punti base, mentre, rispetto al tasso di inflazione vero, sono inferiori di quasi due punti percentuali, il che escluderebbe, se vi fosse una vera banca centrale, qualsiasi attesa di nuove riduzioni dei tassi che, invece, ci saranno e come se ci saranno.

Parlare a questo punto dei tassi interbancari sull’euro e le altre valute, mi sembra un po’ impietoso per i nervi dei miei pochi lettori, ma il dovere di cronista della tempesta perfetta mi impone di segnalare l’ennesimo rialzo dei tassi ad uno e a tre mesi registrato anche ieri, così come è doveroso segnalare che, esaurita una breve fase di consolidamento, l’euro e lo yen si apprestano a dare l’assalto alle importanti soglie psicologiche degli 1,60 dollari contro euro e dei 95 yen contro dollaro, con buona pace dei desiderata un po’ out of the money dei banchieri centrali che si ostinano a mettersi contro vento, apparentemente immemori delle amare lezioni del passato, con l’aggravante che non vi è alcun appuntamento previsto né al Plaza, né in nessun altro hotel del pianeta in grado di modificare realmente la situazione.
Ricordo che il video che riporta integralmente il mio intervento al recente convegno sulla crisi finanziaria è disponibile nella sezione video (alla voce videoinformazione) del sito dei giornalisti free lance http://www.flipnews.org/

giovedì 27 marzo 2008

Le Big Five sotto la lente della Fed


La considerazione fatta da Henry Paulson, l’ex numero uno di Goldman Sachs e pro tempore ministro del Tesoro USA, davanti ad una sempre più inquieta commissione del Congresso statunitense, in materia di estensione anche alle investment banks dei criteri di vigilanza tradizionalmente applicati alle banche commerciali ha gettato nel panico gli azionisti delle Big Five, ormai ridotte, dopo il botto di Bear Stearns, a sole quattro, determinando una vera pioggia di vendite che hanno determinato flessioni delle relative quotazioni multiple di quelle segnate dai tre principali listini statunitensi.

Anche se si tratta di una considerazione scontata e resa necessaria dalla costante applicazione da parte delle investment banks dello possibilità offerte dallo speciale sportello aperto dalla Federal Reserve in favore delle banche statunitensi di ogni ordine e grado per consentire loro lo smaltimento temporaneo delle rispettive colline o montagne di titoli della finanza strutturata, non vi è dubbio che, per queste CIB delle CIB, la sola idea di dover sottostare alle normali regole di vigilanza applicate, con standards e sistemi solo leggermente diversi, alle comuni banche di tutto il mondo rappresenta un pericolo che fa tremare i polsi dello stuolo di Chairman, CEO, CFO e COO che le popolano.

Come sarà, infatti, possibile giustificare ai vigilantes dell’ormai tremebondo Bernspan i rispettivi livelli di leverage che le affliggono, con rapporti che vanno da 1 a 26 sino ad 1 a 32,6 (il rapporto esistente tra il patrimonio e l’indebitamento), quello stesso squilibrio strutturale che spazzato via, in una sola ma lunghissima notte, dal mercato la storica ed un tempo prestigiosa entità conosciuta come Bear Stearns, quella, tra le Big Five, che più aveva scherzato con il fuoco delle invenzioni sempre più astruse e complesse degli apprendisti stregoni della sua fabbrica prodotto, invenzioni materializzatesi in titoli che sono molto diffusi e tuttora nei portafogli degli investitori istituzionali e dei comuni mortali operanti sul mercato finanziario globale.

Sarà un caso, ma proprio alla vigilia di questo doveroso warning di Paulson, la sua ex banca di appartenenza, Goldman appunto, ha diffuso nuove ed alquanto terrificanti stime sulle perdite prossime venture a livello statunitense ed a livello globale, giungendo all’astronomica cifra di 460 miliardi di dollari per le banche USA di ogni ordine e specie e, addirittura a 1.200 miliardi di dollari a livello globale, cifre che, almeno a livello planetario, superano di 12 volte la prima stima fatta a caldo dagli esperti del Fondo Monetario Internazionale e di 6 volte quella avanzata, sempre dal FMI, qualche mese più tardi, mentre ricordo che, almeno sino ad ora, il più catastrofista dei catastrofisti veniva irriso, tra gli sghignazzi di esperti ed accademici, per aver osato dire che si poteva anche arrivare a 1.000 miliardi di dollari di perdite a livello mondiale.

Poiché lo scopo del Diario della crisi finanziaria è anche quello di svolgere un’attività di prevenzione rispetto alle manipolazioni della stampa e dei media in generale un po’ embedded alle logiche del capitale finanziario e del potere politico, vorrei sottolineare che tale ferale notizia, proveniente peraltro da una delle maggiori indiziate di aver favorito l’avvento della tempesta perfetta, l’ho vista riportata solo da Il Sole 24 Ore di ieri che, peraltro, le dedica un piccolo riquadro di sette righe posto a fianco di un’intervista su due colonne ad uno dei maggiori esponenti della sempre più nota ed agguerrita società di consulenza Accenture, Noel Gordon, dal titolo francamente esilarante: “Alla fine saranno più i vincitori che i perdenti”.

Come ho avuto modo di ricordare più volte nel Diario e nell'altrettanto citato intervento che ho tenuto al recente convegno sulla crisi dei mercati (disponibile nella sezione video del sito http://www.flipnews.org/ ), pur se nulla di quanto proviene dalle investment banks e dalle CIB va preso per oro colato, in base alla semplice formuletta di Jan Hatzius, Chief Economist per i soli Stati Uniti di Goldman Sachs, il taglio prevedibile dei finanziamenti bancari all’economia si collocherebbe a 4.600 miliardi per le banche basate negli USA ed a 12.000 miliardi a livello complessivo, non ipotizzando, mentre è quello che sta purtroppo accadendo, che le banche non vadano oltre questa misura prudenziale o considerando questa over reaction a pareggio degli aumenti di capitale già avvenuti e di quelli prossimi venturi.

Alla luce di queste cifre provenienti dai bene informati analisti e previsori della preveggente Goldman Sachs, sarà più facile capire perché ho dedicato, nella puntata di ieri, l’apertura alla notizia delle assunzioni in massa decise dalla Federal Deposit Insurance Corp, l’organismo federale incaricato di garantire, ovviamente entro i limiti stabiliti dalla legge, i depositi dei risparmiatori statunitensi, assunzioni volte ad incrementare del 60 per cento il numero degli addetti alla specifica sezione che deve “maneggiare” i fallimenti bancari, una sezione che deve far fronte al netto calo dell’organico intervenuto dopo che il super lavoro legato alla ormai lontana crisi delle casse di risparmio degli anni Novanta, quando, nei primi due anni della decade, fallirono ben 502 banche statunitensi, vicenda che era divenuta ormai un pallido ricordo che riguardava solo i più anziani tra gli addetti ai lavori della FDIC.

Secondo l’ottimamente informato Wall Street Journal, 49 hedge funds con un patrimonio complessivo che sfiora i 19 miliardi di dollari hanno chiuso i battenti nel 2007.

Se proprio volete, potrei anche aggiungere che, sempre ieri, vi è stato l’ennesimo tracollo nelle vendite di nuove case, con il correlativo forte calo del prezzo mediano che, lo ricordo, si pone ormai a 195 mila dollari per le case esistenti ed a 244 mila dollari per quelle di nuova costruzione (prezzi da vero saldo, anche se accompagnati da solide previsioni di ulteriori cali, in quanto la maggior parte degli esperti statunitensi del settore prevede che il pavimento delle quotazioni sia ancora lontano), mentre non vi è stato il coralmente previsto rimbalzo degli ordinativi industriali dopo il tonfo di gennaio (-4,6 per cento), in quanto, anche in febbraio, gli ordini si sono ostinati a calare dell’1,8 per cento, con tonfi settoriali che viaggiano ormai a due cifre.

Sarà per l’azione di Jean Claude Trichet, sarebbe meglio parlare di non azione quasi in senso Zen, e del suo un po’ neotemplare Board, ma le cose, per l’economia della Germania e, pur tra sensibili e significative differenze, dell’intera Europa, stanno andando proprio in un’altra direzione, come è stato ben testimoniato dalla crescita del cruciale indice IFO tedesco che, contro le previsioni degli esperti, si ostina a crescere mese dopo mese ed è ormai al di sopra del livello di 105.

Non credo sia il caso di sottolineare nuovamente la diversa credibilità che il mercato attribuisce, con sempre maggiore convinzione all’operato (o non operato) della BCE, rispetto al crescente scetticismo, che in qualche caso diviene aperto discredito, per le mosse di Bernspan e complici o per le esilaranti performance della Bank of England di King, per non parlare di quelle della FSA o del Cancelliere dello Scacchiere di Sua Maestà britannica.

mercoledì 26 marzo 2008

Non sparate sul pianista!


La Federal Deposit Insurance Corp, l’organismo federale incaricato di garantire, ovviamente entro i limiti stabiliti dalla legge, i depositi dei risparmiatori statunitensi, ha deciso di assumere ulteriori 140 addetti destinandoli alla divisione che si occupa di “maneggiare” i fallimenti bancari, un incremento che rappresenta una crescita del 60 per cento degli addetti della FDIC aventi questa specifica mission nell’ambito dell’organismo, una divisione, peraltro, che dalla ormai lontana crisi delle casse di risparmio degli anno Novanta, quando nei primi due anni della decade fallirono ben 502 banche statunitensi, ha avuto in realtà ben poco da fare.

