martedì 24 novembre 2009

Un banchiere prenderà il posto di Geithner?


Non vorrei che dietro l’odierno rally della borsa statunitense più che la soddisfazione per il balzo in avanti delle vendite di case vi sia l’indiscrezione del New York Post sulla possibilità che il numero uno di J.P. Morgan-Chase, Jamie Dimon, possa subentrare all’attuale ministro del Tesoro, Timothy Geithner, un’ipotesi che considero sciagurata e che spero davvero si riveli al più presto del tutto infondata.

E’ vero che l’ipotesi appare un po’ stiracchiata, ma l’esperienza recente dell’ex (?) investment banker sulla poltrona più alta del dicastero del Tesoro a stelle e strisce, Hank Paulson, nonché quella più remota nel tempo del suo ex collega in Goldman, Robert Rubin, fa temere che non sia affatto impossibile che Obama punti su un banchiere di lungo corso per rimpiazzare il civil servant Geithner che, in effetti, è da lungo tempo sotto tiro.

I lettori del Diario della crisi finanziaria conoscono bene la mia valutazione dei trenta mesi di gestione di Paulson al Tesoro, una prestazione al di sotto di ogni sospetto e che non cercava neppure di nascondere il pesante conflitto di interessi gravante sul ministro che aveva, insieme a Bernspan beninteso, potere di vita o di morte sulla banca di provenienza e sulle sue più o meno dirette rivali, per non parlare della serie infinita di piani per uscire dalla crisi trionfalmente annunciati e, quasi sempre, repentinamente falliti.

Ma il capitolo più oscuro della saga di Paulson resta indubbiamente la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, una decisione che portò il mercato finanziario globale quasi oltre l’orlo del baratro, un’eventualità sciagurata che venne impedita soltanto a costo di decisioni eccezionali assunte dal G20 nell’ottobre del 2008 e che videro gettate sul piatto, tra impegni e spese realmente sostenute, decine e decine di migliaia di miliardi di dollari, in larghissima parte a rischio se non proprio a carico dei contribuenti.

Nel caso di Paulson, non si trattava nemmeno dell’eterno dilemma tra scelte in favore di Wall Street o di Main Street, in quanto era evidente a tutti l’approccio assolutamente bancocentrico dell’allora ministro del Tesoro, un approccio che contribuì a spedire General Motors e Chrysler dritte dritte nel girone infernale delle procedure fallimentari dalle quali entrambe sono uscite a spese dei loro bondhoders.

A onore di Dimon, va tuttavia detto che la banca da lui gestita è certamente quella che ha retto meglio alle intemperie della tempesta perfetta, forse anche perché era quella meno caratterizzata dagli elevatissimi rapporti di leverage che affliggevano le sue più dirette concorrenti, ma questo non è sufficiente a preferire un banchiere a un ex presidente della Fed di New York tempratosi per quasi due decenni proprio al ministero del Tesoro.

Il balzo in avanti delle vendite di case negli Stati Uniti d’America in ottobre, una crescita del 10,1 per cento rispetto al mese di settembre, trae invece origine da quelli che dovevano essere gli ultimi fuochi degli incentivi fiscali che dovevano scadere alla fine di novembre, ma che sono stati estesi fino alla fine di aprile dell’anno prossimo, bonus fiscali che sono stati estesi anche a quanti acquistano una casa non per la prima volta, purché possano dimostrare di essere in possesso dell’abitazione precedente da almeno cinque anni, anche se in questo caso il bonus si riduce da 8.000 a 6,500 dollari.

sabato 21 novembre 2009

Trichet tira il freno?


E’ oramai il terzo giorno consecutivo che il mercato azionario statunitense registra ribassi, ma stavolta la causa non è tanto interna quanto proveniente dall’altro lato dell’Oceano Atlantico, più in particolare in quel di Francoforte, da dove il germanizzato Jean Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, ha detto che è giunto il momento di ritirare il supporto eccezionale alle banche europee.

Buona parte del recente rally delle borse era dovuto alle ripetute promesse dei ministri dell’economia del G20 sul mantenimento delle misure eccezionali varate nell’ottobre del 2008, quando, dopo il fallimento di Lehman Brothers e la seconda ondata di nazionalizzazioni e salvataggi, sembrava davvero che si dovesse registrare il default sistemico del mercato finanziario globale.

Come ricorderanno i lettori del Diario della crisi finanziaria, la tempesta perfetta ebbe inizio proprio in Europa il 9 agosto del 2007 con il blocco totale della liquidità sul mercato interbancario e il primo mega intervento da parte della BCE, ma è evidente che Trichet è convinto che oramai le banche possano fare da sole.