Come ha avuto modo di dire il Chief Operating Officer della FDIC, John Bovenzi, “vogliamo essere certi di essere ben preparati”, aggiungendo che gli impieghi saranno di tipo temporaneo e che la loro base operativa sarà a Dallas (Texas), anche se mi sento francamente di rassicurare gli interessati sulla tutt’altro che precaria loro collocazione, alla luce della prevedibile durata della tempesta perfetta e, quindi, della loro specifica indispensabilità per l’ente che li ha appena assunti.

Sono, peraltro, costretto nuovamente a soffermarmi sui travagli infiniti del settore immobiliare statunitense, in quanto il seguitissimo rapporto redatto sa Standard & Poor’s/Case-Schiller ha reso noto che, in gennaio, la flessione su base annua dei prezzi delle case nelle venti aree metropolitane monitorate è stato dell’11,4 per cento, con punte che arrivano a sfiorare il 20 per cento nelle aree di Las Vegas e di Miami, ma non si è scherzato neanche a Phoenix (-18,2 per cento), a San Diego (-16,7), a Los Angeles (-16,5), a Detroit (-15,1), a Tampa (-15,0) ed a San Francisco (-13,2), mentre va in controtendenza l’area di Charlotte (North Carolina), che riesce a spuntare un progresso dell’1,8 per cento sulle ragioni del quale si stanno accapigliando i soliti analisti del giorno dopo.

E’ quasi superfluo sottolineare l’effetto che il meltdown immobiliare sta avendo sulle aspettative dei cittadini americani, poco importa se si tratti di imprenditori o di semplici consumatori, effetto più che confermato dal vero e proprio tracollo del Consumer Confidence, un indice tonfato in marzo a 64,5 dal non proprio stellare 76,4 di febbraio, portandosi così al livello più basso degli ultimi cinque anni, mentre ricordo che si tratta di un indicatore elaborato dal Conference Board e che, per unanime valutazione degli esperti, anticipa l’andamento dei consumi, un andamento che, alla luce del continuo declino registrato a partire dal luglio 2007, non dovrebbe rivelarsi proprio brillante.

Il combinato disposto delle due notizie ha spinto numerosi analisti ed esperti a dichiarare ormai certa la variazione negativa dell’indicatore che misura la ricchezza nazionale sia nel primo che nel secondo trimestre di questo anno bisesto, cosa che, lo ricordo sommessamente, rappresenta anche tecnicamente uno scenario recessivo, previsione ovviamente condita da notevole ed alquanto infondato ottimismo per quanto ci aspetta nella seconda metà di questo anno, che è il secondo, almeno in termini di millesimo, della navigazione dell’economia statunitense e di quella del resto nel pianeta tra i procellosi marosi della tempesta perfetta in corso ormai da quasi otto mesi, che sarebbero poi un po’ di più ove si retrodati alle difficoltà incontrate da Hong Kong Shanghai Banking Corp. Nel ormai lontanissimo febbraio dell’anno scorso.

Nell’orami abituale gioco di spararsi addosso nel quale si dilettano da mesi gli analisti delle diverse investment banks statunitensi, è ora la volta di merrill Lynch di fungere da vittima sacrificale degli strali degli agguerriti analisti al soldo delle sua altrettanto inguaiate concorrenti, mentre nel ruolo di killer brilla la performance della solita J.P. Morgan Chase che, e non entro volutamente nei particolari, prevede una netta refisione al ribasso degli utili prospettici di Merrill, e , visto che ci si trova, non perde l’occcasione per parlare male anche di Bank of America, Suntrust e PNC, ma non temete, perché i prodi analisti al soldo di Merrill non perderanno tempo nel rendere la pariglia all’odiatissima rivale.

Già, perché i guai della banca che eredita il nome e forse le fortune delle due casate dei Morgan e dei Rockfeller non credo proprio siano finiti con la quintuplicazione dell’offerta davvero vergognosa che, con la complicità del solito Bernspan, aveva avanzato per raccogliere le spoglie dell’orso di Stearns, anche perché il valore dell’azione di Bear si ostina a non voler collimare con miseri dieci dollari offerti, anche grazie allo scoop del New York Times o, meglio, alle manipolazioni che le agenzie di stampa hanno operato sullo stesso, di fronte alle reazioni infuriate degli azionisti e dei dipendenti, a loro volta importanti azionisti di Bear.

Come ormai accade un giorno sì e l’altro pure, Bernspan e complici non hanno fatto mancare la liquidità necessaria, ieri si è trattato della solita tranche da 50 miliardi di dollari ma sono stati 260, sempre miliardi, dall’inizio dell’anno, a far andare alquanto faticosamente avanti questo circo che qualcuno si ostina ancora a chiamare mercato, un aggregato che, almeno nel suo cruciale segmento interbancario, non sembra proprio saperne di tornare a quei livelli minimi di fiducia reciproca che potrebbe far scendere i relativi tassi, tassi che anche ieri sono pervicacemente al rialzo sia sull’euribor che sul libor

Non paghe di aver finalmente trovato, nella Fed (ma anche nella BCE e nella BoE) una capace discarica per le loro rispettive montagnole di titoli della finanza strutturata, le banche statunitensi di ogni ordine e grado, ma anche quelle entità che banche proprio non sono, si ostinano, infatti, a non fidarsi delle proprie rivali e concorrenti, mentre è stata scoperta una centrale operativa in un hedge fund specializzata nello spargere voci e rumors volti ad influenzare i corsi di entità sulle quali lo stesso hedge era opportunamente posizionato, al fine dichiarato di raschiare qualche briciola, si fa per dire ovviamente, dal sempre più lucido fondo del barile.

Mentre la spesa complessiva per la guerra in Irak, e l’Afghanistan?, sembra sia giunta alla stellare cifra di 2 mila miliardi di dollari, ed è doveroso dire soltanto per ora, si scopre, negli Stati Uniti d’America, che non vi sono più fondi sufficienti per secondari programmi di assistenza quali Medicare e la previdenza, ovviamente nella versione pubblica un po’ pauperistica, né credo che, qualsiasi sarà l’esito della battaglia presidenziale e di quella per il rinnovo del Congresso e di parte del Senato statunitensi, le cose andranno in modo realmente diverso per questi retaggi di un welfare del quale sembra sia ancora aperta la gara a chi se ne vergogna di più.

martedì 25 marzo 2008

Non riesce la patacca di Bernspan e Morgan


Lo scoop di un giornalista del New York Times ha svelato ieri, ben prima dell’apertura dei mercati azionari statunitensi, che il numero uno di J.P. Morgan-Chase, Jamie Dimon, era in procinto di capitolare di fronte alla fiera resistenza degli azionisti di Bear Stearns, in particolare dei dipendenti che ne possiedono circa un terzo, del tutto insoddisfatti dalla previsione iniziale di 2 dollari per azione decisa in sede di emergency deal, accettando di portare, almeno per il momento, l’offerta a 10 dollari per azione, oltre all’impegno di acquisire il 40 per cento delle azioni prima dell’assemblea degli azionisti di Bear che dovrebbe ratificare l’accordo.

In effetti, più che lo scoop del NYT, è stata la forzatura di tutte le agenzie di stampa, le quali hanno trasformato una blanda previsione del prestigioso quotidiano americano in una sorta di certezza, a costringere un alquanto riluttante Dimon a bruciare i tempi ed a decidersi a far diffondere il comunicato ufficiale della quintuplicazione dell’offerta, un comunicato che, almeno di fatto, mette alla berlina se stesso, Bernanke, la Securuities and Exchange Commission e lo stesso Henry Paulson, ma l’ex numero uno di Goldman Sachs ed attuale ministro del Tesoro USA è stato l’unico a rompere il silenzio ed a benedire i nuovi termini del deal, peraltro già superati dalle quotazioni di Bear, segno inequivocabile che i giochi non sono ancora del tutto conclusi.

Certo, la concitata notte tra giovedì e venerdì di due settimane orsono, con i saloni del quartier generale di Bear affollati oltre ogni capienza di manipoli di altissimi dirigenti della Fed di New York, della SEC, e di agguerrite squadre di revisori e controllori delle due banche impegnate, l’una come carnefice, l’altra come vittima, nel deal, non era certo la sede ideale per compiere una due diligence accurata e millimetrica dei valori in ballo, ma è altrettanto certo che gli scopi “politici” sottostanti al salvataggio hanno davvero fatto premio rispetto ai legittimi interessi degli azionisti e del mid management della quinta casa di investimenti statunitense.

Pochi tra gli analisti e gli operatori addosseranno la croce all’acquirente, aggiungerei possibile, in quanto nessuno può ragionevolmente pensare che la CIB delle CIB, quale è la banca guidata da Dimon, possa esimersi dal cercare di approfittare di una situazione di assoluta emergenza quale era indubbiamente quella che le si presentava; è forse troppo, anzi, il prezzo da lei offerto per una banca che aveva come unica alternativa il fallimento più o meno immediato.

No, gli analisti, i commentatori e gli operatori, almeno in cuor loro, getteranno la croce addosso a Bernspan e complici ed agli altri regolatori e supervisori dei mercati che hanno voluto pervicacemente che si chiudesse quella stessa notte, e ad ogni costo oltre che a qualsiasi prezzo, un deal che doveva rassicurare i mercati, ma che, in quei termini ed a quelle condizioni, non poteva che fornire una ragione di più ai già atterriti detentori di azioni di investment banks, di banche commerciali, di compagnie monoline e di compagnie di assicurazione generaliste per considerare con ancora maggiore preoccupazione il loro investimento.

Ho trovato commovente la testimonianza resa alla ferocissima Mary Bartiromo, sì proprio lei, per Business Week, della Chief Financial Officer di Lehman Brothers, Erin Callan, percependo la reale disperazione di chi occupa quel posto in una banca universalmente sospettata di essere la prossima vittima del micidiale effetto leverage, il rapporto tra patrimonio ed indebitamento, che, per Lehman come per Bear è addirittura superiore a 30, ma non si scherza neanche nelle altre tre investment banks statunitensi, così come nelle CIB delle banche globali.

La Callan, tuttavia, anche se in preda alla disperazione mista al sollievo che la sua banca ancora sia in grado di resistere ai marosi della tempesta perfetta, non manca di lodare il Salvatore, che per lei è impersonato proprio da Bernspan e dalla sua provvidenziale decisione di aprire anche alle case di investimento lo sportello, forse dovrei dire la discarica, dei titoli della finanza strutturata, sportello al quale lei ha portato, per la prima volta ed a mercati opportunamente chiusi, robaccia per l’equivalente, grazie ai provvidenziali rating farlocchi, di ben 2 miliardi di dollari.

Né ha aggiunto tranquillità ai mercati il recente report che FRB & Co, una prestigiosa società di analisti indipendenti, ha ragionevolmente rivisto al ribasso le proprie stime sui profitti di 15 delle 18 banche statunitensi esaminate, in alcuni casi, le previsioni precedenti ipotizzavano già delle perdite, raddoppiate nella nuova versione, come nel caso di Indymac Bancorp Inc., per la quale le perdite 2008 stimate sono state portate da 80 centesimi di dollaro ad 1,70 dollari.

Stiano tranquilli quanti si aspettano il mega fondo orchestrato dalle banche centrali per ospitare i titoli della finanza strutturata, perché Bernspan e complici si sono già messi la tuta da operatori ecologici e stanno già operando alla grande, peccato che le loro discariche rotative a 28 giorni abbiano una capienza cifrabile nell’ordine di centinaia di miliardi di dollari, mentre la spazzatura complessiva resta nell’ordine dei 25-30 mila miliardi, sempre, purtroppo, di dollari.

La stessa notizia positiva sulle vendite di case esistenti, passate da un tasso annualizzato di 4,89 a 5,03 milioni, con un incremento del 2,9 per cento, il primo da oltre sei mesi, è stata accompagnata dalla ferale notizia che il prezzo di vendita mediano è crollato a 195 mila dollari circa, il tonfo più significativo mai registratosi dal lontano 1999 e che spiega in larga misura il fatto che le vendite siano aumentate in febbraio, anche perché nessuno, almeno sinora, ha abolito la severa legge dell’equilibrio tra domanda ed offerta con quanto ne segue in termini di prezzo.

Nel frattempo, avvertiti analisti spostano alla fine del 2009, se non ai primi mesi del 2010, la possibile conclusione di questa perfect storm, avvertendo così i naviganti di fare le opportune provviste e di tracciare le proprie rotte, avendo un orizzonte temporale molto più ampio di quanto previsto da Paulson e Bernspan, con relativa grancassa di giornalisti embedded operanti pressoché in tutti i media.

lunedì 24 marzo 2008

Ma fosse davvero la Grande Depressione?


Sperando che non siate troppo impegnati nel lavoro di fauci usuale nelle festività pasquali e nelle inevitabili conseguenze sul lavoro della mente, vi consiglio caldamente la lettura di un’analisi molto articolata di questa perfect storm a cura di Rachel Beck e Erin Mcclam dell’Associated Press, oggi disponibile su Yahoo Finance, un testo inusualmente molto lungo per un’agenzia che, sentiti esperti e gente comune, giunge alla conclusione che l’unica fase dell’economia statunitense che somiglia all’attuale crisi finanziaria potrebbe essere rinvenibile negli anni Settanta, con i loro due shocks petroliferi ed il relativo innescarsi di un effetto domino non troppo dissimile da quello attuale.

Purtroppo, come peraltro notano i due autori dell’articolo, vi è una grande differenza tra le due fasi, in quanto, allora, era in piena attività la generazione partorita durante il cosiddetto baby boom, una massa di persone che con la loro inesauribile voglia di fare e di spendere ha svolto un ruolo significativo nella successiva espansione quasi senza soste dell’economia statunitense, peccato che gli stessi ora siano in pensione od in procinto di andarvi.

Ma l’altra, ed a mio avviso, più significativa differenza è data dal fatto che il processo di finanziarizzazione spinta dell’economia statunitense e di quella globale era allora davvero agli albori, in quanto si era ancora lontani da quella metà degli anni Ottanta che, attraverso la deregolamentazione spinta, la cartolarizzazione di tutto il cartolarizzabile, la progressiva sofisticazione dei prodotti della finanza strutturata ed il correlativo boom degli strumenti derivati e via discorrendo ha reso le distanze planetarie molto esigue e gli effetti di trasmissione degli shocks molto più accentuati.

Delle differenze tra i due periodi e della necessità di andare più indietro per trovare le opportune analogie, ne è ben consapevole la Federal Reserve, ma in particolare il suo attuale presidente, Ben Bernanke in arte Bernspan, di cui si dice che sia il maggior esperto, almeno come studioso e prestigioso docente presso l’università di Princeton, delle crisi finanziarie avvenute nel passato, un uomo che da 228 giorni vive con l’incubo che non basti tornare ai Novanta a go-go, o ai foschi anni Settanta, ma che per trovare analogie in termini di clima psicologico, di effetto domino e di sfiducia reciproca tra i principali attori del mercato finanziario, ma, come tutti ormai temono, a quell’ottobre del 1929 che cambiò le prospettive dell’economia statunitense per poco meno di un quindicennio.

Chiedo a tutti coloro che, se fossero presenti qui, alzerebbero decisamente la mano per obiettare a questo apparentemente ardito paragone, di avere la pazienza di leggere l’articolo citato in apertura e/o di visionare il video del mio intervento al Convegno organizzato dalla UIL e svoltosi il 19 c.m., video che, come ho già ricordato, è disponibile su http://www.flipnews.org/ nella sezione video, perché il filo del mio ragionamento e le cifre fornite dai due autori consentono di comprendere meglio le ragioni di questa tesi volutamente ignorata dalla maggior parte dell’informazione economica, più o meno embedded, così come viene sprezzantemente scartata ed aspramente confutata da legioni intere di analisti, economisti ed esponenti delle banche centrali e delle banche tutte.

E’ molto difficile, peraltro, rendersi conto dell’effetto sovrastrutturale, come avrebbe detto il mai troppo compianto Antonio Gramsci, che la finanziarizzazione e la relativa globalizzazione hanno esercitato sul mondo accademico, su quello del giornalismo e sugli stessi analisti e revisori in forza direttamente od indirettamente a quello che Hildfering definiva il capitalismo finanziario, anche se per averne soltanto una pallida e vaga idea basterebbe pensare all’influenza che Big Pharma esercita su altrettante legioni di medici e ricercatori operanti all over the world.

Se nessuno si è scandalizzato per il fatto che Bernspan e complici si siano spinti a rispolverare l’armamentario di leggi e regole inventati proprio in occasione della Grande Depressione, strumenti quali la possibilità di garantire un maxi deal da 30 miliardi di dollari consistente nella mega iniezione di liquidità garantita da J.P. Morgan-Chase all’agonizzante Bear Stearns, intervento a sua volta garantito integralmente dalla Fed grazie ad un dispositivo legislativo varato nel 1932, o l’autorizzazione a soggetti formalmente non bancari ad attingere alle copiose mammelle della Fed stessa, per non parlare poi della totale indifferenza mostrata da Bernspan e complici per la pericolosità derivante dalle ripetute decisioni che hanno portato il livello dei tassi reali di quasi due punti al di sotto del tasso di inflazione.

E’ facile ironizzare comodamente seduti davanti al proprio personal computer sulle ambasce e le angosce di un uomo che ha dovuto abbandonare la propria comoda Chair universitaria, smettere di chiacchierare amabilmente con vivaci e curiosi studenti e con i propri amabili colleghi di ateneo, rinunciare alle passeggiate nei vialetti che si snodano tra curati giardini e la casetta di mattoni rossi per venire catapultato nell’avido, rissoso, incontentabile ed a volte veramente incomprensibile mondo delle investment banks, delle CIB, con i loro bilanci incomprensibili, i loro SIV ed i loro Conduits, con gli effetti nefasti derivanti dalle astruse invenzioni degli apprendisti stregoni delle fabbriche prodotto, la rinuncia da oltre sette mesi al sacro rito del week end e chi più ne ha ne metta.

Quante volte, in questi 228 giorni, Bernspan deve avere invidiato i propri colleghi di Francoforte, ed in particolare quel Jean Claude Trichet che gli errori suoi e dell’improponibile King della BoE hanno reso un gigante, sordo alle sirene della politica e della finanza, alla guida di un board di neotemplari pronti anche a vedere l’esercito dei disoccupati europei raddoppiare o, addirittura, triplicare, senza battere un ciglio né, tanto meno, fare un fiato, disponendo al massimo un raddoppio della già consistente scorta, impegnata più contro l’infuriato Nicolas Sarkozy ed il sanguigno Gordon Brown che contro improbabili minacce terroristiche o ancor meno credibili sollevazioni popolari, in quanto i terroristi hanno probabilmente altro da fare e gli europei sembrano apprezzare sempre di più l’autonomia della “loro” banca centrale e l’indipendenza di quel francese sempre più teutonico che tiene salda la barra del timone, almeno per ora.