L’intervento di Trichet deve avere gelato i partecipanti al Congresso dell’associazione bancaria europea, molti dei quali avranno iniziato subito a fare i conti di quanto costerà alle rispettive banche il venir meno del sostegno generoso della BCE, anche se è sicuro che i rubinetti non verranno chiusi bruscamente, basterebbe pensare che una delle misure annunciate sempre oggi dall’istituto di Francoforte, quella che prevede il doppio rating per i titoli che possono essere forniti dalle banche come collaterali riguarderà solo i titoli emessi dal 1° marzo dell’anno prossimo.

Il presidente della BCE ha usato anche toni duri nei confronti del comportamento delle banche, ma questa non è una novità, né sembra che i presenti se la siano presa più di tanto per i riferimenti ai bonus e al restringimento dell’offerta di credito all’economia.

A proposito di bonus, è molto interessante quanto sta avvenendo in casa della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, dove, stando a un informatissimo servizio del Wall Street Journal, sarebbe in corso una rivolta dei grandi azionisti contro la attribuzione di qualcosa come venti miliardi di dollari di premi ai dipendenti, un multiplo degli utili distribuiti sotto forma di dividendi agli azionisti, una distribuzione della ricchezza prodotta che appare iniqua ai possessori di pacchetti azionari rilevanti di Goldman.

Molto piccato, il portavoce di Goldman, Lucas van Praag, ha replicato che le critiche sui bonus sono fuori luogo, in quanto, a suo dire, gli azionisti vogliono che la compensation sia tale mantenere i talenti interni e da essere attrattiva per i talenti che aspirano a entrare in Goldman, una precondizione indispensabile per garantire i profitti futuri.

Gli azionisti ribelli obietterebbero che, pur tenendo conto delle ferree, almeno in terra statunitense, regole della meritocrazia, 775 mila dollari a testa, una media che prende in considerazione anche gli addetti a mansioni esecutive, sembrano un po’ troppi anche per gli addetti alla banca più potente del pianeta!

venerdì 20 novembre 2009

Milioni di case a rischio negli USA! (2)


Per il secondo giorno consecutivo, i mercati azionari, ma in particolare quello statunitense, stanno vivendo momenti poco felici, influenzati dalla non soluzione dei due nodi principali messi in luce dalla tempesta perfetta: il meltdown del settore immobiliare e il sempre più elevato tasso di disoccupazione.

In uno scenario del genere, è sufficiente che il numero delle richieste di sussidi settimanali di disoccupazione continui ostinatamente a mantenersi al di sopra delle 500 mila domande (505 mila per la precisione) per convincere operatori e investitori del fatto che l’economia a stelle e strisce sta ancora perdendo posti di lavoro, una convinzione che mal si concilia con l’idea di una ripresa forte già in atto.

Pur essendo calato a 5,6 milioni il numero di persone che ricevono i sussidi statali per le canoniche 26 settimane, va considerato che, nel frattempo, sono cresciute di 120 mila unità, giungendo a 4,2 milioni, le persone che ricevono i sussidi decisi dal congresso per 73 settimane, benefici che sono stati recentemente estesi da un minimo di 13 a un massimo di 20 settimane, il che porta il totale delle persone che ricevono un sussidio a poco meno di 10 milioni.

Avevo fornito nella puntata di martedì del Diario della crisi finanziaria i dati sui ritardi dei pagamenti nei mutui forniti dalla TransUnion, ma un quadro molto più preoccupante lo ha fornito oggi la Morgane Bankers Association che stima al 14 per cento il numero dei mutuatari in ritardo con i pagamenti delle rate, un dato che, secondo il rapporto, potrebbe rivelarsi micidiale per l’accenno di ripresa nelle vendite dovuto ai bonus fiscali decisi a livello federale, sgravi terminati a settembre ma che riprenderanno a partire dal mese di aprile del 2010 per transazioni da perfezionare entro la fine del mese di giugno.

Secondo i dati a disposizione dell’associazione, sono circa quattro milioni i mutuatari che sono già sottoposti alla procedura di foreclosure o in ritardo da almeno tre mesi nei pagamenti, numeri che confermano le previsioni formulate da uno dei vice di Geithner in una preoccupatissima deposizione al Congresso, nella quale affermava a chiare lettere che milioni di americani avrebbero perso la propria abitazione nei prossimi due anni.

I dati della Mortgage Bankers Association illustrano inoltre un fenomeno davvero preoccupante, in quanto ad andare in default non sono più i sottoscrittori di mutui subprime, passati dal 35 per cento del terzo trimestre 2008 al 16 per cento attuale sul totale dei mututari in ritardo nei pagamento o in foreclosure, ma bensì coloro che hanno sottoscritto mutui a tasso fisso e con un buon score creditizio, passati dal 21 al 33 per cento, ma è parimenti preoccupante il balzo al 18 per cento del totale di quanti hanno almeno una rata insoluta anche i mutui assistiti da garanzia della Federal Housing Administration.

In perfetta analogia con i dati forniti dalla TransUnion, anche quelli della Mortgage Bankers Association segnalano che la parte del leone la fanno i soliti quattro Stati, la Florida, la California, il Nevada e l’Arizona, che totalizzano il 44 per cento delle nuove procedure di foreclosure, con la Florida che da sola ne rappresenta il 13 per cento e il Nevada che contribuisce per il 9 per cento del totale.

mercoledì 18 novembre 2009

Milioni di case a rischio negli USA!


Sentivo ieri alla radio il resoconto abbastanza drammatico della crisi immobiliare a stelle e strisce, un dramma che il testimone descriveva in termini alquanto crudi con una serie di numeri: mezzo milione di abitazioni già espropriate dalle banche e due milioni in procinto di esserlo nel prossimo futuro, numeri che non rendono fino in fondo l’idea di interi quartieri non più abitati se non da una fitta selva di cartelli con la scritta vendesi.

Lo stesso interlocutore, un italiano che vive da alcuni anni negli Stati Uniti d’America, ha raccontato di un escamotage utilizzato dalle banche nelle zone divenute improvvisamente deserte e che consiste nell’offrire una parte delle abitazioni a un dollaro, purché l’acquirente si impegni ad abitarle, nella speranza che un panorama meno lunare del quartiere induca i potenziali acquirenti a decidere di comprare un abitazione.

Noto con piacere che diversi economisti e non pochi analisti si dichiarano convinti che senza una soluzione del problema delle foreclosure e di quello altrettanto drammatico della disoccupazione non sarà possibile uscire dall’attuale crisi e vedere l’avvio di una ripresa vera e sostenibile nel tempo.

Purtroppo, i numeri rappresentano una ben altra situazione ed è di oggi la notizia che la percentuale di mutuatari in ritardo nel pagamento delle rate da sessanta o più giorni si è portata, nel terzo trimestre, al 6,25 per cento, mentre era, seppure di poco, inferiore al 4 per cento nello stesso periodo dell’anno scorso, il che vuol dire che siamo di fronte a una percentuale di mutuata morosi multipla di quella che avrebbe costretto le finanziarie a riacquistare dalle banche i mutui spesso venduti poche ore dopo essere stati stipulati.

Per chi vuole vedere il lato pieno del bicchiere, si può notare che il tasso di crescita dei morosi nei confronti di quanti erano in tale condizione nel secondo trimestre è calato al 7,4 per cento, mentre era stato dell’11,3 per cento nel confronto tra il secondo trimestre e il primo e del 14 per cento tra il primo trimestre di quest’anno e l’ultimo del 2008, un segnale certamente incoraggiante, ma che non consente eccessi di ottimismo, anche alla luce delle drammatiche cifre rese note nei mesi scorsi da un vice ministro del Tesoro.

Nella triste graduatoria resa nota dalla TransUnion, un agenzia che dispone di un data base con 27 milioni di posizioni, primeggia il Nevada, con un tasso di delinquencies mortgage del 14,4 per cento (era del 7,7 nel terzo trimestre del 2008, seguito dalla Florida con il 13,3 per cento (7,8 per cento l’anno scorso), l’Arizona con il 10,4 per cento (5,5 per cento) e la California con il 10,2 (5,8 per cento).

In questo quadro desolante, una vera e propria isola felice è rappresentata dal North Dakota, uno Stato nel quale solo l’1,7 per cento dei mutuatari risultano essere in ritardo con i pagamenti, una percentuale che era solo dell’1,4 per cento nel terzo trimestre del 2008.

Se si rivelasse vera la previsione fatta nel rapporto che indica nel 7 per cento i mutuatari in ritardo nei pagamenti nel quarto trimestre dell’anno in corso, questo vorrebbe dire che, con riferimento al parziale seppure importante campione monitorato da TransUnion, poco meno di due milioni di abitazioni sarebbero a rischio di esproprio!

martedì 17 novembre 2009

La nuova General Motors perde ancora!


E’ proprio vero che in una tempesta perfetta ci si abitua a tutto, anche al fatto che la più grande casa automobilistica americana divenga posseduta al 61 per cento dallo Stato, che entri in una procedura fallimentare gravata da poco meno di 100 miliardi di dollari di debiti e ne emerga con soli 16 miliardi, di cui 6,7 nei confronti dello Stato, che perda 1,2 miliardi nel terzo trimestre, affermando però che le cose vanno meglio.