Ma il povero Bernspan è alle prese con ben altri problemi e ben altre difficoltà, in quanto, solo per fare un esempio, un accurato studio dell’alquanto autolesionista Merrill Lynch, a quando il suo turno?, ci informa che il valore complessivo dei mutui non solo supera il valore delle relative abitazioni, ma ha l’improntitudine di farlo per la non disprezzabile cifra di 836 miliardi di dollari, una cifra che, anche agli attuali, depressi cambi del dollaro ponderati in base alle ragioni di scambio, fa veramente tremare i polsi dell’esile e mite professore di Princeton. Tanti auguri!

domenica 23 marzo 2008

La grande stangata dei banchieri centrali

Dopo averle tentate tutte, ma proprio tutte, i vari Bernanke, Trichet e King, ossia i numeri uno della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e della ormai screditata Bank of England, hanno deciso, almeno così sostiene l'autorevole Financial Times, di rompere gli indugi, anche alla luce della nulla o scarsa reattività del mercato finanziario globale ai loro immani ed a volte un po' confusi sforzi, e di passare alle maniere forti, favorendo quella pubblicizzazione delle perdite invocata a gran voce dalle investment banks statunitensi e dalle CIB, le loro replicanti in sedicesimo, fregandosene bellamente delle loro promesse di punire l'azzardo morale e di non mettere a repentaglio i soldi dei contribuenti.
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D'altro canto, per coloro tra i miei pochi lettori che hanno avuto la pazienza di vedere il video del mio intervento al recente convegno su Finanziarizzazione, crisi dei mercati: quali ricadute sociali?, disponibile, grazie agli sforzi degli associati della Free Lance Internazional Press, nella sezione video del sito http://www.flipnews.org/ per la qual cosa li ringrazio anche in questa sede, è questo, forse, l'unico epilogo immaginabile da questi personaggi che hanno, chi più chi meno, gestito in modo veramente dissennato questa tempesta perfetta, convinti come erano all'inizio che si trattasse di poco più di un temporale estivo, per poi assumere decisioni e prendere provvedimenti panicati ed ancor più panicanti sui vari fronti che vanno dalla gestione della liquidità, alle manovre sui tassi di riferimento, passando per le incertezze nell'operare i financial bailouts o per l'assurda pretesa di addomesticare il sempre più ribollente mercato dei cambi ai loro desiderata.
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Non voglio qui tornare sulle rispettive performance dei nostri eroi, anche perché si tratta di un argomento che in questa sede è stato trattato a dismisura, se non per sottolineare una volta di più la maggior tenuta della reputazione e della credibilità della BCE che, forse per la sua impostazione un po' neotemplare e per il peso derivantele dall'essere l'erede naturale della Bundesbank, si è finora astenuta dall'approccio isterico della Fed e dalle vere e proprie gaffe in cui è incorso il purtroppo di recente riconfermato King, che porte, assieme alla FSE e al Governo di Sua Maestà britannica, la responsabilità di quel pasticciaccio brutto rappresentato dalla tutt'altro che inevitabile vicenda della Northern Rock, finita poi sul groppone dei contribuenti britannici.
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Permettetemi di dare poco credito alle sdegnate smentite provenienti dai protagonisti, anche se col cuore vorrei proprio credere loro, in quanto la verità sta nel fatto che lo smaltimento di quella montagna di spazzatura rappresentata dai titoli, si fa per dire, della finanza strutturata non può realisticamente effettuata per altra via che non sia quella di un gigantesco bailout che veda ricadere sulle spalle dei soliti noti, i contribuenti dei rispettivi paesi, il peso degli errori continuati ed aggravati commessi dalle investment banks e dalle CIB, ossia dalle CIB e dalle CIB al quadrato, entrambe ree di aver usato in modo talmente spregiudicato l'effetto leva da aver portato alle soglie del default loro stesse, nel caso delle investment banks, o le banche cui fanno riferimento, nel caso delle CIB.
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Ignoro le tecnicalità che dovrebbero caratterizzare questa nuova invenzione dei nostri, anche perché, dopo il flop di quel MLEC annunciato tra trombe e fanfare da Paulson e compagnia e poi finito in nulla, penso proprio che sia tempo perso scervellarsi quando i banchieri centrali sono intenti nei preliminari e che sia meglio per me, e per i miei alquanto esausti lettori, aspettare che dopo il fumo ci venga servito l'arrosto.
*
L'unico antidoto nei confronti di questo nuovo incubo è rappresentato dalla sempre più incandescente, e sempre più combattuta sulla base di colpi bassi e di trucchi sporchi, campagna per le presidenziali americane, e da quella sempre più intensa attività del Congresso e del Federal Bureau of Investigations che, seppure su fronti diversi, stanno cercando di capire cosa sia realmente accaduto nel mercato finanziario statunitense, ed in quello globale, anche al fine di assicurare alle galere statunitensi una legione di chairman e CEO che hanno gestito o stanno ancora gestendo le banche statunitensi e globali, in base alle loro eventuali e specifiche responsabilità.

sabato 22 marzo 2008

Investment Banks e Corporate & Investment Banking al gran ballo del downsizing

Non dir quattro se non lo hai nel sacco, oppure il più calzante, non vendere la pelle dell’orso (Bear in lingua anglosassone) se non lo hai già catturato, questi due modi di dire ben si attagliano alla strombazzata acquisizione dell’orso di Stearns da parte della meno malconcia tra le investment banks statunitensi, quella J.P. Morgan-Chase oramai più che convinta di aver acquisito le spoglie di Bear al prezzo di una modesta campagna pubblicitaria, sborsando una somma che equivale a meno della metà del valore dell’edificio che ospita il quartier generale della rivale e che rappresenta più o meno l’uno per cento della capitalizzazione di borsa che la malcapitata banca di investimenti vantava dodici mesi orsono.

Che gli azionisti di Bear non credano fino in fondo a questa per loro sciagurata eventualità è più che comprensibile, anche alla luce del fatto che, avendo per loro sventura creduto alle false rassicurazioni di quel vero e proprio delinquente della comunicazione societaria che è l’attuale CEO, hanno rinunciato a realizzare il giovedì precedente l’annuncio del disastro circa 57 dollari per azione in luogo delle due offerte magnanimamente da Morgan, cifra risibile ma che si confronta allo zero stimato da numerosi ed accreditati analisti.

Il problema, tuttavia, sta nel fatto che sembra non crederci neppure il mercato, in quanto, dopo il comprensibile sbandamento iniziale, l’azione di Bear Stearns si ostina a mantenersi ben al di sopra del prezzo offerto, mentre si moltiplicano le voci di una possibile offensiva sulla quinta investment bank statunitense da parte di qualche banca USA o straniera che, pur non avendo ricevuto le dettagliate informazioni che sono state spiattellate sul tavolo notturno di verifica più affollato della storia finanziaria recente, potrebbero decidere di andare a vedere, rompendo così le uova frettolosamente allestite dalla Fed, dalla Sec e dagli stati maggiori delle due banche un tempo rivali, ma allo stato accomunate dal terrore dell’effetto domino contenuto a fatica nell’ultima seduta di contrattazioni prima della provvidenziale pausa pasquale.

Non bastassero le ambasce e le angosce della tempesta perfetta in corso, ci si è messo pure il New York Post, che ha annunciato al mondo intero che quello che doveva essere poco più di un lifting in casa di Goldman Sachs, la riduzione annunciata di un downsizing del 5 per cento del personale, si è trasformato in poche settimane nella decisione, anche alla luce del tonfo di circa la metà dei ricavi registrata nel primo trimestre chiuso l’infausto 29 febbraio dell’anno bisesto, di mandare bellamente a casa poco meno di un dipendente ogni sei (e cosa accade ai prestigiosi, ultraqualificati e iperselezionati partners?), una botta non da poco per gli interessati, ma che fa capire che difficilmente la salvezza delle investment banks verrà da un recupero dei ricavi, quanto da quella solita panacea rappresentata dalla sempre efficace, almeno nel breve periodo, taglio dei costi.

Peccato, tuttavia, che le donne e gli uomini che operano nelle Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali, per non parlare delle loro omologhe ed omologhi di quelle CIB delle CIB che sono le investment banks, siano delle persone un po’ particolari rispetto a quanti lavorano nelle banche commerciali, in quanto, a torto o a ragione, ritengono di essere speciali, molto preparati e molto interni alle logiche di quel mondo parallelo che è formato dalle fabbriche prodotto, dalle attività di consulenza all over the world, nonché di aver spesso ampiamente cooperato all’individuazione di marchingegni e strumenti di interesse aziendale più che di quella clientela di cui, ad ogni pié sospinto, si riafferma la centralità.
*
Per quanto possa apparire cinico e quasi crudele, il problema non è tanto delle persone che riceveranno la solita lettera di colore cangiante a seconda dei paesi in cui verrà distribuita che annuncia, spesso di venerdì ed al termine dell’orario di lavoro, la fine del proficuo ed esaltante rapporto di collaborazione con la propria banca, quanto di quelli che sopravvivono all’ondata di licenziamenti, spesso non la prima e certamente non l’ultima, spesso di una lunga serie.

Provate voi, dopo vicende del genere, a dedicare dodici ore in media al giorno, spesso sacrificando anche, in tutto od in parte, i week end, ad indossare ogni giorno quella specie di maschera che cala automaticamente sul viso nei colloqui più delicati o nelle negoziazioni più ardue, fare tutto questo sapendo che per il momento si è ancora parte della grande squadra, ma domani chissà.

Walking accross a dealing or a trading room, it would be possibile to feel and share these anxiety and related fear, con l’aggravante che quelle che ho conosciuto e frequentato circa dieci anni orsono erano dei laboratori artigianali e molto alla buona rispetto alle CIB di ora, per non parlare di quello che sono diventate, stando a voci e pettegolezzi, quelle CIB delle CIB paradigmaticamente rappresentate dalla mitica Golman Sachs, un’entità per entrare nella quale spesso non erano sufficienti cento colloqui con altrettanti partners, persone rispetto alle quali gli spregiudicati appartenenti ad un prestigioso ed affermato studio legale statunitense appaiono poco meno che apprendisti e ragazzi di bottega.

Dopo tanti convegni, studi e chiacchiere sulle Human Resources (spesso chiamate gergalmente H.R.), credo sarebbe opportuno fare qualche ragionamento basato sul semplice buonsenso sugli effetti di medio-lungo periodo derivanti dalla dispersione di questo patrimonio aziendale sia sugli allontanati, sia, a maggior ragione, sui pochi o tanti sopravvissuti, giungendo, forse, alla conclusione che la memoria di questa scomposta ed isterica reazione aziendale rischia di permanere, come un grave vulnus, in queste donne ed in questi uomini per un tempo lunghissimo, così come è certo che le loro performance e la loro stessa percezione del rischio ne risentiranno profondamente, al punto da poter generare nuovi casi incresciosi come quelli recentemente accaduti alla Société Générale o, da ultimo, al Credit Suisse.

Confesso di provare disgusto, pietà e ribrezzo di fronte a considerazioni troppo spesso udite e secondo le quali non si dovrebbe avere compassione per le sorti di queste donne e di questi uomini, in quanto strapagati, privilegiati e, a volte, complici di pratiche aziendali non proprio limpide e rispettose degli interessi del cliente o dell’investitore, anche perché ritengo che i loro datori di lavoro raramente regalino qualcosa a qualcuno, a loro volta vittime di logiche di breve o brevissimo periodo che li spingono a spremere letteralmente come limoni le sventurate o gli sventurati che, a loro volta, spesso dimenticano allegramente di essere soltanto meri esecutori di strategie e relative tattiche ideate da un numero veramente ristrettissimo di persone.
*
AVVISO AI LETTORI
Ho il piacere di annunciarvi che sul sito www.flipnews.org è disponibile, nella sezione video della homepage, il video che riporta integralmente il mio intervento al convegno del 19 marzo 2008 su Finanziarizzazione dell'economia e crisi dei mercati, dal quale, per necessità di tempo, ho omesso di citare il ruolo del Chief Operating Officer, o meglio la sua assenza nelle CIB più improvvisate, quale possibile deterrente per la deriva attuale. Invito i lettori che volessero inviare commenti sull'intervento a farlo all'indirizzo e-mail marco.sarli@libero.it

venerdì 21 marzo 2008

Se governassero le donne! (2)

A due giorni dall’ennesimo maxitaglio del tasso sui Fed Funds e del tasso ufficiale di sconto, permane uno stato alquanto confusionale dei mercati, che sembrano incerti sulle reali prospettive dell’economia statunitense e, ancor di più, dello strategico settore finanziario, situazione che spinge gli operatori a fare ciò che sanno fare meglio, ossia il cosiddetto mordi e fuggi.

Esercitandosi in questa tattica da scalpers, molto simile al surf sulle onde del Pacifico o alle tecniche della guerriglia, operatori di ogni standing e di ogni età stanno mettendo a serio rischio le loro ed altrui coronarie, facendo assomigliare sempre di più i grafici che rappresentano le sedute delle borse statunitensi e di quelle locate altrove a una sorta di percorso da montagne russe, con ribassi e rialzi di notevole entità che si susseguono a giorni alterni, ma anche con una volatilità intraday che consente guadagni quotidiani, ma anche perdite, di notevole entità.

L’altro aspetto che va sottolineato è la quasi totale autonomizzazione del mercato azionario dalle notizie economiche che, ieri, vedevano un balzo in avanti dei nuovi sussidi di disoccupazione, il quinto dato negativo del superindice, e, sul fronte positivo, solo un parziale ridimensionamento del rosso profondo dell’indice Fed di Philadelphia, ma, ai naufraghi alquanto disperati della tempesta perfetta, tutto ciò non ha impedito di spingere con decisione al rialzo i listini e di scommettere con forza su buona parte delle entità operanti nel mercato finanziario, basandosi anche sul fatto che le relative quotazioni erano giunte ormai a livelli da vero saldo.

Riluttanti ad esercitarsi in questo sport, i più anziani ed avveduti operatori europei hanno ignorato bellamente quella che potrebbe rivelarsi come l’ennesima falsa partenza ed hanno spinto decisamente al ribasso i listini di loro pertinenza, prestando, inoltre, maggiore ascolto al netto peggioramento delle previsioni economiche sfornate, quasi in simultanea, dall’OCSE e da quel Fondo Monetario Internazionale che pensavamo, o speravamo, fosse in via di smantellamento a causa della furia riformatrice del suo nuovo numero uno di cittadinanza francese, che, almeno al momento, dubito sia riuscito a spostare anche solo una pianta nei corridoi del prestigioso palazzo che ospita centinaia e centinaia di economisti che suggerisco di continuare a pagare anche bloccando le pubblicazioni dei testi derivanti dalle loro immani fatiche.

Allo stesso modo in cui ignora bellamente il quadro fosco dell’economia statunitense scaturente dalla pioggia fitta di dati provenienti dall’economia reale, così la folla sterminata di operatori ed analisti sembra non curarsi affatto del fatto che le disavventure di Bear Stearns nascevano da una struttura operativa, da un livello di leverage e da un’operatività estremamente simili a quelle, tanto per dire, di Morgan Stanley, di Lehman Brothers o di Merrill Lynch, con la sola, oltremodo lodevole, eccezione di quella J.P. Morgan-Chase che, non proprio a caso, è stata chiamata a salvare, con totale garanzia da parte della Fed, il tecnicamente fallito orso di Stearns a prezzi che, apparentemente ma forse solo apparentemente, appaiono di assoluto saldo.

Sempre con riferimento al comparto delle principali investment banks, quelle CIB delle CIB che da Big Five si sono già ridotte a Big Four, non si trova più un analista finanziario che ricordi che la flessione sensibilissima dei ricavi evidenziati dai recenti dati trimestrali (da-17 a-50 per cento) sarebbe stata ancora maggiore se non avesse funzionato, ancora una volta, quella vera e propria ciambella di salvataggio rappresentata dalle opportune previsioni di FAS e FASB che prevedono la possibilità, censurata dall’insolitamente solerte Moody’s, di considerare ricavi il mark to market negativo dei titoli della finanza strutturata ancora largamente in possesso delle suddette case di investimento.

Né sono servite ad un redde rationem notizie quali il tiraggio selvaggio delle committed lines bancarie da parte della finanziaria CIT, che, con l’acqua ormai oltre la gola, ha tirato 7,3 miliardi di dollari che le banche concedenti con ogni probabilità non rivedranno mai più, o le voci sempre più insistenti sulle difficoltà di cassa incontrate da quella pattuglia di mortgage lenders non ancora ricorse alle comode protezioni previste dalla legge fallimentare statunitense.

In un numero crescente di contee dello Stato della California, che, lo ricordo per gli amanti delle statistiche, è caratterizzato da un PIL superiore a quello dell’Italia, è ormai del tutto impossibile ottenere un mutuo, in quanto, al solo inserimento del codice postale, l’operazione si blocca pressoché in automatico, a prescindere dalla solidità, solvibilità e garanzie offerte dal richiedente il mutuo medesimo, una circostanza che rappresenta l’ennesima conferma stupidità degli approcci quantitativi religiosamente seguiti dalle banche statunitensi, e spesso da quelle altrove basate, metodi ed approcci che hanno giocato un ruolo di rilievo nella genesi dell’attuale tempesta perfetta.

L’apparentemente strano comportamento dei mortgage lenders è legato al fatto che, nelle scorse settimane, sono stati cancellati 9.600 codici postali dall’elenco di quelli meritevoli di garanzia da parte delle a loro volta tecnicamente fallite compagnie monoline, che, ancora a loro volta, seguono alla lettera il detto che vuole che chi si è scottato si trovi ad avere paura pure dell’acqua tiepida.

Ricordo con affetto gli sforzi di un’alta burocrate dell’amministrazione federale statunitense che, nel lontano mese di settembre del 2007, cercò di fare capire ai suoi superiori ed ai banchieri che era oltremodo necessario un approccio che partisse proprio dallo smantellamento di sistemi basati sui credit scores o su altri automatismi, favorendo il ritorno all’antica arte dell’affidamento basata sulle informazioni, ma anche su quel fiuto che è stato per secoli alla base dell’arte del banchiere, finendo, tuttavia, per scoprire che la saggezza femminile e la propria profonda competenza professionale poco potevano di fronte all’arroganza ed al pregiudizio ancora largamente dominanti tra gli uomini al potere nella politica così come nella finanza.