Ho dedicato più di una puntata del Diario della crisi finanziaria a quelli che in questa storia della General Motors davvero non stanno meglio e sono i possessori dei titoli di debito della casa automobilistica, quelli che hanno dovuto accettare un forzoso e dannoso cambio dei propri titoli in azioni, rinunciando, come si suol dire, al certo per l’incerto, fermo restando un fortissimo taglio del dovuto.

Gli ex bondholders e ora azionisti potranno riconsolarsi con l’aumento del fatturato della General Motors, in buona parte legato al generoso programma di rottamazione varato dall’azionista di maggioranza, che ha portato i ricavi dai 22 miliardi del secondo trimestre ai 26 del terzo, poco importa che quelli del secondo trimestre fossero del 50 per cento inferiori a quelli dello stesso periodo dell’anno precedente.

Il mercato nel frattempo festeggia con buoni rialzi degli indici e un discreto incremento del prezzo del petrolio (al di sopra dei 77 dollari al barile) il forte rialzo delle vendite al dettaglio in ottobre, una variazione dell’1,4 per cento in gran parte legata alle vendite di auto, al netto delle quali la variazione resta positiva ma solo dello 0,2 per cento, mentre gli analisti si attendevano un rialzo dello 0,,4 per cento.

Volendo fare un po’ le pulci al dato, si potrebbe dire che il rialzo di ottobre fa seguito a una flessione rivista al 2,3 per cento da una lettura iniziale di -1,4 per cento, il che starebbe a dire che le vendite al dettaglio complessive restano ancora inferiore a quelle registrate nel mese di agosto, il che vale in particolare per le vendite di auto che sono cresciute in ottobre del 7,4 per cento circa dopo essere calate del doppio in settembre.

Al modesto rialzo delle vendite al dettaglio ex auto fanno da contorno cali dello 0,8 per cento delle vendite di mobili e dello 0,6 per cento per apparecchiature elettroniche, mentre è pari allo zero l’incremento delle vendite presso i distributori di benzina, una situazione che non sorprende più di tanto gli analisti che sarebbero invece stupiti di vedere un’effervescenza dei consumi in presenza di tassi di disoccupazione così elevati e dell’attuale restrizione dei criteri per la concessione del credito al consumo.

D’altra parte, la stessa crescita del 3,5 per cento del prodotto interno lordo statunitense è in larga misura spiegata da una crescita dei consumi del 3,4 per cento che si è concentrata in larghissima prevalenza su case e automobili a causa dei programmi di incentivazione governativi, uno dei quali, quello per l’automobile, definitivamente cessato, mentre l’altro, quello per le case, ripartirà la primavera prossima, una situazione che non fa prevedere nulla di buono per i tre trimestri prossimi venturi.

venerdì 13 novembre 2009

In calo le vendite di Wal-Mart!


Come ripeto da tempo, la questione centrale dell’attuale fase continua a essere quello dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, e quello a esso strettamente collegato dei consumi, due questioni delle quali sembrano essersi accorti oggi anche gli investitori che, dopo aver fatto conseguire ai tre principali indici statunitensi i massimi dell’anno, sembrano essere divenuti esitanti.

Il permanere delle richieste settimanali dei sussidi di disoccupazione al di sopra della soglia delle 500 mila richieste e il calo delle vendite dei negozi americani del gigante degli sconti Wal-Mart nel terzo trimestre hanno chiarito che l’uscita dalla crisi sarà molto lenta, mentre l’orizzonte è tutt’altro che scevro di incognite.

Sembra strano che queste due notizie abbiano sortito più effetto dell’allarme lanciato da due presidenti regionali della Fed che avevano avvertito che bisogna abituarsi all’idea di avere tassi elevati di disoccupazione per molti anni e che questo, ovviamente, inciderà sui consumi e renderà più debole la ripresa.

A onta del calo delle vendite nei negozi americani aperti da più di un anno, Wal-Mart ha registrato una crescita dei profitti del 3 per cento e un incremento delle vendite a livello mondiale da 98,3 a 99,4 miliardi di dollari, mentre gli analisti puntavano su un volume totale delle vendite di 99,9 miliardi di dollari, ma quello che ha davvero spaventato gli investitori è che è previsto un calo delle vendite dei negozi americani anche nel quarto trimestre, normalmente il trimestre nel quale le vendite di questa come delle altre catene americane sono più elevate a causa del Christmas Spending e delle politiche molto aggressive di offerte.