Non è il primo, né, purtroppo, sarà l’ultimo caso di discriminazione ad alto livello, anche sono certo che le uniche speranze di uscire dalla tempesta perfetta consistono nell’affidarsi proprio alla comprovata capacità delle donne di gestire meglio degli uomini le situazioni di difficoltà quali sono quelle nelle quali siamo attualmente immersi.

giovedì 20 marzo 2008

La pistola quasi scarica di Bernspan

Sarebbe troppo facile ironizzare sul più che prevedibile flop dell’ennesima mossa azzardata di Bernspan e complici, un flop anticipato, peraltro, dallo stesso freddo e scarno comunicato emesso al termine dei lavori del Federal Open Market Committee della Federal Reserve, un comunicato che, in appena diciannove righe è riuscito ad evidenziare appieno la contraddizione nella quale si dibattono i banchieri centrali, si fa ovviamente per dire, della più potente nazione del mondo, stretti come sono da un inflazione che gli ultimi dati dicono molto al di sopra dell’obiettivo dichiarato urbi et orbi dai nostri e la necessità di fare qualsiasi cosa ed in qualsiasi modo per salvare le banche e le altre innumerevoli entità operanti nel mercato finanziario globale dal disastro annunciato nel quale si dibattono, mentre appaiono del tutto incuranti delle sofferenze dei risparmiatori, degli investitori, per non parlare del popolo sempre più vasto di coloro che hanno perso la casa, il lavoro, o, come accade purtroppo sempre più spesso, li hanno perse entrambi.

Come mi è già toccato fare nel caso dei risultati nel primo trimestre 2008 (che, non ci crederete, ma si chiude al termine di febbraio, che quest’anno bisesto cade di 29) delle prime due delle ormai ex Big Five statunitensi, che lo ricordo sono in realtà delle vere e proprie CIB delle CIB,la mitica Goldman Sachs e l’alquanto traballante Lehman Brothers, mi eserciterò oggi nello stesso compito con riferimento a Morgan Stanley, che rappresenta la penultima apparizione in attesa di quelli che verranno rilasciati dalla prima della categoria, quella J.P. Morgan- Chase che dovrebbe finalizzare a breve, salvo sorprese clamorose dell’ultima ora, l’acquisizione della rivale Bear Stearns ad un prezzo stracciato al punto da rappresentare meno della metà di quello del palazzo che ospita il quartier generale della banca ormai tecnicamente fallita.

Anche se ha battuto, come del resto le due rivali espostesi per prime, le più che pessimistiche stime degli analisti ed ha registrato un taglio dei ricavi (-17 per cento) molto più contenuto di quello subito dalla altre due investment banks (-50 per cento per Goldman Sachs e -30,5 per cento per Lehaman Brothers), non si capisce proprio la soddisfazione del numero uno John Mack, in quanto la sua banca registra, nel periodo considerato e prima dell’orribile mese di marzo che batterà sul trimestre successivo, un calo dei profitti del 42 per cento rispetto a quelli conseguiti nello stesso trimestre del 2007 e deve aggiungere svalutazioni per 2,3 miliardi di dollari ai 9,4 miliardi già contabilizzati nella seconda metà del già orribile di suo 2007.

Mi permetto di dare un suggerimento agli analisti finanziari più esperti del mondo, quelli operanti tra il miglio quadrato della City londinese quelli alacremente al lavoro all’ombra del wall newyorkese: abbassate ancora le stime più di quanto già state facendo, così gli orribili risultati delle CIB delle CIB, delle banche commerciali globali o meno brilleranno ancor di più per differenza e tutti vivranno felici e contenti e questo avverrà nel migliore dei mondi possibili, che poi è quello della fantasia, dei sogni e delle speranza, con la piccola avvertenza che verrà poi il giorno nel quale tutti questi sentimenti positivi si troveranno, inevitabilmente, di fronte la realtà nuda e cruda.

Non avendo tenuto una dettagliata contabilità dei vistosi rialzi seguiti alla disperata mossa di Bernspan e complici, così mi asterrò da quella delle pesanti perdite registrate ieri dai listini europei e, successivamente, da quelli statunitensi, mentre, complice la festività giapponese ha privato l’Asia del Nikkey 225, lasciando alle borse cinesi l’improbo compito di dare due risultati contrapposti, con la sensibile flessione dell’Hang Seng e le montagne russe vissute dal sedicente indice di Shanghai, che, dopo aver perso in apertura oltre il 6 per cento, è riuscito a chiudere in rialzo.

Penso sia giusto ricordare l’eroismo dei due presidenti delle fed regionali che hanno avuto il coraggio di votare contro l’ennesimo e scontatissimo ribasso dei tassi sui Fed Funds e di quello relativo all’operazione di sconto presso la Fed, che, in due riprese, è stato ridotto di un punto pieno percentuale, anche perché so bene cosa significhi andare contro corrente rispetto a quei propri colleghi che avrebbero tanto gradito l’unanimità nello stare dietro la curva e dietro il mercato, dando, inoltre, al mercato proprio quello che il mercato così a gran voce reclama.

Purtroppo, la Storia ci insegna che il popolo e gli stessi operatori ed analisti del mercato finanziario statunitense, così come di quello globale, non sempre hanno ragione, soprattutto quando l’avidità che è stata il tratto imperante degli ultimi venticinque anni almeno ha lasciato definitivamente il posto a quel sentimento che raramente consente di decidere per il meglio e che è rappresentato dalla paura.

Ma se agli analisti, agli operatori ed ai giornalisti, più o meno embedded, sostituiamo gli accademici, allora veramente le cose si complicano, come ho avuto modo di vedere ieri nel corso del convegno che vi avevo annunciato nei giorni scorsi e che aveva, appunto, ad oggetto la finanziarizzazione, la crisi dei mercati ed i relativi effetti sociali, in quanto ho avuto modo di vedere come sia arduo per chi, come lo stesso Bernspan, è abituato a vedere la carne ed il sangue delle vicende economiche e finanziarie ex cathedra comprendere appieno le dimensioni del fenomeno che stiamo vivendo, quella che ormai quasi unanimemente viene definita se non la tempesta perfetta, perlomeno la più profonda e grave crisi finanziaria registrata dal secondo dopoguerra mondiale in poi.

Premetto doverosamente che non vi alcuna colpa nel non avere visto, dall’interno, quello che è accaduto nel periodo intercorso dal 1985 ai giorni nostri in quei laboratori via, via più sofisticati che sono stati appellati, non troppi anni orsono, le fabbriche prodotto delle investment banks o di quelle riproduzioni di queste che sono le divisioni Corporate & Investment Banking delle banche globali e di quella miriade di banche operanti uin un’area geografica più ridotta, ma che hanno deciso di pensare in grande e di fare, come si potrebbe dire, i soldi in fretta per fare contenti i propri vertici e gli oltremodo famelici loro azionisti, con l’obiettivo di stock options per i premi e sempre più generosi pay out per i secondi.

Ciò che prevale, fatte salve alcune eccezioni, tra gli economisti accademici è la certezza, o quanto meno la fondata speranza, che alla fine tutto finirà per aggiustarsi e che, comunque, si troverà un punto di equilibrio dopo aver semmai toccato il fondo di questa da pochi prevista crisi finanziaria, così come è diffusa la previsione che, alla fine, il gioco diventerà fortemente cooperativo, sorvolando alquanto sul fatto che, almeno al momento, sembra prevalere nettamente il tristemente noto principio del “to beggar my neighbour”, o la sconsolata constatazione che John Maynard Keynes ebbe a fare analizzando la Grande Depressione.

mercoledì 19 marzo 2008

Provaci ancora, Ben!

Con un freddo e scarno comunicato di appena 19 righe, il Federal Open Market Committee della Federal Reserve ha annunciato all’universo mondo di aver deciso di tagliare il tasso sui Fed Funds di tre quarti di punto, portandolo dal 3,00 al 2,25 per cento e di aver contestualmente ridotto il tasso ufficiale di sconto nella stessa misura percentuale, dal 3,25 al 2,50 per cento, misura quest’ultima che si aggiunge al taglio di un quarto di punto intervenuto a seguito della riunione straordinaria del FOMC tenutasi nello scorso drammatico week end, nel corso del quale si è proceduto all’acquisizione di Bear Stearns da parte di J.P. Morgan-Chase, dopo un lavoro estenuante che ha coinvolto esponenti della Fed, della Sec, del Tesoro USA, oltre che affollate squadre di dipendenti di rilievo delle due investment banks coinvolte nell’operazione.

Un disperato Bernspan e altri sette disorientati membri del prestigioso comitato si sono trovati di fronte, con loro e nostra sorpresa, all’opposizione argomentata e molto più lucida di due membri, Richard W. Fisher e Charles I. Plosser, presidenti, rispettivamente, delle Fed regionali di Dallas e di Philadelphia, sostenitori di un’azione di politica monetaria meno aggressiva e, aggiungo io, meno panicata e panicante.

Se pensate che sia l’ora di chiedere un ricovero d’urgenza degli otto membri del FOMC, vi invito a riflettere sul non trascurabile fatto che la stragrande maggioranza degli operatori, degli analisti e dei commentatori si aspettavano veramente un taglio di un rotondo punto percentuale ed ancora ora non riescono a capire perché l’ostinato Ben si sia voluto tenere un ultimo colpo in canna, invece di scaricare tutto il caricatore in una sola e, a loro avviso, risolutiva volta.