Per avere un’idea dell’importanza di Wal-Mart, basti pensare che l’anno scorso ha totalizzato vendite per 400 miliardi di dollari, al punto che è considerato dagli analisti un efficace barometro della spesa dei consumatori americani, così il fatto che le vendite nel terzo trimestre siano scese dello 0,3 per cento ha destato ancor più preoccupazione del fatto che il tasso di disoccupazione sia giunto in ottobre al 10,2 per cento.

Nonostante un calo del 2,5 per cento, il prezzo del petrolio continua a mantenersi nell’area dei 77 dollari al barile, un livello che è da molti considerato come una vera e propria minaccia per le speranze di ripresa, anche se difficilmente gli scommettitori molleranno la presa da questo segmento di attività che sta garantendo enormi livelli di profitti.

Parlando in marigne ai lavori dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC), il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, ha provato a ripetere il mantra ripetuto per decenni da tutti i suoi predecessori e cioè che gli Stati Uniti d’America si adoperano e si adopereranno per un dollaro forte, un’affermazione che stride alquanto con il deficit federale che per lo scorso hanno fiscale è stato di 1,400 miliardi di dollari e che non dovrebbe essere di molto inferiore a tale livello anche per l’anno fiscale appena iniziato, il bello è che tra quelli che lo stavano ad ascoltare vi erano i maggiori detentori stranieri di dollari e di titoli di stato denominati in tale valuta, persone costrette, per evidenti ragioni, a credere alla veridicità di quanto affermato da Geithner.

mercoledì 11 novembre 2009

La Fed lancia l'allarme sulla disoccupazione!


Mentre ancora non si è spenta l’eco del superamento della soglia psicologica del 10 per cento del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti d’America, la Federal Reserve fa sapere che la ripresa è così fiacca che bisognerà abituarsi a tassi di disoccupazione elevati per diversi anni, una prospettiva che non consolerà molto i circa 16 milioni di americani che ufficialmente disoccupati e che sono attivamente alla ricerca di un lavoro.

L’allarme è stato lanciato, in due discorsi separati, dai presidenti delle Federal Reserve di Atlanta, Tennis Lochart, e di quella San Francisco, Janet Yallen, che hanno avvertito che la disoccupazione crescente può incidere sui consumi e rendere più debole la ripresa, un’ipotesi tutt’altro che peregrina, anche alla luce del fatto che i consumi pesano per il 70 per cento dell’attività economica complessiva.

Si è trattato del primo pronunciamento di due alti esponenti della Fed dopo il superamento della soglia del 10 per cento del tasso di disoccupazione, un evento che si è ripetuto solo due volte dalla fine della seconda guerra mondiale, e non ha mancato di avere un certo impatto sui mercati, in particolare sul Dow Jones che aveva appena toccato i massimi del 2009, rispedendo indietro decisamente il prezzo del petrolio verso i 78 dollari al barile, mentre si era portato al di sopra degli 80 dollari all’avvio delle contrattazioni.

La pubblicazione dei dati sulle vendite di case nel terzo trimestre da parte del National Association of Realtors chiarisce uno dei motivi dell’escalation di case vendute nel periodo e che è rappresentato dall’ulteriore calo dei prezzi, un calo che ha riguardato l’ottanta per cento delle aree metropolitane considerate e che è in larga misura spiegato dal fatto che poco meno di un terzo delle vendite ha riguardato case oggetto di procedure di vendita legate o al non pagamento delle rate del mutuo o altre ragioni di difficoltà finanziarie dei proprietari.

Secondo questa rilevazione, il prezzo mediano a livello nazionale si colloca a 177.900 dollari, un livello inferiore dell’11 per cento a quello dello stesso periodo dell’anno precedente, anche se va detto che, accanto a cali considerevoli registrati in alcune località della Florida o a Las Vegas, si registrano anche incrementi a due cifre dei prezzi in alcune località del Maryland o dell’Iowa, mentre, anche grazie al beneficio fiscale, le vendite di case hanno fatto segnare incrementi a due cifre in 28 Stati.

Come per i sussidi di disoccupazione, anche per il bonus fiscale da 8.000 dollari per l’acquisto della prima casa scaduto alla fine del mese di settembre è stata prevista una nuova finestra che riguarda chi sottoscriverà un preliminare nel mese di aprile del 2010 e chiuderà l’operazione di acquisto entro la fine del mese di giugno dello stesso anno, mentre è stato previsto un beneficio fiscale pari a 6.500 dollari per chi possiede una casa da almeno cinque anni.