Vorrei rassicurare i tanti sostenitori di questa balzana, seppur diffusa, aspettativa, in quanto l’emulo di Alan Greenspan, peraltro suo indiscusso Mentore, ha ancora molto spazio verso il basso, e lo dico ovviamente in tutti i sensi possibili ed immaginabili, prima di eguagliare il suo Maestro che, come tutti certamente ricorderanno, inchiodò il tasso sui Fed Funds per ben due anni al risibile tasso dell’uno per cento, un tasso che, anche alla luce della ben più moderata inflazione di quel periodo, era largamente negativo ove espresso in termini reali, anche se significativamente meno di quanto lo sarebbe ora; quindi, wait and see.

Sorvolo, volutamente, sull’eufioria più che prevedibile dei mercati azionari a questo ennesimo regalo di Bernspan e complici, apoteosi, purtroppo solo temporanea, di quel premio al moral hazard che solennemente sia il nostro che Bush e l’ineffabile Paulson avevano giurato di perseguire con grande fermezza, se non per sottolineare quello scivolone di 100 punti del Dow Jones dovuto alla delusione per quel quarto di punto di taglio inferiore alle universali ed alquanto avide aspettative.

Non voglio, infatti, sprecare il poco spazio che mi sono auto imposto nella redazione delle puntate del Diario e sacrificare lo spazio che meritano le notizie provenienti dalle Big Five statunitensi, quelle vere CIB delle CIB, in profonde ambasce dopo che il bambino di turno ha avuto la sfrontatezza di gridare che il Re, in questa versione odierna l’orso di Stearns, era del tutto nudo.

Mentre non vi è traccia del rinviato sine die bilancio trimestrale di Bear Stearns, documento importante, quando ne cesserà l’embargo, in quanto rivisto da plotoni di donne ed uomini della Fed, della Securities and Exchange Commission, del Tesoro USA, della feroce divisione di revisione di J.P. Morgan-Chase e, the last but not the least, dell’alquanto disorientato Chief Financial Officer della casa di investimenti, peraltro l’unico che, assieme ai suoi vertici aziendali, porterà la responsabilità della veridicità ed attendibilità dei dati dell’ultimo report che la quinta investment bank americana diffonderà prima di venire ingurgitata dagli eredi del mitico John Pierpoint Morgan.

Ma ieri era il giorno dei conti del primo trimestre di Goldman Sachs e di Lehman Brothers ed il mercato ha avuto l’onore e l’onere di festeggiare il drastico calo degli utili e dei ricavi di entrambe, flessioni vistosissime, ma inferiori alle attese dei sempre più pessimisti analisti, per cui le rispettive azioni hanno compiuto dei veri e propri balzi in avanti, addirittura del 46,4 per cento per quella Lehman della quale, sino a poche ore prima, si era pressoché certi del prossimo default, dovuto, come per Bear, ad una fatale crisi di liquidità di cui si erano viste le prime avvisaglie l’altro ieri notte in Asia.

Come i miei pochi lettori ben sanno, in questa sede sono abituato ad andare oltre quelle headlines che sono il pane quotidiano dei giornalisti, più o meno embedded, e li annoierò ricordando che i profitti di Lehman sono calati del 57 per cento rispetto a quelli registrati nel primo trimestre del 2007, mentre i ricavi sono calati complessivamente del 30,5 per cento, ma sono tonfati addirittura dell’88 per cento, per quanto riguarda i ricavi provenienti dal bond trading, mentre continuano a destare preoccupazioni gli 80 miliardi di titoli rappresentativi di mutui per l’acquisto di abitazioni ed edifici ad uso commerciale ancora in portafoglio nel quarto trimestre 2007.

Parlando dei risultati della preveggente Goldman, stento a cedere alla tentazione di scrivere alzandomi in piedi di fronte al frutto delle immani fatiche dell’anziano David Viniar, un uomo che ha l’indiscusso merito di aver salvato dal fallimento la prima delle Big Five, intimando ai suoi molteplici ed alquanto riluttanti partners il drastico cambio di rotta operato a partire dal lontano settembre del 2006, un cambio di rotta che ha portato Goldman a vendere il vendibile della montagna di titoli della finanza strutturata in suo possesso ed a coprire con opportuni strumenti derivati quanto non era proprio possibile vendere.

Ebbene, le cifre diffuse e commentate da questo indiscusso mago dei numeri ci dicono che, nel primo trimestre di quest’anno bisesto, i ricavi della prestigiosa casa di investimenti sono tonfati del 50 per cento circa, anche a causa dei circa 2,5 miliardi di svalutazioni opportunamente operate sui residui ma tuttora consistenti finanziamenti alquanto a rischio, in linea con il tracollo dei profitti di pertinenza del periodo, passati dai 3,2 miliardi di dollari del primo 2007 agli 1,51 miliardi dello stesso periodo di quest’anno, cifre largamente scontate dal mercato che ha inflitto all’azione un ridimensionamento del 30 per cento circa rispetto ai valori di inizio anno, perdite solo in parte ridimensionate dalla brillante e temporanea performance di ieri.

Vi rammento nuovamente l’appuntamento di oggi alla 9 e 30 al Residence Ripetta, nell’omonima via di Roma, per il convegno sulla crisi finanziaria ed i suoi effetti sociali.

martedì 18 marzo 2008

Basterà la svendita della pelle dell'orso?

Quanti si chiedono se il fulmineo salvataggio di Bear Stearns da parte di J.P. Morgan-Chase, ma, soprattutto, da parte della Federal Riserve che ha prestato garanzie assolute sull’iniezione di liquidità per 30 miliardi di dollari ricevuta venerdì dalla quinta banca di investimento statunitense, già in quelle ore tecnicamente fallita, si configuri come una solenne smentita dei giuramenti fatti Bush e Bernanke di non premiare il moral hazard intervenendo in favore di alcuna delle banche i cui comportamenti sono all’origine della tempesta perfetta dimostrano di non comprendere l’abisso che, nelle situazioni di crisi ma non solo, separano le parole dei fatti.

Dal punto di vista strettamente tecnico, l’immane garanzia prestata senza condizioni dagli uomini di Bernspan non può intendersi in favore di Bear, né tanto meno dei suoi sventurati azionisti che hanno visto, nel volgere di due sedute, il valore dell’azione liquefarsi letteralmente nelle loro mani, quanto una sorta di salvataggio preventivo della banca acquirente, quella J.P. Morgan-Chase che è stata scelta sia perché la più esposta nei confronti di bear, sia perché l’approccio maggiormente conservativo seguito dai suoi vertici la ha relativamente preservata dai marosi della tempesta perfetta.

L’azione rapidissima della Fed si è, peraltro, esercitata su tre fronti, in quanto, oltre alla maxi garanzia prestata in favore del cavaliere bianco, ha ulteriormente tagliato il tasso ufficiale di sconto (dal 3,50 al 3,25 per cento), ma, e forse soprattutto, ha ulteriormente allargato il bacino della discarica a cielo aperto nella quale sta ospitando una parte significativa della montagna di titoli della finanza strutturata prodotta da Bear e dalla miriade di banche di ogni ordine e grado nel corso del tempo e ormai del tutto indesiderati da parte degli investitori istituzionali e non.

Le analogie con il salvataggio della britannica Northern Rock, effettuato l’estate scorsa da una alquanto incerta e riluttante Bank of England, sono pressoché totali, anche se, nel caso della blasonata banca di investimenti statunitense, è quasi del tutto assente il non trascurabile elemento rappresentato dalle file di depositanti alla disperata ed affannosa ricerca del recupero dei loro soldi, quelle immagini realmente devastanti che hanno invaso le case dei teleutenti di tutto il mondo prima che il Governo di Sua Maestà si decidesse a garantire i depositi fino all’ultimo penny, rinnegando apertamente le previsioni della legge che tutela i depositanti sul suolo della Gran Bretagna ed aprendo così la strada che ha condotto, immancabilmente, alla nazionalizzazione del disastrato, ed alquanto spogliato dai suoi rapaci e spregiudicati vertici e manager, ottavo istituto di credito di quel Paese.

Lasciando i Soloni di turno ai loro appassionati ed alquanto ipocriti dibattiti sul rapporto tra etica e finanza, mi permetto di dire che il fallimento, perché di questo si è in realtà trattato, di una banca che in realtà è o era per sua stessa natura una sorta di gigantesca Corporate & Investment Bank apre una fase dello scenario assolutamente inquietante, in quanto, evaporatisi i gonzi istituzionali o meno, resta soltanto quell’intreccio fortissimo che lega ogni soggetto operante nel vasto mercato finanziario globale con l’altro, in una sorta di inestricabile matassa di debiti e crediti, della quale nessuno, ma proprio nessuno, sa dove parta il filo iniziale.

Non è peraltro un caso se, mentre ancora erano caldi i dispacci ed i resoconti giornalistici in tempo real e sul prezzo della pelle dell’orso, che tutti erano lì ad interrogarsi su quale sarebbe stata la prossima vittima e sono bastati i rumors sulle presunte difficoltà incontrate in Asia da Lehman Brothers, un’altra delle Big Five statunitensi, che le azioni di quest’ultima sono crollate del 50 per cento, per poi chiudere, con volumi di scambi assolutamente mostruosi, con una perdita di poco meno del 20 per cento.

Brillava ieri, in quasi perfetta solitudine, la stella del cavaliere bianco, ma in fondo non tanto visto che di coraggio ne ha mostrato molto meno di quello, ad esempio, del famoso San Giorgio, con le azioni di J.P. Morgan-Chase in rialzo per tutta la seduta e chiuse a poco meno di un rotondo +10 per cento, in quanto il mercato ha apprezzato che il prezzo, si fa per dire, della transazione conclusa nella notte di domenica, sia stato inferiore al valore del palazzo che ospita il quartier generale di Bear.