Come si vede, le due principali criticità dell’economia a stelle e strisce, la disoccupazione e il mercato immobiliare continuano a rimanere sotto pressione, a livelli di allarme la prima, mentre per la seconda delle due l’azione del governo risulta essere più incisiva e anche il piano di rinegoziazione dei mutui registra finalmente in due Stati percentuali del 20 per cento degli aventi diritto.

martedì 10 novembre 2009

La disoccupazione USA a due cifre non sembra spaventare i mercati!


Ciò che si attendeva da molti mesi si è infine verificato e così, pur avendo il Non Farm Payrolls evidenziato una perdita netta in ottobre di ‘soli’ 190 mila occupati, il tasso di disoccupazione ufficiale relativo allo stesso mese ha superato la soglia psicologica del 10 per cento, portandosi al 10,2 per cento, il che significa che qualcosa di meno di 16 milioni di americani sono alla ricerca di un lavoro, un numero che quasi si raddoppia tendendo conto delle trasformazioni di rapporti da full time a part time e dei cosiddetti scoraggiati.

Nei più di due anni di vita del Diario della crisi finanziaria, ho più volte sottolineato l’importanza dei dati sull’occupazione, dati cui è riservata grande attenzione nei periodi normali, ma che assumono un’importanza cruciale quando, dopo ventisette mesi esatti di tempesta perfetta, si sta cercando di capire se sia davvero partita la ripresa e, soprattutto, se la stessa abbia la forza sufficiente a riassorbire gradualmente la massa di disoccupati che si è creata a partire dal dicembre del 2007.

Al di là dei convincimenti degli ottimisti a ogni costo, i dati sull’occupazione statunitense sono quelli che sono, ma anche le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione continuano a mantenersi al di sopra delle 500 mila richieste, sussidi che sono divenuti oramai pluriennali, senza contare l’ulteriore estensione temporale dei benefici approvata dal Congresso e appena firmata dal presidente Obama, né le cose migliorano se si volge lo sguardo ai livelli di capacità industriale utilizzata o ad altri indicatori che permettono di capire quale sia il reale stato di salute dell’economia reale.

Di tutto ciò sembrano perfettamente consapevoli i ministri dell’economia del G20 che, riuniti in una località scozzese, hanno appena ribadito che non cesseranno gli aiuti straordinari all’economia, una notizia che ha immediatamente rispedito il dollaro a quota 1,50 nei confronti dell’euro, ma ha soprattutto convinto quanti stanno facendo carry trading tra il dollaro a tassi di interesse prossimi allo zero e investimenti a alto rischio che il loro gioco potrà continuare ancora per lungo tempo, il che fa dire a Nouriel Roubini, alias Dr. Doom, che quella attuale “è la madre di tutti i carry trading”, un’affermazione che indica i rischi enormi impliciti in questo gioco.

Per un Warren Buffett che decide di prendere il controllo totale di una importante compagnia ferroviaria, vi sono un’infinità di soggetti che continuano a ritenere che sia meglio fare scommesse sulle commodities, sulle azioni, sulle valute e su un po’ tutto quanto viene scambiato sui mercati regolamentati, tutte entità che non sembrano essere in alcun modo preoccupate delle bellicose intenzioni dei governi e delle banche centrali che, almeno a parole, vorrebbero spuntare le unghie dei protagonisti del mercato finanziario globale.

Uno che di questo gioco se ne intende, il Chairman e Chief Executive Officer della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, Larry Blankfein, è incorso in un curioso incidente nel corso di un’intervista televisiva, affermando che in questa difficile fase Goldman sta facendo “il lavoro di Dio”, un’uscita che avrebbe provocato l’internamento in una più o meno confortevole casa di cura di chiunque altro, ma non di uno come Larry, che è pur sempre l’erede di quell’Hank Paulson del quale si sono perse le tracce da quando ha lasciato l’incarico di ministro del Tesoro!

venerdì 6 novembre 2009

Il Leone di Omaha diventa ferroviere!


Mi scuso con i lettori per aver saltato le puntate di mercoledì e giovedì, ma cercherò di fare un breve riassunto di quanto è accaduto con riferimento al calo del jobless claims, sempre al di sopra delle 500 mila richieste, ma ai minimi dal marzo di quest’anno, e alla decisione di Warren Buffett di prendere il controllo totale di una importante compagnia ferroviaria, una scelta che ricorda molto gli anni ruggenti di inizio del secolo scorso in cui magnati come John Pierpoint Morgan amavano giocare con i trenini in formato naturale.

Pur possedendo una compagnia di assicurazione ed essendo presente nel capitale di banche di primo rango, è nota la predilezione del leone di Omaha per le imprese manifatturiere e di servizi, ma mai si era spinto sino a diventare, alla soglia degli ottanta anni, il capo di azienda di una compagnia ferroviaria, un’impresa molto più impegnativa del sedere nel consiglio di amministrazione della Coca Cola e della altre società nelle quali è presente attraverso al Berkshire, un ricco portafoglio che già includeva il 22 per cento della compagnia ferroviaria integralmente acquisita nei giorni scorsi.

L’acquisto del residuo 78 per cento della Burlington Northern Santa Fe per 26,3 miliardi di dollari, in contanti e mediante scambio di azioni ad un prezzo che supera di oltre il 30 per cento la quotazione della compagnia nella seduta di lunedì scorso, rappresenta certamente un atto di fiducia nelle possibilità di recupero dell’economia americana, anche perché i treni merci difficilmente sarebbero profittevoli in assenza di un incremento delle merci trasportate, un rischio calcolato alla luce del fatto che lo stesso Buffett dichiara con sufficiente grado di onestà di non sapere quando vi sarà la vera ripresa.

E’ curioso che il mercato non abbia festeggiato la scommessa di Buffett, ma si sia dato alla pazza gioia ieri sull’onda dei dati sull’occupazione, sarebbe meglio dire la disoccupazione e sulle vendite al dettaglio, ma si tratta di stranezze cui ci ha abituato la tempesta perfetta nei suoi poco meno di ventisette mesi di vita.

La notizia di oggi è rappresentata dagli 1,8 miliardi di sterline (3 miliardi circa di dollari) della Royal Bank of Scotland, la grande banca britannica controllata dallo Stato, un profondo rosso che viene in parte bilanciato dall’incremento del 5 per cento dei finanziamenti concessi alla clientela, ma che non può far dimenticare le ingenti somme profuse negli ultimi due anni dal governo di Sua Maestà.

Vengo spesso rimproverato di non occuparmi da tempo delle vicende bancarie europee e in particolare di quelle italiane, ma credo che vi sia poco da aggiungere a quanto detto nei mesi scorsi, in quanto, al di là dei finanziamenti profusi con decisione dai governi di Gran Bretagna, Germania, Francia, Olanda e Belgio, continua a permanere un fitto velo sulle reali condizioni di salute dei colossi bancari europei, una situazione che non consente un’analisi corretta e puntuale della situazione sia a livello di singola banca che di sistema.

L’unica novità riguarda la moderazione dei toni del per la terza volta ministro italiano dell’economia nei confronti delle banche in generale e di quelle italiane in particolare, un addolcimento forse in parte dovuto alla cena patrocinata da Guzzetti e che ha visto allo stesso tavolo Tremonti e il Gotha del sistema bancario italiano.

martedì 3 novembre 2009

CIT Group fa ricorso al Chapter 11!


Il vero e proprio balzo in avanti delle vendite di case esistenti in settembre, una crescita del 6,1 per cento rispetto al mese precedente, e il miglioramento dell’indice manifatturiero ISM in ottobre hanno invertito il trend borsistico negativo della scorsa settimana, consentendo ai tre principali indici azionari statunitensi di riprendere fiato, seppure i rialzi delle prime ore di contrattazione si siano successivamente trasformati in perdite, per poi recuperare in chiusura con rialzi inferiori al punto percentuale.

Mentre il dato sulle case continua a essere influenzato dal credito fiscale che scadeva proprio alla fine del mese di settembre, il sondaggio sul settore manifatturiero presenta indicazioni molto positive, in particolare per quanto riguarda l’indicatore relativo all’occupazione, tornato finalmente sopra quel livello di 50 che divide la recessione dall’espansione.

Anche il risultato del terzo trimestre della Ford è in buona misura legato agli incentivi temporanei per l’auto, incentivi adesso terminati ma che hanno fatto volare le vendite e portato i profitti della Ford a poco meno di un miliardo di dollari, anche se la casa automobilistica ha fatto sapere che solo nel 2011 potrà avere un profitto a livello dell’intero anno, cosa che non accade dal 2005.

Nonostante i due dati positivi, il mercato risente del cattivo andamento del settore finanziario e dal ricorso al Chapter 11 della legge fallimentare da parte di CIT Group, un evento lungamente annunciato e che è infine avvenuto, mettendo in ambasce migliaia di dettaglianti che dipendevano dai finanziamenti di CIT.

Gravata da 10 miliardi di dollari di debiti, CIT molto difficilmente sarà in grado di continuare la sua attività di banca delle catene di negozi e dei singoli dettaglianti, così come sarà alquanto difficile che possa riemergere entro la fine dell’anno dalla procedura fallimentare come è stato invece previsto nel comunicato emesso dalla società.