Agli albori della tempesta perfetta prevedevo che uno degli effetti della stessa sarebbe stato un drastico processo di concentrazione del settore creditizio statunitense, in parte favorito dalla fulminea liquefazione della maggior parte della pletora di entità operanti nel settore del mortgage e nell’assorbimento progressivo delle poche superstiti da parte di banche di varia dimensione, ma credo che, alla fine alquanto lontana della storia, questa concentrazione finirà per essere ancora più drastica, per vedere forse non più di due superstiti investment bank, un numero di commercial bank statunitensi di respiro nazionale non superiore a tre entità, un completo rinnovamento nel settore delle monoline, frutto di fallimenti e dell’avvento di nuove e più prudenti compagnie, rinnovamento che, a sua volta, favorirà un’altrettanto drastica semplificazione nel gigantesco settore assicurativo.

In un oceano di rosso cupo rappresentato dagli indici asiatici, europei e dagli altri due indici statunitensi, spiccava ieri il tenue e solitario verde del Dow Jones Industrial 30, ma credo non sfugga a chi si è preso, come me, la briga di dare uno sguardo alle sorti dei trenta illustri componenti dell’indice che si è trattato, con ogni probabilità, ed al netto dell’effetto cavaliere bianco, di una ottima performance dei gestori incaricati di effettuare gli acquisti di buyback deliberati in precedenza dai boards delle rispettive compagnie, che giustamente approfittano dei ribassi per spendere meno e dare un sostanzioso e generoso sostegno alle quotazioni delle rispettive azioni.

Si aprono oggi i lavori del Federal Open Market Committee della Federal Reserve, una riunione dagli esiti più che scontati, con l’unica incertezza legata all’entità del maxi taglio del tasso dui Fed Funds, verosimilmente oscillante tra 75 punti base ed il punto pieno percentuale, mentre ci si attende un’ulteriore limatura di 25 punti base per il TUS, che dovrebbe portarsi al 3 per cento.

Sono certo che Bernspan ed i suoi complici non deluderanno le attese, intenti come sono da tempo a stare dietro, ma molto dietro, la curva ed, aggiungo io, dietro ma molto dietro il mercato.

Vi rammento nuovamente l’appuntamento di domani alla 9 e 30 al Residence Ripetta, nell’omonima via di Roma, per il convegno sulla crisi finanziaria.

lunedì 17 marzo 2008

Bernspan vende la pelle dell'orso a Morgan

La grave crisi di liquidità e di prospettive di Bear Stearns, ufficialmente scoppiata nella notte tra giovedì a venerdì della settimana scorsa, ha trovato nella tarda serata di domenica e, come annuncia una nota dell’Associated Press diffusa sul web alle 3 e 31 del mattino di oggi (ora italiana), il board di Bear ha accettato l’offerta di acquisto avanzata da J.P. Morgan-Chase, il cavaliere bianco scelto immediatamente dalla Fed per lanciare venerdì stesso una ciambella di salvataggio da 30 miliardi di dollari verso le mani protese dalla quinta banca di investimento statunitense, già in quelle ore tecnicamente fallita.

Ovviamente, le condizioni dell’offerta sono durissime per l’acquisita, in quanto le azioni della storica banca (fu fondata a New York nel 1923) verranno pagate solo 2 dollari, contro i 57 di giovedì e gli stessi 30 della chiusura di venerdì, per non parlare dei 150 toccati un anno fa, con un esborso previsto per J.P. Morgan di appena 236,2 milioni, ma, d’altra parte, anche all’ombra del Wall vale il molto romano guai ai vinti, mentre continua a non valere il “chi rompe paga e i cocci sono suoi”, in quanto, alla fine di questa come delle storie precedenti, il rischio se lo è assunto la Fed di New York per la bellezza dei 30 miliardi di dollari prestati da Morgan ma garantiti sino all’ultimo soldo dalla succursale newyorkese della banca centrale guidata da Bernspan e, quindi, va in capo ai contribuenti statunitensi tutti, nessuno si senta escluso.

Come ci ricordava ieri, nel suo efficace editoriale sulle pagine economiche de La Repubblica, “Peppino Turani” (che ringrazio per l’evidente attenzione a questo blog che gli è stato da me segnalato nei mesi scorsi e per la qual cosa ha avuto la bontà di inviarmi un e-mail di ringraziamento che ho, ovviamente incorniciato), Ben Bernanke, da placido studioso dell’economia e docente nella prestigiosa Università di Princeton, sarebbe il maggiore esperto mondiale delle crisi finanziarie e, per quella che lo stesso Turani definisce un vera e propria nemesi storica, si è visto catapultato alla guida della Fed proprio alla vigilia della tempesta perfetta.

Non ho mai dubitato dei titoli accademici e del valore di studioso di Bernspan, ma credo, invece, che il problema stia proprio nel fatto che una persona abituata a meditare nel suo studiolo o passeggiando per i viali del prestigioso campus non sia esattamente quello che ci vuole per dipanare la matassa realmente ingarbugliata della finanza strutturata, un gomitolo di dimensioni difficilmente immaginabili e che ci ha messo oltre venti anni a formarsi, sotto la guida amorevole di Alan Greenspan, un uomo che all’attività di ottimo musicista alternava gli impegni connessi a quella presidenza della Federal Reserve di cui è stato insignito per poco meno di venti anni, rompendo definitivamente con il noioso e rigido approccio seguito da quel Paul Volker che ora tutti rimpiangono e che andò via sbattendo rumorosamente la porta contro le interferenze della politica e degli interessi molto vestiti della finanza statunitense e globale.

Per rendere meglio il concetto dell’inadeguatezza di Bernspan a guidare la Fed, mi vedo costretto ad usare una metafora: sarebbe come affidare una prestigiosa orchestra ad uno studioso di musica o una vettura di formula uno a chi sa tutto di classifiche, team e quant’altro, ma non ha nemmeno la patente per guidare una semplice autovettura o affidare un caccia dell’aeronautica militare statunitense ad uno come George W. Bush, come purtroppo è accaduto nel 2003, anche se in quel caso, vi era un esperto pilota pronto a prendere i comandi per evitare di schiantare il velivolo nella fase di atterraggio sul ponte della portaerei Indipendence sul quale già campeggiava, sotto l’abile regia dello spregiudicato Karl Rove, lo striscione con la scritta “Mission accomplished”.

Non pago di aver fatto da levatrice di una acquisizione lampo fatta in totale spregio dei diritti degli azionisti che hanno visto polverizzarsi in poche ore quel che restava del proprio investimento e senza nemmeno il pannicello caldo dell’usuale scambio di carta contro carta recentemente utilizzato da Bank of America in occasione del salvataggio dell’ormai esausta Countrywide, Bernspan ha annunciato di aver fatto un altro passo verso le richieste delle banche USA e globali, riducendo, al di fuori del meeting che si terrà martedì, il tasso ufficiale di sconto dal 3,50 al 3,25 per cento, mentre, nelle convulse fasi della trattativa tra le due banche, aveva autorizzato l’immissione, a garanzia, di una vera montagna di titoli della finanza strutturata facente capo in precedenza a Bear Stearns.

Già, perché non credo di aver sottolineato a sufficienza come l’istituto presieduto dall’ineffabile Jimmy Cayne e guidato da Alan Schwartz, pur essendo solo la quinta delle Big Five, ha svolto un ruolo di primo piano nell’impacchettamento di titoli della finanza strutturata, titoli spesso talmente complessi ed astrusi da aver richiesto l’assunzione di uno stuolo di spacchettatori, impegnati da mesi, giorno e notte, nel capirci qualcosa in quello che gli ingegneri della fabbrica prodotto di Bear avevano combinato e dei quali le famiglie reclamano almeno qualche notizia sulla sopravvivenza in vita, ingrate per gli altissimi compensi orari percepiti dai loro congiunti.

Per allentare un po’ la tensione, vi ricordo che Jimmy, nelle citate ore convulse notturne era altrove, impegnato nel campionato USA di bridge, nel quale si è classificato buon quarto, ripetendo così la brillante performance di giugno del 2007, quando, mentre due hedge funds di Bear si liquefacevano, il nostro era impegnato in altre partire a carte e si impegnava a fondo sul green, in quanto, pur essendo allora impegnatissimo nelle due cariche di Chairman e CEO di Bear, risulta essere anche, nonostante la veneranda età, un ottimo golfista.

Credo proprio che, anche stavolta, nessuno sarà chiamato a pagare per l’ennesima presa in giro degli azionisti e del mercato finanziario globale tutto, così Schwartz non verrà arrestato per avere detto, mercoledì, in diretta televisiva che i rumors sul pessimo stato della liquidità della sua banca, né tale sorte toccherà all’ex numero uno che ha diffuso un comunicato stampa rassicurante in relazione ad una banca che non frequenta più da anni, mentre Jimmy si era già dato latitante dai suoi doveri in advance.

Nel frattempo l’euro è a 1,59 dollari, mentre la valuta statunitense sta testando verso il basso quella soglia dei 95 yen che avevo previsto a fine 2007 come obiettivo dell’intero 2008, mentre è facile intuire dove andranno oggi le borse, il petrolio, l’oro e gli altri sempre più richiesti metalli preziosi.