In un sistema finanziario interconnesso come quello statunitense, la decisione di CIT di ricorrere alla protezione nei confronti dei creditori offerta dalla legge fallimentare non potrà non avere conseguenze sulle altre banche, come del resto accadde nell’agosto del 2007 quando decine di società finanziarie specializzate nel mortgage fecero contemporaneamente ricorso allo stesso capitolo della legge fallimentare, una mossa che impedì alle grandi banche di esercitare l’opzione che consentiva loro di restituire a queste società i mutui a suo tempo acquistati.

Ma l’incognita maggiore riguarda il comportamento dei clienti che potrebbero decidere di spostare presso altre banche il proprio conto, come una parte di loro ha fatto nei mesi scorsi, una eventualità che impedirebbe a CIT di riemergere dalla procedura fallimentare, ad onta del fatto di avere raggiunto accordi con i creditori per la ristrutturazione del debito.

Come si vede, la ripresa dell’economia rischia di essere fragile e a rischio se continueranno le incertezze sulle sorti delle banche e delle altre entità protagoniste del sistema finanziario, incertezze aumentate dopo che è stato loro consentito di non valutare al mark to market i titoli più o meno tossici della finanza strutturata, così come difficilmente la crescita potrà essere sostenibile in presenza degli attuali livelli di razionamento del credito.

domenica 1 novembre 2009

Una settimana nera per Wall Street!


Cosa ci poteva essere di meglio della notizia che nel terzo trimestre dell’anno di grazia 2009 l’economia americana era cresciuta nienetepopodimeno che del 3,5 per cento e che questa crescita era stata guidata dall’acquisto a spron battuto di automobili e case, ma, a quanto pare, gli investitori non sono stati di questo parere e i tre principali indici di Wall Street hanno chiuso la settimana con perdite rilevanti, movendosi in direzione diametralmente opposta a un dollaro che riguadagnava terreno nei confronti delle principali valute e mentre il petrolio si ritrovava confinato nell’area dei 66 dollari al barile.

I ventisei mesi di tempesta perfetta ci hanno abituato a queste stranezze, che poi, a ben guardare tanto strane non sono, non fosse altro che, come ho avuto modo di commentare a caldo, il dato del prodotto interno lordo a stelle e strisce nel terzo trimestre è stato fortemente influenzato da interventi governativi di sostegno che sono oramai terminati e ci si aspetta giustamente che i due settori che ne hanno beneficiato, quello dell’auto e quello immobiliare, potrebbero subire contraccolpi negativi nel trimestre in corso, se non anche in quelli successivi.

Il confronto tra la prima seduta della settimana e quella di venerdì vede il Dow Jones lasciare sul terreno il 2,6 per cento, il Nasdaq il 5,1 per cento e lo Standard & Poor’s 500 il 4 per cento, perdite pesanti, ma mai quanto quelle del Russell 2000 che ha perso, in sole cinque sedute, qualcosa di più del 6 per cento, ma è significativo che, nella sola seduta di venerdì, i tre indici abbiano perso non meno del 2,5 per cento, con lo Standard & Poor’s 500 che ha sfiorato addirittura una perdita del 3 per cento.

Così come è emblematico che le perdite maggiori siano state quelle del settore finanziario, con Citigroup e Bank of America in testa, ma forti flessioni hanno anche colpito colossi come General Electric e Ford, General Motors e Chrysler sono state graziate dalla loro assenza dal listino dovuta al ricorso alla legge fallimentare, a causa delle traversie delle rispettive controllate operanti nel settore dei finanziamenti.

Ma quello di cui gli investitori sono forse più consapevoli è l’insostenibilità del deficit federale, così come della altissima montagna del debito pubblico, temi dei quali ha diffusamente parlato in una trasmissione televisiva il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, per dire che è vero che i livelli raggiunti sono preoccupanti, ma che per il momento non ci si può fare molto, in quanto la priorità è la crescita dell’economia.

Non c’è niente di peggio per gli investitori di ogni ordine e rango che sentire il massimo esponente del dicastero del Tesoro affermare che una situazione è insostenibile ma che non dispone di alcun piano per far rientrare il deficit, né tantomeno per ridurre il debito, anche perché è ancora molto vivace il dibattito sull’utilizzo della montagna di dollari spesi prima dall’amministrazione Bush e poi da quella di Barack Obama in favore di Wall Street, mentre scarsa è stata l’attenzione alle esigenze di Main Street.

Ma il problema vero è rappresentato dal fatto che la montagna del debito pubblico statunitense non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei titoli tossici della finanza più o meno strutturata ancora presenti al di sopra e al di sotto della linea di bilancio delle banche e delle altre entità protagoniste del mercato finanziario!